Minarini, 40 anni di pittura Un percorso coerente, con pregevoli risultati
Maurizio Minarini ha festeggiato i 40 anni della sua attività di pittore con una mostra alla sala delle Colonne divisa in due sezioni. Allingresso era presentata la produzione più recente. Nello spazio retrostante si offriva unantologia delle tele che raccontano il suo itinerario anteriore. Il visitatore poteva così meditare una specie di bilancio, un confronto fra gli esiti contemporanei ed i risultati precedenti del suo cammino artistico. Vale per Minarini quanto si legge in un recente volume di Angela Vettese su Lucio Fontana: «Non cè un apice ma un percorso che dura anni. Proprio come succede nello sport, si arriva al dunque dopo ripetizioni fatte di allenamento e rigore. E il record non sta in un quadro solo ma nellintero sviluppo dellidea».
Figura popolare anche per i dipinti che ha offerto allaperto, nelle strade suggestive del Borgo San Giuliano, Minarini ha una storia sulla quale si sono diffusi molti illustri specialisti, per cui ogni parola che si dice corre il rischio di essere superflua. Ma lantica amicizia che mi lega a lui da mezzo secolo, avendo abitato entrambi nella nostra infanzia e giovinezza a poca distanza, mi giustificherà ai suoi occhi per le poche righe di testimonianza che voglio rivolgergli con affetto da queste colonne. In tutta la sua carriera Minarini ha svolto con serietà una ricerca che si comprende e spiega mettendo assieme i singoli fotogrammi delle immagini esposte. I paesaggi sono dominati da una «luce» che acceca. In altre stagioni, questa «luce» si faceva strada attraverso le geometrie dei paesaggi. Cè una tela del 1964, quindi degli inizi, intitolata «Alberi» che suggerisce la prospettiva di case che accennano a svanire in uno sfondo quasi indecifrabile.
Oggi Minarini, con una felicità dintuizione che lascia aperta la strada a tante domande, azzarda il gioco assoluto della cancellazione delle cose con un getto di questa «luce» che racconta temi diversi da quelli del semplice effetto realistico. Lo fa ad esempio con la «piazza senza tempo», quella dei Tre Martiri, che lui osserva venendo dallArco e slanciandosi verso il corso che porta a piazza Cavour. Locchio percepisce una sensazione che si traduce nella tela come laffacciarsi dei due palazzi di destra sullo sfondo, a formare un angolo studiato come quinta teatrale su cui far apparire poi un personaggio che non riesci a vedere, così come non percepisci il resto della geometria che circonda fisicamente tutta la scena.
Al posto delle altre case, dei palazzi che si presentano in realtà alla sinistra di chi guarda, cè un modulo espressivo che ritroviamo in queste opere della produzione più recente. Ed è appunto quello che sopra ho chiamato «il getto di luce», una specie di faro puntato verso chi guarda. Una «luce» che non illumina gli oggetti, ma li nasconde sottraendoli allo sguardo. Che rimuove le prospettive consuete. Le ombre dicono vaghe armonie. Le tonalità più chiare costruiscono lentamente il loro racconto.
Andare nel sole che abbaglia, confidava Montale. Non so se Minarini consideri questa «luce» come mè apparsa anche in altri suoi paesaggi: cioè, uninquietante sollecitazione a chiedersi che cosa possa celarsi dietro ogni chiarore, portando chi guarda verso il desiderio di sapere, a stare pronto a cogliere leventuale svelarsi del segreto, in un attimo di felice intesa con quelle immagini così diverse dalla realtà quotidiana.
Sono immagini in cui ogni presenza umana è nascosta dietro le rappresentazioni delle cose: un pagliaio, oppure pochi alberi sparsi sopra colline che si rincorrono verso la profondità, dove locchio sembra perdersi per poi ricominciare da capo, in un girotondo che non può avere la gioia infantile, ma che tormenta. Questo vago infinito (vago nel suo duplice significato, a testimoniare la solenne ambiguità del reale e del nostro parlare), si lascia interrogare dando risposte che fanno alzare gli occhi verso «lindefinibile» (termine questo che non vuol dire, però, «lincomprensibile»).