Maupertuis si inserisce così in maniera
prepotente e dirimente nell’ambito della
diatriba tra il preformiamo e
l’epigenesi ma a favore di quest’ultima,
ma con l’importante superamento
dell’opposizione tra ovisti e animalculisti, riconoscendo con
fondate ragione la partecipazione alla formazione
dell’embrione sia dell’uovo
che degli spermatozoi in egual misura. Il
Nostro sviluppa pertanto, sia pure in
modo imperfetto, una vera e propria teoria
dell’ereditarietà che alcuni studiosi
ritengono anticipatrice di quella di Mendel,
per quanto soltanto questa evidenzierà
i concetti fondamentali di genotipo e fenotipo
che a Maupertuis sfuggono
completamente mancandogli l’esperienza dell’ibridazione.
Tuttavia egli basa le
sue teorie su fatti reali come l’albinismo
e l’esadattilismo, testimoniati da
casi reali, noti e constatabili al suo tempo.
Non solo, egli è anche latore di una
forma embrionale di evoluzionismo quando
nel 1751, col Sistema della natura
(riduzione definitiva dell’iniziale titolo
di Dissertatio inauguralis
metaphysica de universali naturae systemate) definisce l’attribuzione alle
particelle materiali di “un certo grado di
intelligenza e di memoria” tale da
spingere la natura nel suo complesso ad evolvere.
La produzione di nuova
materia vivente avviene attraverso processi
imprevedibili e dall’esito
probabilistico che ammettono il caso quale perturbatore dell’”ordine”
genetico insito nell’uovo femminile e nel
seme maschile. Maupertuis ammette implicitamente che la
mutazione genetica possa avvenire per caso
ma la sussistenza del nuovo essere
si verifica attraverso la costituzione di
un “nuovo ordine”, anticipando così
la tesi di Monod esposta ne Il caso e la necessità, dove alla causalità
formativa seguono un invarianza e una teleonomia confermative e
deterministiche. Quest’indeterminismo biologico gli si è
affacciato con la
considerazione delle mostruosità organiche
e somatiche che violano principi
biologici rigorosamente deterministici.
In realtà pare che lo scienziato Maupertuis
sia indeterminista ed il
filosofo finalista a giudicare dalle domande
poste a chiusura del capitolo XII
delle Prima Parte La Venere fisica, dove, tra l’altro, si enuncia un
vago evoluzionismo:
Ma se si crede, che
l’Autore della natura, non abbandoni alle
sole leggi del moto [come aveva fatto
Cartesio] la formazione degli animali: se
si crede necessario, ch’egli vi ponga
immediatamente la mano, e che abbia creato
da principio tutti questi animali
contenuti gli uni negli altri: che si guadagnerà
in credere che li abbia egli
formati tutti nel medesimo tempo? E cosa
perderà la fisica, col pensare, che
non sieno gli animali che successivamente
formati? Avvi forse anche per Iddio
qualche differenza tra il tempo, che noi
consideriamo come lo stesso, e quello
che scorre per successione? [1]
Importante considerazione, che per un verso
riconferma l’idea già di Newton, che prevedeva
l’intervento divino “continuo”
nel cosmo, e per un altro la possibile evoluzione
biologica implicita nella
Creazione iniziale, per quanto indeterminati
restino gli sviluppi nel tempo.
Segue un’ulteriore precisazione che in parte
sottintende il principio della
minima azione (capitolo XIII):
Se non si scorge alcun
vantaggio, alcuna semplicità maggiore, nel
credere che gli animali, avanti la
generazione fossero di già formati gli uni
negli altri, che nel pensare che
questi si formino a ciascheduna generazione;
se in fondo della cosa, la
formazione dell’animale, resta per noi egualmente
inesplicabile: ragioni
fortissime fan veder che ognuno de’ due sessi
vi contribuisce egualmente. Il
bambino che nasce ora rassomiglia al padre
e ora alla madre; nasce coi loro
difetti, e con le loro abitudini, e sembra
che ne riporti fino le inclinazioni
e le qualità dello spirito. [2]
Dunque, la fecondazione è un accadimento
“creativo” nella misura in cui hic et nunc nasce una nuovo individuo che
non preesiste nei suoi genitori anche se
ne assume, ma indeterministicamente
(«ora al padre e ora alla madre») elementi
somatici e mentali (ma variamente
assortiti).
L’argomento della mostruosità, ovvero dell’anormalità,
caratterizza il
capitolo XIV nel quale si evidenziano le
difficoltà dell’ovismo di renderne
ragione, in quanto immaginare “uova mostruose”
risultava privo di ogni
attendibilità scientifica. Il Nostro va così
oltre le due tesi contrapposte
dell’ovismo e dell’animalculismo ponendo
una sintesi che le supera entrambe. D’altra
parte la polemica, rileva Maupertuis, era
avvenuta su principi aprioristici e
su una base concettuale di mera metafisica:
Finalmente furono
poste a campo le ragioni metafisiche. Ritrovava
l’uno dello scandalo a pensare,
che Iddio avesse creato de’ germi originariamente
mostruosi; l’altro credeva,
ch’egli fosse un limitare la potenza di Dio,
restringer volendolo ad una
regolarità ed uniformità troppo grande. [3]
Non solo la preformazione deve considerarsi
antiscientifica, ma neppure corretta da un
punto di vista religioso, poiché
significa pretendere che Dio si autolimiti
ad un “aver fatto” senza “continuare
a fare”. Nel riprendere la tesi epigenetica,
nel capitolo XVI (Difficoltà
sopra i sistemi delle uova, e degli animali
spermatici), il Nostro si
mostra però assai prudente nel porla:
Io non ho che alcuni
pensieri vaghi, che propongo piuttosto come
questioni da esaminare, che come
opinioni da seguire; io non rimarrò
punto sorpreso, né crederò aver ragione di
dolermene, se non verranno ricevuti.
E siccome è molto più difficile lo scoprir
la maniera, con cui prodotto venga un
effetto, che il far veder ch’egli non è prodotto,
né in questa [ovistica], né
in quell’altra maniera [spermatica]; io comincerò
dal dimostrare, che non
potrebbesi ragionevolmente ammettere né il
sistema delle uova, né quello degli
animali spermatici. [4]
La modestia di Maupertuis è qui encomiabile,
ma
a poco a poco egli smonta il preformismo
in maniera puntuale, sì che nel
capitolo successivo può espone la sua tesi
epigenetica in modo relativamente
assertivo. In riferimento ad Étienne Geoffroy,
prestigioso membro
dell’Accademia delle Scienze, egli afferma:
Uno dei più illustri
membri di questa Compagnia, la cui perdita
sarà dalle scienze per lungo tempo
compianta; uno di quelli che avea penetrato
più addentro ne’ secreti della
natura, aveva compresa la difficoltà di ridurne
le operazioni alle leggi comuni
del moto, e era stato obbligato a ricorrere
a certe forze, che stimò egli,
ch’esser potessero più favorevolmente ricevute
sotto il nome di relazioni,
ma relazioni che fanno, che ogni qual volta due sostanze, che hanno qualche
disposizione a congiungersi l’una con l’altra,
si ritrovano unite insieme e se
ne sopraggiunge una terza che abbia relazione
maggiore con l’una delle due,
ella va ad unirvisi, facendo ritirar l’altra. Non posso dispensarmi dall’avvertire in
questo luogo, che queste forze e queste relazioni
non sono altra cosa che
quella che dai filosofi più ardimentosi è
chiamata attrazione. [5]
La teoria dell’attrazione, aggiunge
subito Maupertuis, trova conferma non solo,
e da lungo tempo, in astronomia, ma
anche nella chimica e in termini persino
più estensivi, tali quindi da
autorizzarne l’ulteriore estensione alla
biologia attraverso la domanda: «Se
questa forza esiste in natura, per qual ragione
non potrebb’ella aver luogo
nella formazione del corpo degli animali?»
[6]. In
un’epoca nella quale il concetto di informazione
genetica e di là da venire
Maupertuis avanza una tesi interessante su
“compiti specifici” di differenti
elementi seminali tali da produrre separatamente
organi differenti. Leggiamo:
Che sianvi in
ciascheduno di semi alcune parti destinate
a formare il cuore, la testa,
gl’intestini, le braccia e le gambe; e che
ognuna di queste parti abbia maggior
relazione d’unione con quella, che per la
formazione dell’animale dev’esser la
sua vicina; il feto si formerà; e se
fosse mille volte ancora più organizzato
di quello ch’egli è in effetto, non
tralascerebbe tuttavia di formarsi. [7]
Il feto “si forma” attraverso un processo
costruttivo che vede il concorso di una pluralità
di parti agenti, ognuna con
uno scopo specifico e ognuna rispettando
delle leggi compositive in base alle
quali le varie parti del corpo si assemblano
secondo criteri di affinità che
determinano delle “vicinanze strutturali
e funzionali”.
Al
problema delle malformazioni gravi, le mostruosità,
Maupertuis applica il
concetto dell’affinità attrattiva, cui segue
costruttivamente la vicinanza o la
lontananza, dove questa genera mostruosità
e quella perfezione in questi
termini:
Se ogni parte è unita
a quelle, ch’esser debbono le sue vicine,
e non da altre, l’infante nasce nella
sua perfezione. Se alcune parti si ritrovano
troppo lontane, o d’una forma
troppo poco conveniente, o troppo deboli
di relazione d’unione, per unirsi a
quelle, alle quali debbono essere unite,
nasce allora un mostro per difetto. Ma se succede che alcune parti superflue
ritrovino ancora il loro posto, e vadano
ad unirsi alle parti, l’unione delle
quali era già sufficiente, ecco apparire
un mostro per eccesso. [8]
In assenza del concetto di errore di
trasmissione genetica la spiegazione di Maupertuis
non può che suonare ingenua,
ma si tratta di un tentativo non del tutto
peregrino di fornire una spiegazione
non metafisica di un fatto genetico. Egli
ritiene che il fatto che le parti in
eccesso (come per esempio le dita) si trovino
sempre vicine a quelle normali, vada
a conferma della sua tesi.
La
Seconda Parte de La Venere fisica si occupa più specificamente dell’uomo
e delle varie razze in cui morfologicamente
si presenta, cogliendo pretesto per
ribadire il suo criterio evoluzionistico
e sostenere: «Così pure nuove razze
d’uomini comparir possono sulla terra, ed
estinguersi le antiche.», posizione
teorica non da poco, in una scenario di profondo
e pervasivo fissismo qual’era
quello della prima metà del Settecento, perfettamente
in accordo con la Genesi
biblica. Posizione che sarà sviluppata poco
dopo da Buffon, ma che tarderà ad
affermarsi, ed incontrerà ancora seri ostacoli
all’inizio dell’Ottocento,
quando Lamarck tenterà di porla con gravi
difficoltà contro uno strapotere del
fissismo espresso autorevolmente da un maître della scienza come Cuvier.
Ma Maupertuis, dopo aver ribadito che i figli
assomigliano di solito ai
genitori, precisa che non è neppure infrequente
«il vedere il figliuolo che non
rassomiglia né al padre, né alla madre, nascere
con le fattezze dell’avolo.» [9]
Questa variabilità è implicita e caratteristica
di tutto il mondo vivente,
poiché:
La natura contiene il
fondo di tutte queste varietà, ma il caso
o l’arte le mettono in opera. […] Noi
veggiamo comparire razze di cani, di colombi,
di canarini, che non erano avanti
in natura. Questi non furono a principio
che individui fortuiti; e l’arte e le
replichiate generazioni ne fecero tante spezie.
[10]
Il caso in natura, e
l’arte ibridatoria da parte dell’uomo, danno
luogo ad individui isolati
anomali, che trasmettendo i loro caratteri
finiscono per determinare nuove
“spezie”. È questa un’enunciazione, per quanto
imperfetta nel confondere razze
e specie, che anticipa formalmente la teoria
darwiniana. E Maupertuis non è
neppure inconsapevole del fatto che anche
una mutazione per noi molto
appariscente, come può essere la comparsa
di un pelo bianco sul manto di un
cavallo nero, «non sia gran cosa per la natura.»
[11]
poiché dalla pelle nasce il pelo e «ogni
alterazione della pelle» è una
potenziale causa di mutazione del pelo. Questo
concetto di “mutazione”
somatica, e quindi “visibile”, anche se irrilevante
in biologia, è concetto
importante per l’epoca, in quanto anticipa
il concetto di quella mutazione
genetica, “invisibile”, che fa realmente
nascere nuove specie animali.
9.2 George-Louis Leclerc de Buffon
L’opera di Buffon (1707-1788) è variamente
giudicata come quella di un acuto naturalista-filosofo
o invece quella di un abile letterato divulgatore
di studi altrui, di uno straordinario precursore
del modo di “fare scienza” o di un ritardatario
legato a concezioni datate, di un solitario
incompreso o di un abile promotore di se
stesso, di un preciso teorizzatore o di un
naturalista confusionario. Tale estrema varietà
di giudizi non deve sorprendere, poiché riguarda
un uomo di scienza acuto e intelligente,
ma che qualcuno ha giudicato poco dedito
alle “ricerche sul campo”. Amante del sapere
scientifico quanto dello scrivere e della
bella forma letteraria rende comprensibile
come abbia potuto essere giudicato più come
un raccoglitore ed elaboratore di nozioni
scientifiche che come un ricercatore in proprio.
Egli è comunque personaggio che si staglia
nella cultura illuministica per la sua indipendenza
da schemi convenzionali e per alcune intuizioni
metodologiche assai interessanti. In ogni
caso fu un grande divulgatore scientifico,
ben preparato e corretto, che molto ha contribuito
alla diffusione della scienza nel XVIII secolo.
Nel 1733, egli pubblica l’esito di suoi studi
sul calcolo delle probabilità e su problemi
di meccanica, e tra il ’45 e il ’48 escono
tre sue memorie sulla legge dell’attrazione.
Ma sono le osservazioni microscopiche su
sperma, ovaie e semi vegetali, fatte nel
’48, a consentirgli di formulare la sua teoria
delle moules, le
“molecole organiche” elementi-base della
sfera del vivente. Se pure non fu un
ricercatore a tempo pieno è grazie alla vastità
dei suoi interessi e delle sue
esperienze che la sua opera è importante
come sintesi di essi.
Proprietario di grandi foreste fa anche
ricerche per rendere più compatto il legno
e più adatto alle costruzioni
navali; nel 1735 costruisce un grosso vivaio
a cui lavorerà tutta la vita. In
una sua fornace fa esperimenti sulla fusione
dei minerali; tentando di produrre
un acciaio superiore a quello svedese e spagnolo,
che sono all’epoca i più
ricercati. [12] . Compie ottimi studi,
occupandosi di matematica, di medicina, di
botanica e di zoologia, e dato il
suo rango sociale è a contatto con importanti
scienziati del tempo. Nel 1739
ottiene la prestigiosa carica di sovrintendente
del Jardin du Roi, ed il
più stretto rapporto col mondo vegetale,
coniugato con la vastità dei suoi
interessi, gli fa maturare l’idea di una
grandiosa opera sulle scienze
naturali, la quale, pensata inizialmente
in 15 volumi ne conterà, alla fine,
ben 36. Dagli anni ’40 alla morte lavora
indefesso a quest’ opera, compone
numerose voci dell’Encyclopedie e tiene rapporti continui con gli altri
intellettuali
illuministi. L’Histoire naturelle, pubblicata tra il 1749 e il 1783, è
opera che ha goduto di un immenso successo
e che ha permeato profondamente la
cultura scientifica non solo nel Settecento
ma sino alla metà dell’Ottocento.
Ai
fini del nostro studio è il Primo discorso de l’Histoire (Sulla maniera di studiare e di trattare
la storia naturale) il testo di maggior interesse. Fin dalle
prime pagine
ci è dato cogliere interessanti considerazioni,
come la seguente:
Per questo ho detto
che bisogna cominciare con l’osservare molto;
ma bisogna osservare anche senza
alcuna regola, perché se si è già deciso
di considerare le cose in una
determinata prospettiva, secondo un certo
ordine, secondo un certo sistema,
anche se si è imboccata la strada migliore
non si arriverà mai a
quell’estensione di conoscenze cui si potrebbe
pretendere se, all’inizio, fosse
stato permesso allo spirito di procedere
con le sue forze, di riconoscersi da
sé, di costruirsi un fondamento senza che
gli venisse fornito alcun aiuto, e di
formare da solo la prima catena che rappresenta
l’ordine delle sue idee. [13]
L’atteggiamento intellettuale che lo studioso
deve assumere è quello di agire in maniera
autonoma e libera da preconcetti,
scoprendo “da solo” ciò che l’oggetto di
studio potrà rivelargli. Dovrà agire
contando sulla casualità della scoperta e
sull’asistematicità dell’indirizzo,
in modo che la ricerca non avvenga secondo
schemi fissi, ma secondo un flusso
delle informazioni che non deve preordinarsi.
Atteggiamento che può parere
metodologicamente discutibile, ma che nel
suo privilegiare l’intuizione libera
rispetto alla deduzione sistemica marca la
sostanziale differenza rispetto alla
metafisica. Siccome questa non scopre nulla
ma inventa i suoi assiomi è
necessario porre un netto discrimine tra
lo scoprire il concreto e il
teorizzare l’astratto. Ma tale atteggiamento
metodologico vale per la persona
preparata, matura, che ha già alle sue spalle
una cultura scientifica di base.
Altro è il discorso per i giovani da avviare
alla ricerca scientifica, che
«devono esser preferibilmente guidati e consigliati
in proposito, devono anche
essere incoraggiati, sfruttando ciò che vi
è di più interessante nella scienza,
facendo loro notare le cose più
originali» ma «senza dare spiegazioni precise»
poiché « il misterioso a
quell’età, eccita la curiosità, mentre nell’adulto
suscita solo disgusto » [14]
Siamo qui di fronte ad un vero e proprio
programma pedagogico e di avvio alla
scienza su base psicologica: quel “mistero”
che affascina il giovane
disgusterebbe l’uomo maturo. Punto di vista
opinabile: l’adulto di fronte al
misterioso ha perlopiù un atteggiamento che
è lo stesso del bambino nel subirne
il suo fascino, ciò che può esser molto differente
sta nel fatto che se
l’adulto è uno scienziato, probabilmente
ignorerà il concetto di mistero e
considererà unicamente quello di “ignoto”,
da esplorare per carpirne segreti al
fine di farne un “noto”. Il Nostro aggiunge:
I bambini si stancano
facilmente di ciò che hanno visto, rivedono
con indifferenza, a meno che le
stesse cose non vengano loro presentate sotto
punti di vista diversi: invece di
ripetere loro quello che si è già detto,
vale più aggiungervi particolari anche
estranei o inutili: si perde meno tempo ad
ingannarli che a disgustarli. [15]
Si vede bene come ciò che preoccupa il Buffon
pedagogo scientifico è che il discente: 1°
non si annoi e 2° che sia stimolato
a proseguire gli studi. Questo programma
apparentemente minimale rivela come il
Nostro, che pure ha avuto una sola figlia,
sia avvertito del fatto che possono
esserci giovani dotati distratti dagli studi
scientifici da un insegnamento mal
impostato, che non tiene conto della mente
del bambino e delle sue esigenze. Il
suo puntare sulla meraviglia e sul mistero
rivela una profonda sensibilità al
problema pedagogico.
Egli
sottolinea poi che «il gusto della scienza
[…] non si comunica mediante
precetti» e che, più in generale:
Si devono presentare
alla mente dei giovani cose di ogni specie,
studi di ogni tipo, oggetti di
qualsiasi sorta, per riconoscere il genere
dal quale il loro spirito si sente
attratto con più forza e al quale si dedica
con maggior piacere. [16]
Fascino delle materie e multiformità di
argomenti stimolano l’interesse, ma il vero
fine di tali premesse è il
raggiungimento del piacere della conoscenza.
Lungi da convenzionali appelli al
sapere virtuoso e di converso alla virtù
del sapiente, la fascinazione
dell’oggetto di osservazione ed il piacere
del relativo studio divengono i due
poli dell’impulso al conoscere. Abbastanza
difficile trovare all’epoca, siamo intorno
al 1745, una presa di posizione di questo
genere, dove implicato nell’elemento
edonistico vi è sono anche l’esistenziale
e l’utilitaristico. Poiché
determinare «il genere dal quale il loro
spirito si sente attratto » significa
anche indirizzarli verso la realizzazione
di sé e verso l’attività
professionale più congeniale e quindi utile,
non solo dal punto di vista individuale
ma anche da quello sociale.
Buffon
non è, in generale, contro i “metodi” di
apprendimento, semplicemente diffida
il discente dall’utilizzarli acriticamente;
essi «sono utilissimi quando
vengano usati con le dovute restrizioni,
abbreviano il lavoro, aiutano la
memoria […] ma essi sono accompagnati dall’inconveniente
di voler allungare o
accorciare troppo la catena la catena delle
nostre idee, di voler sottomettere
a leggi arbitrarie le leggi della natura,
di volerla dividere là dove essa è
indivisibile e di voler misurare le sue forze
sulla nostra debole
immaginazione.» Qui però la parola metodo
assume un significato più estensivo e
nello stesso tempo più specifico in riferimento
alle scienza naturali: quello
di voler classificare gli oggetti di natura
secondo «la divisione metodica
delle diverse produzioni della natura, animali
,vegetali, minerali in classi,
generi, specie.» [17] Ma
vi è un altro problema importante, quello
delle visioni “arbitrarie” della
realtà, che rischiano di «rendere, moltiplicando
i nomi e le rappresentazioni,
la lingua della scienza più difficile della
scienza stessa.» [18] Il
problema diventa pertanto non solo didattico-scientifico,
ma anche filosofico:
Noi siamo per natura
portati a immaginare in tutto una specie
di ordine e di uniformità, e quando
esaminiamo solo superficialmente le opere
della natura sembra, sembra a questo
primo sguardo che essa abbia sempre lavorato
su di uno stesso piano: poiché a
noi è stata concessa un’unica strada per
arrivare a uno scopo ci convinciamo
che la natura agisca ed operi con gli stessi
mezzi e con operazioni simili. [19]
Si tratta di una delle più profonde
considerazioni filosofiche da tenere sempre
presenti, e che già Bacone aveva
espresso in termini simili nel Novum Organon (I, 45). Ma qui la si precisa
in relazione alle scienze naturali per stigmatizzare
sia i monismi e sia gli
usi impropri dell’analogia che mette ciò
che va tenuto separato. Da ciò
l’ulteriore precisazione:
Questo modo di pensare
ha fatto immaginare un’infinità di falsi
rapporti fra le produzioni naturali:
le piante sono state paragonate agli animali;
si è creduto di veder vegetare i
minerali; la loro organizzazione così diversa
e il loro meccanismo così poco
somigliante sono stati spesso ridotti alla
stessa forma. Lo stampo comune di
tutte queste cose così dissimili fra di loro
si trova, più che nella natura,
nello spirito ristretto di quanti di quanti
la conoscono male e sanno giudicar
assai poco della forza di una verità, come
dei giusti limiti da imporre a un
paragone per analogia. [20]
L’utilizzo
dell’analogia in modo estensivo ed arbitrario
è data nei due casi in cui si
immagini una presunta ”vegetazione” di certi
minerali sulla base di elementi
puramente formali e l’assimilazione della
circolazione della linfa nelle piante
a quella del sangue negli animali. Due esempi
degli esiti delle fantasie “generalizzanti”
di metafisici dell’epoca, sì che (come è
stato rilevato) «fu compito degli
umili ricercatori dagli occhi miopi [danneggiati
dal troppo lavoro al
microscopio], nemici giurati delle idee generali,
di scoprire, agli occhi
estasiati di filosofi, le meraviglie della
natura e della vita.» [21]. Lo
sperimentalismo è infatti sempre stato l’unica
risorsa per tenere lontano il
sapere scientifici dalle onnipresenti e fascinose
tentazioni metafisiche. Ed a
proposito degli arbitri dell’immaginazione
si precisa: «Non equivale tutto ciò
a portare nella realtà delle opere del Creatore
le astrazioni del nostro
spirito limitato, e a concedergli, per così
dire, solo quel numero di idee che noi abbiamo?» [22]
A
dispetto di queste continue chiamate in causa
del Creatore il Nostro ebbe i
suoi guai con la censura di una Sorbona fortemente
teologizzata, si che i i
richiami di Buffon all’opera di Dio si configurano
come il tentativo di prevenire
la condanna di sue teorie scientifiche poco
compatibili con la Bibbia. Tanto
più che appena dopo egli afferma:
Tuttavia si sono dette
e si dicono tutti i giorni cose così poco
fondate, e si costruiscono sistemi su
fatti incerti, che sono mai stati esaminati
e che servono solo dimostrare
l’inclinazione degli uomini a voler scoprire
una rassomiglianza negli oggetti
più diversi, una regolarità dove non regna
che varietà e un ordine nelle cose
che essi scorgono solo confusamente. [23]
Più tardi, nel 1770, egli riprenderà (nel
14°
volume) lo stesso pensiero, ma in modo più
chiaro e compiuto:
Paragoniamo le opere
della natura a quelle dell’uomo; cerchiamo
in qual modo l’una e l’altra
agiscano, e se lo spirito, per quanto attivo,
per quanto vasto esso sia, possa
avanzare alla pari della natura e seguirne
il cammino, senza smarrire se stesso
nell’immensità dello spazio e nelle tenebre
del tempo o nel numero infinito
delle combinazioni degli esseri. […] ma per
arrivare [l’uomo] a un punto non
può fare altro che seguire una linea, e se
vuol raggiungere un altro punto, lo
può fare solo seguendo un’altra linea; la
trama delle sue idee è un filo
sottile che si stende in lunghezza senz’altre
dimensioni. La natura, a
contrario, non fa un solo passo che non sia
in ogni senso; avanzando essa si
estende ai lati e in alto; percorre e occupa
insieme le tre dimensioni, e
mentre l’uomo non raggiunge che un punto,
essa arriva al solido, ne abbraccia
il volume, e penetra la sua massa in tutte
le sue parti. [24]
Abbiamo qui non solo la messa in mora di
teologiche “cause finali” ma l’allusione
a una natura caotica assai poco
compatibile con l’opera di un Creatore, ma
piuttosto configurantesi in base a
leggi proprie. Ciò potrebbe far pensare anche
a Cartesio, in realtà, la posizione
di Buffon qui è molto differente; non vi
è nulla di meccanicistico nella
dinamica della natura, ma semmai un “autocreazione”
della quale l’uomo non ha
che una visione confusa, che è proprio quella
che lo porta a fantasticare e ad interpretarla
arbitrariamente, ma che si allinea, sia pure
in modo molto prudente, con
visioni vitalistiche. E tuttavia, sino a
prova contraria, dobbiamo pensare a Buffon
come un convinto credente quando afferma
che è stato Dio a produrre una natura
così grandiosa e complessa di fronte alla
quale «lo spirito umano soccombe »,
poiché la mano di Lui «non sembra essersi
aperta per dare l’essere a un certo
numero determinato di specie, ma per dar
forma in un colpo solo a un mondo di
esseri relativi e non relativi, a un’infinità
di combinazioni armoniche e
contrarie, e a un eterno ripetersi di distruzioni
e di rinnovamenti.» [25]
Considerazione estremamente importante che
chiarisce la convinzione di Buffon che
in natura vi siano specie fisse e specie
mutevoli, e che questa sia stata la
volontà espressa nella Creazione. Posizione
eterodossa dal punto di vista
teologico, poiché la Genesi ammette solo il fissismo, e qui si ha la
teorizzazione di una sorta di ossimoro paleontologico
e biologico, col quale
fissismo ed evoluzionismo sono affiancati
e resi entrambi operanti in una
natura che un po’ resta fissa e un po’ si
trasforma.
Più
avanti, Buffon enuncia anche un certo scetticismo
gnoseologico nell’affermare:
Le prime cause ci
saranno per sempre nascoste, gli effetti
generali di queste cause ci rimarranno
difficili a conoscersi quanto le cause stesse;
a noi è concesso solo di
scorgere alcuni effetti particolari, di paragonarli,
di combinarli, e infine di
andar a rintracciarvi un ordine più relativo
alla nostra natura che conveniente
all’esistenza delle cose da noi prese in
esame. [26]
Noi “leggiamo” la natura secondo i nostri
schemi
mentali (sempre teologici) riducendola alla
nostra dimensione, alla nostra
comprensione, ma al prezzo di mistificarne
l’essenza. L’«ordine relativo alla nostra natura», che
le conferiamo, ci è utile per vederci in
essa e con essa in un certo rapporto
cognitivo e magari sentimentale, ma così
facendo finiamo per tradire la
conoscenza. Ma affermare che «Le prime cause
ci saranno per sempre nascoste» è anche
un’implicita bestemmia, poiché noi “sappiamo”
qual è la Causa Prima rivelatasi nelle
Sacre Scritture. E l’eterodossa buffoniana
prosegue nell’assimilare l’uomo,
fatto ad immagine e somiglianza di Dio (Genesi, 1, 26), agli animali:
La prima verità che
risulta da questo serio esame della natura,
è un verità forse umiliante per
l’uomo: il fatto, cioè, di doversi egli stesso
allineare nella classe degli
animali ai quali rassomiglia in tutto ciò
che ha di materiale; anzi, il loro
istinto potrà sembrargli perfino più sicuro
della sua ragione e la loro
industriosità più ammirevole delle sue arti.
[27]
Qui siamo “fuori” dall’orizzonte teologico,
non
solo cristiano ma anche deista, per quanto
da tempo la tesi cartesiana
dell’”animale macchina” abbia per estensione
logica implicato quella
dell’uomo-macchina. Ma, per quanto la meccanicizzazione
dell’uomo sia tesi
ormai nota nel mondo intellettuale più avanzato,
occorre tener conto che queste
posizioni blasfeme sono del tutto marginali
e che siamo ancora in un clima culturale
dominato da posizioni come
quelle dello pseudo-naturalista Pluche, che
nel suo Spectacle de la nature
del 1732 aveva a affermato: «Invece di voler
spiegare quale sia il meccanismo
che opera così costantemente, cerchiamo piuttosto
a quale scopo questa bella
opera [la natura] sia stata fatta. » [28] Si
comprende bene come Buffon stia rischiando
parecchio in un contesto culturale
ancora fortemente teologizzato con un libro
che porta esplicitamente il suo
nome.
Subito
dopo Buffon mette in campo il suo complicato
”involuzionismo/evoluzionismo” che
tanto ha fatto discutere:
Osservando poi
successivamente e ordinatamente i diversi
oggetti che compongono l’universo e
ponendosi alla testa di tutti gli esseri
creati, si accorgerà, stupito, che si
può discendere per gradi quasi insensibili
dalla creatura più perfetta alla
materia più informe, dall’animale meglio
organizzato al minerale più bruto;
egli riconoscerà che queste impercettibili
sfumature sono la grande opera della
natura e lo scoprirà non soltanto nelle grandezze
e nelle forme, ma nei
movimenti, nelle generazioni, nelle successioni
di ogni specie. [29]
La fondamentale mutevolezza della natura,
per
quanto si manifesti in maniera impercettibile
e nei tempi lunghi, rende
inattendibile per Buffon ogni schema generale
del vivente ed ogni sua
classificazione che richieda forzature per
conferire ordine come pura
costruzione intellettuale:
La natura invece
procede per gradi sconosciuti e, di conseguenza,
non può prestarsi
completamente a queste divisioni, poiché
passa da una specie all’altra, spesso
da un genere all’altro, attraverso sfumature
impercettibili, così che si trova
un gran numero di specie intermedie e di
oggetti divisi a metà e che non si sa
dove sistemare, per cui ne rimane necessariamente
sconvolto il progetto del
sistema generale: questa verità è troppo
importante perché io non la sostenga
con tutto ciò che può renderla chiara ed
evidente. [30]
Par di
capire che Buffon pensi a una specie di continuum tra le specie e i
generi sì da rendere impossibile un sistema
di “incasellamento”. Sappiamo però
anche che l’oggetto delle sue polemiche era
il sistema di Linneo, contro il
quale egli indefessamente muove le sue critiche,
poiché lo giudica aprioristico
e arbitrario, ma nello stesso tempo assai
utile. La battaglia di Buffon era
quindi sin dall’inizio perduta, in quanto,
senza un sistema di riferimento che
in modo anche imperfetto renda ragione dei
numeri delle specie viventi e di una
loro identità, almeno esteriore, qualsiasi
studio botanico o zoologico diventa
quasi impossibile. Ma egli insiste sul fatto
che «questa pretesa dei botanici
di stabilire sistemi generali, perfetti e
metodici, ha dunque ben poco
fondamento» poiché si sono presi la libertà
di sceglier arbitrariamente «un
solo aspetto delle piante, per farne il carattere
specifico» [31].
Forma delle foglie e dei fiori, posizionamento,
numero di petali, stami, ecc.
sono per il Nostro elementi insufficienti
per una seria classificazione; più
oltre, tuttavia, egli precisa che anche il
«non aver nessun metodo» [32] è da
giudicasi negativamente. Dei metodi
«dobbiamo servircene solo come di segni convenuti
per capirci» [33]
poiché essi sono una specie di “dizionari”
di voci stilate «secondo un ordine
relativo a una data idea» [34]
mentre un “vero metodo” «consiste nella descrizione
completa e nella storia
esatta di ciascuna cosa in particolare.»
Perciò:
È questo il principale
fine che ci si deve proporre: ci si può servire
di un metodo già fatto come di
una comodità per studiare, lo si deve considerare
un mezzo più semplice per
comprendersi, ma il solo e vero mezzo per
far progredire la scienza è quello di
applicare alla descrizione e alla storia
delle differenti cose che ne formano
l’oggetto. Le cose, in rapporto a noi, non
sono nulla in se stesse, non sono ancora
nulla nemmeno quando hanno un nome, cominciano
ad esistere per noi quando
conosciamo rapporti e proprietà che loro
appartengono: solo attraverso questi
rapporti possiamo darne una descrizione:
ma la definizione che si può dare in
una sola frase è ancora solo la rappresentazione
molto imperfetta della cosa,
perché no potremo mai definire bene una cosa
senza descriverla esattamente. [35]
Il monito di Buffon per un verso appare
un’ovvietà, per un altro non lo è, nel senso
che entra nel merito di ciò che la
cosa sia realmente, obiettivo irraggiungibile,
e come si ponga la
rappresentazione che noi possiamo dare della
cosa stessa. Questa che deve
andare oltre la nominazione ed anzi accantonarla
sul piano strettamente
scientifico, per sostituirla con una descrizione
corretta; «ma per descrivere
esattamente, bisogna aver visto, rivisto,
esaminato, paragonato la cosa che si
vuol descrivere senza pregiudizi, senza l’idea
di fare un sistema, » [36].
Raccomandazioni ancora ovvie, ma niente affatto
nel consiglio di “non fare
sistema”, poiché è questo il vero discrimine
tra il fare scienza e il fare
metafisica, infatti questa è sempre sistemica
e quella non lo è mai. Se Buffon dedica
numerose pagine a questo problema è perché
ne vede l’importanza non solo nei
riguardi dei metodi di classificazione, ma
sopratutto perché vede in essi dei
paradigmi sistemici che ritiene nocivi alla
scienza e più in generale al
conoscere. In questo senso egli interpreta
il meglio del pensiero
illuministico, appaiandosi quale naturalista
al Diderot filosofo nello star
lontano da facili “definizioni” a vantaggio
della “descrizione” e della
“problematicizzazione”, che possono emergere
solo dall’osservazione e dalla
riflessione.
In
realtà, il problema fondamentale posto dal
Nostro concerne il rapporto tra il
dato/fatto della realtà e il pensato/enunciato
della mente umana, poiché se non
si utilizza il filo di una virtuale lama
per dividere nettamente l’oggetto
reale dalla nostra concettualizzazione va
perduto il senso più profondo
dell’umano “tendere” alla conoscenza, che
è un processo di “avvicinamento” al
reale senza alcuna pretesa di “possederlo”.
È solo la consapevolezza di un
solco ontologico tra il reale e il concettuale
a costituire l’unica e
fondamentale base dell’approccio scientifico
e nel contempo la garanzia di
correttezza di esso. Tutto ciò che identifica,
in modo implicito o esplicito,
il pensato e il dato, potrà mantenere la
sua validità culturale sul piano
estetico come interessante “creazione metafisica”,
ma non può averne alcuna sul
piano gnoseologico..
Poco
dopo però Buffon opera un estensione del
concetto di “fatto” dalla storia
naturale alla storia civile che appare discutibile:
poiché se il fatto
naturalistico risulta perlopiù ripetibile
(e quindi confermabile), non così è
del fatto storico. Egli pare non accorgersi
di questa radicale e differenza
nell’affermare:
Le persone sensate si
accorgeranno però sempre che la sola e vera
scienza è la conoscenza dei fatti,
lo spirito non può supplirvi: i fatti sono
nelle scienze ciò che l’esperienza è nella
vita civile. Si potranno
dividere dunque tutte le scienze in due classi
principali che conterranno tutto
ciò che si addice a un uomo di scienza: la
prima è la storia civile e la
seconda la storia naturale, tutte e due fondate
su dei fatti che è spesso
importante e sempre piacevole conoscerete:
la prima è oggetto dello studio
degli uomini di stato, la seconda dei filosofi.
[37]
È ben vero che qui si parla di “storia”,
quindi
di un processo temporale, della dimensione
diacronica della realtà e non di
quella sincronica che concerne la ripetibilità
(a-processuale in rapporto allo
scorrere del tempo), ma resta l’impressione
di un accostamento indebito e
azzardato. In realtà l’affermazione è erratica
ed isolata e il richiamo alla scienza
storica pare più dettato dal desiderio di
includerla, quale scienza umana, nel
più ampio concetto di scienza. Poco oltre
egli precisa: «si può tuttavia
assicurare che la storia naturale è la fonte
delle altre scienze fisiche e la
madre di tutte le arti.» Implicitamente qui
Buffon parrebbe aver assunto il principio del Vico
esposto nella Scienza nuova, in base al quale l’unica conoscenza
possibile per l’uomo è quella della “propria”
storia, “fatta” dall’uomo stesso,
non già quella della natura che è roba di
Dio in quanto “fatta” da Lui. Va però
notato che qui il Nostro pare assumere il
concetto di “storia naturale” come
assimilabile al concetto più generale di
“scienza fisico-filosofica”, quella
che «non costruisce sistemi». Dirà infatti
all’inizio del Secondo Discorso
(Storia e teoria della Terra):
Ecco che cos’è la
natura nelle sue grandi linee, ed ecco quali
sono le sue principali operazioni,
quelle che influiscono su tutte le altre;
la teoria degli effetti che ne
risultano è una prima scienza dalla quale
dipende la comprensione dei fenomeni
particolari, così come la conoscenza esatta
delle sostanze terrestri. E
quand’anche si volesse dare a questa seconda
parte delle scienze naturali
il nome di fisica, non si può
forse considerare storia della natura qualsiasi
fisica dalla quale non si
tragga un sistema? [38]
Ancora una volta ci è ribadito che tutto
ciò che
“fa sistema” è anti-scientifico, e da ciò
i grandi sistemi metafisici del ‘600
ne escono in qualche modo imputati, per quanto,
di fronte a un significativo
silenzio su Cartesio, Buffon faccia più volte
riferimento (in Storia e
teoria della Terra) alla Protogaea del “famoso Leibniz” [39] in maniera sostanzialmente favorevole.
Sul
terreno metodologico, dopo aver ribadito
che, siccome i metodi classificatori
sono tutti arbitrari, se proprio se ne vuole
far uso si scelga quello che si
ritiene “più comodo”, si indica come debba
avvenire un corretto approccio alla
conoscenza della natura e come “naturalmente”
venga colto l’ordine di essa e le
sue articolazioni. Leggiamone per esteso
la prima parte:
Per cogliere
quest’ordine bisogna disfarci per un istante
di tutti i nostri pregiudizi e
spogliarci anche delle nostre idee: immaginiamo
un uomo che abbia
effettivamente dimenticato tutto o che si
svegli completamente ignaro degli
oggetti che le circondano, mettiamolo in
mezzo alla campagna dove gli animali,
gli uccelli, i pesci, le piante, le pietre
si presentino successivamente ai
suoi occhi. Lì per lì confonderà tutto, perché
non riuscirà a distinguere nulla;
ma lasciamo che le sue idee si consolidino
a poco a poco attraverso sensazioni
ripetute degli stessi oggetti; ben presto
egli si formerà un’idea generale
della materia animata, la distinguerà facilmente
da quella inanimata e dopo
poco riuscirà a distinguere perfettamente
quella animata da quella vegetale e,
del tutto naturalmente, arriverà a una prima
divisione in Animale, Vegetale
e Minerale. E poiché si sarà formato nello stesso tempo
un’idea precisa
di quei tre grandi oggetti differenti che
sono la Terra, l’Aria e
l’Acqua, in poco tempo si formerà un’idea particolare
degli animali che
abitano la terra, di quelli che abitano nell’acqua,
e di quelli che si
innalzano nell’aria, e di conseguenza imporrà
facilmente a se stesso una
seconda divisione in Animali quadrupedi, Uccelli, Pesci;
la stessa cosa avverrà nel regno vegetale,
per gli alberi e per le piante, che
egli distinguerà chiaramente, sia per la
loro grandezza, sia per la loro
sostanza,sia per la loro forma. [40]
Il
discorso prosegue ancora su questo tono con
ulteriori specificazioni, ma quel
che a noi interessa cogliere è il fatto che
ad una cultura tratta dalla pagina
scritta o dalla voce di un docente Buffon
contrappone un apprendimento diretto,
che potremmo definire “per contemplazione,
riflessione e sistematizzazione”.
A ben vedere, se il processo di
apprendimento dovesse avvenire nei termini
un poco schematici che Buffon
propone, il risultato non sarebbe poi molto
differente da quello “imparato”. Tanto
più che con ogni evidenza quello che l’osservatore
consegue è anch’esso uno
“schema” che ripropone quegli stessi “contenitori”
criticati nei metodi
classificatori. Ma in questo schema il
contemplante-osservatore-pensatore elabora
una “sua” nozione dell’oggetto, acquisita
in prima persona, e non quella propinatagli
da altri. Da un punto di vista
gnoseologico, e non solo pedagogico com’era
posto in precedenza, Buffon tenta
qui di fornire le linee generali per un processo
di conoscenza che va “personalizzato”.
Ma con ciò il processo di “accumulo” della
conoscenza basato sulla trasmissione
da soggetto a soggetto nell’arco del tempo
pare vanificato. Per quanto
l’osservazione diretta resti fondamentale,
nondimeno l’aver acquisito una
nozione di qualcosa da altri, senza doverla
ri-scoprire di persona, può
costituire la base di partenza per un’ulteriore
scoperta in un processo di
accumulo che è poi quanto realmente si dà
nel progresso scientifico.
Il principio buffoniano è quindi
scientificamente opinabile, ma è nell’implicito
piano filosofico che esso
assume particolare interesse. Mentre il sapere
scientifico è conoscenza
oggettiva di dati e di fatti, l’opinione
filosofica, in se stessa, è sempre
soggettiva; è semmai la “materia prima” che
essa utilizza che dev’essere
oggettiva. Ma le uniche conoscenze possibili
sono quelle che si offrono
all’approccio scientifico, in quanto rilevabili,
ripetibili, verificabili e
calcolabili. Una filosofia che pretenda un
minimo di credibilità sul piano
gnoseologico non può fare a meno di appoggiarsi
alla scienza per trarne ciò che
abbiamo definito materia prima per le sue indagini e le sue riflessioni.
Buffon, quindi, inconsapevolmente, offre
col suo metodo un’indicazione non
tanto di come debba procedere la scienza,
quanto di come debba procedere la
filosofia. In fondo il contemplatore della
realtà sopra evocato, nella sua
ingenuità-liberta da ogni precedente sapere,
col suo approccio diretto alla
realtà del mondo “fuori di lui”, quale altro-da-sé,
nel rapportare il sé
all’altro da conoscere, è in grado si assumerlo
come denotato reale di un
altro-da-me assodato ripetutamente dall’esperienza,
e non già come un connotato
filosofico pre-formulato da un “come-me”
che prescinda dall’esperienza.
Vediamo ora come Buffon pone il concetto
di
verità e come si mostri scettico sulla possibilità
di conseguirla:
La verità, questo essere metafisico del quale
tutti credono di avere un’idea chiara, mi
sembra così confusa con tanti altri
oggetti che le sono estranei ai quali si
dà il suo nome, che non mi meraviglio
se si stenta a riconoscerla. I pregiudizi
e le false applicazioni si sono
moltiplicati via via che le nostre ipotesi
si sono fatte più dotte, più
astratte, più perfezionate; è dunque più
che mai difficile riconoscere quello
che sappiamo e distinguerlo da quello che
dobbiamo ignorare. [41]
Le nozioni troppo dotte, le astrazioni
infondate, i perfezionamenti fasulli, sono
i principali ingredienti di ogni
falsa verità. Si potrebbe aggiungere che
se il significato del corrispondente
greco di verità, cioè aletheia (άλήθεια),
fosse quello di “non-coprimento” avanzato
da Heidegger, in riferimento al
discorso buffoniano l’interpretazione heideggeriana
è capovolta, poiché il
“rivestimento”, ovvero il “coprimento”, della
verità, è dato proprio dalle
interpretazioni indebite che l’ermeneutica
metafisica sovrappone al dato reale,
che è “ciò-che-si-dà” e non “ciò-che-si-pensa”.
Né si può fare a meno di
coinvolgere in quest’accusa di mistificazione
quell’autentico “cattivo maestro”
di Heidegger e di molti altri pensatori del
‘900 che è stato Husserl, il quale
aveva sentenziato che le “cose stesse” sono
quelle che si danno all’intuizione
della coscienza e non quelle che si danno
come oggetti del sapere scientifico.
Secondo Husserl solo la “sospensione” dell’assenso
alle verità scientifiche (l’epoché
fenomenologica), in quanto considerate “ovvie”
e intellettualmente rozze,
avrebbe costituito la base di una nuova scienza
e di una conseguente nuova
verità, basata su «l’intuizione “meramente
soggettivo-relativa” della vita
pre-scientifica nel mondo. » [42] E proprio in ciò sta il nocciolo della
mistificazione fenomenologica; non certo
nel proporre un approccio alla realtà
che sia differente da quello scientifico
e che da esso si distingua nei fini
esistenziali rispetto a quelli conoscitivi
in senso stretto.
Il
Nostro prosegue sul tema della verità in ordine ai diversi campi del
sapere osservando:
Vi sono varie specie
di verità: si suole mettere al primo ordine
le verità matematiche, ma non sono
che verità di definizione; queste definizioni
conducono a supposizioni semplici
sì, ma astratte, e tutte le verità, in questo
campo non sono altro che
conseguenze composte, ma sempre astratte,
di queste definizioni. [43]
Buffon sottolinea il fatto che la matematica
si
fonda su assiomi “suoi propri”, che non hanno
alcun riferimento alla realtà,
vedendoli come mere «verità di definizione»
derivanti dall’uso di definizioni
semplici per derivarne definizioni composte,
ma che rimangono sempre astratte.
Ed inoltre:
Ciò che noi chiamiamo
verità matematica, si riduce dunque ad identità
di idee e non ha alcuna realtà:
noi supponiamo, ragioniamo sulle nostre supposizioni,
ne traiamo delle
conseguenze, concludiamo, e la conclusione
od ultima conseguenza è una
proposizione vera relativamente alla nostra
supposizione, ma questa verità, non
è più reale della supposizione stessa. [44]
Cogliamo qui, come altrove, un evidente scetticismo.
La matematica, che ha reso possibili straordinari
progressi nella definizione
del “dato”, è qui parzialmente svalutata
sulla base di un suo unico “valore di
supposizione” che non legittimerebbe la sua
applicazione alla sfera del
concreto. Noi riteniamo che in ciò egli abbia
in parte ragione e in parte
torto, ma che la dicotomia nasca dal fatto
che ieri come oggi non venga tematizzato
il concetto di “realtà” e si utilizzi ambiguamente
quello di “verità”. Ma
Buffon insiste nel rimarcare l’astrattezza
delle definizioni matematiche, non
riconoscendo loro una relazione diretta con
le definizioni scientifiche,
rilevando che «hanno il vantaggio di essere
sempre esatte e dimostrative,
rimanendo astratte, intellettuali e arbitrarie.
Un’arbitrarietà come
”intellettualità” priva di contatti col concreto
reale. Altra cosa le
asserzioni della fisica:
Le verità fisiche,
invece, non sono affatto arbitrarie e non
dipendono da noi, perché, invece di
poggiare su nostre supposizioni, poggiano
su fatti; una successione di fatti
simili o, se si vuole, una frequente ripetizione
o una successione ininterrotta
degli stessi avvenimenti, forma l’essenza
della verità fisica; ciò che è
chiamato verità fisica non è dunque che una
probabilità, ma è una probabilità
così grande che equivale a una certezza.
[45]
Successioni e ripetizioni di “fatti” non
pretendono di costruire una verità, ma la
probabilità che di verità oggettiva
si tratti è assai elevata, sì da porsi come
unico elemento probatorio in una
corsa di approssimazione al “reale”, che
Buffon, da uomo settecentesco,
confonde ancora con il “vero”. Opinione che
suona ai giorni nostri un poco
ingenua, ma che è rivelativa dell’atteggiamento
dello studioso che fa
riferimento sì ad oggetti fisici ma che lavora
perlopiù su entità biologiche,
quindi “non matematizzabili”, che si offrono
solo a una descrizione-definizione
di carattere verbale. Dopo aver rilevato
che si può parlare anche di verità
morali, ma che queste sono solo in parte
tali, concernendo la sfera della
convenienza e della probabilità, Buffon giunge
alla seguente conclusione:
«L’evidenza matematica e la certezza fisica
sono dunque i due soli aspetti
sotto i quali dobbiamo considerare la verità.
Allontanandoci dall’una o
dall’altra, non incontreremo che verosimiglianza
e probabilità.» [46] Da
ciò la suddivisione delle conoscenze in quelle
evidenti e certe, fondate sui
dati astratti della matematica associati
alla concreta realtà fisica, e in
quelle soltanto congetturali e probabili.
Le verità evidenti sono quelle che
riguardano le leggi della natura, verificate
attraverso i fenomeni fisici da
esse dipendenti, e formulabili attraverso
l’associazione della matematica e
della fisica. Da ciò:
Ecco dove l’unione
delle due scienze, quelle matematiche e quella
della fisica, può risultare
molto vantaggiosa: una dà il quanto, l’altra
il come delle cose, e poiché qui
si tratta di combinare e di valutare delle
probabilità, per giudicare se un
effetto dipende più da una causa che da un’altra,
dopo aver immaginato mediante
la fisica il come, cioè dopo aver constatato
che un certo effetto potrebbe
dipendere da una certa causa, e se si trova
che il risultato si accorda con le
osservazioni, la probabilità indovinata giusta
aumenta tanto da diventare una
certezza, senza questo aiuto sarebbe rimasta
una semplice probabilità. È
tuttavia vero che questa unione di matematica
e fisica può avvenire solo per un
ristrettissimo numero di soggetti: perché
questo si verifichi è necessario che
i fenomeni, che noi cerchiamo di spiegare,
siano suscettibili di venire
considerati sotto forma astratta, e che per
la loro natura siano svuotati di
quasi tutte le qualità fisiche, perché il
calcolo non potrebbe esse loro
applicato, se essi fossero in minima parte
compositi. [47]
Buffon
sottolinea che la matematica si coniuga perfettamente
con la fisica (ma qui il
termine ha un senso più vasto e può concernere
tanto la chimica quanto la
biologia ,la mineralogia, la zoologia o la
botanica) ogni qual volta il
fenomeno è esprimibile in forma astratta
(con un’equazione), ma questi casi
sono pochissimi. Però la matematizzazione
dei fenomeni aumenta man mano che
nuove leggi concernenti la materia vengono
scoperte e debitamente formulate con
equazioni. Siccome nel Settecento queste
formulazioni erano ancora
relativamente poche, si giustifica il giudizio
di Buffon, oggi, che sono
diventate molte di più, il numero di fenomeni
naturali definibili con equazioni
matematiche è enormemente aumentato. Le definizioni
matematiche cessano quasi
di essere astratte nel momento in cui, “applicate”
al reale concreto,
permettono sia di “leggerlo” sia di calcolare
(in base ad unità di misura
convenzionali) determinati effetti fenomenici
della realtà fattuale. A questo
punto diventa allora legittimo asserire che,
in virtù dell’utilizzabilità di
tali dati per ulteriori indagini e per specifiche
applicazioni tecnologiche, le
definizioni matematiche di oggetti della
fisica perdono il loro carattere
astratto e si convertono in definizioni quasi-concrete
che sono sfuggite
completamente al Nostro.
Il Secondo
Discorso della Storia naturale, che ha per titolo Storia e teoria
della terra, dà inizio alla numerosissima serie delle
trattazioni relative
ai vari campi del sapere ed entrare nei dettagli
di esse esula i limiti del
presente lavoro. Questo secondo Discorso è stato considerato giustamente
il primo saggio geologico in cui si delinei
una teoria evoluzionistica del
globo, e ciò trova rispondenza nella generale
tendenza buffoniana a cogliere
correttamente la dinamica dell’essere in
tutte le sue forme. In esso è
contenuto anche un importante studio sul
cosmo, espresso nella parte intitolata
Prove della teoria della terra, dove si offre una visione di come la
Terra si è costituita con gli altri corpi
del sistema solare. Buffon, quindi,
dopo essersi occupato del luogo che ospita
la vita quale oggetto principale
delle sue ricerche, sente la necessità di
offrire un quadro teorico completo
del “come” essa si sia formata. Dopo aver
sottolineato l’importanza della
gravità come forza e causa cosmica generale,
nonché «fondamento dell’armonia
dell’universo» [48], egli aggiunge:
Una volta conosciuta
questa causa generale, se ne dedurranno facilmente
gli effetti, se l’azione
delle forze che li producono, non è troppo
complessa; ma basta rappresentarsi
per un solo istante il sistema del mondo
sotto questo punto di vista e ci si
accorgerà quale caos si sia dovuto dipanare.
[49]
Abbiamo già dovuto rilevare come il Nostro
per
un verso sia un naturalista accorto ed acuto,
che vede le cose “come stanno”,
ma che per altro verso si comporti anche
come un teologo che vuol dirci come le
cose “debbono stare”. Anche qui ne abbiamo
un esempio, poiché se Dio ha dato
alla Natura quelle istruzioni definite e
inviolabili per animare la materia e
formare un universo perfetto non si vede
poi il perché la natura stessa avrebbe
dovuto dipanare il caos. In altre parole, alla domanda: “perché
il caos
invece dell’ordine?” non solo non si fornisce
risposta, ma si sottolinea ad
ogni pié sospinto che il Creatore, con la
sua onniscienza e onnipotenza, ha
dato al cosmo “tutte” le istruzioni (le leggi)
di come avrebbe dovuto
configurarsi. Ma proseguiamo:
I pianeti principali
sono attratti dal Sole, il Sole è attratto
dai pianeti, i satelliti sono
attratti dai loro pianeti principali, ciascun
pianeta è attirato da tutti gli
altri ed esso, a sua volta, li attira; tutte
queste azioni e reazioni variano
secondo le masse e le distanze; esse producono
ineguaglianze e irregolarità:
come combinare e valutare una così grande
quantità di rapporti? […] Tuttavia queste difficoltà sono state
superate, il calcolo ha confermato ciò che
la ragione aveva supposto […] Una
cosa solo si oppone, ed in effetti è indipendente
da questa teoria, la forza
d’impulsione: risulta evidente che se la
forza di attrazione attira sempre i
pianeti verso il Sole, essi cadrebbero perpendicolarmente
su questo astro, se
non ne fossero allontanati da un’altra
forza che non può esser se non una spinta
in linea retta, il sui effetto si
eserciterebbe sulla tangente dell’orbita,
se la forza d’attrazione cessasse per
un solo istante. Questa fora d’impulsione
è stata certamente comunicata da Dio,
quando dette il via all’universo. [50]
Buffon
è un fedele newtoniano, però non riesce ad
attenersi all’hipoteses non fingo,
e quihnid, “teologicamente”, vuole spiegare
ciò che naturalisticamente si
presenta come non-definito. Abbiamo già rilevato
come egli abbia dato
importanti impulsi ad una concezione dinamica
del cosmo, della Terra e del
mondo vivente, ma come, insieme, patisca
una tendenza, tutta metafisica, a
“voler definire”. Per fare ciò è fatale che
egli ricada nelle braccia di
Cartesio, ricorrendo ad una causa meccanica
ipotetica, come l’impulsione,
che spiega il mancato collasso gravitazionale
sul corpo di maggior massa, nel
nostro caso il Sole, quale forza contraria
alla gravità. Ricorso che fa
riferimento alla cartesiana ed anti-newtoniana
“teoria dei vortici” e più in
generale al meccanicismo del grande metafisico
di La Haye. Ci troviamo quindi
di fronte ad un opera di conciliazione degli
inconciliabili e ad un sincretismo
tra la scienza newtoniana e la metafisica
cartesiana che fa del Nostro, in
astronomia, non solo un divulgatore ma un
“inventore“ di una teoria cosmologica
ibrida. Per certi versi, tuttavia, si potrebbe
persino sostenere che egli sia
stato un anticipatore di Einstein, che nel
1917, epoca in cui non era ancora
nota l’espansione dell’universo, aveva postulato
la “costante cosmologica” a
corollario della relatività generale quale
forza centrifuga opposta a quella
gravitazionale.
Due
forze opposte, quindi, muovono i pianeti,
la gravità e l’impulsione;
la risultante meccanica che ne deriva determina
l’orbita del corpo celeste. Ma
le comete sono corpi anomali, poiché l’impulsione
in esse non presenta alcuna
costanza e nessuna regolarità. È da un presupposto
di questo tipo che nasce
quell’ipotesi cosmogonica che attirerà l’attenzione
di Laplace:
Non si può immaginare
con un certo grado di probabilità che una
cometa, cadendo sulla superficie del
Sole, abbia spostato questo astro e ne abbia
staccato alcune piccole parti alle
quali avrebbe comunicato un moto di impulsione
nello stesso senso, con un solo
urto, di modo che i pianeti avrebbero, in
altri tempi, appartenuto al corpo del
sole, e ne sarebbero stati staccati da una
forza impulsiva comune a tutti, da
loro ancor oggi conservata? [51]
Le comete sono corpi che hanno sempre
affascinato l’uomo e la teologia, ed anche
nel “razionale” Settecento erano
adombrate viste come cause della formazione
dei pianeti. Vi è traccia di ciò
nel lII libro dei Principia di Newton e soprattutto nella Lettera
sulla cometa di Maupertuis [52], ma
è indubitabile che qui Buffon offra un’ipotesi
originale non priva di
plausibilità. Il suo presupposto è che la
materia di cui sono costituiti i
pianeti sia «pressoché identica» a quella
del Sole «per cui si può pensare che
essa ne sia stata staccata.» [53]
Questa materia all’inizio era un «torrente
» di materia informe solo più tardi
coagulatasi in globi attraverso un complesso
gioco di accelerazioni o di
spinte, col quale, in un processo che Buffon
accosta a quello delle eruzioni
vulcaniche. Si sarebbe avuta una successione
di «vortici» [54] la cui
forza impulsiva si sarebbe sommata via via.
Egli immagina anche le possibili
obiezioni alla sua teoria e ne formula le
risposte, concludendo: «Si può dunque
credere con una certa verosimiglianza che
i pianeti siano appartenuti al Sole».
In
virtù di questa teoria (che diventa nota
nel 1745) Laplace gli riconoscerà la
capacità di guardare “indietro”, all’origine
dei corpi del sistema solare,
scrivendo: «Buffon è il solo che io sappia
che dopo la scoperta del vero
sistema del mondo abbia tentato di risalire
all’origine dei pianeti e dei
satelliti. Egli suppone che una cometa, cadendo
sul sole, ne abbia spinto fuori
un torrente di materia che si è riunita lontano,
in diversi globi più o meno
grandi e più o meno lontani da questo astro;
questi globi diventati,
raffreddandosi, opachi e solidi, sono i pianeti
e i loro satelliti.» [55]
Com’è noto, Laplace, pur prestando attenzione
a quest’ipotesi farà poi propria
quella avanzata nel 1755 da Kant in Storia generale della natura e teoria
del cielo (con la quale il sistema solare si sarebbe
formato dalla
condensazione di una nube di materia interstellare),
sviluppandola in senso
quantitativo nel 1796.
Nella
parte finale delle Conclusione di Storia e teoria della terra, ci
rendiamo conto come Buffon, oscillando tra
scienza e metafisica, possegga
un’apertura mentale propria della prima,
con
una consapevolezza dei “tempi del mondo”
che si lascia alle spalle ogni
scoria teologica laddove chiosa:
Dobbiamo tuttavia
confessare che possiamo esprimere giudizi
molto imperfetti sulla successione
delle rivoluzioni naturali; che ancora più
approssimativamente noi possiamo
giudicare il susseguirsi degli accadimenti,
dei mutamenti e delle alterazioni;
che la mancanza delle testimonianze storiche
ci priva della conoscenza dei fatti;
ci mancano esperienza e tempo; noi non riflettiamo
che il tempo a noi mancante
non manca affatto alla natura; vogliamo riportare
a quello che è l’istante
della nostra esistenza i secoli passati e
i tempi avvenire, senza considerare
che l’istante della vita umana, che ha la
lunghezza concessole della storia,
non è che un punto nel tempo, un solo fatto
nella storia dei fatti di Dio. [56]
Considerazione profonda (dove la parola “Dio”
sostituisce nella chiusa quella di
“natura”) che mette in luce uno dei maggiori
problemi interpretativi di
tutte le questioni scientifiche che in qualche
maniera confliggono o
interferiscono con quelle teologiche. L’universo
esiste da circa 13,7 miliardi
di anni, la vita sulla Terra da 3,5 circa,
l’homo sapiens da meno di 0,0002.
Una vera scienza si definisce in alcuni campi
“pionieri” nel Settecento, in
altri nell’Ottocento, in altri ancora solo
nell’ultimo secolo, un tempo
insignificante rispetto ai problemi gnoseologici
principali, come è
insignificante il tempo di presenza della
specie homo sapiens nel cosmo.
E tuttavia, restiamo così antropocentrici
da vedere il cosmo con gli occhi
dell’uomo e non per ciò che esso è. In realtà
noi non riusciamo a pensare i
tempi “cosmici”, formuliamo dei numeri che
li definiscono, ma pensiamo solo i
numeri e siamo del tutto incapaci di penetrare
la realtà che essi esprimono. La
maggior parte delle persone (e purtroppo
anche numerosi scienziati) si limitano
a basare le loro considerazioni sui tempi
“storici”, e in base a questi,
talvolta, si fidano assai più dei racconti
biblici che degli studi cosmologici.
Buffon, nelle sue considerazioni enuclea
in maniera corretta il problema e nel
contempo rivela l’umiltà dell’uomo di scienza
nei confronti della vastità di un
ignoto che suggerisce il rassegnato ignorabimus.
Nel I
Capitolo del vol 2° dell’Histoire, dal titolo La natura dell’uomo, si pone il problema di conciliare la scienza
con la fede affrontando lo scottante problema
dell’anima, dove troviamo un
evidente tentativo di staccare l’uomo dagli
altri animali e sottolineare la
specificità dell’anima umana in una visione
dualistica che la mantiene separata
dal corpo. E tuttavia, sin dal secondo capoverso,
allorché egli afferma che:
«Inalterabile nella sostanza e impassibile
nell’essenza, essa è tuttavia sempre
la stessa; […] » [57]
incorre nella censura della Sorbona, che
nell’«impassibilità essenziale» vede
una violazione della dottrina cristiana.
Ciò perché all’anima, dovendo godere
in paradiso e patire all’inferno, non può
essere attribuita alcuna
impassibilità. Al ché il Nostro preciserà
che intendeva affermare essere essa
impassibile alle «impressioni esterne» di
tipo materiale, in questa vita,
perché potrebbero distruggerla, ma non nell’altra
vita, quella dell’aldilà. Ma
Buffon sviluppa poi un dualismo radicale
nel sostenere che l’anima è una
«sostanza semplice, indivisibile e con una
sola forma», in quanto si presenta
solo nel pensiero, mentre il corpo non è
una sostanza, ma piuttosto: «un
oggetto capace di ricevere delle forme analoghe
a quelle dei nostri sensi,
tutte altrettanto incerte e altrettanto variabili
della natura di quegli stessi
organi, […] » [58] Il fatto è, aggiunge
Buffon, che le nostre conoscenze sulla natura
si formano attraverso «paragoni»,
mentre ciò che è spirituale, a cominciare
da Dio, è «incomparabile» e
«incomprensibile». Affermazione che naturalmente
sarà censurata dai teologi
sorboniani e che egli ritratterà insieme
a quella che riconosce
l’inscindibilità di anima e corpo (altrimenti
verrebbe negata la resurrezione
del corpo al Giudizio Universale), aggiungendo:
«poiché non solo ce l’insegna
la fede ma in più la saggezza e la bontà
di Dio». Ritrattazioni a parte
(dettate da una sano e “materiale” istinto
di conservazione) rimane il fatto
che il Nostro sviluppa un discorso tutto
teso a sostenere, “cartesianamente”, l’immaterialità
dell’anima umana. Mentre si possomo avere
dubbi circa l’esistenza del corpo, in
quanto soltanto percepito dai sensi:
Che l’anima esista ci
è dimostrato, e anzi noi facciamo tutt’uomo
con l’esistenza di essa: per quanto
riguarda noi, essere e pensare sono la stessa
cosa; questa verità è intima e
più che intuitiva, è indipendente dai nostri
sensi, dalla nostra immaginazione,
dalla nostra memoria e da tutte le nostre
altre facoltà relative. L’esperienza
del nostro corpo e degli altri oggetti esterni
è dubbiosa per chiunque ragioni
senza pregiudizi: quell’estensione in lunghezza,
larghezza e profondità che
chiamiamo corpo, e che sembra appartenerci
così da vicino, cos’altro è,
infatti, se non una testimonianza dei nostri
sensi? Gli stessi organi materiali
dei nostri sensi cos’altro sono se non conformità
con ciò che li colpisce? [59]
Il discorso è sconcertante ed ai limiti
dell’incoerenza, poiché Buffon pare collocarsi
a metà tra Cartesio e Berkeley
nell’asserire che i pensiero e l’anima sono
omogenei e di natura differente da
quella della materia, mettendone in dubbio
l’esistenza in quanto pura
percezione sensoria attraverso il “rapporto
tra omogenei”. Ma con ciò l’anima,
ed implicitamente anche il pensiero che le
è omogeneo, vengono esclusi dalla
conoscenza di ogni entità materiale per una
sorta di “incompatibilità”. Tanto
più che aggiunge:
E il nostro senso
interno, la nostra anima, ha forse qualcosa
di simile, qualcosa in comune con
la natura degli organi esterni? La sensazione
eccitata nella nostra anima dalla
luce o dal suono, assomiglia forse a quella
tenue materia che sembra propagare
la luce o a quel tremolio che il suono produce
nell’aria? [60]
Qui pare addirittura che il Nostro si lasci
andare a un’ipotesi che è difficile non definire
“mistica”, in base alla quale
la luce ed il suono sarebbero immateriali!
Egli prosegue imperterrito sullo
stesso tono continuando ad avvoltolarsi nel
suo dualismo misticheggiante, il
cui fine evidente è per un verso separare
nettamente l’homo sapiens
dagli altri mammiferi e per altro verso colpire
Linneo, “colpevole” secondo
lui, di averlo collocato accanto ai primati.
Abbiamo quindi un Buffon che per
un verso è un grande naturalista, per l’altra
un convinto cristiano, ma per un
terzo persino un eretico che nella sua tendenza
ad esaltare l’essenza
dell’uomo, come anima certa collocata in
un corpo incerto, finisce in un
radicalismo spiritualistico difficilmente
conciliabile con la dottrina
cristiana. È tuttavia in questo spirito che
nel volume IV de l’Histoire
il Nostro, nel definire il concetto di “natura”,
fa dell’autentica teologia
scrivendo:
La Natura è il sistema
di leggi stabilito dal Creatore per l’esistenza
delle cose e la successione
degli esseri. Ma essa non è una cosa, perché
sarebbe tutto; e non è un essere,
perché sarebbe Dio; possiamo considerarla
come una potenza viva e immensa che
abbraccia tutto, che anima tutto e che, subordinata
a quella del primo Essere,
ha cominciato a oprare solo per un suo ordine
e continua a operare sol grazie
al suo concorso e con il suo consenso. [61]
Precisazione importante: la natura non è
autonoma, poiché agisce ed opera agli ordini
di Dio. Essa è «parte della
Potenza divina» ed è «un’opera sempre
viva, un operaio sempre attivo che sa utilizzare
tutto e che, pur lavorando
sempre sullo stesso fondo, bel lungi dall’esaurirlo
lo rende inesauribile: i
suoi strumenti sono il tempo, lo spazio e
la materia, il suo oggetto è
l’universo, il suo scopo, il movimento e
la vita.» [62] Si può
rilevare che: 1. la Natura non è la materia,
che è solo un suo strumento,
insieme allo spazio e al tempo, 2. l’universo
si direbbe creazione “sua”, per
quanto su ordine divino, 3. il suo fine è
toglier la materia bruta da una
quiete e non-forma originarie per conferirle
movimento e vita. Non sappiamo con
quale consapevolezza, ma si direbbe che qui
Buffon trasformi il Demiurgo
platonico (che prende ordini dal Bene) nella
Natura che prende ordini dal Dio
cristiano. Non siamo quindi solo al vitalismo,
ma ad un vero e proprio
ilozoismo, anche perché la natura per eseguire
degli ordini li deve
comprendere, per cui essa è assai più omogenea
a Dio che alla materia bruta che
anima e mette in movimento.
Ma
veniamo alla teorizzazione delle moules, le molecole organiche viventi,
accanto a quella del calore, che già avevamo
visto a proposito della
germinazione:
I due strumenti
principali dell’azione di questa potenza
sui corpi bruti sono l’attrazione e
l’impulso; i principi attivi che essa mette
in opera per la formazione e lo
sviluppo dei corpi organizzati, sono il calore
e le molecole organiche viventi.
[63]
Essa opera quindi per mezzo di tre
strumenti-materiali di base (materia, spazio
e tempo), due strumenti “attivi”
(attrazione ed impulso) e due principi (il
calore e le molecole viventi). Le moules
sono quindi una sorta di “atomi” del vivente,
elementi indivisibili del
costituirsi della biosfera. Ma è interessante
cogliere meglio come si definisca
la Natura rispetto a Dio:
Con tali strumenti
[l’attrazione e l’impulso], cosa non può
la Natura? Potrebbe tutto se potesse
anche annientare e creare; ma Dio ha riservato
a se stesso questi due estremi
del potere: annientare e creare sono prerogative
dell’onnipotenza; i soli
diritti che essa ha voluto cedere sono alterare,
modificare, distruggere;
sviluppare, rinnovare, produrre. Ministro
dei suoi ordini irrevocabili,
depositaria dei suoi decreti immutabili,
la Natura non si allontana mai dalle
leggi che le sono state prescritte, non cambia
niente dei piani che le sono
stati tracciati, e tutte le sue opere presentano
il sigillo dell’Eterno:
quest’impronta divina, prototipo inalterabile
delle esistenze, è il modello su
cui essa lavora; modello i cui elementi sono
tutti espressi in caratteri
indelebili e dati una volta per tutte, modello
sempre nuovo, che il numero
degli stampi o delle copie, per quanto infinito
sia, non fa che rinnovare. [64]
Dunque “rinnovare” e non “determinare”? Qui
Buffon, in questo suo furor teologico, finisce per mettere in mora tutto
ciò che aveva sostenuto nel Primo discorso, che pareva porre una tesi
evoluzionistica, mentre qui dà l’impressione
di sostenere un vero fissismo. In
realtà egli pare distinguere tra leggi del vivente (elementi del
modello) e specie, la domanda che però emerge è: perché chiamare
modelli
prima l’ “una volta per tutte” e poi il “sempre
nuovo”? L’ossimoro è evidente e
l’incoerenza plateale; non trova altra spiegazione
che nella volontà del
naturalista di essere anche teologo. La domanda
ovvia è: perché? Per un
conflitto interiore teso a conciliare fede
e ragione? Per paura di andare
troppo “fuori schema”? Per controbilanciare
un evoluzionismo contrario al
fissismo biblico? Domande senza risposta.
Ma,
d’altra parte, il Nostro è personaggio troppo
intelligente per cadere in tali
contraddizioni senza esserne consapevole.
Tentativo di confondere un pò le
carte per far accettare un dinamica della
Natura che appare troppo autonoma? La
questione rimane aperta. Seguiamo l’ulteriore
precisazione: «La prima di queste
forze [l’attrazione] è ripartita uniformemente,
la seconda [l’impulso], invece,
è stata distribuita in misura diseguale:
gli atomi di materia hanno una stessa
quantità di forza di attrazione, i globi
[i corpi celesti] una quantità diversa
di forza d’impulso; […] » [65]. Il
cielo (il cosmo) è accessibile solo in minima
parte alla conoscenza umana,
sicché: «limitato all’atomo terrestre su
cui vegeta, l’uomo vede quest’atomo
come un mondo e non vede i mondi come atomi.»
Considerazione profonda, che
rileva come l’uomo tenda a vedersi al centro
dell’universo considerando un “suo
mondo” il pianeta Terra senza avere contezza
che esso è solo un atomo tra
infiniti. Le comete sono oggetti ai quali
Buffon riserva particolare
attenzione, egli le immagina molto più numerose
dei pianeti e legate al Sole
quale «focolare comune» dal quale sono attratte
«premendo» su esso,
«aumentandone il carico e contribuendo con
il loro peso ad alimentarlo». Il
Sole resta immobile «per la sua stessa grandezza»
e «regge gli altri globi» [66]
insieme come le comete, le quali, però:
[…] vanno soggette ad
anomale vicissitudini proprio per questa
alternanza di caldo e di freddo
estremi nonché per le variazioni e il loro
movimento, che è ora incredibilmente
accelerato e ora infinitamente ritardato:
esse sono, per così dire, dei mondi
in disordine. [67]
Le comete posseggono quindi uno stato cosmico
bizzarro che parrebbe quindi indeterministico
a confronto col sostanziale
determinismo del resto del cosmo, ordinato
dalla Natura (con l’attrazione e
l’impulso) in base alle istruzioni date da
Dio. Un indeterminismo che troverà
riscontro nelle ardite ipotesi buffoniane
circa la biosfera, ma, anche su
questo tema, con oscillazioni continua tra
fughe in avanti e passi indietro.
Ogni ipotesi evoluzionistica pare smentita
all’inizio della Seconde vue
con cui si apre il XII volume de l’Histoire, dove Buffon afferma:
Un individuo, di
qualsiasi specie, non è niente nell’Universo;
cento, mille individui non sono
ancora niente: le specie sono i soli esseri
della natura; esseri perpetui che
esistono da quando esiste la natura, che
sono costanti quanto lo è essa e che
noi consideriamo, per giudicarli meglio,
non già come una collezione o una
successione di individui simili ma come un
tutto indipendente dal numero e
indipendente dal tempo; un tutto sempre vivente
e sempre identico a se stesso; [68]
Un’affermazione di tal genere fa di ogni
specie
un “universale” metafisico in prospettiva
fissistica. Avevamo già visto come su
questo argomento Buffon oscilli in un ossimorico
accostamento di specie
trasformiste e di specie fisse (come la specie
umana), o forse le specie sono
mutevoli in quanto “si modificano” nell’estrinsecarsi
in “varietà”, mentre sono
fisse in quanto “categorie” biologiche. Il
termine specie potrebbe
essere stato utilizzato in maniera confusa,
ma non intrinsecamente ambigua, in
quanto Buffon avrebbe avuto chiara la distinzione
tra le due accezioni [69]. In
realtà egli non è nuovo a tali posizioni
ossimoriche e questa concezione di
specie “fisse/mobili” non deve sorprendere
più di tanto, in quanto, come si è
già notato, egli parla spesso come un confusionario
naturalista/metafisico. Ma il prosieguo
non è meno interessante: «un tutto che nel
computo della creazione è stato
considerato un solo prodotto, e che nella
Natura costituisce pertanto
un’unità.» Mentre avevamo visto a suo tempo
una Natura come
formatrice-ordinatrice per conto di Dio,
qui abbiamo una Natura-Specie, come
unità vivente fissa ma passibile, al suo
interno, di variazioni. E poi la
precisazione:
Di tutte queste unità,
la specie umana è la prima; le altre, dall’elefante
alla tarma, dal cedro
all’issopo, sono in seconda e terza linea;
e sebbene diverse per forma,
sostanza e anche vita, ciascuna ha il proprio
posto, sussiste autonomamente, si
difende dalle altre, e tutte insieme compongono
e costituiscono la Natura
vivente, che si mantiene e si manterrà come
si è mantenuta finora. [70]
Le unità-specie sono quindi originarie e
immutabili e, anti-evoluzionisticamente,
“fuori del tempo”. Infatti «un giorno,
un secolo, un’era ,nessuna porzione di tempo
fa parte della sua durata; il
tempo è relativo solo agli individui, agli
esseri la cui esistenza è
transitoria». Siamo qui tornati alla
distinzione sostanza/accidente di aristotelica
memoria ed insieme in piena
teologia idealistica, confermata dal successivo
richiamo all’«armonia
dell’universo» [71] Più avanti Buffon precisa:
La particolare
costituzione degli animali e delle piante
è relativa alla temperatura generale
del globo terrestre, e tale temperatura dipende
dalla sua posizione, cioè dalla
distanza alla quale si trova rispetto al
sole: a una distanza maggiore i nostri
animali e le nostre piante non potrebbero
vivere né vegetare [ma l’uomo
figlio-di-Dio, invece, si?!]; l’acqua, la
linfa, il sangue e tutti gli altri
liquidi perderebbero la propria fluidità.
A una distanza minore svanirebbero e
si dissolverebbero in vapore: il ghiaccio
e il fuoco sono gli elementi della
morte; il calore temperato è il primo germe
della vita. [72]
La precisazione prelude alla teoria delle
moules:
Le molecole viventi
diffuse in tutti i corpi organizzati dipendono,
per l’attività e il numero,
dalle molecole della luce che colpiscono
ogni materia e la penetrano col
proprio calore […] Poiché ogni specie, degli
uni e degli altri [acquatici e
terrestri], è stata creata, i primi individui
sono serviti da modello per tutti
i loro discendenti. Il corpo di ogni animale
o vegetale è uno stampo al quale
si conformano indifferentemente le molecole
organiche di tutti gli animali o
vegetali distrutti dalla morte o consumati
dal tempo; le parti brute che erano
entrate nella loro composizione tornano alla
massa comune della materia bruta,
le parti organiche, che sono perenni, vengono
riprese dai corpi organizzati,
dapprima aspirate dai vegetali, poi assorbite
dagli animali che si nutrono di
vegetali, esse servono allo sviluppo, al
sostentamento e all’accrescimento
degli uni e degli altri; ne costituiscono
la vita e, trapassando continuamente
di corpo in corpo, animano tutti gli esseri
organizzati. [73]
Le moules
sono pertanto gli elementi-base della vita,
che si perpetuano nelle
innumerevoli trasformazioni del vivente in
un ciclo continuo nascita-morte.
Esse però implicano la distinzione rispetto
a parti del vivente che non
sarebbero elementi-base vitali ma solo materia
bruta assunta dall’esser in vita
e che alla morte è restituita al fondo bruto
della materia inerte. In questo
modo noi abbiamo la netta distinzione della
natura in materia bruta e materia
vivente dove questo si perpetua attraverso
tali unità-vita che trapassano da
forma a forma costituendone gli elementi
fondamentali e “fissi”. Ciò poiché «Il
fondo delle sostanze viventi è dunque sempre
lo stesso, esse variano solo per
la forma, cioè per la differenza delle rappresentazioni»
[74] e il
differente assemblaggio delle moules conduce a forme o rappresentazioni
differenti senza che esse mutino esistendo
immutate sin dalla Creazione. Se le
specie animali “superiori”, i mammiferi di
grossa taglia, che come abbiamo
visto sono quelle che Buffon considera “fisse”,
fossero ridotti alla fame dalla
scomparsa delle specie inferiori «la Natura
non risulterebbe né meno piena né
meno vivente; essa non protegge le une a
spese delle altre [parliamo sempre
delle “inferiori”], ma le asseconda tutte.
Essa non si cura, tuttavia, del
numero degli individui, e vede questi ultimi
solo come immagini successive di
una sola e medesima impronta, fuggevoli ombre
che hanno l’aspetto di un corpo.»
Si evince qui che gli esseri appartenenti
alle specie “inferiori” sono privi di
individualità, «fuggevoli ombre» del vero
essere vivente, la specie, quale
“stampo” ed “individuo”. Prosegue il Nostro:
Esiste quindi sulla
Terra, nell’aria e nell’acqua, una certa
quantità di materia organica che
niente può distruggere; esiste, nello stesso
tempo, un certo numero di stampi
capaci di assimilarla, che si distruggono
e si rinnovano ad ogni istante; e
questo numero di stampi o di individui, sebbene
variabile in ogni specie, è in
totale sempre lo stesso, sempre proporzionato
alla quantità di materia vivente.
[75]
La quantità globale di materia vivente è
quindi
fissa, come lo sono le specie-stampi, sebbene
“variabili” nelle loro forme. Si
ribadisce qui ciò che avevamo già compreso,
cioè che l’evoluzione riguarda una
prestabilita parte “variabile” del vivente,
ma non la parte “fissa”, che data
dalla Creazione. In questo modo Buffon salva
sia la Bibbia che l’osservazione
naturalistica, poiché i mutamenti “visibili”
sono solo aspetti precari del
vivente (l’accidente) mentre l’essenza della
vita (la sostanza) non muta mai.
Tutte le specie possono quindi manifestare
differenze nei singoli individui (le
«fuggevoli ombre») «ma non tutte hanno varietà
costanti che si perpetuino di
generazione in generazione; più la specie
è elevata più il suo tipo è compatto,
resistente, e meno essa ammette varietà.»
A parte il fatto che la specie umana,
l’elevata tra le elevate, debba considerarsi
ovviamene stabile e “fissa”, è la
dimensione a determinare la fissità:
Poiché il grado di
moltiplicazione degli animali è inversamente
proporzionale al loro ordine di
grandezza, e la possibilità delle differenze
direttamente proporzionale al
numero degli individui generati, era necessario
che vi fossero più varietà tra i
piccoli animali che tra i grandi, e per la
stessa ragione tra più specie
vicine; e poiché l’unità della specie è più
compatta nei grandi animali, la
distanza che li separa dagli altri è più
ampia: non poche varietà e specie
vicine accompagnano, seguono e precedono
lo scoiattolo, il topo e gli altri
piccoli animali, mentre l’elefante cammina
solo e senza pari alla testa di
tutti. [76]
Si accenna qui implicitamente a ciò che ci
sarà
chiaro quando Buffon parlerà della “degenerazione”
animale, ovvero che le
specie inferiori sono molto “più vicine”
di quelle superiori e che quindi potrebbero
essere derivate le une dalle altre: fissismo
quindi nelle superiori ed
evoluzionismo in quelle inferiori.
Il
volume XIV de l’Histoire vede già nel titolo, La degenerazione degli
animali, il suo tema chiave. La degenerazione, la
variazione, è causata da
mutamenti dl clima, dal tipo di nutrizione
e dalle malattie, ma: «Negli animali, questi effetti sono più
rapidi e più grandi; perché essi dipendono
dalla terra molto più di quanto ne
dipenda l’uomo; perché il loro nutrimento
è più uniforme, più costantemente lo
stesso, non elaborato in alcun modo e dunque
ha una qualità più spiccata e un
influenza più forte» Parrebbe che qui se
ne faccia una questione di
“adattamento”; alle variazioni del clima,
dell’alimentazione e dell’impatto
delle patologie. L’uomo, vcstendosi, coltivando,
allevando, vivendo al riparo,
cuocendo i cibi, ecc. sarebbe meno esposto
agli effetti esterni di quanto lo siano
gli animali. Affermazione interessante, poiché
qui parrebbe essere non tanto lo
status ontologico a determinare il destino di una
specie, ma la sua
capacità di reagire e di adattarsi; quindi
la capacità di autodeterminarsi
malgrado una natura che parrebbe non seguire
affatto i criteri dell’”armonia
universale” ma piuttosto quelli di una casualità
perversa. In ogni modo le
cause di variazione evoluzionistica sono
le tre già accennate: il clima, il
cibo e le malattie, viste queste ultime come
conseguenze della domesticazione
forzata, ovvero dell’allontanamento di una
specie animale da luoghi e modi di
vita naturali [77].
Prima
di affrontare il tema della degenerazione
buffoniana dobbiamo precisare che per
il Nostro vi sono in totale 38 specie animali
originarie, delle quali 13
superiori e 25 inferiori. Sono queste ad
essere interessate dal fenomeno sì da condurre
attraverso mutamenti
degenerativi radicali a 190 specie circa.
Entriamo nel vivo dell’argomento:
Ma dopo il colpo
d’occhio appena lanciato sulle varietà, che
costituiscono le alterazioni
particolari di ogni specie, ci si presenta
un fenomeno più vasto, degno di considerazione
ancora maggiore; si
tratta del cambiamento delle specie stesse,
di quella degenerazione più antica
e anzi immemorabile, che sembra essere
avvenuta in ogni famiglia o, se preferite,
in ciascuno di quei generi nei quali
possiamo inserire le specie vicine e poco
diverse tra loro. [78]
Come si noterà qui è introdotto il concetto
di
“famiglia” o di “genere” rispetto a quello
più vago di “specie” usato
indifferentemente in precedenza al posto
anche di “varietà” e “genere”
(famiglia di specie). Buffon prosegue specificando
che l’uomo è nello stesso
tempo «specie e genere», l’elefante, l’ippopotamo,
e la giraffa sono « generi o
specie »semplici senza rami collaterali,
mentre il cavallo, la zebra e l’asino
sono della stessa famiglia, dove il cavallo
è la specie originaria [79]. Se
ne deduce che se dal cavallo, per degenerazione,
sono derivati la zebra e
l’asino, queste due specie sono frutti di
“evoluzione negativa” del primo. Il
fatto che l’asino possa riprodursi con la
giumenta (dando il mulo vero e
proprio) e il cavallo con l’asina (dando
il bardotto) è, secondo Buffon, il
segno che, se si riuscisse ad addomesticare
la zebra, si potrebbe farla
riprodurre con cavallo ed asino in un nuovo
ibrido. Buffon pensa che se la mula
non partorisce non è perché sia veramente
sterile ma perché soffrirebbe di
«circostanze esterne e particolari» sfavorevoli
alla procreazione. Il cane, il
lupo, la volpe e lo sciacallo costituiscono
un altro genere, all’interno del
quale il primato di originarietà è in dubbio
tra il lupo e la volpe [80],
lasciando intendere che le due specie potrebbero
aver avuto un antenato comune.
I grandi felini sono poi raggruppati da Buffon
in una «stessa e malvagia
famiglia» [81] e via via, per gradi
discendenti, passa ad enumerare generi e
specie relative in una galleria
zoologica complessa in cui la degenerazione
diventa la portatrice di mutazioni “in discesa”,
dall’animale più
originario a quello più recente.
Appare
chiaro che questo tipo di ipotesi, per quanto
lasci spazi interpretativi del
dettato biblico che con essa si possano accordare,
è molto coraggiosa ed è
sicuramente il primo tentativo chiaro di
postulare la derivazione di una specie
da un'altra. Ma essa appare omologa al fenomeno
della “variazione”, nel senso
che si presuppone che nella specie “prima”
in qualche modo siano pre-impostate
le derivate. È quindi chiaro che ciò non
ha nulla a che fare non solo con
l’evoluzionismo darwiniano ma neppure con
quello lamarckiano, presupponendo
entrambi una “mutazione”, casuale la prima
e funzionale la seconda, che qui non
vengono contemplate. In ogni caso questo
fenomeno degenerativo presuppone tempi
lunghi che conducono direttamente al tema
della cronologia cosmologica,
relativamente alla quale, è il caso di
ricordarlo, era ancora perfettamente operante
la convinzione della validità dei
calcoli fatti a metà del Seicento dal teologo
James Ussher che aveva analizzato
le genealogie bibliche concludendo che il
mondo era stato creato nel 4004
avanti Cristo. Passiamo ora a considerare
il testo del I capitolo del Sulle
epoche della Natura che è pubblicato nel 1778 e che introduce
ad altri
sette capitoli, ognuno dedicato a un epoca.
Buffon è del tutto consapevole che
il mondo ha una storia e che, aldilà dell’alternarsi
di stagioni periodiche, ha
vissuto in passato stati e situazioni differenti,
come si evince chiaramente da
questo passo iniziale:
Poiché la natura è
contemporanea della materia, dello spazio
e del tempo, la sua storia è quella
di tutte le sostanze, di tutti i luoghi,
di tutte le età: e sebbene sembri, a
prima vista, che le sue grandi opere non
si alterino né si modifichino, e che
nei suoi prodotti, anche i più fragili e
passeggeri, essa si mostri sempre e
costantemente la stessa, poiché non altro
che i suoi primi modelli, anche se
con modalità diverse, ricompaiono continuamente
ai nostri occhi, tuttavia ci
accorgeremo, osservandola da vicino, che
il suo corso non è del tutto uniforme;
constateremo che essa ammette sensibili variazioni,
che subisce successive
alterazioni, che si presta anche a nuove
combinazioni, a cambiamenti di materia
e di forma, e, infine, che quando sembra
fissa nell’insieme altrettanto essa è
variabile in ciascuna delle parti; e se la
consideriamo in tutta la sua
ampiezza non possiamo dubitare che essa sia,
oggi, molto diversa da ciò che era
all’inizio e da ciò che è stata in séguito:
le sue opere sono appunto questi
cambiamenti. [82]
Passo un poco noioso e indubbiamente ridondante
e piuttosto scontato. Eppure, a metà del
Settecento scontato non era affatto,
perlomeno nella cultura generale e generica.
Si
tenga presente che il discorso del Nostro
è tutto teorico, poiché le evidenze
osservazionali sull’evoluzione della biosfera
erano scarse ed incerte, la
paleontologia ai primi passi. Assai probabile
che il discorso non sia tutto
farina del suo sacco, ma ciò non toglie la
sua importanza, specialmente in
ragione del fatto che più generazioni, dalla
seconda metà del secolo, si
faranno una cultura naturalistica proprio
sulle pagine de l’Histoire,
sicuramente l’opera più diffusa e importante
sull’argomento. Buffon spiega poi
come non solo la Terra ma il cosmo in generale
sia mutato nel tempo «in un
movimento continuo di variazioni successive.»
[83] Per leggere la storia del mondo si individuano
tre strumenti: i “fatti”, i “monumenti” e
le “tradizioni”, tutti suddivisi in
cinque fattori [84]. I “fatti” sono: 1. la
rotazione della Terra ha determinato lo schiacciamento
dei poli, 2. l’interno
di essa è caldo non per effetto del Sole,
3. il calore della stella sarebbe
insufficiente a mantenere la vita senza quello
interno, 4. il materiale di cui
è composto il pianeta è perlopiù di natura
vetrosa (silicato), 5. sin quasi a
2000 metri di altezza si rinvengono conchiglie
fossili [85]. Seguono i “monumenti: 1. i materiali calcarei
che si rinvengono sopra e dentro la terra
derivano da conchiglie e simili, 2.
esaminando tali conchiglie si constata che
non sono tipiche dei mari adiacenti,
3. in Siberia si rinvengono scheletri di
animali (elefanti, ippopotami,
rinoceronti) che vivono ora molto più a sud,
4. anche nel Nord-America si
trovano reperti di tali animali che non esistono
nel Sud-America, 5. si
rinvengono fossili di animali che non vivono
più in alcuna parte del mondo. Si
comprende bene come la 5. sia fondamentale
e si coniughi con le altre quattro,
mentre fatti e monumenti costituiscano nell’insieme
un impianto probatorio a
sostegno della storicizzazione del mondo,
corroborata da esplicazioni e
dettagli tecnici su cui Buffon insiste, dalle
considerazioni sulle ammoniti,
agli spostamenti dell’asse dell’eclittica,
ecc.
La
storia della Terra si distende così attraverso
fasi, od epoche, che Buffon
individua in una stato iniziale di fusione,
seguite da raffreddamento
superficiale. La vita sarebbe nata ai poli
appena la temperatura lo ha permesso
trasferendosi via via verso l’Equatore; c’è
stata poi la separazione dei
continenti, a spiegazione del rinvenimento
di resti di animali non più presenti
in un continente ormai isolato da gli altri,
e così via. Veniamo alla censura
con cui teme di dover fare i conti:
Ma prima di proseguire mi affretterò a prevenire una grave obiezione, che potrebbe anche degenerare in imputazione. Come concilia, mi potrebbe esser chiesto, la grande antichità che lei attribuisce alla materia con le tradizioni sacre, che attribuiscono al mondo solo sei od ottomila anni? Per quanto convincenti siano le sue prove, fondati i suoi ragionamenti ed evidenti i fatti addotti, quelli riferiti nel Libro Sacro non sono forse ancora più certi? Contraddirli non è mancar di rispetto a Dio, che ha avuto la bontà di rivelarceli?
La contrapposizione è tra il riconoscere
l’evidenza di prove e fatti basati sulla
“certezza” e il riconoscere la “bontà”
di Dio, che ci ha “rivelato” cose assai differenti
da tutto ciò. Buffon, memore
dei guai passati sin dal primo volume dell’Histoire, si vede costretto a
porre egli stesso il problema per prevenire
i teologi della Sorbona. Vi è
dell’evidente viltà in quest’atteggiamento,
che è un riproporsi del problema
“galileiano” di conciliare scienza e fede,
ma vedremo come ogni autore
dell’epoca non “allineato” sulla dottrina
cristiana dovesse in qualche maniera
evitare di incappare nella censura, o attraverso
l’anonimato e la stampa
all’estero, o attraverso l’addomesticamento
del testo (ed è questa la strada
scelta da Buffon). Per poter porre idee “non
conformi” era necessario
accompagnarle con un eccesso di conformità
che le controbilanciasse, sperando
che l’espediente “funzionasse”. Ciò che è
anomalo non è quindi la testimonianza
di fede, ma l’introduzione del discorso fideistico
in un contesto che per sua
stessa natura lo esclude. Vediamo dunque
come Buffon “confeziona” il suo:
Io mi rattristo ogni
qual volta si abusa di questo grande, di
questo santo Nome di Dio; resto
ferito, tutele volte che l’uomo lo profana
e giunge a prostituire l’idea del
primo Essere, sostituendola a quello di fantasma
delle sue opinioni. Più sono
penetrato nelle idee della natura e più ho
ammirato e profondamente rispettato
il suo autore; ma un rispetto cieco sarebbe
superstizione: la vera religione
richiede un rispetto illuminato. [86]
Sono posti due “classici” argomentali
dell’epoca: l’accusa di superstizione nei
confronti di una religiosità rozza e
settaria ed il richiamo all’”illuminazione”
della ragione contro l’irrazionalità
di quella (già usati da Spinoza nel Tractatus theologico-politicus [87]). Il
Nostro sostiene, quindi, che occorre «intendere
correttamente» i termini del
testo sacro, sì che: «lungi dall’offuscare
la verità, essi non possono che
aumentarne il grado di evidenza e di splendore.»
[88] La
spiegazione del perché i passi iniziali del
Genesi e le teorie
scientifiche non entrino in contrasto non
è interessante, e la
reinterpretazione dei testi sacri per conformarli
alle verità fisiche non è né
originale né molto efficace. Il problema
sta sempre nell’atteggiamento, morbido
o rigido, che le autorità religiose decideranno
di assumere e la paura incalza.
Ed allora ecco il tocco finale: come molti
altri prima di lui Buffon mette le
spalle al muro, ponendo le sue tesi come
mere “ipotesi”:
Mi sono permesso
quest’interpretazione dei primi versetti
della Genesi con il solo proposito di
fare un gran bene: quello di conciliare,
finalmente, la scienza della Natura
con quella della Teologia. Esse non possono
trovarsi in contraddizione, secondo
me, che apparentemente; e la mia spiegazione
sembra dimostrarlo. Ma se questa
spiegazione, per quanto semplice e chiara,
apparisse inadeguata o fuori luogo a
qualche spirito troppo rigidamente attaccato
alla lettera, io lo prego di
giudicarmi dall’intenzione e di considerare
che, essendo puramente ipotetico,
il mio sistema sulle Epoche della Natura
non può nuocere alle verità rivelate,
che sono assiomi immutabili, indipendenti
da qualsiasi ipotesi, ai quali ho
sottomesso e sottometto i miei pensieri.
[89]
Su questo capolavoro di ipocrisia chiudiamo
la nostra disamina del
pensiero di Buffon. Forse non un grande scienziato,
ma indubbiamente un grande
divulgatore di scienza, con notevoli impennate
di originalità che abbiamo
cercato di evidenziare. Esse hanno costituito
importanti stimoli di riflessione
anticonvenzionale per i molti studiosi, studenti
e semplici appassionati che si
sono formati sulla monumentale Histoire naturelle.
[1] P-L. M. de Maupertuis, La Venere fisica, a cura di F.Focher, Pavia, Studia Ghisleriana 2003 (Ibis, Como), p.78.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p.80.
[4] Ivi, p.83.
[5] Ivi, p.86.
[6] Ivi, p.87.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, p.96.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p.99.
[12] Buffon, Storia naturale, Torino, P.Boringhieri 1959, p.507.
[13] Ivi, p.9.
[14] Ivi, pp.9-10.
[15] Ivi, p.10.
[16] Ibidem.
[17] Buffon, Essay d’aritmetique morale, in Suppléments à l’Histoire naturelle, vol. 4, 1777. (Storia naturale, cit., p.467).
[18] Buffon, Storia naturale, cit., p.11.
[19] Ivi, p.12.
[20] Ibidem.
[21] P.Vernière, Spinoza et la pensée
française au XVIIe et au XVIIIe siècle, Paris 1954,
vol.2, p.530.
[22] Buffon, Storia naturale, cit., p.12.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, Note, pp.472-473.
[25] Ivi, p.13.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem.
[28] N.A Pluche, Le spectacle de la nature,
Paris 1736, vol.III, p..188.
[29] Buffon, Storia naturale, cit., pp.13-14
[30] Ivi, p.14.
[31] Ivi, p.15.
[32] Ivi, p.21
[33] Ibidem.
[34] Ivi, p.22.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem.
[37] Ivi, p.25.
[38] Ivi, Secondo Discorso, Storia e teoria della Terra, pp.51-52.
[39] Ivi, pp.147-148.
[40] Ivi, p.27.
[41] Ivi, p.41.
[42] E.Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore 1961, p.155.
[43] Buffon, Storia naturale, cit., p.42.
[44] Ibidem.
[45] Ivi, p.43.
[46] Ibidem.
[47] Ivi, p.45.
[48] Ivi, Prove della teoria della Terra, Art.1, Della formazione dei pianeti, p.
[49] Ibidem.
[50] Ivi, pp.99-100.
[51] Ivi, p.101.
[52] Cfr., ivi, p.524.
[53] Ivi, p.105.
[54] Ivi, p.106.
[55] S. de Laplace, Exposition du système
du monde, 4me édition, Paris 1813, p.430.
[56] Buffon, Storia naturale, cit.,, p.452.
[57] G.-L. Leclerc de Buffon, Teoria della natura, a cura di G.Barsanti, Roma –Napoli, Theoria 1985, p.91.
[58] Ivi, p.92.
[59] Ivi, p.93.
[60] Ivi, p.94.
[61] Ivi, p.105.
[62] Ivi, pp.105-106.
[63] Ivi, p.106.
[64] Ivi, pp.106-107.
[65] Ivi, p.108.
[66] Ivi, p.109.
[67] Ivi, p.110.
[68] Ivi, p.115.
[69] Giulio Barsanti rileva che queste pagine del 1765, possono parere fissiste, ma che, allo stesso modo, appena una anno dopo egli con la sua teoria delle “degenerazione” può apparire decisamente evoluzionista. Egli osserva che «In realtà sono le due categorie di “fissismo” e di “evoluzionismo” che fanno nascere quei problemi: tali categorie erano sconosciute ai naturalisti settecenteschi, e i problemi che esse ci pongono non sussistevano allora» Buffon avrebbe fatto riferimento a due diverse possibilità: quella di specie come evolvibili in varietà-specie mutevoli e quella di generi-specie immutabili (in: G.-L. Leclerc de Buffon, cit, nota 117, pp.115-116.).
[70] Ivi, p.116.
[71] Ivi, p.119.
[72] Ivi, pp.119-120.
[73] Ivi, pp.120-121.
[74] Ivi, p.121.
[75] Ivi, p.122.
[76] ivi, p.123.
[77] Ivi, pp.135-147.
[78] Ivi, p.147.
[79] Ivi, p.148.
[80] Ivi, p.160.
[81] Ivi, p.162
[82] Ivi, pp.178-179.
[83] Ivi, p.179.
[84] Ivi, p.180.
[85] Ivi, p.181.
[86] Ivi, p.198.
[87] Cfr.: C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Clinamen 2007, pp.143-147..
[88] Buffon, Teoria della natura, cit., pp198-199.
[89] Ivi, p.205.