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il Rimino - Riministoria

Un'antica «meglio gioventù»
Ma gli eredi «filopatridi» nel 1938 cacciarono gli Ebrei

Cinquant'anni fa usciva una raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini intitolata «La meglio gioventù». Una cominciava con il saluto al paese della madre, Casarsa della Delizia nel Friuli, dove la sua famiglia si era rifugiata nel 1942 mentre il padre militare era prigioniero in Kenya. A Casarsa, Pasolini aveva dedicato nello stesso 1942 un volume di liriche composte in friulano, e recensito da Gianfranco Contini sul «Corriere di Lugano». Quel saluto al piccolo paese cominciava così: «Addio addio Casarsa, vado via per il mondo, Napoleone chiama la meglio gioventù...».
Nelle prime pagine del «Mulino del Po» di Riccardo Bacchelli, il capitano Maurelio Mazzacorati («mingherlino e stremato») pensava: «Napoleone fa l'interesse suo di tiranno ambizioso: bestia chi gli crede, e più bestia chi senza credergli gli ha obbedito». Russia, 1812. Qualche anno prima (dicembre 1798) è ambientata la pagina foscoliana dell'incontro a Milano fra Jacopo Ortis e «quel vecchio venerando» di Giuseppe Parini, il quale «fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza»: «I gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non si deve aspettare libertà dallo straniero?». Due mesi dopo, nella lettera da Ventimiglia, Jacopo scrive: «Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell'altra».

Napoleone
e la Romagna

Al nome ed all'epoca di Napoleone rimandano altri ricordi di carattere locale. Il 26 febbraio 1801 a Savignano è diffuso un invito alla gioventù di quel paese per fondare un'«Accademia letteraria». La preoccupazione fondamentale sembra essere quella di rivendicare la gloria del Fiumicino come vero Rubicone degli antichi, contro le «dotte chimere» espresse mezzo secolo prima dal medico riminese Giovanni Bianchi, sostenitore dell'Uso. La proposta è fatta da Bartolomeo Borghesi, di vent'anni. A cui Girolamo Amati, trentadue anni, da Roma (dove lavora all'Archivio Vaticano) suggerisce che la nuova Accademia si chiami dei «Filopatridi», «amatori cioè della loro patria». A loro si unì il conte Giulio Perticari, ventidue anni, già attivo nella vita pubblica del suo paese come il compagno di studi Borghesi.
Il termine «Filopatride» ha fatto la sua comparsa a Rimini, qualche anno prima, in un proclama diretto «Al popolo del Rubicone». In calce al proclama si legge: «Impresso con pubblica approvazione in una Città del Mondo da sincero Filopatride all'insegna della Verità l'anno primo della Repubblica Cispadana». La Cispadana era stata proclamata il 27 dicembre 1796. La Cisalpina nasce il 29 giugno 1797: di essa la Romagna fa parte dal 27 luglio. Il 3 novembre la Cisalpina è divisa in venti dipartimenti. Inizialmente il capoluogo del dipartimento del Rubicone è Rimini, poi dal primo settembre 1798 passa a Forlì.

Un sonetto
per la libertà

Il proclama riminese «Al popolo del Rubicone» esalta «l'invitto liberatore d'Italia, il Distruttore della Oligarchia», Napoleone. Condanna la «prostituzione» dei passati governanti che avevano favorito «l'Egoismo, e l'Aristocrazia», mali contro i quali era necessario ancora combattere. E lancia questo grido di battaglia contro l'antico regime: «A terra Egoisti, Aristocratici, Disturbatori della bella Democrazia a terra».
La parola «Filopatride», dunque, ha una valenza politica che non poteva non essere presente anche alla mente dei giovani savignanesi che il 3 aprile 1801 davano inizio alla Rubiconia. Nel 1790 Bartolomeo Borghesi aveva dedicato a Giulio Perticari un sonetto in cui, con l'ardore di un fanciullo di soli nove anni a cui era giunta l'eco delle cose di Francia e della presa della Bastiglia, aveva esaltato la figura della «Libertà» che, «discinto il piede e 'l crin all'aura sciolto / sen vien a passo franco altera e sola», a ricevere l'omaggio di chi desiderava che fossero infranti i ceppi del potere monarchico.
La valenza politica della nuova parola, è dimostrata pure dall'attenzione particolare che le pubbliche autorità rivolsero ai giovani savignanesi. Il sotto prefetto di Rimini sospettò trattarsi di una setta segreta collegata con gli Inglesi. L'accusa fu respinta grazie all'intervento del prefetto di Forlì e del sottoprefetto di Cesena che partecipavano all'Accademia. Perticari, forse ricordandosi delle inimicizie riminesi a causa del Rubicone, ipotizzava che dalla vicina città malatestiana fossero giunte soffiate contro i Filopatridi, come si ricava da una sua lettera a Bartolomeo Borghesi: «un colpo così vile» poteva forse nascere «dall'invidia limitrofa». «Se mai lo fosse, io mi persuaderei sempre più che si voglion perseguitare le persone di lettere e ne conosco lo scopo e fremone. Ma ciò poco monta. Il nostro Istituto era organizzato pel bene della patria». Destava sospetti anche la presenza a Savignano dell'ex gesuita di Cadice Emanuele de Lubelza (1750-1832) che in quegli anni insegnava Filosofia alla locale Scuola di Umanità.

La questione
del Rubicone

Bartolomeo Borghesi era figlio di Pietro Borghesi che fu segretario dell'Accademia savignanese degli Incolti (attestata dal 1651 e progenitrice di quella dei Filopatridi). Pietro Borghesi intervenne nella disputa sul Rubicone sotto pseudonimo (1755), rivendicando al fiume di Savignano l'onore di quel nome, e polemizzando con il proprio antico maestro Bianchi, a cui rivolge persino la preghiera di usar «moderatezza» nella discussione. Ma la divergenza sul problema rubiconiano non guastò mai i loro rapporti, come risulta dai diari dei «Viaggi» di Bianchi. Il 27 settembre 1769, ad esempio, Pietro Borghesi invita a cena Bianchi che ai presenti legge due sue lettere inviate all'ex allievo Clemente XIV, «dove nella seconda io gli dico che egli trae la sua prima origine da Verucchio, dove la trassero i Malatesti, essendo stato concepito il Papa dalla madre in Verucchio, e poi partorito in Santarcangelo, e studiò la Gramatica, l'Umanità, la Rettorica in Rimino ed anche la Filosofia vestendo l'abito religioso di San Francesco in Mondaino, o sia in Monte Gridolfo, dove andava nelle vacanze a villeggiare N. S. quando era giovinetto».
Quando l'accademia savignanese nasce nel 1801, già molti miti attorno alla figura di Napoleone erano crollati. Per Jacopo Ortis «tutto è perduto» dopo la cessione di Venezia all'Austria con il trattato di Capoformio (17 ottobre 1797). L'illusione infantile di Bartolomeo Borghesi che aveva cantato il trionfo della «Libertà», non splendeva più nel cielo delle speranze politiche. Anche nelle nostre terre, la dominazione francese provocava lutti, dolori, miserie.

L'Europa
brucia

Nel 1790 il savignanese Giovanni Cristofano Amaduzzi da Roma dove viveva, descrive un mondo ormai «in combustione», in cui vi era soltanto «da sospirare per tutti». A Bertòla nello stesso anno, dopo aver ricordato il «fanatismo romano», confida: «sono così vacillante sulla sorte di tutti i luoghi della nostra storia, non che dell'Europa tutta». Amaduzzi muore il 21 gennaio 1792. Proprio un anno dopo, il 21 gennaio 1793, la condanna a morte di Luigi XVI votata dalla Convenzione, dimostra che non esistono «rivoluzioni felici» come quelle che lui aveva creduto di veder realizzate a Napoli e in Lombardia. Gli entusiasmi illuministici di un'intera generazione finiscono prima nel sangue poi nell'avventura bonapartista. Davanti alla quale i Filopatridi di Savignano s'inchineranno festosi anche quando ormai era chiaro che Napoleone si comportava da nuovo padrone e non da «liberatore». Nel 1805 celebrano la sua incoronazione a re d'Italia con molti versi ed una favola pastorale di dodici prose scritte da Perticari. Vien in mente una pagina di Indro Montanelli a proposito di Vincenzo Monti che, dopo aver cantato la gloria di Bonaparte, recitò quella degli austriaci: «E nessuno se ne scandalizzò; i poeti italiani da secoli non facevano che questo: sciogliere inni al padrone di turno perché, non avendo un pubblico, solo del padrone e dei suoi favori vivevano. Una simile letteratura non si poteva corrompere: era già corrotta di suo».

Il rifugio
a San Marino

Perticari nel 1812 sposa la figlia di Vincenzo Monti, Costanza. In onore delle loro nozze esce a Parma presso Bodoni una raccolta di versi «Agli dei consenti», cioè dedicati alle dodici divinità «consigliere», ovvero facenti parte del governo dell'Olimpo. Questa pennellata di paganesimo rallegra gli storici della letteratura d'ispirazione massonica che vi vedono «un momento di riunione della scuola classica italiana come restauratrice del buon gusto contro i residui» dell'Arcadia «pretesca».
Ma i tre fondatori dei Filopatridi vanno ricordati meglio con altre vicende ed altre parole. Come scrisse Augusto Campana, Borghesi e Perticari si erano procurati fin dal 3 maggio 1818 la cittadinanza nobile della Repubblica di S. Marino non certamente «per puro ornamento». Tre anni dopo, Borghesi vi si rifugia. E per Giulio Perticari va citato l'elogio funebre di Giuseppe Mazzini che lo definì uomo «di cui vivrà bella la memoria tra noi, finch'alme gentili alligneranno in Italia».

I due Ebrei
cacciati nel 1938

La storia locale rispecchia allora, come anche dopo, quella più generale dell'Italia. Saltiamo al 1938, quando due regi decreti emanati il 5 settembre ed il 15 novembre stabiliscono che «le persone di razza ebraica» non possono far più parte delle Accademie italiane. Le disposizioni coronano il progetto di arianizzazione che il ministro dell'Educazione nazionale Giuseppe Bottai persegue da tempo, e che prende corpo dopo la pubblicazione del documento «Il fascismo e i problemi della razza», il 14 luglio 1938. Benedetto Croce, richiesto di compilare il questionario sull'appartenenza alla «razza ebraica», risponde il 21 settembre 1938: «Ha senso di domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita politica del suo Paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome Croce, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata». Molti intellettuali risposero al questionario con uno zelo quasi entusiastico.
Dall'albo dei soci corrispondenti dei Filopatridi di Savignano furono depennati due nomi di Ebrei: Igino Benvenuto Supino ed Ermanno Loevinson. Supino fu professore di Storia dell'arte all'Università di Bologna, dove morì l'8 gennaio 1940 ad ottantadue anni. Loevinson, nato a Berlino nel 1863, fu archivista di Stato a Roma e Parma, prima di diventare soprintendente dell'Archivio di Stato di Bologna da cui dovette dimettersi, così come fu allontanato dall'Istituto per la Storia dell'ateneo di Bologna.
Sabato 16 ottobre 1943, giorno della caccia tedesca nel ghetto ebraico di Roma, Loevinson e la moglie sono arrestati e deportati. «Verso l'alba del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di Roma-Tiburtina, dove li stivarono su carri bestiame, che per tutta la mattina rimasero su un binario morto. Una ventina di tedeschi armati impedivano a chiunque di avvicinarsi al convoglio» (cfr. G. Debenedetti, «16 ottobre 1943», Sellerio, p. 62). Il treno si mosse alle 14.
Loevinson e la moglie morirono ad Auschwitz.

Antonio Montanari


Alla storia dell'Accademia dei Filopatridi



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896/Riministoria-il Rimino/17.01.2004
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