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il Rimino - Riministoria

Quando anche il presepe era povero
E tra le macerie il nonno trovò il suo Gesù Bambino

Dalle macerie erano spuntate due statuine del vecchio presepe di casa, Gesù Bambino con la culla scheggiata ed una mezza pecora. Erano di gesso, di una media grandezza, sui quindici centimetri. Poco più in là ridotto a brandelli un Sant’Antonio da Padova alto mezzo metro. La nonna era andata nella Basilica del Santo, per ringraziarlo: si erano salvati dal terremoto, nel 1916. Le bombe avevano decapitato la statuetta e mutilato il bambino. Il nonno l’avrebbe poi restaurata dove possibile, usando la ceralacca per tenere attaccati i pezzi recuperati, e dando una mano di colore a tempera sulla veste da frate, per mascherare i vuoti procurati dalle schegge. La conservo ancora, con ogni riguardo: ogni giorno mi testimonia quasi un secolo della mia famiglia.
Il primo presepe del dopoguerra, mia mamma lo preparò a Viserba dove eravamo ancora sfollati in via Baracca (oggi Don Minzoni). Nel negozio della signora Tranquilla, in cui dominava il profumo delle prime ciprie tornate sui banconi, trovò delle statuine piccole, pochi centimetri, che servivano nel loro numero ridotto (la Sacra Famiglia, un angelo, bue, asinello, un pastore e due o tre pecore) a riprendere idealmente la normalità della vita ed il rispetto delle tradizioni.
Restarono esposte in casa ogni anno per le feste anche quando, sfrattati da Viserba, fummo ospitati dai nonni nella loro casa popolare appena costruita a Rimini, in una terra sperduta, vicino alla cava e dietro le chiese di Santo Spirito e di San Giovanni. Era una zona fuori del mondo. Poi l’avrebbero chiamata la «Nuova Rimini», ci sarebbe stata la Fiera, oggi Palazzo dei Congressi.
Quando anche per noi venne l’ora di avere una casa tutta nostra, il presepe divenne leggermente più grande, nuove statuine di gesso, di sette od otto centimetri. Erano già un lusso nella loro semplicità. Nulla a che vedere con certi allestimenti esposti nelle vetrine odierne, dove ogni pezzo costa un mezzo stipendio basso. Il rito del presepe si svolgeva con un preciso cerimoniale. Era il nonno Romolo che doveva predisporre tutto l’impianto scenografico. Io dovevo soltanto obbedire ai suoi ordini. Che consistevano ad esempio nella ricerca dei pezzi di legna (da ardere, usati nella «cucina economica») adatti a formare il profilo delle montagne sullo sfondo, ed a costruire la capanna a destra nell’angolo fra due muri.
Il nonno aveva le sue salde convinzioni storico-geografiche, per cui spiegava che le cose andavano messe in un certo modo e non in un altro. Ad esempio, niente cotone idrofilo sulle montagne per rappresentare la neve, perché (sosteneva) in Palestina non nevica. Quando crebbi in età, prima di prender possesso definitivamente della regìa del «mio» presepe, potei portare il mio personale contributo con l’inserimento di una lampadina all’interno della capanna, e con l’alimentazione di una batteria Superpila rettangolare che, se usata con parsimonia (cioè in brevi momenti di illuminazione), poteva durare per tutto il periodo delle feste natalizie.
Arrivò il momento in cui la mia esperienza da elettricista mi permise di ideare un impianto a quattro lampadine, con la stessa alimentazione a batteria: due nella capanna, per meglio rendere evidente la presenza del Bambino, ed altrettante dietro le montagne per creare un effetto giorno (più ipotetico che reale, in realtà). Ogni anno si comprava qualche statuina in più e qualche pezzo per arredare il paesaggio, un pozzo, il ponticello da sistemare sopra un piccolo specchio in cui anatre ed oche completavano la scena. Il nonno mi aveva anche costruito delle casette di sughero, disegnandovi improbabili architetture antiche, per dare l’idea del villaggio sullo sfondo della grotta.
Quando il nonno, invecchiando, lasciò a me campo libero, mi ritrovai a rifare passo passo tutto il presepe come lo aveva sempre realizzato lui. Aumentai soltanto il numero delle luci, sempre alimentate a batteria, perché l’unico tentativo fatto con la corrente elettrica aveva avuto come effetto quello di far saltare il contatore. Non era stata colpa mia, ma di una presa difettosa che mi avevano regalato alcuni parenti di mia mamma. Tuttavia ogni responsabilità fu addossata a me, con la diffida di tenermi alla larga dai fili della corrente, e l’obbligo di usare soltanto la batteria.
Conservo ancora tutte quelle statuine. Ogni anno, in uno spazio molto più ridotto di quello che avevo a disposizione da bambino, esse riappaiono a comporre il presepe. Come quando ero fanciullo. E come allora, non sono io a sistemarle, ma mia moglie. E come con mio nonno, io debbo scartarle una per una, passargliele, e guai a fiatare. Gli artisti hanno sempre ragione loro.

Antonio Montanari


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881/Riministoria-il Rimino/14.12.2003
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