il Rimino - Riministoria

Cappelletti contro tortellini
Da secoli si fronteggiano, diversi in tutto

Passate le feste (e, speriamo, non «gabbati li santi» come da italico costume), busso per entrare a parlare di cucina, argomento sul quale nelle ricorrenze annuali se ne sentono ovviamente di cotte e di crude.

Michele Placucci descriveva (e pubblicava a Forlì nel 1818) gli usi graditi dei nostri villani: «Non più il fanciullo teme la beffana [con doppia effe, sì]; non paventa l'adulto il gracchiare de' corvi; non si rattrista l'età senile al lugubre canto de' gufi», ma nel contado si «conserva tuttora un misero avanzo de' più vetusti pregiudizj». Ai quali lui dedicava la sua più benevola attenzione.

Tra gli usi ed i pregiudizi del giorno di Natale, dunque, Placucci inseriva anche la preparazione di «cappelletti, minestra composta di ricotta, formaggio, uova, aromi; il tutto avvolto in pasta, detta spoglia da lasagne». La parola «spoglia» si rispetti com'è scritta, anziché sfoglia come s'usa oggi, relegando la prima nella cuccia del dialetto.

I cappelletti dei contadini romagnoli nascevano quale risposta ad un'economia autarchica, di sussistenza, facendo questi ricorso a prodotti di cui disponevano in casa, senza bisogno di acquisti (per i quali non disponevano neppure della pecunia necessaria). Quindi definirli «di magro», sarebbe un errore logico e storico. Quello, i contadini, avevano sotto il tetto per prepararsi il mangiare della grande festa, e quello dovevano per forza di cose usare. Il convento domestico altro non poteva passare.

La distinzione odierna fra magro e grasso, nasce dall'incontro (e dallo scontro) fra questi originari cappelletti natalizi dei contadini di Romagna con i tortellini emiliani. Sui quali diremo fra qualche riga.

Soffermiamoci prima sulla modificazione dell'antico cappelletto. Aldo Spallicci sosteneva che l'Artusi «li voleva senza carne», sostenendo che «il cappelletto nostrano, emigrando a Bologna, ci ritornò contaminato dalla carne».

Alcuni gastronomi romagnoli moderni conciliano il diavolo e l'acqua santa, inserendo «mezzo etto di petto di cappone» nell'impasto del cappelletto all'antica maniera contadina. Ma non per questo, ribadiamo, nasce la distinzione fra pasta di magro e pasta di grasso. I cappelletti di magro sono soltanto quelli a base di verdure, da cuocere asciutti, e non in brodo, e da condire con burro e non con ragù di carne. Il perché è semplice: essi si dicevano di vigilia, ed in tale occasione si usavano rigorosamente.

Dedichiamo un attimo di attenzione ai tortellini emiliani o per meglio dire bolognesi. Il gusto felsineo, scrisse nel 1958 un giornalista allora noto, Alberto Consiglio, era «ecclesiastico, cardinalizio», anche un poco barocco. A tale gusto risponderebbero i tortellini con il loro impasto di prosciutto grasso e magro, mortadella, midollo di bue, parmigiano grattugiato, uovo, noce moscata, pepe e sale.

Lasciamo Alberto Consiglio, e ricordiamo Renzo Renzi, celebre critico cinematografico ora quasi novantenne, che distinse fra l'invenzione fratesca della mortadella e quella pagana del tortellino, seguendo un passo poetico del Tassoni in cui si dice che un oste modellò la sfoglia della pasta sull'ombelico di Venere in persona, come omaggio alla di lei bellezza.

Abbiamo accennato alla pasta in tempo di vigilia. Parola è questa che nasce presso i latini per indicare i quattro turni di guardia di tre ore che si succedevano nella notte (le sei erano l'ora prima: all'ora nona , quando si fece buio in cielo, erano le quindici nostre, o francesi, mentre due secoli fa andavamo avanti di quattro, con le ore italiane).

Vigilia significava rispettare precisi rituali religiosi. Un mangiare da vigilia doveva essere «di magro»: il che in tempi di vacche altrettanto magre, non era poi un'eccezione come potrebbe apparire oggi.

Quindi, il «magro» nasce da due fatti: la miseria da un canto (come il cappelletto autarchico), ed il richiamo alle norme ecclesiastiche, dall'altro.

Dimenticare questo legame fra vita spirituale, ritualità delle consuetudini comuni ed alimentazione, significa accantonare una buona fetta di storia sociale anche recente.

Infine, l'ultima distinzione tra cappelletto e tortellini. Riguarda la forma della «spoglia» su cui l'impasto veniva spalmato prima della chiusura. Rigorosamente rotondo era il cappelletto, ritagliato con un bicchiere oppure con uno speciale stampo di ferro, realizzato a mano, da cui discendono quelli industriali di forma molto più ridotta.

Sul tagliere le piccole lune dei cappelletti pronti per essere riempiti, richiamavano la grande immagine della piada: ovvero la perfezione del cerchio, l'immagine della terra ed in fin dei conti anche della vita.

Lena Vanzi


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735/24.12.2002