Con questo lavoro ci proponiamo di
proseguire l’indagine sul pensiero ateistico
a cui avevamo
dato inizio con Ateismo filosofico nel mondo antico [1].
Non sarà peraltro possibile darvi corso
con continuità temporale, poiché la filosofia
atea registra, con l’avvento
vittorioso del Cristianesimo, un occultamento
totale che durerà almeno quindici
secoli. L’ateismo filosofico ricomparirà,
pallidamente e con modalità
criptiche, nel XVII secolo, dispiegandosi
in piena luce solamente nel XVIII
nella rinnovata temperie dei Lumi, pur rimanendo
una visione del mondo
del tutto minoritaria, in un contesto filosofico
dominato dalla teologia (monoteista,
deista e panteista. Abbiamo così dovuto operare
un salto temporale di circa
diciotto secoli per mettere in luce una sorta
di abbraccio
ideale dell’ateismo settecentesco con quello
antico. Un
abbraccio che, a ben vedere, non è stato
altro che una ripresa di premesse già
poste e sviluppate dall’atomismo antico,
riportate in luce dal pensiero
libertino e nutrite poi di razionalismo meccanicistico
e deterministico.
E nel clima della cultura filosofica dell’Età
dei Lumi
appare tutta la contraddittorietà dei due
opposti indirizzi ontologici
dell’atomismo: deterministico quello che
si rifà a Democrito, indeterministico
quello che fa riferimento ad Epicuro [2].
Lasciata in sospeso l’analisi dei periodi
in cui la filosofia atea è stata
assente [3],
e di quelli in cui è apparso qualche timido
aspetto prodromico [4]
(e dei quali ci occuperemo a suo tempo),
intendiamo qui evidenziare come il Settecento
non sia solamente il secolo della rinascita di un
pensiero ateo, ma anche quello di un rinnovamento
della cultura in generale, e
persino di quella cristiana. La stessa virulenza
con la quale un integralismo
cattolico revanscista, reso efficacemente
dalla prosa di Chateaubriand, andrà
all’attacco della cultura illuministica (e
in specie del materialismo) è segno evidente
di come una “restaurazione culturale” inizi
già sotto Bonaparte, ed abbia
accompagnato le operazioni tendenti ad annullare
con un colpo di spugna i
tratti più significativi dell’Illuminismo. E, se
antedatiamo a Napoleone l’inizio della “reazione”
lo facciamo
a ragion veduta, sia perché proprio Il genio del Cristianesimo del
nobile bretone aveva trovato nel Primo Console
un convinto sostenitore e sia
perché, appena incoronato, Napoleone si era
preoccupato di stipulare un
concordato con la Chiesa, per mostrare al
mondo che il nuovo corso imperiale
non aveva nulla a che fare con l’”anarchismo”
culturale della Repubblica ed i
suoi eccessi materialistici e anti-cristiani.
Dal momento che gli unici filosofi atei del
Settecento sono francesi, sarà opportuno
porci da subito una domanda: «Perché la Francia?». Perché in Francia, uno dei paesi più
religiosi
d’Europa, ha potuto risorgere un ateismo che pareva
sepolto nel lontano passato pagano della
Grecia? Avanzeremo
alcune ipotesi che cercheremo di verificare nel corso della
nostra
indagine, consapevoli che nei fatti umani
cause concause siano spesso
molteplici e poco chiare. Dal punto di vista
strettamente filosofico due elementi
appaiono importanti: il sensismo e il meccanicismo;
di questo possiamo
distinguere un indizio cartesiano (su basi
metafisiche) ed uno newtoniano (su
basi scientifiche). Dal punto di vista etico
è importante l’onda lunga di un
moralismo cinquecentesco e secentesco relativamente
indipendente dalle trame
convenzionali e tradizionali della precettistica
cristiana, volto ad una
ricerca tra i meandri inesplorati dell’animo
umano che si rifaceva alla miglior
cultura classica senza dimenticare Sant’Agostino.
Sotto il
profilo della cultura generale, i progressi
scientifici e tecnologici spostano gli
interessi culturali ed esistenziali dalla
sfera del sacro a quella del profano,
con un orizzonte conoscitivo del “fisico”
che prende sempre più piede rispetto
al “metafisico”. L’ateismo è al margine estremo di una rivolta
ideale
contro l’arroganza di un potere religioso
che, parallelamente a quello
aristocratico e di concerto con esso, vede una
graduale erosione dei propri privilegi individuandone
la causa in una montante
incredulità e irreligiosità [5]
di origine intellettuale e demonica che fa
paura. In realtà è proprio questa paura
che scatena la nuova psicotica aggressività
di un potere che vuole continuare a
dominare e controllare le anime così come
il potere regale controlla i corpi.
La croce e la spada, come sempre alleati
nella storia, pagano nel Settecento
francese lo scotto di una miopia e di un’arroganza
ormai incompatibili con
l’avanzata della cultura dei Lumi.
Per quanto le nette periodizzazioni siano
sempre discutibili e spesso forzate, proponiamo
di assumere l’inizio dell’Illuminismo
con la diffusione sul continente del Saggio sull’intelletto umano di
Locke (1690), e la sua fine con la comparsa
de Il
genio del cristianesimo di Chateaubriand (18??). E se da
Locke, un cristiano devoto, ha inizio la
“nuova cultura” che renderà possibile
la rinascita dell’ateismo, è evidente come
non possiamo limitare la nostra
analisi all’ateismo stesso, poiché dobbiamo
vederlo nel più ampio panorama
dell’Illuminismo nel suo insieme. Da ciò l’esigenza di anteporre un’adeguata
trattazione del contesto generale da cui emerge. Nel
presente lavoro prenderemo quindi in esame
il pensiero dei più importanti
pensatori non-atei dell’Illuminismo prima
di occuparci di
quello sparuto gruppo di coloro che si esprimeranno
in termini ateistici e
materialistici. Questi licenziano le loro
opere perlopiù in un periodo che
precede di molto l’avvento della Rivoluzione
(Meslier muore nel 1729 e solo d’Holbach sopravvive sino al 1789); una rivoluzione
della
quale furono solo in parte profeti, mentre
molte derive irrazionalistiche irromperanno
presto a negarne le premesse, seguendo piuttosto
le fantasie utopiche ed
ideologiche di un Rousseau. Questi e Voltaire,
entrambi deisti-teisti ed
anti-atei, saranno i veri numi della Rivoluzione,
insieme con la triade eroica
Marat-Lepetelier-Chalier;
senza dimenticare che deista era anche
Robespierre, che di essa ne sarà il più importante
protagonista negativo.
Prima di passare all’esame del pensiero
ateo del Settecento, ai fini di una sua adeguata
contestualizzazione,
dedicheremo quindi ampio spazio ad un studio
sull’ambiente, sulla situazione e sugli eventi
che gli fanno da fondale, Per
realizzare ciò faremo riferimento alle opere
di alcuni tra i più qualificati
storici del Settecento francese e della Rivoluzione,
poiché è entro la cornice
transalpina che si concentrano i fatti più
notevoli ai fini del nostro studio;
sia in termini storico-sociologici, sia culturali,
sia teologici. Per meglio cogliere
le variabili del problema posto si renderà
anche necessario fare qualche passo
indietro al Seicento per cogliere quelle
novità politiche, quei segnali sociali
e quei prodromi culturali i quali, soprattutto
in ambito britannico,
diventeranno i motori del pensiero illuministico. Uno studio sull’età dei
Lumi pone problemi di periodizzazione notevoli
ed i fenomeni culturali e
sociali presenti in un’area definita come
quella francese si presentano molto
complessi e problematici. Si aggiunga che la pur
comprensibile enfatizzazione del contesto francese, in
relazione all’enorme portata storica della
Rivoluzione, finisce per mettere in
ombra il contesto britannico, ancor più determinante
per la cultura
illuministica. Quello che già nel secolo
precedente aveva visto grandi novità
culturali con Bacone e Locke, ed una rivoluzione
sociale assai importante, iniziata
nel 1649, cui era seguita la proclamazione
della repubblica e la decapitazione
del re Carlo I Stuart.
La rivoluzione
inglese (la Gloriosa Rivoluzione), un secolo e mezzo prima di quella
francese, aveva costituto il primo tentativo
(riuscito) di delegittimare “l’elezione
divina” di un monarca in un paese cristiano,
e l’andata al potere di una classe
politica “non-aristocratica” [6]. Essa
aveva avuto un’importante componente religiosa (mentre
quella francese avrà carattere laico e per
molti versi antireligioso), finì in
una dittatura, quella di Cromwell, caduta
la quale sarà ripristinato un potere
regio, ma costituzionale e quasi-democratico. Terminate le varie vicende dinastiche e le
lotte tra cattolicesimo
ed anglicanesimo, comparirà il primo regime
monarchico relativamente
democratico, e con l’andata al potere di
Guglielmo III d’Orange, nel 1689, che
accetterà di firmare il Bill of Right verrà sancita
definitivamente una costituzione democratica.
Non è un caso, quindi, se è in
terra britannica che matureranno nella prima
metà del ‘700
grandi progressi scientifiche e tecnologiche
ai quali si accompagnano innovativi
principi civili e culturali che entreranno
prima nei Paesi Bassi, quindi in
Francia, e poi nel resto d’Europa. L’apporto
alla filosofia moderna dei
pensieri di Bacone, di Locke e di Newton
è stato fondamentale per il
superamento della teologia filosofale imperante
nel ‘600,
espressa eminentemente con le metafisiche
di Cartesio, di Spinoza e di Leibniz.
Per quanto riguarda i vari sommovimenti
evolutivi interessanti l’Europa tra il XVII
e il XIX
secolo prevalgono gli storici che collocano
la fase più importante tra il 1688,
data di nascita della monarchia costituzionale,
e il 1789, data della presa
della Bastiglia. Altri, come Eric J. Hobsbawm,
tendono a spostare il processo
in avanti nel tempo, evidenziando piuttosto
il passaggio da un’Europa agricola
ad una industriale, avvenuto sull’asse anglo-francese
a partire dal 1789, come data d’inizio dell’affermarsi
della borghesia, e il
1848, come inizio della contestazione ad
essa e nascita del socialismo. Quest’autore
rileva anche che alcuni termini fondamentali
del linguaggio moderno in campo
sociologico, come “industria”, “fabbrica”, “classe
media”, “classe lavoratrice”, “capitalismo”,
“socialismo”, liberale”,
“ingegneria”, “utilitario”, ”statistico”,
“crisi economica”, “ideologia”, ecc.
nascano proprio tra il 1789 e il 1848. Hobsbawm
minimizza così il peso
dell’Illuminismo, in quanto movimento borghese,
rispetto alla nascita della teoria del Materialismo
Storico come suo superamento.
Possiamo essere d’accordo su alcuni punti,
ma ci pare storicamente scorretto
mettere in ombra la forza innovativa dell’Illuminsmo
per mere ragioni
ideologiche. Analoga posizione ideologica
(dal lato cristiano) quella di Pierre
Chaunu, il quale, all’opposto, sposta all’indietro
la nascita della modernità, sostenendo
essere l’epoca barocca (e specialmente il
periodo 1620-1650) portatrice di innovazioni ben più importanti di quella
illuminista, sì
da affermare: «Il miracolo europeo della
rivoluzione meccanicista, databile con
precisione al secondo quarto del XVII secolo, si
impone ormai quale denominatore comune di
ogni periodizzazione. È questo il
tempo forte sul quale la civiltà dell’Europa
classica organizza i suoi pensieri.
È questa la base cronologica sulla quale
l’Europa dei lumi, in seconda battuta,
e la stessa civiltà scientifica del XX secolo, un po’
più indirettamente, ma altrettanto sicuramente,
si appoggiano e si sviluppano.»
[7] Posizione critica non molto differente
da quella già assunta da Paul Hazard nel
suo La crisi della coscienza
europea, apparso nel 1935, un saggio interessante
e molto apprezzato
soprattutto dal mondo cattolico, dove si
sostiene tra l’altro che nell’ultimo
trentennio del XVI secolo erano già presenti in
nuce tutti i temi principali dell’Illuminismo.
Noi continuiamo invece a pensare che il
Settecento, in ogni campo, con grandi viaggi
di esplorazione,
l’affermazione della classe mercantile, la
nascita di un “libero pensiero”, grandi
progressi scientifici e tecnologici, importanti
scioperi di una classe operaia
che comincia ad organizzarsi, sia il secolo
più importante per la nascita dell’Europa
e che il negarlo abbia le gambe corte. Ma tra le molte
domande che si pongono emerge la seguente:
l’Illuminismo è un “movimento”
culturale omogeneo o null’altro che una “situazione”?
E
ancora: è un’età dove domina il razionalismo
o dove esso si mescola
ambiguamente all’irrazionalismo? È di questo
parere Norman Hampson, che scrive:
«In altri termini, la ‘reazione’
contro l’Illuminismo [Rousseau, Burke, Sterne] precedette la maggior parte delle principali
opere dell’Illuminismo
stesso.» [8] D’altra
parte, nella storiografia contemporanea l’Illuminismo
è visto in maniera assai differenziata, e se talvolta se ne evidenzia l’aspetto
radicale, e persino ateistico, non mancano
coloro che ne danno, all’opposto,
una lettura teologizzante. Ciò che fa il
già citato Chaunu, che vede nel devoto
Leibniz il grande protagonista del rinnovamento,
scrivendo: «I lumi, parimenti, fanno
giustizia di coloro che rappresentano solo una
caricatura delle idee del XVIII secolo. Così
il materialismo volgare è solo
un’escrescenza senza importanza.» [9] (l’”escrescenza”
è ovviamente costituita da La Mettrie, Helvétius e d’Holbach).
La Rivoluzione continua a costituire un topos
storiografico importante quanto problematico sia
per la storia delle idee, sia per la psicologia
delle folle, sia per la
metodologia e la prassi politica: si è trattato
di uno straordinario e
irripetibile “laboratorio” sociologico. Le
vette più nobili e le derive più
ignobili sono presenti nei comportamenti
dei protagonisti di essa:
alcuni per scelta, altri per elezione, altri
casualmente coinvolti nei fatti di
quella straordinaria temperie. Se Marat poteva dichiarare
«Ho affrontato la Rivoluzione con le idee
già pronte» [10], per
moltissimi altri protagonisti essa è accaduta
in modo inopinato e sconvolgente.
La storia dell’umanità è periodicamente caratterizzata
da eventi epocali che pongono innumerevoli interrogativi dalle
difficili risposte. Da ciò posizioni difficilmente
conciliabili, come lo furono, a distanza
di solo mezzo secolo, quelle di un
Tocqueville, di un Taine, di un Michelet,
di un Marx. Ciò pone in evidenza come
un fatto oggettivo possa essere visto come
un evento pre-determinato o invece
contingente, come un fenomeno determinato
dai vertici o dalla base del corpo
sociale, come l’esito di una nuova cultura
o invece di vecchie pulsioni ancestrali, come il frutto di una rivolta popolare
spontanea
o quello di un pugno di intellettuali mossi
dall’ambizione di potere.
Per
quanto ci riguarda non esiteremo a mettere in evidenza
le efferatezze compiute contro i religiosi,
per quanto poche di queste siano da
imputarsi all’ateismo e molte di più ad un
anti-clericalismo [11]
popolare frutto di esasperazione.
Abbiamo già in passato rilevato come molti
movimenti anti-religiosi siano null’altro che contro-religioni, o meglio
ideologie [12], le
quali, per quanto laiche, esattamente come
le religioni, si danno principi
morali e una precettistica basata sul binomio
antinomico bene/male,
insieme con ministri e maestri “di fede”.
Quanto di “millenarismo religioso”
emerge nel coacervo di speranze e illusioni
verso una “nuova era felice”! E quanto di
“sacralità arcaica” riemerge in momenti drammatici
di fanatismo collettivo! La
Rivoluzione Francese non fa eccezione: quando,
nel 1790, dopo aver sbudellato
il maggiore De Beausset, i bravi rivoluzionari
di Marsiglia si misero a ballare
la farandola intorno ai suoi resti, compivano orgiastico
e arcaico rito
sacrificale, riaffacciatosi da un lontano
passato e riattualizzato
spontaneamente e coralmente dall’occasione.
Ma un’analisi antropologica del
periodo rivoluzionario è fuori tema, così
come lo sarebbe un’eccessiva
attenzione alle vicende storiche che fanno da sfondo
alla temperie culturale di cui intendiamo
occuparci. Da questi primi ceni
pensiamo comunque di potere già trarre una prima conclusione
che coincide con quanto già scriveva Pietro
Rossi nell’incipit
dell’introduzione a Gli illuministi francesi (1971) [13]:
«Sull’interpretazione del pensiero illuministico
francese ha pesato, in modo
particolarmente negativo, l’applicazione
di una serie di schemi storiografici di origine idealistica.». D’altra parte l’Idealismo,
è da
sempre una delle più forti ideologie, e particolarmente
in Italia ha agito con
tale pervasività a partire dalla metà del
XIX secolo da condizionare tutta la nostra
cultura. Per questo l’Illuminismo in Italia
non è mai veramente entrato, “bloccato
al confine” dalla doppia barriera del cattolicesimo
e dell’idealismo dei Croce e dei Gentile. D’altra parte il tedesco
Cassirer,
idealista anche lui, secondo il quale l’Illuminismo
“vero” era quello di Kant, pensava che gli ateismi materialistici avessero
tradito lo spirito
dei Lumi: «Il loro meccanicismo è puramente intuitivo, volge
le spalle alla matematica. Con La Mettrie
non vi è più scienza, non vi è più
morale, non vi è più impegno e, al limite, non vi è
più linguaggio. Ma soprattutto, il materialismo
volgare è un ritorno
all’ontologia, mentre la grande conquista del XVIII
secolo risiede nella progressiva trasformazione
fenomenologica del sapere.
Julien Offray (de La Mettrie) immagina l’uomo
secondo il modello della cagna di
Malebranche. Il materialismo volgare scalzava
inoltre, per mezzo di un
prematuro passaggio al confine, le due basi
del pensiero dei lumi, la morale e
la conoscenza.» [14]
Dichiarazioni molto pesanti, ma compatibili
con le convinzioni di un idealista cristiano
che ritiene essere la metafisica la base
di ogni
conoscenza e la teologia la base di ogni
morale.
L’età dei Lumi rivela due elementi di
sviluppo: l’elemento gnoseologico e quello
etico; da questo deriva quello politico. Rimane tuttavia la domanda: «Ma, in definitiva, che cos’è l’Illuminismo?».
Per i più è un
“fatto”, per molti una “situazione”, per
altri un “processo”. Tra questi ultimi spiccano due personaggi
di
diverso peso, Mendelssohn e Kant, ma le cui
opinioni coincidono in termini
diagnostici se non prognostici. Moses Mendelssohn
(1729-1786), erede
dell’empirismo di Locke e del panteismo di
Spinoza, riteneva che lo sviluppo
illimitato del razionalismo potesse danneggiare,
col suo potere verticistico ed elitario, il futuro delle classi povere
e incolte.
Non solo; compromettendo un ordine sociale
faticosamente raggiunto nella metà
del ‘700 per dare spazio alle avventure dell’egoismo
intellettuale di pochi [15].
Kant, da parte sua, rispose alla domanda
nel 1784 con un articolo sulla Berlinische
Monatssrchift che ne evidenzia la processualità.
Vediamone il famoso incipit:
L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo
stato
di minorità che egli deve imputare a se stesso.
Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto
senza la guida
di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa
di essa non dipende da difetto di intelligenza,
ma dalla
mancanza di decisione e del coraggio di far
uso del proprio intelletto senza
esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti
della tua propria intelligenza! È questo il
motto dell’illuminismo. [16]
Lo
scritto kantiano è del 1784 e sin dall’inizio
si caratterizza come un forte
richiamo intellettuale, anche se sarebbe potuto
apparire retorico e astratto per plebei francesi
vessati e affamati ed
intellettuali censurati o carcerati. Intanto
perché il Regno di Prussia era
retto sì da un despota, ma illuminato, progressista,
colto e piuttosto
anti-clericale (Federico II era deista) che
aveva organizzato una macchina
amministrativa perfetta, mentre la Francia era retta
da un buonuomo di media cultura, bigotto,
in balia di ministri reazionari, con
uno stato pieno di debiti e con strutture
e istituzioni allo sfascio. Kant
prosegue con un pizzico di ironia:
A persuadere la grande
maggioranza degli uomini (e con essi tutto
il bel sesso) che il passaggio allo
stato di maggiorità è difficile e anche pericoloso,
provvedono già quei tutori
che si sono assunti con tanta benevolenza
l’alta sorveglianza sopra i loro
simili minorenni. Dopo di averli in un primo tempo istupiditi
come fossero animali domestici e di avere
con ogni cura impedito che queste
pacifiche creature osassero muovere un passo
fuori dalle loro carrozzelle da
bambini in cui li hanno imprigionati, in
un secondo tempo mostrano ad essi il
pericolo che li minaccia qualora cercassero
di camminare da soli. [17]
Nel
contesto luterano le cose evidentemente non vanno
molto meglio che in quello cattolico, e Kant
non si fa scrupoli di alludere ad
un pietismo bigotto e troppo invadente da
cui si è allontanato. Ma se egli accusa i pietisti fanatici di predicare:
«Non
ragionate, ma credete!» imputa anche al “solo
signore” (Federico II) di
comandare: «Ragionate fin che volete e su
quel che volete, ma obbedite!». Il
problema fondamentale per uscire dalla minorità è quindi quello di affrancarsi
da una cieca “credenza” e da una cieca “obbedienza”;
in altre parole, si tratta
di conseguire una vera libertà del pensare.
Ma, si
badi, non una libertà generica, ma quella
«di fare pubblico uso della
propria ragione» [18]. Se non che Kant
adotta un criterio del tutto personale nel
distinguere un uso “pubblico” e uno
“privato” della ragione. Per lui l’uso privato
della ragione non è quello
dell’intellettuale che opera nel chiuso del
suo studio né pubblico quello
dell’uomo politico o dell’amministratore
pubblico: è il contrario. È
l’universalità della destinazione che qualifica
l’uso e non la singolarità
dell’agente; sia che si sia indotti alla
credenza e sia che ci si debba
sottoporre all’obbedienza, in ogni caso:
«Qui è dovunque limitazione della
libertà». Poi egli aggiunge due brevi domande
e un’unica lunga risposta:
Ma quale limitazione è d’impedimento
all’illuminismo? Quale non lo è, anzi lo
favorisce? Io rispondo: il pubblico
uso della propria ragione deve essere libero
in ogni
tempo, ed esso solo può attuare l’illuminismo
tra gli uomini; mentre
l’uso privato della ragione può anche più spesso essere
strettamente
limitato, senza che ne venga particolarmente
ostacolato l’illuminismo. Intendo
per uso pubblico della propria ragione l’uso
che uno ne fa come studioso
davanti all’intero pubblico di lettori. Chiamo
invece uso privato della ragione
quello che alcuno può farne in un certo impiego
o funzione civile a lui
affidata. [19]
Kant
si diffonde in un’ulteriore esplicazione che
cercheremo di sintetizzare. L’uso privato
è sì nell’interesse della comunità,
ma siccome deve attenersi ad una certa «meccanicità»
passiva, al fine di
armonizzare il proprio lavoro con quello
di altri per il miglior funzionamento
del sistema statuale, e in base a regole fisse; per
cui, i questo caso, «non è permesso di ragionare
ma si deve obbedire».
Differente è il caso in cui l’operatore,
pur facendo parte della «macchina
governativa» si ponga contemporaneamente
come «membro di tutta la comunità e
della stessa società generale degli uomini»
e attraverso i suoi scritti si rivolga ad un pubblico generalissimo che è poi l’umanità
intera. Così sarebbe pernicioso che un ufficiale
o un funzionario si mettessero a ragionare su un ordine ricevuto, ma le
stesse
persone, in quanto “studiosi” di guerra o
di amministrazione devono potere
liberamente esprimere i loro pareri e sottoporli
al giudizio generale. [20] Ne
nascono però anche situazioni un poco paradossali dal
punto di vista pratico, poiché Kant aggiunge:
Così un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla
sua comunità
religiosa secondo la confessione della Chiesa
da cui dipende, perché egli è
stato assunto a questa condizione; ma come
studioso egli ha piena libertà ed ha
anche il compito di comunicare al pubblico
tutti i pensieri che un esame severo
e coscienzioso gli ha suggerito circa i difetti
di tale confessione, e di fare
le sue proposte di riforma della religione
e della Chiesa. [21]
Difficile
dire quanto ci sia di utopico e quanto di astratto in
questa posizione. Il grande Immanuel ritiene
che ci debba essere “libertà di
pensiero” ma non “libertà di azione”, e che i frutti
della prima “debbano” essere resi pubblici,
mentre l’obbedienza ad un compito
istituzionalizzato
imponga la rinuncia alla libertà di mettere
in atto opinioni private. Si
determina così una dicotomia comportamentale
(con qualche rischio di
schizofrenia!) che pone seri problemi di
conciliabilità e di opportunità
sul piano pragmatico, ma che sotto il profili
teorico potrebbe forse reggere.
Marx, com’è noto, pensava che la
Rivoluzione Francese fosse nata “dal basso”
contro un potere “dall’alto”, ma
che essa fosse anche stata il terreno di coltura per
l’ascesa della borghesia e il suo futuro
(e infausto) dominio. Da ciò il suo volersi accuratamente distinguere
da quelli che
chiamava “gli illuministi tedeschi dell’anno 1842”, gli hegeliani
liberali e “deviati” come Bruno Bauer, contrari
al comunismo e al suo
comunitarismo universalistico e solidaristico. Vediamo il pensieo di Marx
espresso nella sezione Battaglia critica
contro la Rivoluzione Francese in La sacra famiglia (1844-45):
Robespierre,
Saint-Just e il loro partito sono caduti perché hanno
scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che
poggiava sul fondamento della schiavitù reale, con lo Stato moderno
rappresentativo, spiritualisticamente democratico, che poggia sulla schiavitù
emancipata, sulla società civile. Che colossale
illusone essere costretti a riconoscere e
sanzionare nei diritti dell’uomo la
società civile moderna, la società dell’industria, della concorrenza
generale, degli interessi privati perseguenti
liberamente i loro fini,
dell’anarchia, dell’individualità naturale
e spirituale alienata a se stessa, e
volere poi nello stesso tempo annullare nei
singoli individui le manifestazioni
vitali di questa società, e volere modellare la
testa politica di
questa società nel modo antico. [22]
Per quanto il modo di
pensare marxiano abbia le sue motivazione, all’interno
di un impianto teorico socio-economico fondamentalmente
virtuoso, fa sempre un
po’ di effetto sentir definire l’antica società
romana come “realisticamente
democratica”, laddove è noto che nella Roma
repubblicana l’economia fosse in
gran parte fondata su quella che lui chiama
la “schiavitù reale”, cioè
“istituzionale”, preferendola a quella”emancipata”
della società civile
borghese e capitalistica. Tenendo anche conto
che la “libera” plebe di
cittadinanza romana contava politicamente
assai poco ed era governata da un’oligarchia
costituita da equites di antica schiatta e da
nuovi ricchi della nuova “nobiltà di censo”,
in tutto simile alla borghesia
settecentesca. C’è veramente da chiedersi
in quale misura, secondo Marx,
diventare ricchi sfruttando gli schiavi “reali”
(vendibili ed acquistabili) potesse essere preferibile dello sfruttamento di
lavoratori
forse schiavi del bisogno, ma pur sempre
liberi di vendersi al migliore
offerente o di emigrare. Erano stati utopisti
fanatici come Robespierre e
Saint-Just ad essere convinti della possibilità
di eliminare “con la forza” lo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo senza preoccuparsi
della “”fattibilità” di ciò.
In fondo, la cultura illuministica non contemplava
prioritariamente l’idea di
“uguaglianza” in quel senso radicale ed utopico
di cui la propaganda rivoluzionaria
invocava la realizzazione, ma piuttosto quello di
un’”equità possibile”. Non a caso una parte
importante delle teorizzazioni di
Helvétius, come vedremo, invocavano l’istruzione come
fattore base di emancipazione universale,
un concetto (sia detto di passaggio)
che uno dei padri nobili della Rivoluzione,
Rousseau, non condivideva affatto,
ritenendo che la “naturalità” del plebeo
fosse più apprezzabile della sua
“istruzione”.
Marx pensa che l’unico criterio notevole
(e
negativo) introdotto dalla cultura illuministica
sia stato, in sostanza, quello
dell’”utilizzazione-consumazione [23]. Sta
scritto ne L’ideologia tedesca: «Il rapporto
dell’”utilizzazione”, che nell’associazione
deve essere l’unica relazione
tra gli individui, torna ad essere subito
parafrasato e trasformato nella
reciproca “consumazione”.» [24] È lo
«sfruttamento reciproco sviluppato sino alla sazietà dal Bentham
» [25] E infatti:
La vera scienza di
questa teoria dell’utilità è l’economia;
essa riceve il suo vero contenuto coi fisiocrati, in quanto essi hanno trattato
sistematicamente l’economia. Già in Helvétius
e in Holbach si trova un’idealizzazione
di questa dottrina che corrisponde in tutto
e per tutto alla posizione di opposizione della borghesia francese prima
della
rivoluzione. In Holbach ogni attività degli
individui dovuta al loro reciproco
commercio, per esempio il parlare, l’amare,
ecc. è presentata come un rapporto di utilità e di utilizzazione. [26]
Dal momento che la crisi
dell’Ancièn Régime era nata soprattutto dalla bancarotta dello
stato sembrerebbe logico che i concetti economicisti
e utilitaristi che aveva reso solido,
all’opposto, il Regno Unito, incominciassero
a ricevere anche nella sgangherata
Francia qualche attenzione, ma Marx resta
convinto che l’economia borghese abbia
combinato solo disastri.
Un altro, e recente, taglio critico nei
confronti dell’Illuminismo lo si può trovare
in An Age of Crisis, Man and World in Eighteenth
Century French
Thought dell’americano Lester G. Crocker, apparso nel
1970, che pone la tesi delle gravi responsabilità
storiche del pensiero dei
Lumi nel dare inizio alla crisi morale che
affliggerebbe il mondo contemporaneo
con un nichilismo morale dimentico di Dio. Naturalmente in questa analisi “teologica” di Crocker non poteva
mancare il
riferimento a Sade, visto da lui come uno
dei più significativi rappresentanti
dell’Illuminismo. Con tale atteggiamento
l’Illuminismo è portatore di «paurose
possibilità nichilistiche e totalitarie che
verranno
disgraziatamente poste in essere dalla Rivoluzione
stessa e riprese più tardi
dalla storia dell’Occidente in un modo che
allora nessuno avrebbe potuto
lontanamente immaginare.» [27].
Abbiamo qui la saldatura ideologica tra i proto-marxisti,
i filo-marxisti e i post-marxisti non solo
coi cattolici filo monarchici
dell’epoca e coi romantici idealisti, ma
anche coi panenteisti odierni come
Severino, tutti facenti parte di un fronte
ideologico arcaicizzante,
antimodernista, anti-scientifico e antitecnologico.
Tutti
associati nello stigmatizzare i disastri
morali di tutto ciò che
dall’Illuminismo deriva: la libertà di pensiero
e la messa in mora delle
ipoteche teologico-metafisiche, l’assunzione
della scienza come motore
dell’evoluzione umana e il perseguimento
della felicità individuale.
Valori esattamente opposti a quelli che auspicava
anche l’ultra-conservatore
Taine, che vedeva nell’Illuminismo il portatore
di ogni
corruzione e di ogni violenza. Ma anche per
il post-hegeliano Marx, che vi
vedeva il malefico blocco culturale che comprometteva
(o ritardava) il virtuoso
avvenire del proletariato, diventato soggetto
primario della dialettica storica,
per conseguimento di una virtuosa “totalità”
statuale
contro l’egoismo dell’”individualità”.
Per
ornare alla domanda «Che cos’è l’illuminismo?»
si potrebbe anche rispondere
che, al di là delle differenti situazioni contestuali,
esso sia stato una “tendenza” a risolvere
i problemi, specialmente quelli etici
e sociali, affidandosi alla ragione e non
più alla fede. Un’ansia di
rinnovamento, quella illuministica, abbastanza
generalizzata, ma per nulla pacifica e condivisa,
foriera semmai di gravi
tensioni, come si vedrà, nell’animo degli
stessi protagonisti. Se la religione
è immutabile (e questa è la sua vera forza)
e se invece ci si avvia sulla
strada del nuovo e del mutevole, non ci si
può che trovare coinvolti nel
percorso di un’evoluzione umana che procede
in accordo con “la revisione e l’accumulo” del sapere scientifico, ma
che può
generare gravi turbamenti nelle coscienze.
Ma la tesi
di un conflitto religione/scienza è falsa.
Vi furono laici cattolici e
protestanti come abati di grande apertura mentale e
peso intellettuale, che sono sfuggiti a tale
opposizione, accogliendo istanze
progressiste e riuscendo a conciliarle ottimamente
con la propria fede (si pensi
agli abati Condillac e Galiani).
La
cultura illuministica e la Rivoluzione rappresentano
un binomio che appare
storicamente coeso, ma le cui connessioni
in termini di causa/effetto non sono
affatto scontate, come appare spesso nella
manualistica più vieta. Coglieremo
allora qui l’occasione per sottolineare come
l’utilizzo massiccio della manualistica sia
in generale dannosa, ma ancor più
quando si deve occupare di un complesso come
la storia del Settecento, ed ancor
più della sua filosofia. Un approccio serio ai problemi
interpretativi che l’Illuminismo consiglia
uno studio diretto dei testi,
proprio perché essi recano spesso un nuovo
modo di produrre analisi e della
storia e della contemporaneità. Il Settecento vede accentuarsi
notevolmente la critica del “principio di autorità” e
della conoscenza “fissa”, tipici della fede
cristiana ortodossa. E tuttavia, proprio
perché nel Seicento erano già apparse interpretazioni
“alternative” del credo cristiano il Credo
stesso si rafforza in senso acritico
per “far argine”. Poiché nel momento in cui
la discussione si
incentra sui dettagli (cosa che era già avvenuta
nei primi secoli del
Cristianesimo) la fede è rafforzata nel “fondamento”
ideologico, e ciò è
avvenuto nel ‘700. Ma siccome qui non possiamo
occuparci più del necessario di religione ci
concentreremo non sui suoi aspetti dottrinari
ma sulla forma primaria che la
caratterizza, cioè sull’ideologia che la fonda. Ebbene,
il Settecento è il secolo in cui il termine
nasce nel senso “letterale”, poiché,
etimologicamente il suo autentico significato
è studio dell’idea ed è
posto da Destutt de Tracy e poi accolto dagli
altri ideologues. Il
problema nominalistico che nasce, quindi,
è quello di conciliare l’aggettivo “ideologico”
in senso corrente con quello storico, poiché
il suo significato negativo nasce
con Napoleone che lo accomuna ad “astratto”
ed è ribadito
da Marx nel senso di “dogmatico”. La conclusione
è che il termine ideologia
ha finito per connotare un atteggiamento
astraente dalla sfera del reale, ma anche
acritico e aprioristico. È questa la ragione
per cui siamo
stati più volte tentati di proporre la sostituzione
del termine ideologia
(studio dell’idea) con quello più proprio
e coerente di ideonomia (norma
basata sull’idea), rinunciandoci sempre per
questioni di comprensibilità. Il
termine ideologia, infatti, per quanto etimologicamente scorretto,
ha
preso così piede e ha così pervaso ogni realtà
culturale che è difficile
sbarazzarsene, col grosso rischio che parlando
ideonomia e di ideonomico nessuno ci capirebbe. Abbiano ceduto
così anche noi, vilmente, agli arbitri convenzionali
del linguaggio,
dimenticandoci per un istante, e colpevolmente,
delle evidenti mistificazioni
di coloro che lo sacralizzano facendone una
”struttura originaria” dell’essere.
Già,
il problema della “mistificazione”! Siamo
così impregnati di essa
(e per molti versi persino “fondati”) che
è sempre molto difficile parlarne. Ma il tema dell’ideologia-ideonomia che abbiamo posto
non ci permette di eluderlo. Noi pensiamo
che il Settecento sia il primo secolo
in cui il problema della mistificazione sia
posto seriamente in
contrapposizione a quelli (non meno mistificanti)
del ”dubbio
teorico”cartesiano, dello “scetticismo” humiano
e del “criticismo” kantiano. Tre posizioni che invariabilmente mettono
in discussione “tutto”;
salvo che Dio e la sua suprema ed eterna
Verità. L’ideologia è
mistificatoria “in sé”, poiché nel momento
in cui si pretende di “dire la
Verità” e la si assolutizza a prescindere da alcun
elemento analitico-critico, essa diventa
l’altra faccia della Falsità. Se nel
Settecento si mette in discussione la religione è
perché, per la prima volta, se ne coglie
adeguatamente e sino in fondo il suo elemento
mistificante e la catena di mistificazioni
che si impongono per la sua difesa
ad oltranza, pena il crollo dell’intero sistema
teologico. Ma
se si leggono attentamente le sintesi sulla
storia della filosofia del
Settecento, ciò che emerge è la supponenza
con cui molti storici
ideologicamente condizionati trattano la
scepsi illuministica come degenerativa
rispetto alle “eccelse vette” della metafisica
secentesca. E
ciò pone il problema di una corretta interpretazione
della filosofia del
Settecento e per estensione il concetto stesso
di filosofia come ”amore per la
conoscenza” laddove essa si coniughi con
la scienza. Poiché
se il compito della scienza è di descrivere
la realtà cosmica nelle sue
strutture e nei suoi meccanismi, spetta alla
filosofia di fornirne un portato
antropico, il cui gradiente di validità si
associa a quello della maggiore
oggettività possibile. Problema cruciale, dunque, poiché un’errata
impostazione può degli imprinting permanenti.
Ci si
consenta una digressione. Se nel Seicento si era consumato il
distacco della cultura d’avanguardia (e anti-metafisica)
da quella praticata
nelle università (dove l’autorità indiscussa
era ancora Aristotele) anche oggi
si pone il problema di superare una didattica
e un’ermeneutica metafisiche esiziali per la filosofia.
Questo nostro libro, che su questo tema si
connette al nostro precedente La
filosofia e la teologia filosofale, intende essere un ulteriore
contributo al chiarimento dei problemi cruciali
del filosofare. E ciò non solo
per gli sviluppi di un autentico “amore della
conoscenza”, ma per la stessa
sopravvivenza della filosofia in quanto tale. Perché tutto
dipende da ciò che vogliamo fare della filosofia;
occorre decidere se calare la nostra barca
nel fiume della conoscenza, tra i
flutti e le correnti che la scienza ci svela,
o restare in quell’immensa golena
artificiale che la metafisica ha creato nei
millenni e che è diventata palude. A noi la scelta tra la conoscenza del reale
e la sua perenne
teologizzazione, a noi scegliere tra l’indagine
sulla realtà e l’invenzione di una
realtà surrettizia, spesso gabellata, in
maniera quanto mai arrogante, per
verità. E si tratta di un problema, come vedremo,
che si era
già posto Diderot nelle sue tormentose, complesse
e proteiformi peregrinazioni ontologiche,
gnoseologiche ed etiche.
Approderemo al tema che dà titolo al presente
saggio, l’ateismo
filosofico nell’Illuminismo (Parte Quarta),
attraverso una triplice
contestualizzazione: 1. il contesto politico e
socio-economico settecentesco; 2. lo scenario
culturale generale; 3. quello teologico. La
ri-comparsa di un pensiero ateo dopo ben
2.200 anni dal suo apparire in ambito
greco-ionico nel VI sec.a.C., vede dietro di sé un
vuoto di quasi duemila dominati dalla teologia;
platonico-aristotelico prima e
cristiana poi. Ma connesse in un abbraccio
ideologico in cui la prima è
diventata devota ancella della seconda e
sua manutentrice razionalistica, salvo
poi battere, in un rigurgito di autonomia teologica,
la strada panteistica del “nuovo” idealismo
tedesco. Ed ora
un’ultima precisazione circa il fatto che
la religione non coincide affatto con
la teologia come spesso si pensa; la religione
(la teologia cultuale) è una
delle due forme della teologia; l’altra è
la metafisica, la teologia
filosofale. La teologia è
“scienza di Dio” e in quanto tale concerne tutte le
forme gnoseologiche che hanno come fine primario
quello di ratificare, o
“dimostrare”, con strumenti logico-dialettici
l’esistenza del divino (ovvero
del meta-fisico) prescindendo totalmente
dalla sfera del fisico, o trattandolo come
aspetto inferiore o deietto
dell’essere. La religione è “teologia cultuale”
perché le sue operazioni
analitiche e dottrinarie concernono la divinità
nel suo porsi come “oggetto di adorazione” e “di culto”, a differenza della
“teologia
filosofale”, la metafisica, per la quale
il divino si pone come “fondamento e
principio” di ogni conoscenza. Se per questa, quindi,
l’aspetto gnoseologico in senso razionalistico
e deduttivistico è fondamentale,
per quella cultuale, la religione, esso ha
soltanto carattere probatorio od
ermeneutica. La teologia filosofale opera
sotto molti aspetti come la
filosofia, ma con una differenza fondamentale
e dirimente, che la filosofalità
si basa esclusivamente sul “pensato”, mentre
la filosoficità assume come punto
di partenza il “dato” che il pensiero scientifico
gli mette a disposizione come
“materia prima” del pensiero stesso.
[1] C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, Firenze, Clinamen 2004.
[2] Cfr. ivi,
§ 4.1, 5.2 e 5.3.
[3] Ne faremo oggetto di indagine in Le epoche dell’ateismo impossibile, opera probabilmente suddivisa in tre parti e che coprirà il periodo dal I al XV secolo.
[4] Dal XV al XVII secolo si può ritenere che compaiano elementi prodromici dell’ateismo che saranno oggetto di uno studio probabilmente in due parti.
[5] Sui fenomeni di incredulità e irreligiosità dal Cinquecento al Settecento sono particolarmente importanti le analisi di Georges Minois nel suo Storia dell’ateismo, Roma, Editori Riuniti 2000.
[6] Morto Cromwell il potere monarchico sarà ripristinato, con varie fasi anche di eccessi assolutistici. Ma nel 1688, con Guglielmo d’Orange, si determina in Gran Bretagna il definitivo superamento dell’asse potere politico-aristocrazia con quello potere politico-borghesia, che sarà all’origine di tutti i successivi rinnovamenti sociali nel resto dell’Europa, avendo luogo la l’avvicendamento del “diritto del feudo” col “diritto del capitale”.
[7] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, Il Mulino 1987, p..8.
[8] N.Hampson, Storia e cultura dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1969, p.200.
[9] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, Il Mulino 1987, p.246.
[10] Citato in: Michel Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Roma-Bari 1987, pp.21-22.
[11] Come rileva Michel Vovelle nel suo La mentalità rivoluzionaria (Roma-Bari, Laterza 1987, p.10-11) ad un ricordo traumatico dei fatti rivoluzionari persistente nella cattolica Savoia si contrappone quello favorevole delle Cévennes protestanti.
[12] Non possiamo qui che ribadire la definizione di ideologia data in Necessità e libertà (Firenze, Clinamen 2004, p.226, nota) nella quale avevamo delineato gli elementi che la caratterizzano nei termini seguenti: « … un “sistema” organico di idee basato su principi ed assiomi (dichiarati od occultati), che in quanto tali non sono discutibili né sottoponibili a critica o revisione, ma semplicemente creduti in base a presupposti irrinunciabili. Essa può essere di carattere religioso, politico o sociologico e implica una totalizzazione di credenze, di atteggiamenti e di comportamenti in base ai quali l’individualità perde in parte l’esercizio dell’eleuteria [la libertà personale]. aderendo a una “ragione” esterna. Caratteristica di ogni ideologia è la chiara convinzione di ciò che è bene e di ciò che è male e la mancanza di senso critico. Ogni dubbio è bandito sul piano teorico ed esso riguarda solo i modi di agire e di procedere per il trionfo di essa. I singoli individui in quanto soggetti ideologizzati e omologati possono (nell’insieme) diventare quella totalità umana alla quale data spesso la denominazione di massa.»
[13] P.Rossi, Gli illuministi francesi, Torino, Loescher 1971
[14] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, Il Mulino 1987, pp.246-247.
[15] Si veda: D.Outram, L’Illuminismo, Bologna, Il Mulino 1997, p.7.
[16] I. Kant, Scritti politici, a cura di C.Garve, Torino, UTET 1995, p.141..
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p.143.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, pp.143-144.
[21] Ivi, p.144.
[22] F.Engels-K.Marx, La sacra famiglia, Roma, Editori Riuniti 1967, p.160.
[23] K.Marx-F.Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti 1969, p.398.
[24] Ibidem.
[25] Ivi, p.399.
[26] Ibidem.
[27] V.Ferrone e D.Roche, Postfazione a L’Illuminismo, Dizionario storico, Roma-Bari, Laterza 1997, p.559.