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il Rimino - Riministoria

Rimini, «trionfo del cattivo gusto»
L’urbanistica cittadina secondo Grazia Gobbi Sica

Sostiene Enzo Biagi che in ogni tipografia s’annida un diavoletto guastatore che, alla fine, lascia inequivocabilmente traccia della sua nefasta presenza in ciascun prodotto editoriale. La sorte toccata all’importante saggio di Grazia Gobbi Sica sull’urbanistica riminese nel Dopoguerra sino al 1960, contenuto nel volume «Sviluppo economico e trasformazione sociale a Rimini del Secondo Novecento» (Capitani ed.), potrebbe essere una conferma della teoria del noto scrittore bolognese. Nell’ultima pagina del testo di Gobbi Sica, infatti sono saltate le impietose (e veritiere) conclusioni del suo discorso, con un effetto tipografico involontariamente comico, lasciando il lettore in sospeso con una frase («C’è da chiedersi come tutto ciò»), che è stata completata da un foglietto volante che ci auguriamo non vada perso soprattutto nelle biblioteche dove i libri si leggono anche per scrivere altri libri (se si ha voglia di frequentarle e di consultarli).
Gobbi Sica, citando le conclusioni che si possono ricavare dal recente secondo volume di «Rimini, città come storia» di Giorgio Conti e Pier Giorgio Pasini (2000), spiega: la nostra città è stata guastata da molti fattori, «al di là delle carenze degli strumenti di controllo e della volontà politica degli amministratori che si sono succeduti, pur nello stesso colore politico, per quaranta e più anni». Per Gobbi Sica questi elementi negativi sono: «l’incultura degli operatori e, vorrei dire, il cattivo gusto imperante, l’ignoranza e il velleitarismo». Basterebbero queste poche righe per chiudere il discorso ed il libro, tanto è convincente (e, ripeto, rispondente alla realtà) la diagnosi storica offertaci da Gobbi Sica. Ma il cronista deve anche indicare perché l’attenta studiosa riminese ha ragione, facendo ricorso alle parole che trova nel suo saggio, dopo aver aggiunto che il volume è stato curato da Vera Negri Zamagni per conto dell’Istituto per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea della Provincia di Rimini, con contributo regionale e provinciale.

Edilizia
«cannibale»

Negri Zamagni sottolinea come aiuti a comprendere «più facilmente il fallimento documentato da Grazia Gobbi Sica», l’esame del contesto economico cittadino caratterizzato da un successo rapido dell’economia turistica nel Dopoguerra. Successo che spinse a non considerare un ripensamento urbanistico di Rimini, per timore di ritardare i processi di ricostruzione necessari ad accogliere le folle di «bagnanti» (così, ricordo, chiamavamo allora i turisti) in arrivo da ogni parte d’Europa.
Da Giorgio Conti (che, a mio modesto avviso, ha scritto nel ricordato volume, la più efficace storia della nostra città nell’Otto- Novecento), Gobbi Sica riprende una definizione che aiuta a comprendere il modello riminese: la «cannibalizzazione edilizia». Tutto comincia all’indomani della liberazione di Rimini (21 settembre 1944), con l’intervento di gruppi di disoccupati, guidati da rappresentanti sindacali, che demoliscono, nel centro storico e nella marina, edifici pubblici che si erano salvati dalla furia delle bombe, come il Kursaal, «mitica presenza della spiaggia Belle Epoque».
Sull’episodio si sofferma pure Angelo Turchini nel saggio «La distruzione di Rimini (1943-1944) e la ricostruzione»: «Il mitico Kursaal, già ritrovo mondano ed elegante della stagione dei bagni, aveva superato indenne le vicende belliche, tanto da essere utilizzato ancora nelle sue funzioni dagli inglesi fin dal 1944». Aggiunge Turchini che quella del Kursaal è «una vicenda ancora da indagare nelle proclamate motivazioni ideali e pratiche come nelle sue cause reali», rimandando in nota alle ricerche intraprese (e non ancora pubblicate) da Giovanni Rimondini.

Il caso
del Kursaal

Di questa vicenda «il Ponte» si è occupato il 5 gennaio 1992, con una pagina speciale che recava come titolo («Quella bruttura del Kursaal»), una frase pronunciata nel 1947 dal sindaco Cesare Bianchini (pci). Era il resoconto di uno studio effettuato dall’architetto Oscar Mussoni, nel quale si documentava che il Kursaal «fu la vittima designata e quasi sacrificale del nuovo corso politico che si voleva dare alla nostra città». Secondo Mussoni, «l'amministrazione di sinistra, uscita dalla lotta antifascista, compie un intervento tipico della cultura urbanistica fascista: quello degli sventramenti».
Riassumiamo. Nel 1947 in città inizia un dibattito su recupero o demolizione del Kursaal. La Giunta municipale è per la seconda ipotesi, mentre la prima vede schierata l'Azienda di soggiorno. Nella convenzione stipulata dal Comune con una società privata, ed approvata in Consiglio comunale il 25 febbraio 1947, il Kursaal è già sparito. Il presidente dell'Azienda scrive il 2 dicembre 1947 al sindaco: «Formulo che si soprassieda alla sua immediata demolizione», e si comincino piuttosto i lavori di restauro. Il 3 febbraio 1948, la Giunta socialcomunista propone, ufficialmente ed all'unanimità, la demolizione del Kursaal, scrivendo che così si vuol «dare a Marina centro più ampio respiro ed il carattere di grandiosità che è indispensabile presupposto per la creazione della grande spiaggia internazionale». Il Kursaal era giudicato «una stridente stonatura architettonica» con il piano urbanistico che doveva dare un «nuovo grandioso impulso» alla nostra spiaggia. La proposta della Giunta passa in Consiglio il 21 febbraio 1948.
Il dc Giuseppe Babbi osserva che la deliberazione della Giunta «non riesce a giustificare la necessità della demolizione che personalmente considera un errore», in quanto «danneggia e non agevola la valorizzazione della spiaggia». Il dott. Felice Bongiorno (dc) ritiene «opportuno rinviare la demolizione ad altra epoca», di fronte alla penuria di locali per i servizi pubblici e turistici. Il sindaco risponde che il Kursaal è «una bruttura che è d'uopo eliminare». Inoltre, la cifra necessaria per la sua precaria sistemazione (7 milioni), può essere meglio utilizzata «nella costruzione di case popolari». Nicola Meluzzi (pci) sostiene che «la demolizione è necessaria ai fini della definitiva sistemazione estetica della zona». Si passa ai voti: 13 a favore, 7 contrari.
La Camera del lavoro il 3 marzo comunica al sindaco che, «stante la grave disoccupazione, gli operai inizieranno immediatamente i lavori di demolizione». Il sindaco risponde di attendere l'approvazione prefettizia. Ma i lavori al Kursaal partono egualmente. Il sindaco, il 6 marzo, segnala al prefetto «la propria impossibilità di disporre l'allontanamento degli operai anche coll'uso della forza cui inevitabilmente si sarebbe dovuto arrivare», facendo intendere che se Forlì ritiene opportuno intervenire, faccia pure.

Un «condono»
tutto politico

Il 9 marzo, il prefetto annulla la delibera consiliare del 21 febbraio «per difetto di legittimità, in quanto mancante» di tre documenti (progetto di demolizione, modalità d’appalto e finanziamento). La Giunta, il 12 marzo, decide di riportare il problema in Consiglio il giorno successivo, riconfermando la propria scelta ed aggiungendo nella delibera tutti gli elementi tecnici ed amministrativi richiesti dal prefetto. «Quando il 13 marzo si riunisce il Consiglio comunale, il Kursaal era ancora in piedi, oppure era già stato demolito?», si chiedeva l'arch. Mussoni. Nel verbale del 13 marzo, si legge che il sindaco parla di operai che «si sono messi di fatto nelle opere di demolizione dell'edificio, nonostante il divieto dell'Amministrazione». Di qui, nasce la richiesta dell'approvazione del progetto, per «poter convogliare verso la normalità legale la situazione formatasi ed evitare danno al Comune».
Si accettava l'illegalità. Per sanare la situazione, si decretava quanto già avvenuto nei fatti. Di ciò è consapevole il consigliere indipendente avv. Pietro Ricci che, illustrando l'art. 361 del codice penale, dichiara che «l'Amministrazione comunale è tenuta ad adottare tutti i provvedimenti atti a far cessare un'azione turbativa che, a suo parere, non trova alcuna giustificazione». Inoltre, «il Consiglio si trova oggi di fronte ad un caso di favoreggiamento di reato» di cui sindaco e Giunta dovranno rispondere, «a meno che non provvedano a fare le dovute denunce all'autorità giudiziaria».
La vicenda del Kursaal testimonia che, al di là della fretta per non perdere la corsa del boom turistico, pesano nella situazione riminese del dopoguerra quei fattori negativi illustrati nel saggio di Gobbi Sica. Ferdinando Fabbri, presidente della nostra Provincia, nella sua presentazione al volume racconta ottimisticamente che «i governi locali hanno assecondato, promosso e guidato» l’impetuoso processo di crescita economica di Rimini. Nell’ottica delle pagine di Gobbi Sica, Fabbri ha ragione quando scrive che gli amministratori «hanno assecondato»: ma forse lui, nelle sue parole, non intendeva esprimere questa dolorosa verità che invece appare a noi, alla luce della «cannibalizzazione edilizia» di cui s’è letto.

E la Sagra
malatestiana?

Patrizia Battilani, che è autrice di un volume dedicato a «Vacanze di pochi, vacanze di tutti. L'evoluzione del turismo europeo» (Il Mulino, 2001), esamina nel suo saggio l’«Ascesa, crisi e riorientamento del turismo» riminese, avanzando un’osservazione molto importante sul nostro Dopoguerra: gli alberghi allora «non si preoccupavano del tempo libero dei loro clienti», dato che «le attività ricreative erano considerate di competenza della città nel suo complesso» (Comune ed Azienda di Soggiorno, soprattutto se non esclusivamente). Battilani riproduce un programma di manifestazioni dell’estate 1954 (periodo 20 giugno-8 settembre) nel quale purtroppo non apparve la quinta Sagra musicale al Tempio malatestiano (22, 25 e 27 agosto), per cui in questo volume se n’è tralasciata ogni memoria. La Sagra, nata nel 1950 con la riconsacrazione del Tempio, non può però essere cancellata dal discorso sul turismo di quegli anni, assieme a tanti altri aspetti di quel decennio sul quale si sorvola nonostante sia stato di capitale importanza per lo sviluppo economico di Rimini, negli aspetti positivi di un più diffuso benessere ed in quelli negativi per il caos urbanistico dovuto a «cattivo gusto» ed «ignoranza».

Una strada
mai vista

Gli altri autori del volume sono Carla Catolfi («La popolazione. Mutamenti strutturali e dinamiche sociali»), Francesca Fauri («Dal turismo all’industria»), Fabio Tomasetti («Il Piano regolatore in variante 1975») ed Alessandro Agnoletti («Sindacati e turismo tra anni 60 e anni 90»). Circa il Piano regolatore (variante 1975) andrebbe aggiunto (almeno in nota) a p. 297, perché non si completò mai la prevista sottocirconvallazione dalla via Caduti di Marzabotto sino alle Celle con attraversamento del deviatore Marecchia.
A proposito del diavoletto guastatore che s’anniderebbe nelle tipografie: nel passo riguardante l’Arco d’Augusto (danneggiato dallo scoppio di alcune mine e minacciato da furti da parte di militari alleati), c’è il rinvio alla relativa nota 122 (p. 50) dove però è pure finita un’osservazione inerente al Ponte di Tiberio. L’autore, il prof. Angelo Turchini, citando in nota un brano sull’Arco dal mio «Rimini ieri» (pp. 71-72), aggiunge che la vicenda è ricostruita diversamente da Matteini. Il quale riferisce «diversamente» da me soltanto perché appunto racconta del Ponte di Tiberio e non dell’Arco d’Augusto, come si deduce anche dal sèguito della citazione riportata. Quella parte sul Ponte andava invece inserita nella nota 124. Abbiamo così la prova che il guastatore ha imparato ad usare anche i computer. (Circa le note a piè di pagina, lo storico Anthony Grafton ha scritto che ognuna di esse «certifica che l’opera in questione è la creazione di un professionista», riportando però anche l’osservazione di Georges Dumézil secondo cui la produzione di note sembra «uno smaltimento di rifiuti». Fortunatamente questo articolo non ne ha.)

Antonio Montanari


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Per informazioni scrivere a monari@libero.it.


875/Riministoria-il Rimino/6.12.2003/30.12.2003
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