Il volume «Pascoli socialista» (a cura di Gianfranco Miro Gori, Pàtron editore, Bologna 2003), raccoglie con qualche aggiunta gli atti di un convegno che al poeta di San Mauro il suo paese ha voluto dedicare per i novant'anni della scomparsa, avvenuta il 6 aprile 1912. Nel «prologo» lo stesso Gori spiega come lo scopo fondamentale sia stato quello di superare l'idea del socialismo di Zvanì come «fenomeno irrisorio», e di analizzare il passaggio politico «dalla religione socialista alla religione della patria», sino al controverso discorso sulla guerra di Libia del 26 novembre 1911 («La grande Proletaria si è mossa»), di poco precedente la morte. «Una morte che Mariù avrebbe voluta munita dei conforti religiosi», ma che il fratello Falino (Raffaele), l'editore Cesare Zanichelli e lo stesso Giovanni Pascoli «provvidero a mantenere laica».
Al proposito Dino Mengozzi, ricostruendo tutta la vicenda delle esequie, scrive che l'anticlericalismo pascoliano «sembra seguire i tempi e i modi della politica laica del suo tempo e di quella socialista, in ispecie». Con un riesame di «quell'etica laica che aveva fondato sui morti la sacralità della propria politica e l'immortalità del proprio divenire», Pascoli però approda ad un risultato del tutto diverso, mostrando «che la nuova coscienza doveva confermare, come unica possibile la morale dell'umana solidarietà».
L'ombra
di Garibaldi
Il volume si apre con lo sguardo generale sul «socialismo al tempo di Pascoli», in cui Maurizio Ridolfi ricostruisce le trame e le evoluzioni di un movimento e dei suoi strumenti culturali, ricordando che il nostro poeta passa «da una idealizzazione della 'piccola patria nativa'» presente in «Myricae», «ad una sorta di socialismo patriottico attraverso un rimotivato mito democratico di Garibaldi».
Roberto Balzani, esaminando la Romagna «fra Pascoli e Serra», scrive che mentre i democratici mazziniani e garibaldini «batterono il sentiero della 'politica della nostalgia' e dell'inserimento nelle istituzioni periferiche», gli internazionalisti (per quanto avvinti all'«albero» di Garibaldi), rifiutarono ogni celebrazione risorgimentale e «si gettarono nel mare aperto del professionismo politico», pur non avendone i mezzi finanziari necessari. Interessante è un documento di Renato Serra del 1909. Si tratta d'una lettera all'amico Luigi Ambrosini: «Qui la gente mi conosce e, senza stimarmi troppo, pure non mi vuol male; e tu sai l'uso di queste cittadine romagnole, che quando uno del paese è lì a spasso, dopo un po' di tempo è quasi un obbligo sentito da tutti quello di accomodarlo alla meglio».
Il periodo
da ribelle
Seguono alcune pagine del sottoscritto sul Pascoli studente a Rimini e sul suo battesimo politico (1871-1872). Gli anni successivi sono raccontati da Elisabetta Graziosi con ricchezza di analisi e novità interpretativa, come segnala giustamente Gori nel «prologo». Se Renato Zangheri («il primo ad occuparsi del socialismo giovanile di Pascoli» nel 1958), concludeva che Zvanì era stato poco incline al furore della lotta politica, la Graziosi «propone una lettura originale e assai convincente del periodo ribelle del poeta». Gori aggiunge che Pascoli, in tal modo, ci si presenta come «un sovversivo in servizio permanente effettivo».
Un paragrafo della Graziosi s'intitola efficacemente «Pascoli con Andrea Costa, Pascoli come Andrea Costa». Ed importanti sono queste sue parole sul Pascoli attorno al 1879: «Io credo che si debba riconoscere nei comportamenti del Pascoli di questi anni non una teoria politica ma una pratica spicciola della marginalità, del disagio sociale, di una esibita estraneità alla società borghese». Lui stesso si sentiva in quei giorni «un mendico errante», come scriveva in una poesia inviata a Severino Ferrari. Cercava un sostegno da parte degli amici, attraverso una colletta, «atteggiamento tipico da gruppuscolo praticato anche da Costa», spiega la Graziosi, il cui capitolo non per nulla sottolinea la «carriera difficile» di Pascoli «studente e socialista».
Nel disagio
della Storia
Marino Biondi analizza «Pascoli critico e ideologo»: c'è in lui, leggiamo, «una febbre di millenarismo, che gli deriva da un profondo disagio non solo individuale. Qui, sommandola alle proprie angosce, il poeta percepisce una paura massificata, che solo in parte è psicologica, basata com'è su ragioni di ordine e disordine politico e economico». Il terrore terreno di Pascoli cela un desiderio di rivelazione, pensa ad un'apocalisse umanitaria come «una festa del perdono universale», «intrisa dei valori garantisti della borghesia socialista, ben lungi dallo spirito biblico».
Il lungo e denso saggio di Biondi esamina biografia e poesia di Pascoli in relazione alle idee dei suoi tempi, con attenzione a quello che Mariù chiamò il suo «quasi cristiano socialismo». Su questo aspetto Biondi richiama un passo di Mario Pazzaglia sul «cristianesimo pascoliano», che non è un idillio campestre, né un elementare atto di fede, bensì «un'esperienza non di fede, ma di mero ripiegamento davanti al buio».
Conclude Biondi sul Pascoli politico: «è un fascio di energia in perpetua oscillazione e disponibilità, ora mazziniano, garibaldino e radicale, ora sabaudo e solenne conservatore, ora pacifista e guerrafondaio filantropico, ora sacerdote di una religione sociale che trasformi la società degli uomini in comunione di fratelli, ora semplicemente giornalista d'attualità».
La guerra
di Libia
Mario Pazzaglia segue la «sottile linea rossa» del «socialismo nazionalistico» di Pascoli: formula questa con cui si può riassumere il suo credere nella funzione civilizzatrice del socialismo, e la sua giustificazione alla politica d'espansione con la già ricordata guerra di Libia. Il populismo di Pascoli, termina Pazzaglia, «si presenta come una generosa utopia di rapporti umani non mistificati, come ideale di giustizia e di eguaglianza nella libertà».
Al discorso sulla «grande proletaria» sono riservate pure le pagine di Renato Barilli con gli interrogativi se esso rispecchi un'ideologia di sinistra o non piuttosto quella dei partigiani dell'imperialismo. Barilli sottolinea come la risposta a questa domanda sia stata condizionata storicamente dal prevalere di un'interpretazione derivante dal pensiero unico marxista di matrice sovietica, che ha fatto «strame delle deboli, querule invocazioni e pretese di Pascoli». Oggi, dopo il mutamento storico conseguente al crollo del sistema politico dell'Urss, «il socialismo ha ampiamente allargato le sue valenze, le sue aspirazioni, e dunque può riprendere sotto le sue ali protettive anche le riflessioni» di Giovanni Pascoli.
Permettetemi di richiamare brevemente l'inizio delle mie pagine sul «Pascoli riminese», dove scrivo che dal 1962 nella piazzetta «delle poveracce» una lapide bugiarda ricorda, sul muro dell'antica locanda «dell'Unione», che lì «abitò studente» Giovanni Pascoli «negli anni 1871 e 1872». In una di quelle stanze, la numero sei, il poeta invece passò una notte ed un giorno nel 1877, tra il 6 ed il 7 settembre. Era «in bolletta dura» tanto che, non potendo saldare il conto (lire 41,50), lasciò in pegno all'albergatore Matteo Barbiani un po' di «biancaria»: tre camicie, un paio di mutande ed un fazzoletto.
Per veder onorato il debito, Barbiani il 2 aprile 1878 si rivolse inutilmente ad un fraterno amico di Pascoli, Domenico Francolini, impiegato al Banco di Sconto, figlio di un possidente, e nipote (per parte di madre) di Luigi Pani, avvocato e politico concittadino.
Francolini non aprì il portafoglio, e la «biancaria» del poeta «fu regalata ad un attore di passaggio per Rimini per recitarvi 'La morte civile', e ridotto a tal grado di stenti da non avere neppure una camicia da indossare sotto la giacca», scrisse Guido Nozzoli mezzo secolo fa («Pascoli nella cucina di un sarto scrisse la poesia della ribellione», l'Unità, 18 luglio 1954).
Pascoli e Francolini si erano conosciuti proprio nel periodo che va dal novembre 1871 all'estate 1872, quando per la prima volta Giovanni soggiorna a Rimini e frequenta la seconda classe del Liceo comunale Gambalunga, abitando in una casa, come ricordò Mariù, «posta in uno stabile interno di via San Simone», oggi dedicata ad Alessandro Serpieri che era stato maestro di Giovanni al Collegio degli Scolopi di Urbino.
Ad oltre quarant'anni da quella «lapide bugiarda» il nostro Comune potrebbe (anzi, dovrebbe) provvedere a mettere in ordine i ricordi pubblici.
La presentazione del volume «Pascoli socialista» avverrà sabato 6 marzo 2004 alle ore 15.30 a San Mauro (Villa Torlonia, sala degli Archi), da parte di Claudio Marabini e Valdo Spini, ed a cura di Gianfranco Miro Gori. Interverranno Luciana Garbuglia, Marco Barbieri, Valter Bielli, Clemente Mazzetta. Ingresso libero.
Questo è il primo appuntamento della seconda edizione di «PascoLibri», l'iniziativa organizzata dall'assessorato alla Cultura del Comune di San Mauro Pascoli, in collaborazione con Sammauroindustria. Gli altri due appuntamenti di «PascoLibri» sono il 20 ed il 27 marzo, stesso luogo e stesso orario, per «Guida alla Romagna di Pascoli» di Giuliano Ghirardelli (presentazione di Giuseppe Chicchi e Zeffiro Ciuffoletti), e per «Giovanni Pascoli, prose disperse» di Giovanni Capecchi (presentazione di Marino Biondi).
Alla pagina su
Pellegrino Bagli, un amico di Pascoli.