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il Rimino - Riministoria

Sotto le bombe 60 anni fa
Ricordare anche per capire la Storia di oggi

Sono passati sessant’anni dalle dolorose giornate del novembre-dicembre 1943, quando Rimini fu ripetutamente bombardata. Il ricordo sopravvive in quanti allora ne furono testimoni. Ma anche la memoria degli altri non deve perdere il senso di quelle drammatiche settimane durante le quali Rimini subì una mutilazione non soltanto nelle cose, ma anche nel corpo delle tante persone uccise o ferite. Furono 92 i morti nel giorno d’Ognissanti, quando alle 11,50 cominciarono i dieci mesi che Nevio Matteini definì di «straziante agonia», con miseria, fame, saccheggi, eccidi. Sino al 21 settembre 1944, per 396 volte le bombe colpiranno il nostro territorio: in tutto le persone decedute saranno 607.

Mentre la gente soffre, la retorica del Commissario prefettizio avv. Eugenio Bianchini ispira un rapporto ufficiale per sottolineare il «contegno calmo, e vorrei dire, spartano» della popolazione. Però qualcosa non ha funzionato, osserva: non c’è stata «in buona parte la prestazione volontaria della popolazione atta al lavoro».



La retorica
del potere


Il giorno dopo, due novembre, la strada per Santarcagelo è gremita d’una folla che scappa da Rimini senza una meta precisa. Ricordava il giornalista Flavio Lombardini che apparvero volantini contro la guerra nei borghi Marina, San Giuliano e Sant’Andrea. Nazisti e fascisti si misero alla caccia dei loro autori: «Se qualcuno si muove, i tedeschi distruggono tutto».

Il 26 novembre, altro bombardamento. Il 27 l’avv. Bianchini lascia il posto ad Ugo Ughi, imposto dal capo repubblichino Paolo Tacchi, ricordato dalla gente semplice come «il terrore di Rimini». Lo stesso 27 l’allarme avverte dell’arrivo di una cinquantina di aerei inglesi che passano dieci volte, sganciando ottocento bombe sul centro della città. Sono uccisi undici italiani, due militari germanici ed un cinese. Ughi racconta di un contegno «esemplare» della popolazione. Don Angelo Campana testimoniò l’avvilimento di riminesi che continuarono a sfollare.

I tedeschi s’incattiviscono: «Sentono per noi un disprezzo senza limiti», osserva ancora Lombardini. Tra 28 e 30 dicembre, con sette bombardamenti, Rimini diventa una «città morta». Le vittime al rifugio di San Bernardino sono 56. Ughi continua da bravo burocrate a parlare di «contegno calmo» e spartano della gente. Ormai in città, ce n’è ben poca, come raccontò don Campana. Ughi aggiungeva nel suo rapporto, di sperare nella «resurrezione di Rimini».

Dietro queste poche notizie che riassumono la tragedia morale e civile della guerra, si nascondono altri fatti. La divisione dell’Italia in due, dopo l’otto settembre e la nascita della Repubblica di Salò. Nei giorni scorsi abbiamo ascoltato generose difese d’ufficio dell’avventura mussoliniana per salvare l’Italia da un destino peggiore per mano tedesca. Andatelo a dire a chi ha vissuto quei giorni, pensandola diversamente da Ughi e da Tacchi. A chi ha dovuto subire le prepotenze e la violenza omicida dei militi repubblichini. E dei nazisti.



«Finire in piedi»,
ma fuggì


Tacchi nel 1964 scrisse al «Carlino» riminese spiegando che la nascita del fascismo repubblichino derivò «da un motivo ideale e da un motivo storico: motivo ideale quello dell’uomo che, avendo militato sotto una determinata bandiera nell’ora in cui essa era vittoriosa, non la getta tra i rifiuti quando si profila l’ora della sconfitta e se deve essere vinto vuol finire in piedi». Vent’anni prima, Paolo Tacchi era scappato da Rimini con le sue due amanti e la carovana repubblichina, dopo essersi procurato un certificato da partigiano.

Ricordare come sono andate le cose, sottolineare le differenze fra parole successive e comportamenti precedenti, non significa ovviamente emettere condanne. Però il discorso storico non può prescindere dai fatti: se essi vengono appositamente ignorati per travisare gli eventi e spiegarli come fa comodo, allora siamo al di là del terreno storico, e finiamo in quello strettamente ed angustamente politico, dove spesso tutto è concesso. Ma anche la politica ha bisogno di richiamarsi a qualcosa di superiore alle versioni soggettive ed interessate, a valori ideali non di parte che servono per mantenere il dovuto rispetto della dignità morale nei confronti del passato oltre che del presente. Cosa diversa è il rispetto verso tutti i morti, senza distinzione di colore di bandiera. Rispetto di cui proprio Rimini ha dato testimonianza molti anni fa.



«Nella GIL
c’eravamo tutti»


Sono passati oltre due decenni da quel 23 gennaio 1983 in cui alla Sala Ressi di piazza Cavour fu organizzata una tavola rotonda intitolata «Autobiografia di una generazione», come il volume che ne raccolse la trascrizione a cura di Gianfranco Gori e Stefano Pivato (Maggioli ed., «Collana di storie e storia» della Biblioteca Gambalunghiana e dell’Istituto Storico della Resistenza di Rimini). Ma restano ancora valide queste parole pronunciate da Guido Nozzoli (pp. 26-27): «Dalla GIL (Gioventù Italiana del Littorio) sono usciti tutti i combattenti delle due parti, perché nella GIL c’erano tutti i giovani che avevano frequentato la scuola almeno fino alla quinta elementare. Della nostra ‘banda’, la metà non è più tornata a casa. E io li ricordo con estremo affetto questi amici: i Bedassi, i Vanzella, i De Gregorio, Tiziano Casadei e anche il professore Casalini che era, come tutti gli altri che ho ricordato, un ragazzo onesto, leale, generoso, e molto coraggioso».

Proseguì Nozzoli: «Io non so: se fossero riusciti a sopravvivere ai primi anni della guerra, se fossero arrivati indenni all’8 settembre, o se fossero sopravvissuti sino ai nostri giorni, non so (ripeto) che posizione avrebbero assunto. So che, essendo quello che erano, onesti, leali, coraggiosi, si sarebbero comportati come tali, e sarebbero stati certamente degli uomini onesti, leali e coraggiosi sotto qualsiasi insegna avessero militato».

Il discorso di Nozzoli si fermava storicamente a prima della «repubblichina», cioè alla soglia della guerra civile che coinvolse il nostro Paese. Ma quelle parole contengono una lezione di rispetto che obbliga a considerare prima le persone, e poi le loro scelte politiche: «Sarebbero stati certamente degli uomini onesti, leali e coraggiosi sotto qualsiasi insegna avessero militato».

L’avv. Veniero Accreman (pag. 36) scelse una posizione diversa, dichiarando di non condividere «quasi nulla» del discorso di Nozzoli: «Prendiamo ad esempio quel Casalini. Un giovane (era professore di ginnastica) il quale, non avendo altra possibilità di critica, cresce nel mito. Va in Spagna volontario, viene ferito, rientra in Italia, poi va in Africa settentrionale, ancora volontario, e ci lascia la pelle. Nessuno può dire che sia stato costretto. Favole».

La discussione fu accesa, quella sera, sull’interpretazione dei fatti e sul valore dei ricordi. Dal pubblico che gremiva la sala, Luigi Benzi rammentò che una volta, quando Paolo Tacchi ordinò al suo manipolo di «cantare un inno», i ragazzi attaccarono con una celebre canzonetta, «E Pippo, Pippo non lo sa». Goliardismo, sottolineò Liliano Faenza, che aggiunse: da quegli atteggiamenti di apparente ribellione nacque l’adesione convinta alla guerra.



A Rimini non ci fu
nessuna vendetta


La guerra. Dietro le bombe di sessanta anni fa, stavano le scelte di un governo che con Mussolini, il 10 giugno 1940, aveva gettato l’Italia verso il baratro. Nella tavola rotonda (a cui parteciparono anche Sergio Zavoli, nella duplice veste di testimone e moderatore, Liliano Faenza e Sergio Ceccarelli), si discusse di come considerare fatti che apparivano lontani, «ma sono ancora contemporanei», come disse Augusto Randi che allora presiedeva l’Istituto della Resistenza. Spiegò Nozzoli: «Il guscio di quel tempo era, per tutti, il regime fascista, e noi avevamo sette, otto, nove, dieci anni».

L’ora delle scelte venne dopo le «decisioni irrevocabili» di Mussolini. Quei giovani cresciuti assieme si trovarono su opposte barricate. In molti luoghi d’Italia, i conti non si chiusero con la conclusione della guerra, come si sa da vecchie letture e anche da un recente libro di Giampaolo Pansa («Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile»). A Rimini fortunatamente non si dovettero registrare i drammi che si leggono invece nelle cronache di tante altre zone più o meno vicine. Se da noi non accadde nulla di simile a quelle vendette registrate altrove, dicono quelli che c’erano, lo si deve alla capacità di controllare le forze partigiane dimostrata proprio da Guido Nozzoli. Il quale inoltre, dandosi in ostaggio ai militari inglesi, era riuscito ad evitare che San Marino venisse distrutta da un bombardamento a tappeto, con tutti gli oltre centomila rifugiati italiani.

Antonio Montanari


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874/Riministoria-il Rimino/6.12.2003
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