Il pittore Armido Della Bartola ha recentemente dato alle stampe, grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, un volume intitolato con il suo nome. Vi sono tra le altre cose le illustrazioni di tredici opere ispirate al tema «Mai più la guerra» e riguardanti la vicenda bellica di Rimini distrutta. In una seconda sezione, egli ha inserto altre immagini che testimoniano alcune tappe della sua arte, appoggiandosi a scritti di critici d'arte e no che lungo la sua carriera ne hanno commentato ed analizzato l'intensa attività.
Ma dato che l'amico Armido sa usare non soltanto i pennelli ma anche la penna, non mancano intarsi tra le immagini di pagine sue, dalle didascalie nella sezione «Mai più la guerra», sino al capitolo che semplicemente ha chiamato «Autobiografia», dove sintetizza testi già apparsi in diverse occasioni.
Tra il graffio
ed il sorriso
Nato nel 1919 a San Mauro da un «emerito calzolaio» e da una contadina della Torre, Della Bartola ha digerito con la sua ironia e il suo spirito ribelle fette robuste di Storia in cui c'era poco da ridere. Una conversazione con lui, e la letture delle sue memorie, sempre sospese tra il graffio ed il sorriso, sono utili a capire i tempi passati che lui ha attraversato con la dignità di chi conosce non tanto il normale uso di mondo (a volte fatto anche di irritante ipocrisia aldilà delle dosi necessariamente tollerabili), quanto il valore del parlar chiaro e del manifestare senza tante perifrasi il proprio pensiero.
Non so se possa aiutare il ricorso al dialetto a configurare questa sua scelta. So per certo, da quanto ho letto nelle sue pagine ed ascoltato dalle sue parole, che il ricorso alla lingua buona e forbita avrebbe forse modificato non soltanto il suo modo di esprimersi ma anche quello di pensare. Questa lingua buona che, sino ai tempi anche della mia giovinezza, distingueva i signori dai poveretti, era non soltanto una barriera sociale (dimmi come parli e ti dirò come vivi), ma pure uno strumento che condizionava i comportamenti. In italiano certe idee non venivano, in dialetto sì: anche con la massima innocenza e perfidia, contemporaneamente.
Il bisogno
di essere vero
Ma non è una contraddizione questa, bensì una condizione elementare necessaria a sopravvivere, e ce lo dimostrano appunto quei racconti che Armido concede nelle pagine pubblicate, o ricevendovi nel suo studio di Marina dove l'accoglienza è sempre schietta, calorosa, soprattutto fra chi si conosce da quarant'anni e passa, come succede a noi due.
Sulla sua pittura credo che si possa parlare con maggior cognizione se consideriamo il personaggio nel suo insieme e non soltanto le opere. Ogni discorso sull'artista dovrebbe presupporre il racconto dell'uomo, che è quello che pensa le immagini e mescola i colori con la sua sensibilità, la quale non è un fatto semplicemente tecnico, ma il frutto dei mille aspetti che caratterizzano una personalità.
Quel bisogno di vero che Armido ha inseguito nelle situazioni più diverse e difficili, diventa il sostegno ad una ricerca stilistica che è esplosione dei toni cromatici che compongono l'immagine.
La passione
per l'arte
Ci sono momenti sublimi nella sua arte, quelli in cui la rarefazione della figura rappresentata si mescola con il trionfo del gioco delle luci, come nelle albe che sono state il classico sfondo di un tema divenuto tutto suo, quello dei poveracciari; e più che un tema un modello, a cui hanno fatto ricorso anche bravi fotografi che hanno letto quelle immagini con lo stesso occhio con cui Della Bartola le ha stese sulla tela con una perfezione tecnica che nasce dal lungo esercizio, e che riassume ricerche, esprimenti, tentativi, ovvero una passione per che non è passatempo dopolavoristico ma impegno ininterrotto, per aiutarci a decifrare più i nostri sentimenti che le cose che rappresenta.
Ho avuto la fortuna di iniziare 43 anni fa questo mestiere di cronista a tempo perso quando i pittori riminesi amavano raccogliersi per una sfida estemporanea al ristorante «da Bruno», durante una serata in cui tacevano (forse) le rivalità, e si giocava tutto sull'istrionismo di questi artisti che (forse) quelle stesse rivalità trasformavano in nobile spettacolo ad uso e consumo degli spettatori.
Un successo
continuo
La nostra città allora aveva una dimensione diversa da quella odierna, ed allora quanti lavoravano con i pennelli avevano probabilmente gloria maggiore di quella che gli si attribuisca oggi. Per Armido, ieri come oggi, però il successo è stato continuo. Non so che cosa diranno gli storici ufficiali dell'Arte, se lo promuoveranno tra quanti meritano la Gloria Ufficiale. Oggi come oggi sono sicuro che Della Bartola è stato ed è un pittore che si è raccontato con la dignità di cui ho detto prima. Questo mi basta per consegnare alla mia memoria personale, senza tanti fronzoli, il senso di un artista che ha saputo e sa parlare a quanti vogliono e sanno ascoltarlo.
Questo libro è utile per rinfrescarci la memoria, e per augurare ad Armido ancora tanti anni di lavoro sereno, con quel suo umore che sembra bizzarro ma è soltanto espressione di una genuinità che è sempre stato difficile trovare nelle persone. Non parlo del presente soltanto: leggendo ed ascoltando Armido, troviamo la conferma che niente c'è di nuovo sotto il sole.
Suo padre
e il signor conte
Quando due mesi fa Armido mi ha invitato una domenica pomeriggio ad andare a ritirare presso il suo studio la copia del libro che mi aveva destinato, ho trascorso alcune ore indimenticabili, concluse con il racconto in cui riaffiorava la figura paterna. Il babbo calzolaio che lavora sul marciapiede e tutte le mattine vede passare il signor conte il quale abita poco lontano e concede all'umile ciabattino la dignità di un saluto aristocratico.
Il garzone dice a sua padre: ma ve ne siete accorto che quando vi saluta non vi allunga mai la mano ma soltanto un dito? Il calzolaio annuisce (non trascrivo in dialetto, riassumo in lingua pulita). Il garzone ribatte: secondo me, vi vuol prendere [ehm] in giro. Credo anch'io, risponde il padre di Armido.
Viene la mattina dopo, e la scena consueta dell'incontro fra il ciabattino ed il signor conte si ripete come da copione. Ma l'«emerito calzolaio» Giuseppe Della Bartola, dopo l'osservazione espressagli dal garzone, ha deciso di mutare la recita.
Il signor conte si avvicina, allunga il solito saluto ed il solito dito. Questa volta però non riceve la risposta di tutte le altre mille volte precedenti, ma semplicemente l'invito ad infilarsi quel dito in un luogo che non sta bene nominare, e che non era il guanto che anche nei giorni più caldi dell'estate quel raffinato nobil signore esibiva nel corso della sua passeggiata.