Alle «Uova doro. Pollicoltura e cucina romagnola» (Edit Faenza, 12 euro) ha dedicato questanno la sua attenzione lo studioso Vittorio Tonelli, nel consueto appuntamento di fine danno con tradizioni, usi e costumi (e ricette gastronomiche) della nostra terra. Sono notizie storiche, memorie individuali e collettive, pagine che dietro il sorriso presente nascondono certi ricordi tristi delle miserie dei tempi andati.
Marino Moretti, felicemente omonimo del grande scrittore di Cesenatico, racconta del suo attuale pollaio multietnico seguìto anche dalla moglie Iliana che nel 1951 cominciò a frequentare a Sarsina la scuola media raggiungendola quotidianamente in corriera. Per il cui biglietto lei pagava il prezzo in natura: due uova per i tre chilometri di distanza. «Giarghin, loste di Montepetra Bassa titolare della locale biglietteria Sita, gradiva un baratto che gli permetteva di avere uova fresche tutti i giorni. E gradiva lovino fresco anche la bidella, che lassisteva nella pausa del mezzogiorno, quando le lezioni si prolungavano al pomeriggio; e pure la bottegaia Santena in cambio di due biscotti».
Tonelli raccoglie i proverbi che attorno ad uova e galline ricostruiscono una buona fetta della civiltà contadina. Se la gallina si metteva a cantare da gallo, «annunciava soltanto disgrazie», tra le quali la prima era la sua, ovvero finire in pentola.
Analogo rito era imposto per rispettare il carnevale, quando la più vecchia del pollaio diventava strumento di un gesto sacrificale che chiudeva il ciclo delle feste iniziate con il Natale. Anche se si entrava in una casa appena costruita, a festeggiare erano i nuovi inquilini ed a rimetterci era la gallina, di cui veniva sparso il sangue sui pavimenti. NellOttocento è attestato luso di spennare la «gallina arrabbiata» nei cortei nuziali, a garanzia della felicità dei novelli sposi.
La mancanza di materia prima faceva risparmiare nella preparazione del mangiare. Una giovane nuora deve tirare la sfoglia per le lasagne per otto persone con un solo uovo, anziché le canoniche quattro. Si lamenta, ma non trova ascolto. Allora, per rabbia e forse anche per fame, si beve luovo da impastare «alla salute dellavarona che teneva sotto chiave la dispensa». E così le «uova dacqua» furono in tutto quattro per quella sfoglia diventata «matta».
Vittorio Tonelli racconta pure le infantili ruberie ai danni di sua madre Colomba, attenta alleconomia famigliare ma troppo non alla furbizia del figlio che andava a prelevare le uova messe sotto la calce per portarle ad un vecchio commerciante «a dir poco senza scrupoli», che gli dava in cambio dei dolciumi. Finite le uova, passò ai formaggi paterni, per ottenere un coltellino a serramanico.