il Rimino - Riministoria

Chi si firma è perduto
Tama dal 1982, meglio del «New York Times»

Avrei dovuto scrivere questo articolo nel settembre 2002, per il ventesimo compleanno della mia rubrica. Sono passati nove mesi, il tempo naturale perché il progetto veda la luce.
Volevo evitare gli scogli della confessione autobiografica, e non ispirarmi al vecchio titolo di Cesare Zavattini, «Parliamo tanto di me». Di prime donne, ce ne sono già abbastanza, non occorre allungare la lista. Il proposito era: vediamo come nel frattempo è cambiato il Mondo.
Mi sono accorto che la pretesa era eccessiva. Forse l'idea si adatta più all'«Enciclopedia Treccani» che ad un cronista a tempo perso come il sottoscritto. Meglio volare basso, mi sono detto, e raccontare come in questi vent'anni è cambiato il giornale. Mi sono accorto che pure questa è una pretesa troppo ambiziosa per una sola pagina.

Ci si può fidare
degli storici?

Volevo parlarne perché non mi fido degli storici che circolano, né tanto meno di quelli che verranno. Sono sicuro che alla verità dei fatti, sovrapporranno fantasiose interpretazioni. (Ho le prove, su altri argomenti.) Nel migliore dei casi, per mostrarci come sono bravi. Nel peggiore, per adattare la nostra esperienza alla loro scatola cranica.
Il cambiamento è presto spiegato. Nel 1982 eravamo un piccolo foglio, ma con qualche legittima pretesa. Adesso siamo un giornale con tante pagine, che ha visto crescere attorno a sé una radio, un notiziario televisivo e molte altre realtà della comunicazione, che hanno nel «Ponte» un antico (forse dimenticato) punto di partenza.
Alla fine, scartate tutte le possibili tracce, sono rimasto con il foglio bianco, e la buona intenzione di scrivere qualcosa. Ma che cosa? Pulendo un poco in casa come si usa civilmente in primavera, tra archivio e biblioteca, ho trovato un fascicoletto dimenticato che testimonia una mia fissazione: contiene una serie di citazioni che rappresentano tuttavia un modo di raccontarmi.

Stupido soltanto
in proprio

Ce n'è una di Enzo Biagi: «Se sono stupido, lo sono in proprio; i cretini per conto terzi li trovo deprimenti» («La Stampa», 23 gennaio 1994).
Nulla meglio del giornalismo (a parità con l'insegnamento: credetemi perché l'ho praticato a lungo), mette a nudo i nostri difetti. Bastano quelli naturali. Non è necessario crearne altri per fare piacere a qualcuno. La seduzione della carta stampata è farcita di buone intenzioni. Anche per noi l'attrazione può essere fatale. Fingere che una buona azione giornalistica per conto terzi possa giustificarci agli occhi del mondo, fa parte di un bagaglio piccolo-borghese in cui servilismo e capacità di cedere la virtù al miglior offerente, sono non strumenti di sopravvivenza ma trappole che prima o poi scattano.
Non mettersi mai nella condizione di essere ricattato, anche per il cronista è un buon sistema di vigilanza, non certamente il metodo di salvezza assoluta. Ognuno ha la propria colpa. Chi la vigliaccheria, chi l'intelligenza (nel senso della comprensione delle cose). Guai a far capire che si sa come va il Mondo. Può dispiacere sempre a chi non ama svelare i propri segreti. Non sussurrate mai all'orecchio del mago che avete scoperto il suo trucco.
Non è necessario nascere con un cuor di leone. E' meglio vivere cento giorni da pecora (o da Agnelli) che uno da re della foresta, anche perché sono tempi magri per le monarchie. (Quella nostrana, poi, non offre granché neppure se uno nutre qualche nostalgia, non è il mio caso, con quell'erede schieratosi in pubblicità dalla parte dei sottaceti.)


Né tappetino
né agitatore

Il coraggio c'è se non si vede. Senza offesa per le memorie patrie, l'ardito è oggi più macchietta da Bar Sport che soggetto da piedistallo pubblico. Piedi per terra, dunque, per noi cronisti, e niente (finti) voli pindarici nei cieli nobili delle Grandi Idee, aspirando ad un improbabile monumento. Semplicemente occorre apparire degni di quello che si fa. Ha scritto Voltaire (cito ancora da quella cartellina), che la differenza tra genio e stupidità sta in questo: che il genio ha dei limiti, l'imbecille no.
Il cronista non deve prestarsi a fare da tappetino, né stare in ginocchio davanti al Potere. Meglio se vive appartato, non contrae debiti di riconoscenza verso chi detiene quello stesso Potere, prestandosi a facile ricatto.
Tutto vedere, tutto osservare, niente dimenticare (età permettendo). Il cronista non è un agitatore politico, ma fa politica contro gli agitatori, perché il giornalismo è nato come «Quarto Potere» allo scopo di svolgere una funzione di utilità pubblica. Che non è esaltazione di se stessi ma servizio prestato alla società (ed al «bene comune», concetto non retorico ma impudicamente realistico).
Nella vita politica italiana la classica distinzione fra i tre Poteri dello Stato, è ora accantonata da confuse teorie che fanno poco bene sperare sul nostro futuro, spingendoci ad ipotizzare che siamo già arrivati in silenzio ad una terza repubblica dal giorno della deposizione del Signor Presidente del Consiglio al Tribunale di Milano il 5 maggio 2003.

Senso di dignità,
non essere ambigui

Di recente Claudio Magris ricordava sul «Corriere della Sera» (4 maggio), la lezione di Alberto Cavallari, chiamato a dirigere il foglio di via Solferino in «un tremendo, grottesco e sanguinoso triennio (1981-84)»: «Mi ha insegnato che la vita è un buon combattimento, come dice San Paolo, e che la si vive e anche gode a fondo se non si perde la faccia».
Quando è scomparso Giuseppe Fiori, altro onesto giornalista, politicamente opposto rispetto a Cavallari, ha scritto di lui Corrado Stajano: «Non conosceva la pratica dell'ambiguità, della doppiezza, del dire e non dire» («Corriere della Sera», 29 aprile).
Salvare la faccia (la dignità), e non essere ambigui. Bastano due regole. Non è per accontentarsi. Sono già tante, rispetto al Decalogo (che riguarda tutto, e ogni categoria sociale).
Dal 1982 non sono mai stato costretto a smentire una notizia riportata nel mio spazio. Ci ha tentato inutilmente (nel 1992), un ex onorevole del Pci che per negare quello che lui stesso aveva detto in Rai, ed io avevo correttamente citato, mi fornì copia dell'intervista su nastro, uguale a quello mio da cui avevo ripreso le frasi virgolettate.
L'episodio è utile per spiegare a qualcuno che non ricorda bene, o finge di non capire, che il sottoscritto ha pizzicato sempre tutti, e non ha mai riservato trattamenti di favore a nessuno (non «guardo a sinistra», come mi è stato detto, anche se non «guardo a destra»: i punti cardinali sono quattro). Un piccolo giornale come il nostro può così battere alla grande un colosso quale il «New York Times», che ha dovuto sconfessare un proprio cronista, Jayson Blair, passato ormai alla storia quale raccontatore di frottole in ben 36 articoli su 73 da ottobre ad oggi (comprese finte interviste ai feriti di guerra).

Terza repubblica?
Sembra la «Corrida»

Ma il signor Jayson Blair è in buona compagnia, addirittura con le fonti «solitamente bene informate» dell'Esercito americano: il soldato Jessica Lynch rimase ferito in un incidente stradale, non per fuoco nemico, e la sua liberazione è un falso costruito ad uso delle tivù.
«Guarda l'informazione, vedi la salute del Paese», ha intitolato «Il Sole-24 Ore» del 18 maggio un commento di Giancarlo Santalmassi che trattava di Jayson Blair e di Jessica Lynch. Che dire dell'Italia? Siamo fortunati, per essere un Paese che aspirerebbe al comunismo e che ha un Presidente del Consiglio il cui consigliere principale per gli attacchi alla Magistratura sarebbe un ex «compagno», Giulianone Ferrara (ex collaboratore dichiarato della Cia dopo la conversione).
Stiamo partendo «tutti» di testa. Crediamo di allestire l'«Aida» all'Arena di Verona o l'«Otello» alla Scala, mentre la compagnia di giro proviene dalla «Corrida, dilettanti allo sbaraglio». Non ci sono più i tenori di una volta. Adesso considerano le stecche dei cantori come virtuosismi musicali. Lo fanno i cronisti sottomessi al Capo, per stare in lieta compagnia ed in buona Fede (Emilio, volto storico del giornalismo italico: il chirurgo plastico lo ha taroccato come certe notizie che vanno in onda non soltanto sulla sua rete).
Anche noi come in Cina dovremo forse metterci le mascherine. Non per la Sars, ma per non far vedere che ci vien da ridere, e non essere arrestati per vilipendio. Per dissidenti e critici si prevede un futuro incerto. Si avvererà il motto di Ennio Flaiano, «Chi si firma è perduto».
(Post scriptum. Grazie di cuore ai cortesi lettori che, chiedendo di me, hanno scritto al giornale: Cesare Biondelli e Maurizio Mantegani, o telefonato, come il collega Giuliano Zanotti di Bologna. Poi: chi tra i miei frequentatori usa Internet, potrebbe inviarmi il proprio indirizzo e-mail per aggiornamenti feriali?) [865]

Antonio Montanari
monari@libero.it


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796/01.06.2003