Rimini, il «turismificio» dei primati Un modello che fa scuola in tutto il mondo Cento anni di turismo. Evoluzione della specie delle bagnanti. Nella recente presentazione del volume «Una costa lunga due secoli» (pubblicato per conto della Fondazione Carim da Panozzo editore, Rimini 2003), l'autore Ferruccio Farina ha dichiarato che questa fatica «è il ritorno al punto di partenza di un percorso durato venticinque anni». Egli infatti ripropone qui, con un respiro più ampio, i frutti della sua passione di collezionista e di studioso, già offerti in varie occasioni. Il libro unisce tre aspetti che fanno ingolosire i lettori appassionati. La raccolta delle immagini (fotografie, disegni, pubblicità). L'antologia di testi e documenti. E la cronaca della nostra industria dell'ospitalità che data dal 30 luglio 1843, quando fu inaugurato il primo impianto per bagni di mare dello Stato pontificio, avviato da Claudio Tintori e dai conti Alessandro e Ruggero Baldini.
La nostra città ed il mondo La scansione cronologica segue un ideale percorso che segna le trasformazioni locali, tenendo conto pure dello sfondo storico generale. A volte però sembra quasi che la nostra città sia stata un'isola felice, come quando si racconta dell'entrata dell'Italia in guerra nel 1915: amministratori, albergatori e giornali «si ostinano a sfoggiare, comunque, sorrisi e rassicuranti parole». Farina, parlando di «uno spettacolo senza spettatori», rimanda ad una specie di categoria mentale dominante, quella del «turismo» isolato da tutto il resto, quasi che Rimini non sia anche altro. Non per nulla ancor oggi si parla di due città. Quella al di sotto della ferrovia, votata all'industria balneare, e quella al di sopra con altre caratteristiche economiche. Giorgio Tonelli parlò anni fa di Rimini come città «schizofrenica», per compendiare in una formula il nostro problema di non riuscire ad amalgamare gli aspetti molteplici della realtà sociale. I guai maggiori durante la grande guerra furono per «la numerosa e povera classe marinara», secondo quanto spiegò Gaetano Facchinetti ne «Il travaglio e la fede di una città adriatica». Il governo aveva vietato «ai trabaccoli di solcare il mare»: alla «miseria della classe priva di lavoro», s'accompagnava il «deperimento dei legni», tanto che alcuni vecchi marinai distrussero «con le loro stesse mani quei trabaccoli la cui costruzione era costata lunga fatica e penosi sacrifici». Per documentare la visione che privilegia il turismo su tutto, e la conseguente categoria mentale totalizzante che ne deriva, appare utile questo passo di Farina: «Dopo il 4 novembre 1918, la Riviera rimane ancora invasa da veneti, trentini, austriaci, tedeschi: non più come graditi ospiti paganti, ma profughi delle terre invase, convalescenti o prigionieri che il Ministero della Guerra aveva imposto a pensioni, alberghi e villini, con requisizioni invano osteggiate».
Arriva anche Giulio Cesare Il periodo dal 1900 al 1940 è equamente distribuito fra il «sapore di belle époque» e la «costa a regime». Nella prima fase, Farina individua «una sorta di tregua sociale che metteva al riparo Rimini e la sua marina da quelle tensioni, che spesso divenivano moti e sommosse». Nella seconda, «Rimini spiaggia mondana» deve diventare anche spiaggia «romana»: «Con l'affermazione del regime, infatti, c'era anche chi credeva che le mollezze balneari di un tempo dovessero trasformarsi ad ogni costo in sfoggi di virilità e di durezza fascista». Giulio Cesare è riciclato in funzione littoria diventando un «testimone» fascista, dopo il dono da parte del duce della sua statua (1933). L'epoca più vicina a noi, dal dopoguerra al 1970 e quindi sino al giorno d'oggi, è compendiata in due titoli: «Tutti al mare» e «La fabbrica delle tendenze». Per l'immediato dopoguerra, Farina si richiama alla vicenda della distruzione del Kursaal: «Paradossalmente ed emblematicamente, il nuovo ciclo non inizia con una costruzione, ma con una distruzione», quella della mitica «cattedrale innalzata nel 1873 e miracolosamente uscita indenne dai bombardamenti». Comincia allora il ciclo della «spiaggia nazional-popolare», scrive Farina, riprendendo una formula coniata da Giorgio Gattei, giustamente definito uno «tra i più attenti studiosi dello sviluppo turistico della Riviera». Circa la ripresa turistica e la questione urbanistica, Farina osserva: chiudendo gli occhi sugli scempi dell'edilizia privata, si compromisero allora «gravemente gli sviluppi futuri della città». A proposito del sindaco Walter Ceccaroni, Farina scrive che la sua ideologia «poteva sembrare leninista solo ad occhi disattenti o interessati. Certo, se, come voleva Lenin, bisogna socializzare la terra, bisognava socializzare anche la Riviera: la terra ai contadini e la spiaggia ai bagnini. Peccato che qua, la terra da far occupare non era dei nobili, salvo qualche eccezione, e i beneficiari, pur in buona parte ex contadini, non andavano a coltivar patate ma a cementificare costruendo pensioni e alberghi, capitalizzando pro domo loro, senza neppur pagar le tasse, pratica a cui non erano mai stati abituati». Avvenne così quella che Farina chiama «l'invasione quasi selvaggia degli spazi», e che Piero Meldini (qui citato) definì il frutto del «liberalismo senza complessi» di Ceccaroni. Tutto ciò ha quelle conseguenze che furono compendiate in una parola, «riminizzazione». Ceccaroni si giustificò: «Rimini non è peggio del resto del Paese, e poi allora bisognava ricostruire. Il passato, cioè, non si discute». Pure l'on. Veniero Accreman era dello stesso parere: bisognava sfamare «le schiere di disoccupati rumoreggianti che chiedevano lavoro».
La politica del cemento Nel 1988 il «Dizionario ragionato» della lingua italiana di Angelo Gianni e Luciano Satta registrò la voce «riminizzazione» per indicare il deturpare il paesaggio con troppo cemento, provocando in città grande scandalo. L'ex federale del pci Nando Piccari chiese al sindaco Conti di prendere provvedimenti. Per «il Ponte» interpellai allora il prof. Gianni che mi dichiarò: «Il gran chiasso che è stato fatto è dir poco privo di senso. I lessicografi sono dei notari, non dei creatori di voci!». In quel «Dizionario» si aggiungeva una cosa che sfuggì ai più: che cioè Rimini «era stata elevata a simbolo di un fenomeno diventato comune a tutta la penisola». La parola «riminizzare» oltretutto ricalcava «rapallizzare», termine usato dallo stesso Satta nel 1974 e da Antonio Cederna nel 1981. E forse fu Cederna ad inventarla. (L'arch. Cervellati definiva Rimini, Riccione e San Marino come il «triangolo dell'orrido».) Altra parola celebre per Rimini è «divertimentificio», coniata nel 1983 da Camilla Cederna, sorella dell'Antonio appena ricordato. Parola che raccontava, spiega Farina, «la chimera di un paese dei balocchi aperto 24 ore su 24», ma con anche dei risvolti drammatici: la piaga della droga e l'effetto «delle tristemente note stragi del sabato sera». Farina tratta poi di un terzo aspetto del nostro sistema-turismo, «il sessificio» a cielo aperto, di cui si ignora la data d'inizio, ma di cui conosciamo quella «che segna emblematicamente il suo declino», il 15 luglio 1998, «quando il sindaco progressista, apparentemente pacifico, si trasforma in condottiero implacabile e, alla testa dei suoi fedelissimi vigili urbani, affiancato da spiegamenti di carabinieri e polizia mai visti prima d'allora sul lungomare, sferra il primo degli attacchi» all'industria fiorente della prostituzione.
Da Arpesella a Sanese Su questo scenario in cui convivono gli aspetti più vari d'una società costretta ad un moto perpetuo innaturale (e, si sarebbe detto un tempo, alienante), emergono altri elementi che permettono d'individuare i meccanismi dell'economia turistica riminese. Si veda ad esempio il capitolo dedicato alla «Scuola di Rimini. Laboratorio e leadership», nel quale compaiono vari nomi, da Marco Arpesella a Luciano Chicchi, da Nicola Sanese ad Aureliano Bonini. Proprio alla presentazione del libro di Farina, Luciano Chicchi (quale presidente della Fondazione Carim), ha voluto sottolineare il ruolo svolto negli anni Sessanta da Marco Arpesella nella creazione di un gruppo dalla visione cosmopolita, che poi avrebbe segnato con tanta forza la «rivoluzione strisciante» dei decenni successivi. Il segreto di Rimini, ha detto Chicchi, è questo: «sapersi trasformare», secondo un modello che (a giudizio di Aureliano Bonini) si può riassumere nella formula: «fare le cose giuste nel momento giusto». Un modello che ha dimostrato efficienza ed efficacia, che si ispira ad una città «spontanea, e quindi eterna». Questo modello è poi illustrato in una lunga pagina dello stesso Bonini, riportata a conclusione dell'antologia. Bonini è ottimista: quanto è stato finora realizzato nella nostra Riviera, costituisce le premesse per sapersi rinnovare in continuazione, anticipando le nuove esigenze con un «marketing simpatico» che altrove non esiste.
Lavoro nero ed evasione fiscale Crediamo che circa genialità ed originalità dell'industria turistica riminese, Bonini abbia senz'altro ragione. Ma occorrerebbe esaminare anche l'altra faccia della medaglia, composta di tanti aspetti che potremmo raccogliere sotto la voce di «costi sociali», dal lavoro nero all'evasione fiscale. Sono elementi sui quali l'attenzione è stata posta da «opinioni» religiose, politiche e sindacali con discussioni che purtroppo non sono ritenute capaci di «fare storia», perché valutate marginali o ininfluenti rispetto alla gran massa di dati utilizzati per raccontare un primato indiscutibile. E che è divenuto una specie di dogma cultural-politico con cui mettere a tacere ogni voce che avanzi critiche o che appaia d'opposizione alle idee trionfanti. In questi ultimi mesi, ci è capitato di presentare su queste colonne due volumi che parlavano del nostro turismo dal dopoguerra ad oggi. Si tratta del ritratto ottimistico di un successo riletto nell'ottica del partito dominante, con «Il petrolio del Bel Paese» dell'ex sindaco pci Zeno Zaffagnini («Ponte», 16.11.2003). E dell'indagine sugli ultimi cinquant'anni, dove abbiamo incontrato tra le altre cose il discorso di Grazia Gobbi Sica sui guasti provocati nella nostra costa da incultura, cattivo gusto, ignoranza e velleitarismo («Ponte», 14.12.2003). Anche per lo storico Giorgio Conti questi guasti esistono. Orbene la conclusione che a Rimini tutto sia avvenuto ed avvenga nel modo giusto e nel momento giusto, mi pare appartenere a quella maniera di pensare che richiama un po' i ragionamenti del manzoniano don Ferrante. Il quale non credeva alla peste, ma ne morì «prendendosela con le stelle». Alla stessa maniera, noi non vogliamo vedere i «lati oscuri» del nostro modello turistico perché gli astri o la nostra genialità ci hanno sempre guidati verso il meglio. E si sa già dal tempo di Giorgio Guglielmo Federico Hegel (1770-1831) che, come sostiene Bonini, «ciò che è stato, doveva essere», e che ogni cosa contiene in sé la legittimazione della propria razionalità. Rimini in apparenza è ancora ferma lì, ad Hegel. Speriamo che anche il nostro «pensiero ufficiale» arrivi a comprendere come la realtà sia leggermente più complessa di una bella formula pubblicitaria. O «filosofica». Antonio Montanari
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899/Riministoria-il Rimino/00.01.2004 | http://digilander.libero.it/ilrimino/att/2004/893.farina.html |
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