Con nuovi volumi della «Storia delle Signorie dei Malatesti» prosegue intensa l'attività del Centro Studi Malatestiani e dell'editore Bruno Ghigi che lo ha creato e lo sostiene in mezzo ad enormi difficoltà (tra cui l'indifferenza di troppe istituzioni locali). Di alcuni di questi recenti volumi diamo notizia sommaria in questo ed in un successivo servizio, avvertendo che la scelta degli argomenti e dei temi presentati dipende unicamente dal desiderio di informare circa parti che sono apparse soggettivamente importanti, senza voler con questo creare graduatorie di merito od esprimere censure preventive verso chi non verrà ricordato se non con una breve citazione. D'altro canto, la messe delle informazioni è tale che, in un àmbito non specialistico come il nostro, dobbiamo per forza selezionarne alcune, senza svolgere discorsi sui «massimi sistemi» che non ci competono.
Buone ragioni
per diffidare
Il testo sulla «Cultura letteraria nelle corti dei Malatesti», curato da Antonio Piromalli (noto studioso riminese di adozione, recentemente scomparso), offre con Franco Bacchelli dell'Università di Bologna un'indagine sulla Cappella dei Pianeti che si trova nel Tempio malatestiano: è un discorso attento sopra un tema spesso trattato con fanatismo pregiudiziale e fantasioso dai locali circoli massonici. Non per nulla Bacchelli premette: «vi sono certo buone ragioni per diffidare» di questo argomento, dato che si attribuiscono misteriose velleità esoteriche a Sigismondo, partendo da una citazione ricavata dalla pagina conclusiva del «De re militari» di Roberto Valturio.
In tale pagina, Valturio accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle «parti più riposte e recondite della filosofia». In una preziosa nota, Bacchelli riporta «la fulminante diagnosi espressa» da Carlo Dionisotti in un volume del 1980, dal quale leggiamo: «Dove fosse in questione la fede cristiana, il Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica, anche nella forma allora e poi normale dell'astrologia giudiziaria». (Basta quest'autorevole «diagnosi» per togliere ogni validità sul piano storico e critico alle pur suggestive ma devianti interpretazioni dei ricordati circoli massonici locali.)
I bassorilievi della Cappella dei Pianeti, prosegue Bacchelli, dimostrano la convinzione del committente «che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri». Questo principio era «pacificamente accettato» nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che Giovanni Pico della Mirandola procedesse alla fine del XV secolo «ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali».
Pico rifiuta
l'astrologia
Occorre a questo punto accennare brevemente alla figura di Pico della Mirandola. Nelle «Disputationes contra astrologiam divinatricem» egli considera la materia e non l'influenza degli astri la sola causa del disordine, delle irregolarità e delle imperfezioni esistenti nel mondo terreste. In un altro testo, l'«Oratio de hominis dignitate», Pico fa riferimento ad una dottrina segreta, riservata agli eletti, e sviluppatasi nel seno della tradizione ebraica. Da questi pochi elementi si comprende perché Pico sia stato già in vita considerato un eretico.
Nell'«Oratio» egli considera l'uomo come creatura dalla natura illimitata, dominatore dell'Universo, contribuendo grandemente così al mito orgoglioso dell'Umanesimo per cui l'uomo stesso può sì «degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti», ma può anche rigenerarsi «nelle cose superiori che sono divine».
Questo mito sembra proiettarsi nella struttura ideale del nostro Tempio, dove esso però soccombe davanti all'immagine del Cristo Crocefisso che svela agli occhi semplici di ogni cristiano la natura folle di quel sogno.
Influssi astrali
e libertà umana
Alle dottrine che parlavano degli influssi astrali, avevano aderito «sostanzialmente anche tutti i dottori della Scolastica cristiana, quali i tomisti, che avevano mitigato, però, questa concezione con una distinzione volta a salvaguardare la libertà dell'arbitrio».
A queste parole di Franco Bacchelli, aggiungiamo una citazione importante ai fini della comprensione dell'argomento. Nel canto XVI del «Purgatorio», Marco Lombardo spiega la teoria del libero arbitrio con tre versi che sono centrali nel poema dantesco e rimandano alla teologia di san Tommaso: «A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura» (79-81). San Tommaso aveva scritto: «contra inclinationem coelestium corporum homo potest per rationem operari» («contro l'inclinazione dei corpi celesti l'uomo può operare con la ragione»).
In questo passaggio del «Purgatorio» si affronta un tema cruciale, la causa del male che domina il mondo. Marco Lombardo (che rappresenta la saggezza applicata alla politica) dichiara che gli uomini solitamente attribuiscono quel male «al cielo». Se così fosse, egli puntualizza, sarebbe tolto all'uomo il libero arbitrio, e non vi sarebbe giustizia nel premiare o punire i nostri comportamenti perché essi non sarebbero determinati dalle nostre scelte, ma unicamente da qualcosa scritto negli astri.
Un richiamo
a Dante
Questo argomento della Scolastica nega valore all'astrologia classica che pone i moti delle stelle come cause «necessarie» (che cioè, detto in linguaggio filosofico, non possono essere diverse da quelle che sono), e supera la concezione medievale che le intendeva invece quali segni o indizi di eventi possibili.
Va infine precisato che il XVI del «Purgatorio» è il canto in cui Dante dopo avere esposto il principio del libero arbitrio, enuncia la teoria dei «due soli» («Soleva Roma, che 'l buon mondo feo / due soli aver, che l'una e l'altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo», 106-108), di cui leggiamo nel terzo libro della sua «Monarchia», dove si spiega che al papa spetta il compito di condurre gli uomini «ad vitam aeternam», mentre l'imperatore deve guidarli «ad temporalem felicitatem».
Quindi, entrando nel nostro Tempio e soffermandosi sulle immagini che potrebbero indurre a considerazioni pagane, occorre pensare a tutto questo cammino testimoniato anche da Dante il quale, oltre che poeta, è teologo e non mago come qualcuno tenta di farlo passare, falsificando le carte in tavola.
(Tornando al XVI del «Purgatorio», va ricordato che esso precede tutto il discorso contenuto nel canto successivo, relativo all'ordinamento morale che governa quel regno, in correlazione al principio che l'amore «naturale» ovvero innato, non può errare, al contrario di quello «d'animo» in cui intervengono ragione e volontà. Si ribadisce quindi che il male nasce dalle scelte sbagliate che noi compiamo, non dalle predisposizioni dei pianeti celesti.)
Corruzione
politica
Come avverte Piromalli nell'introduzione al volume, Bacchelli «propende per una lettura [...] nel senso del neoplatonismo pagano di Giorgio Gemisto Pletone». Tuttavia Bacchelli illustra chiaramente le contraddizioni del nostro Tempio che rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e degli uomini del suo ambiente che fanno convivere elementi cristiani e pagani.
Molto interessante è la parte in cui Bacchelli sviluppa questo aspetto, accennando a quanto succederà in momenti successivi della nostra storia culturale, quando il problema più urgente fu «l'opera di reinglobamento del neoplatonismo in un discorso apologetico cristiano». In ciò trova conferma l'importanza che la vicenda riminese del Tempio assume, nel quadro della cultura italiana quattrocentesca.
Il saggio introduttivo (composto da Piromalli) si apre proprio nel nome di Dante, facendo i conti con la sua visione ideologica, e quindi con i giudizi negativi che esprime al riguardo dei Malatesti, considerati «emblemi di una corruzione che investiva una regione intera, la Romagna».
Piromalli ha organizzato il suo testo affacciandosi anche alle età successive a quelle di Sigismondo: ad esempio, parla della storiografia del Settecento (ripercorrendo tappe e figure di grande rilievo nella storia culturale della nostra città, laddove tratta di Angelo e Francesco Gaetano Battaglini), degli interessi di Luigi Tonini (con l'esame della sua formazione e della sua cultura), e dei miti malatestiani in Burckardt e D'Annunzio.
L'opera contiene la ristampa anastatica di due scritti di Augusto Campana e di uno di Aldo Francesco Massera, oltre a due studi di Giovanna Ragionieri (sui codici miniati malatestiani) e di Alfonso Costantini (sull'umanesimo di Roberto Valturio).