il Rimino - Riministoria

Nel 1840 la banca pensava ai più deboli
Il «Regolamento» della Carim nata allora con 89 soci

Il recente scoprimento di una lapide a Rimini, nel palazzo Buonadrata (sede della Fondazione Carim) in corso d’Augusto, per ricordare gli ottantanove soci che, con in testa il vescovo Francesco Gentilini, parteciparono alla fondazione della Cassa di Risparmio di Rimini nel 1840, è stato accompagnato dalla (seconda) ristampa in anastatica del «Regolamento» originale della banca. C’è un punto, in quel testo, su cui è stata richiamata l’attenzione: riguarda il compito sociale dell’istituto ed il rapporto che esso deve stabilire con i comuni clienti.

La banca, vi si legge, deve offrire alle classi sociali più deboli una forma d’investimento per «somme che nella loro piccolezza e nell’accumularsi ad incerti intervalli sarebbe quasi impossibile in altro modo collocare», con la massima sicurezza e «col minor pensiero del depositante». Facendo ciò, la banca richiamava «dalla imprevidenza, dalla dissipazione quelle fra le classi sociali cui più debbe stare a core la pratica della economia e il pensiero del futuro».

Significativo è l’accenno, storicamente comprensibile, che a farsi carico «del futuro» della collettività fossero soltanto gli individui e non anche lo Stato, come avvenne più tardi in altri contesti.

Come si viveva allora in Romagna? Dominava un’economia di tipo agricolo, con la mezzadria quale forma di conduzione prevalente. Scriveva lo storico Giorgio Candeloro: «La crisi sociale, che si andava manifestando nelle campagne emiliano-romagnole soggette al dominio papale e che certo contribuiva non poco all’irrequietezza politica delle Legazioni, è indizio di una dinamicità, che si manifestò poi nella seconda metà del secolo con un grande sviluppo, accompagnato però da un ulteriore accrescimento del bracciantato e da un forte acutizzarsi dei contrasti di classe». Le industrie, tranne poche eccezioni, «erano in grave decadenza in tutto lo Stato pontificio».

La stasi economica di Rimini, spiega lo storico Giorgio Conti, avrà ripercussioni anche sul ruolo politico istituzionale dell’intera città. Di lì a qualche anno (nel 1859) il nostro porto è declassato a vantaggio di Ravenna, e nel 1862 alla Camera di Commercio è ridotta la giurisdizione al solo circondario. Nello stesso tempo, per fermare «le istanze autonomistiche» di Rimini, qui viene creata una sottoprefettura che ribadisce la dipendenza da Forlì.

Il quadro di quegli anni è così descritto da Conti: «Il liberalismo economico infligge un duro colpo all’economia locale, incapace di reggere alla concorrenza degli altri mercati nazionali ed esteri». Per artigianato e manifatture, dallo stallo alla crisi il passo è breve, dopo che sono venute a mancare le protezioni governative. Il mercato si limita al livello del circondario riminese.

Questi particolari aiutano meglio a comprendere il brano del «Regolamento» che abbiamo ricordato, ed in cui si legge poi che il risparmio accumulato nell’oggi, ed arricchito dall’interesse riconosciuto dalla banca, potrà servire «allorquando o per mancato lavoro o per infermità o per vecchiezza o per provvedere al collocamento dei figli o per altri bisogni che innumerevoli accorrono nella vita», si cercherà e troverà un aiuto «nel frutto dei vostri stessi risparmi».

Rimini in quegli anni vive un’esperienza nuova. Nel 1843 nasce l’industria turistica balneare, su cui s’indirizzano gli interessi e le cure della classe dirigente locale. L’altra faccia della medaglia è che il nuovo corso va a danno delle attività marittime. Più che la crisi del porto e della marineria, spiega Conti, è l’intera crisi politica della città, provocata dai suoi «maggiorenti conservatori», che ne ipotecano «le forme ed i tempi dello sviluppo».

A che cosa pensassero quei maggiorenti, è presto detto: in particolare i nobili, prosegue Conti, discutono animosamente attorno ad un grande «progetto». «Non si tratta di un piano di investimenti industriali o commerciali, molto più sprezzantemente la polemica verte sulla località più idonea» dove costruire un teatro, che si sognava, come fu scritto allora, «il più grandioso e ricco possibile».

Ed il teatro di piazza Cavour che nasce nel 1843, secondo Conti, «rappresenta il testamento spirituale di quell’oligopolio di nobili e borghesi che hanno egemonizzato tutto il periodo della Restaurazione». Non importava a quella classe politica se l’idea del teatro arrivava in ritardo rispetto alle altre città della Romagna. Non importava se la sua costruzione assorbiva ingenti somme di denaro pubblico e privato. Non importava se in suo nome si trascuravano «le sorti produttive e portuali della città». Il teatro era «prioritario e basta», conclude Conti. Il quale al proposito ricorda proprio l’intervento della Cassa di Risparmio che, nel 1846, concede al Municipio somme cospicue per fare continuare nei lavori di costruzione dello stesso teatro e dieci anni dopo fra 1855 e 1859 dovrà prestargli denari per gli ingenti bisogni della cosa pubblica.

Conti cita pure queste notizie sullo sviluppo della città: il Borgo San Giovanni diventa un modesto centro industriale e commerciale, mentre quello di Sant’Andrea «rappresenta la vera porta d’ingresso dei contadini poveri inurbati, ora trasformatisi in operai delle limitrofe fornaci di mattoni».

Contro uno stato di cose di grave crisi economica, insorgono i popolani nel settembre 1845 con Pietro Renzi, lasciando una testimonianza di rivolta contro l’arretratezza e la stagnazione degli Stati Pontifici. Parte degli insorti fugge via mare, aiutati dai pescatori riminesi. Nel successivo novembre i nostri marinai tentano una sommossa contro l’aumento del prezzo del grano. Il Cardinal Legato Giorgi con un editto assicura la popolazione che il governo vegliava anche sopra i poveri, e che non temessero.

Già nel 1831 Rimini era stata testimone di un’altra (effimera) rivolta, legata al movimento mazziniano. Il 25 marzo si ebbe nella nostra città lo scontro fra patrioti in marcia verso Ancona e truppe austriache. Al bivio delle Celle da cui partono le vie Popilia ed Emilia, duemila volontari riuscirono a respingere i cinquemila fanti nemici che avevano cinquecento cavalli e quattro cannoni. L’episodio sarebbe stato poi celebrato da Giuseppe Mazzini nello scritto «Une nuit de Rimini».

Pietro Renzi, protagonista dell’insurrezione del 1845, era figlio di un benestante di Coriano, affittuario della Torre di San Mauro, di proprietà dei conti Torlonia. Non tutti i nobili pensavano soltanto alla vita mondana, se Renzi ed altri congiurati si riuniscono, al momento di agire, nel palazzo del conte Andrea Lettimi, dove poi abiterà un altro personaggio ribelle della storia riminese, Domenico Francolini, un anarchico di buona famiglia (com’è stato definito da Guido Nozzoli), che nasce nel 1850 e che sarà un fraterno amico di Giovanni Pascoli. Il Nobil Uomo Andrea Lettimi appare pure lui nell’elenco degli azionisti fondatori della cassa di Risparmio, al posto n. 47.

(Ripensando al Palazzo Lettimi, dove sono nato poco prima della sua distruzione bellica, non dubito a volte d’aver assorbito, tra quelle mura illustri, un poco di spirito indocile che questi occasionali od abituali frequentatori possono avervi lasciato come traccia invisibile della loro presenza.)

Antonio Montanari


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853/24.10.2003