XVIII. Diritti civili, tolleranza e felicità

 

                                     

8.1 Legge, uguaglianza, libertà e progresso

 

 

    Questa terza parte del nostro lavoro, consistente in tre capitoli, è introduttiva alla Parte Quarta, che sviluppa il tema della seconda frase del titolo dato al saggio, cioè la rinascita dell’ateismo filosofico. Ci occuperemo qui di alcune tematiche specifiche dell’Illuminismo che solo in parte si connettono direttamene alla rinascita dell’ateismo, ma che sono significative per le determinazione di quel clima culturale che l’ha resa possibile. Esse sono, in primo luogo, la libertà d’espressione, la tolleranza, l’ammissione del diritto al piacere e alla felicità, ed in secondo gli sviluppi della scienza e della tecnica: un orizzonte del sapere che la metafisica secentesca aveva soffocato o lasciato in ombra. In tale contesto trovano posto le opere di personaggi come Cesare Beccaria e Caritat de Condorcet, concernenti specificamente i temi politico-sociali sopra citati, insieme a testi significativi di filosofi-scienziati come Maupertuis e Buffon. L’ultimo capitolo, dedicato alla scienza e alla tecnologia, vuol’essere una sintesi di alcuni presupposti indispensabili della civiltà dei Lumi, ed in qualche caso vere basi culturali per una riproposta (contrastata e repressa) della filosofia atea. Tra i temi socio-antropologici emerge quello di “legge”, che vede in Charles-Louis Secondat de Montesquieu (1689-1755) il suo primo grande teorico.  Egli scrive in De l’esprit des lois (VIII, 3):

 

Il vero spirito di eguaglianza è lontano dallo spirito di estrema uguaglianza quanto il cielo lo è dalla terra. Il primo non consiste nel far sì che tutti comandino o che nessuno sia comandato, ma nell’obbedire o comandare ai propri eguali. Tale spirito non spinge a rifiutare ogni padrone, ma ad accettare come padroni solo i propri eguali. Nello stato di natura gli uomini nascono sì nell’eguaglianza, ma non riescono a conservare tale condizione. La società la fa loro perdere, ed essi ritornano ad esser uguali solo per mezzo delle leggi. [1]

 

Non lo stato di natura produce eguaglianza, bensì le leggi di uno stato civile ed evoluto che implica una gerarchizzazione di compiti e di ruoli ben definiti all’interno di un sistema sociale basato sull’equità e non su un’eguaglianza impossibile. Rousseau, come abbiamo visto, ha un’idea opposta e vede in maniera cogente la necessità dell’eguaglianza, partendo dal presupposto che la civiltà porti disuguaglianza e che solo un ritorno verso lo “stato di natura” renda possibile correggerla.

    Tutti i problemi etici, sociali o politici trovano una loro possibile soluzione in “modelli”; così abbiamo visto come Il contratto sociale proponga un modello democratico cui hanno fatto riferimento i primi governi rivoluzionari. Montesquieu utilizzava invece il concetto di “compatibilità” riferito al massimo di libertà possibile per un contesto “dato”; ne deriva un concetto di politica come “l’arte del possibile”, dettata dalla ragione. In questo senso egli è illuminista mentre Rousseau, latore di un sogno utopico-teologico non lo è. Si pone allora un problema non di poco conto e su cui dobbiamo intenderci con chiarezza, poiché è  del tutto evidente che un utopista come Rousseau abbia una visione socio-politica molto più avanzata di quella di Montesquieu, ma il problema è sempre se un modello sia reale e possibile. La visione del Contratto sociale è “morale”, quindi al di sopra del tempo, ma in quanto tale è anche “fuori” del tempo, Montesquieu ha invece una visione della politica “razionale”, “contingente” e “locale”, sicché egli si pone il problema di che cosa sia il “meglio possibile” per le varie forme di società nel Settecento come aggregazioni di uomini in contesti dati.

    È stato detto essere Montesquieu il fondatore di una “scienza della società” come superamento di una “metafisica della società”. In effetti, se si considerano le ricerche di esimi giusnaturalisti come Grozio o Pufendorf, ci si rende conto come il riferimento a una “società naturale”, sulle cui basi costruire una “società civile”, sia quanto mai astratto e teorico. La ricerca di Montesquieu è invece “empirica”, poiché egli non si pone il problema di costruire dei modelli sociologici astratti e atemporali, bensì del che cosa, ”qui e ora”, si possa fare per migliorare la convivenza tra gli uomini ed organizzarla in maniera adeguata. Le Lettere persiane del 1721 erano state l’occasione per portare una pesante critica ai costumi e alla politica francesi; una sorta di pars destruens preparatoria a una construens che si sarebbe esplicitata con Lo spirito delle leggi, apparso nel 1748 ma rielaborato più volte sino al 1757.  In esse tre immaginari viaggiatori persiani visitano varie parti d’Europa e si scambiano lettere nelle quali riportano le loro impressioni; l’espediente letterario permette a Montesquieu di attribuire a stranieri i rilievi critici che intende sottoporre all’attenzione degli europei, riservando alla successiva opera maggior una più attenta analisi dei problemi con le proposte per la loro soluzione.

    Leggiamo in uno dei Pensieri quale sia la sua idea di legalità:  «Una cosa non è giusta in quanto legge; ma deve essere legge in quanto giusta.» [2], e in un altro che cosa determini una comunità di uomini: «Gli uomini sono governati da cinque cose diverse: il clima, le usanze, i costumi, la religione e le leggi. Quanto più forte è, in ogni nazione, l’azione di una di queste cause, tanto più deboli diverranno le altre.» [3]; in un terzo: «La libertà, questo bene che permette di godere di tutti gli altri beni.» [4] È da assunti di questo genere, semplici e chiari, che Montesquieu si propone di migliorare la convivenza tra gli uomini e nel Libro Primo (§ I) de Lo spirito delle leggi scrive: «Le leggi, nella loro accezione più vasta, sono i rapporti necessari derivanti dalla natura delle cose; e, in questo senso, tutti gli esseri hanno le proprie leggi» [5].  Aldilà del fatto antropico la legge è una generalità dell’esistere ed è funzione dello stato “reale” delle cose per un sistema di riferimento dato. «Esiste dunque una ragione primitiva: le leggi sono i rapporti intercorrenti tra tale ragione e i diversi esseri, nonché i rapporti di questi esseri tra loro.» Questa ragione, che Montesquieu definisce “primitiva”, potrebbe essere tradotta anche con  gli aggettivi “fondante” e “relazionale”, poiché lo stato fondamentale delle cose umane è in virtù di una certa relazione tra esse. Qualunque situazione, per quanto dinamica, “sta” nelle relazioni che la fanno essere, e tali relazioni obbediscono a una ferrea necessità interna.

    Ne deriva una visione deterministica della realtà, che elimina dall’orizzonte antropologico la casualità, ma non l’arbitrarietà umana. Perciò:

 

L’uomo, in quanto essere fisico, è, come gli altri corpi, governato da leggi invariabili. In quanto essere intelligente, viola di continuo le leggi che Dio ha stabilito e cambia quelle che egli stesso stabilisce. Deve governare da solo, tuttavia è un essere limitato; come tutte le intelligenze finite, è soggetto all’ignoranza e all’errore; le sue conoscenze sono nebulose e per di più egli le perde; come ogni creatura sensibile soggetto a mille passioni. [6]

 

Abbiamo qui un’efficace sintesi di vari elementi, dell’homo come oggetto del mondo, dei rapporti sociali, dei limiti intellettuali, della precarietà delle conoscenze, del peso di istinti, passioni e sentimenti nel loro conseguirsi e conservarsi. Sulla funzione di religione, filosofia e diritto:

 

Un tale essere rischiava di dimenticare ad ogni istante il proprio creatore: Dio lo ha richiamato a sé con le leggi della religione; rischiava ad ogni istante di dimenticare se stesso: i filosofi lo hanno avvertito con le leggi della morale. Creato per vivere nella società, rischiava di dimenticare gli altri: i legislatori lo hanno restituito ai suoi doveri con le leggi politiche e civili. [7]

 

Ministri della religione, filosofi morali e legislatori hanno condotto l’uomo alla civiltà, con al primo posto l’idea di Dio e al secondo il senso della socialità. Montesquieu non crede nella naturale aggressività dell’uomo avanzata da Hobbes, essendo convinto che sia il costituirsi delle comunità organizzate a determinare un incontro tra interessi differenti. Sia lo stato di guerra tra le nazioni e sia quello tra gli individui all’interno di una stessa nazione derivano da una dialettica debolezza/forza che va regolamentata dal diritto. Quello tra nazioni è “delle genti”, quello tra governanti e governati “politico”, quello tra i cittadini “civile”. [8]

    Il potere può essere messo nelle mani di uno o di molti, e da ciò tre differenti forme di governo: il repubblicano, il monarchico e il dispotico. Il filo-monarchico Montesquieu considera il dispotismo non come una forma deteriore di monarchia, ma come un genere di governo a sé che vede nei regimi medio-orientali, dove la dissolutezza dei costumi porta il principe a vivere come un debosciato, a trascurare il governo e a delegare a servi ubbidienti i suoi poteri. Nel Libro Terzo si tratta del principio del governare, distinto dalla natura del governo, cioè la forma dello stato, poiché: «la sua natura fa sì che ogni governo sia quello che è, mentre il suo principio è ciò che lo fa agire.» [9]  Secondo Montesquieu la democrazia ha come principio del suo sussistere la virtù dei governanti, ma appena questa viene meno comincia a prevalere l’ambizione personale e la democrazia si degrada e crolla:

 

Prima i beni di singoli [nella repubblica virtuosa] costituivano il tesoro pubblico; ora [in quella corrotta] il  tesoro pubblico è patrimonio dei singoli. La repubblica è un cadavere: la sua forza è ormai ridotta al potere di alcuni cittadini e alla licenza di tutti. [10]  

 

    L’oligarchia è già forma più sicura, poiché:  «Il governo aristocratico ha, di per sé, una certa forza che la democrazia non possiede. I nobili formano un corpo che per le sue prerogative e per i suoi interessi particolari, reprime il popolo, di conseguenza basta che vi siano delle leggi, perché vengano eseguite.» [11] Atteggiamento un po’ cinico, ma che va considerato dal punto di vista dell’organizzazione e dell’ordine del “sistema stato”, dove l’importante sta nell’esistenza della legge e nella sua rigorosa applicazione. Un “corpo” omogeneo e forte, infatti, può imporre meglio di magistrati eletti periodicamente e di volta in volta un potere solido. Il governo monarchico non è affatto virtuoso, anzi è quello che richiede meno virtù sia nel monarca che nei cittadini; in esso si instaura un principio sì puramente formale, però forte e cogente: l’onore. Questo presuppone una struttura statuale fatta di gerarchie, ranghi e ruoli, e soprattutto del rispetto di regole e tradizioni fisse. Vediamone le connotazioni: «Il governo monarchico presuppone, come abbiamo detto, delle gerarchie, dei ranghi ed anche una nobiltà originaria. L’onore, per sua natura, sollecita distinzioni e preferenze; esso è dunque di casa in un governo di questo tipo. »  [12]   Il quadro è icastico, nessun encomio o elemento assiologico, ma unicamente apprezzamento “funzionale”. Ciò che è dannoso in una repubblica può diventare utile in un regno: «L’ambizione è dannosa in una repubblica, in una monarchia, invece, produce buoni risultati, anzi è la vita di un simile governo e presenta il vantaggio di non essere pericolosa, in quanto la si può soffocare ad ogni istante.»  La struttura ed i meccanismi di un governo monarchico sono molto più semplici di quelli democratico-repubblicani: appena qualcuno sgarra, lo si elimina facilmente. Interessante è l’analogia cosmologica:

 

La stessa cosa, si può dire, accade nel sistema dell’universo, in cui una forza allontana continuamente tutti i corpi dal centro, ed un’altra, la gravità li attrae verso di esso. L’onore fa muovere tutte le parti del corpo politico, le lega con la sua stessa azione e finisce che ciascuno agisce per il bene comune, credendo di agire per i propri interessi privati. [13]

 

Le forze in gioco nella monarchia, secondo il Nostro, farebbero sì che “ciascuno” persegua il proprio interessi e, inconsapevolmente, faccia quello della comunità. Tesi abbastanza discutibile, soprattutto dove nel concetto di “ciascuno” è escluso quel popolo minuto che non sa che farsene dell’onore in quanto escluso da ogni decisione e da ogni diritto. Aggiunge Montesquieu che tale «falso onore è tanto utile alla cosa pubblica quanto lo sarebbe il vero ai privati che ne fossero in possesso.» e che è una funzione tipica della forma monarchica  Le logiche della « cosa pubblica» non hanno  niente a che fare con quelle dell’ambito privato e ciò che è negativo nella sfera privata può diventare utile in quella pubblica.

    Si tratta di una forma mentis che era già presente in Machiavelli. Avendo a sua base la spregiudicatezza e un certo cinismo, ma rigorosi principi razionali di utilità e opportunità, se ne dà sviluppo nei Libri Quarto, Quinto, Sesto e Settimo, dove il Nostro si diffonde sui tecnicismi strutturali, nonché sulla formazione e sull’educazione dei preposti al governo. Nell’Ottavo si considera il concetto di uguaglianza sul qual ci siamo già soffermati all’inizio con la citazione che nega validità alla «estrema uguaglianza » Tale concetto, sostiene Montesquieu, è in sé falso da un punto di vista antropologico e sociologico, poiché il genero umano primitivo e pre-sociale  possedeva un’eguaglianza solo precaria e immediatamente superata con le prime ed elementari aggregazioni sociali. L’uguaglianza dello “stato di natura” non può durare perché l’homo sapiens è animale sociale e tende quindi ad aggregarsi perdendola: l’aggregazione, di per sé, porta ad una gerarchizzazione, quindi a disuguaglianza. Le leggi la correggono sì nel senso dell’equità in base a compiti e meriti, ma l’uguaglianza “vera”, quella compatibile con la socialità, è sempre relativa.   La politica è “l’arte del possibile” e l’uguaglianza assoluta rientra nell’impossibile; le buone leggi portano l’uguaglianza al maggior grado possibile compatibilmente con l’ordine sociale e con un bilanciamento tra doveri e privilegi, tenendo conto dei ruoli sociali e di un equo riconoscimento del loro contributo al bene della comunità. Ma l’uguaglianza implica tolleranza:

 

Noi vogliamo essere dei politici e non dei teologi; ma per gli stessi teologi altro è tollerare una religione, altro è approvarla. Quando le leggi di uno stato prevedono la coesistenza di parecchie religioni, bisogna anche che le obblighino a tollerarsi a vicenda. È principio indiscusso che ogni religione oppressa finirà con l’opprimere a sua volta, poiché, non appena un caso qualsiasi le permette di scuotere il giogo, essa attaccherà la religione che l’ha oppressa, non come una religione, ma come una tirannide. [14]

 

Nella misura in cui opprimere è violentare, l’oppressore e l’oppresso diventano tiranno e tiranneggiato: il contrasto segue le leggi dell’odio anche se la fede nel Dio cristiano lo escluderebbe. Il proselitismo da parte di una religione al di fuori del proprio ambito tradizionale dev’essere evitato, e se in uno stato una religione è “soddisfacente” è opportuno che la si la mantenga e la si difenda [15]. Ma il potere religioso e quello civile debbono essere tenuti distinti:

 

Le leggi della perfezione, tratte dalla religione, hanno come fine più il miglioramento dell’uomo che le osserva che quello delle società in cui esse sono osservate; mentre le leggi civili hanno come fine più il miglioramento morale degli uomini in generale che quello dell’individuo. Così per quanto rispettabili siano le idee che discendono direttamente dalla religione, non sempre esse debbono  fornire i principi alle leggi civili, perché queste hanno un loro fine particolare: il  bene generale della società. [16]

 

Fatto “individuale” la fede non deve interferire nella vita politica se non nella misura in cui le leggi religiose sono compatibili con quelle civili.

    Quello di eguaglianza è concetto non privo di ambiguità, passibile di visioni tanto complesse quanto differenti. Se per Meslier, Dom Deschamps e Morelly si intende non solo parità di diritti e di opportunità ma una vera parità di condizione indipendente da ruolo e posizione sociale, differentemente l’intendono Montesquieu, Raynal e Condorcet. Vi sono poi posizioni intermedie come quella di Paul-Pierre Mercier de la Rivière (1719-1801), un convinto fisiocrate, che nel suo L’An 2440 del 1770 (opera ripubblicata dieci volte nella sola Francia prima del 1799) pensa che tutti i cittadini, pur senza condividere la medesima posizione sociale, debbano in qualche maniera riprendere «l’eguaglianza primitiva della natura» [17]. Ma poi egli ritiene inviolabile il diritto alla proprietà in tre forme: personale, mobiliare, fondiaria. Un tema, quello del “ritorno alla natura” i in relazione all’uguaglianza (lo abbiamo già visto nella Prima Parte), di grande fascino e successo nel mondo settecentesco, pervadente ampli settori della cultura illuministica. La concezione ugualitaria trova un altro interessante esponente in Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785), nemico del dispotismo e favorevole a una democrazia rappresentativa, ma non nelle forme estreme rousseauane. Anch’egli fa in qualche modo riferimento ad un “diritto naturale”, auspicando un controllo sull’eccessiva concentrazione della proprietà fondiaria e un’equa distribuzione della terra. Scrive in De la législation,ou Principes des lois (1759):

 

Credo che la natura destini gli uomini ad essere uguali. Mi sembra che essa abbia confidato all'uguaglianza l’osservazione delle nostre qualità sociali e la felicità; e ne concludo che il legislatore si darà unicamente delle pene inutili se tutta la sua attenzione sarà concentrata soltanto sul fatto di stabilire l’uguaglianza nella fortuna e nelle condizione dei cittadini. […] L’uguaglianza deve procurare tutto il bene possibile, poiché tiene uniti gli uomini. Eleva la loro anima e li educa a dei sentimenti di mutua benevolenza ed amicizia; ne concludo che la disuguaglianza produce tutti i mali. [18]  

 

    In maniera non dissimile da Rousseau, per quanto in senso decisamente comunistico, vede il concetto di uguaglianza il già citato Morelly, che riprende in senso religioso la concezione, già meslieriana, secondo la quale solo il popolo può conferire potere politico. Nel poema Naufragio alle isole galleggianti, o la Basiliade del 1753, dove immagina uno stato ideale, armonico e senza classi, il popolo è sovrano; ma è nel Codice della natura, del 1755 (a lungo attribuito a Diderot) che egli definisce il suo modello teorico di socialità. Il principio di base è che le leggi della natura non possono che essere buone poiché Dio, in quanto bontà assoluta, non ha potuto che farle tali. Siccome è l’egoismo individualistico a rendere malvagia e ingiusta la società bisogna eliminare la proprietà privata, fonte di avidità e disuguaglianza. Il modello prevede: A. che il diritto di proprietà riguardi solo gli attrezzi d’uso per i bisogni elementari e per il lavoro, B. che sia lo stato a provvedere ai bisogni dei cittadini, C. che ogni cittadino debba contribuire secondo le proprie possibilità alle risorse comuni. Ma questo modello plausibile diventa molto discutibile quando si prevede: D. il divieto di ogni forma di commercio ed E. l’obbligatorietà per i cittadini in una certa fascia di età di un lavoro obbligatorio stabilito dallo stato. Non si può negare a Morelly originalità e coraggio di pensiero, ma non si può trascurare il rischio totalitario di un modello (che affascinerà molto Babeuf) privo di realismo antropologico. 

    Un altro grande esponente dell’utopia ugualitaria è il frate benedettino Léger-Marie Deschamps (1716-1774), più noto come Dom Deschamps; un personaggio interessante e singolare che è latore di una metafisica della socialità basata su di un modello di “stato etico” e comunista che prevede  la comunità dei beni e delle risorse. Dopo Les lettres sur l’esprit du siècle, un‘opera in difesa della vita monastica, egli pubblica nel 1770 La voix de la raison contre la raison du temps, una confutazione del Système de la nature di d’Holbach. Ma è Le vrai système ou   le mot  de l’énigme metaphysique et morale, scritto probabilmente poco dopo (ma scoperto nell’800 e pubblicato solo nel 1939), a costituire il suo capolavoro. In esso si delinea un sistema di società umana metafisicizzata e astratta, dove non esiste il diritto di proprietà, dove tutto è messo in comune (comprese le donne), dove non esiste alcuna struttura gerarchica, dove nessuno comanda, dove l’aggressività umana è del tutto assente e tutti si vogliono bene. L’aspetto più curioso di questo sogno utopico sta nel fatto che questa società ideale non è collocata nello spazio, in qualche posto, ma unicamente nel tempo, come “futuro dell’umanità”,  in una proiezione teorica che egli chiama “nullismo” (rienisme). Questo frate ha il suo momento di notorietà quando trova un convinto discepolo nel marchese Marc-René de Voyer d’Argenson, che lo mette in contatto con numerosi intellettuali del tempo, tra i quali Helvétius, d’Alembert, Voltaire, Robinet e Diderot, al fine di convertirli a questa religione del futuro e costituire la comunità “dei Veggenti”. Il tentativo non ha successo, ma non pochi furono coloro che rimasero affascinati da questo singolare personaggio di profeta visionario di un’umanità ideale e beata che si fonda su una vera e propria mistica sociale. 

    Ai tempi in cui scrivono questi apostoli dell’uguaglianza la Rivoluzione è ancora lontana, ma dopo, nel 1793, Jean Varlet può stilare l’articolo 6 della Dèclaration solennelle des droits de l’homme dans l’état social che recita:

 

L’uguaglianza è la conseguenza immediata della libertà. Da questo prezioso principio deriva: 1. che i cittadini possono essere ammessi a tutte le funzioni pubbliche, senza distinzioni di nascita, fortuna, né di stato, ognuno secondo la propria capacità e in ragione della stima e fiducia che ispira; 2. che la ripartizione delle cariche richieste dai bisogni della società non è uguale se non nella misura in cui è proporzionale alle facoltà dei contribuenti; 3. che l’individuo la cui esistenza dipende da salari mediocri non può esser tassato sul prodotto di un lavoro alimentare; 4. che  ogni segno distintivo destinato agli impieghi deriva unicamente dall’esercizio delle funzioni; 5. che le ricompense sociali sono proporzionate al valore dei servizi resi e sempre ed esclusivamente assegnate alle virtù, al merito personale e dirette costantemente all’utilità comune. [19] 

 

Si tratta di un testo fondamentale, che ci fa comprendere come i tempi siano maturi e le istituzioni rivoluzionarie possano ormai far proprie ed attuare le istanze egualitarie frustrate da secoli di dispotismo.  

    Consideriamo ora il concetto di  libertà, che per alcuni versi ha il carattere di una pre-condizione e per altri quello di un fine. Su questo tema dobbiamo qui ricordare un importante progetto di riforma dello stato in senso libertario avanzata nel 1774 da Pierre-Samuel Dupont de Nemours, esposto in Mémoire sur les municipalités. In esso è prevista una riforma profonda dello stato francese in senso democratico e su base elettiva, con un nuovo tipo di imposizione fiscale in senso proporzionalistico, abolendo tutte le gabelle inique, i privilegi indebiti e gli abusi. Questa singolare figura di politico e di economista, capofila dei fisiocrati e convinto che la buona politica possa solo fondarsi sull’economia, si lega a quella di Turgot, e con la caduta di questi il progetto è accantonato. Solo nel 1783 egli torna alla politica e durante la Rivoluzione è eletto prima deputato del Terzo Stato e poi presidente dell’Assemblea Costituente. Opponendosi alla decapitazione di Luigi XVI è dapprima imprigionato e poi espulso dalla Francia; emigra allora negli Stati Uniti, e qui, su incarico di Jefferson, scrive Sull’educazione nazionale negli Stati Uniti d’America. Tornato in Francia combatte la politica economica del regime napoleonico; osteggiato e battuto torna in America per morirvi, nel 1817.  Un altro collaboratore di Turgot, Pierre François Boncerf scrive nel 1776 Les inconvénients des droit féodaux, dove prevede l’abolizione di ogni diritto feudale, sì da essere la prima opera che in Europa delinea un sistema totalmente privo di quel diritto feudale [20] che aveva caratterizzato la storia del continente dall’inizio del Medioevo.  

    Il tema della tolleranza religiosa ha come sostenitori, dal più al meno, gli stessi promotori di un’estensione della libertà personale; i suoi modelli storici sono il Saggio sulla tolleranza (1667) e le Lettere sulla tolleranza (1689-1692) di Locke, i Pensieri sulla Cometa (1682), il Commentario filosofico (1686) e le voci Nicole e Pellisson del Dizionario storico e critico (1695-1702) di Bayle. Ma il paese all’avanguardia in fatto di tolleranza religiosa è nel Settecento l’Olanda, e non è un caso che in quel paese fosse nata l’Etica di Spinoza, che nelle parti II-V (specialmente l’ultima) era stata un inno alla libertà interpretativa delle Sacre Scritture. Si può essere stupiti del fatto che nel sedicesimo volume de l’Encyclopedie, uscito nel 1764, il formulatore della voce “tolleranza”, il pastore ginevrino Romilly, non faccia cenno esplicito a quella religiosa, ma si deve tener conto che siamo ormai in un epoca in cui tolleranza religiosa e tolleranza civile sono considerate coincidenti a seguito del sensibile indebolimento del potere religioso in Francia [21]. D’altra parte, nel 1763, era apparso il Trattato sulla tolleranza di Voltaire e poco dopo il suo Dizionario filosofico, dove la voce era così introdotta: «Che cos’è la tolleranza? È l’appannaggio dell’umanità. Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini: è la prima legge di natura.» [22] E tuttavia, nulla di acquisito ci poteva essere in una temperie in cui la Chiesa stava combattendo la sua “guerra” contro tutto ciò che le si opponeva in nome della libertà d’espressione. La feroce controffensiva integralistica di periodici clericali come il Journal de Trévoux e l’Année littéraire, aveva portato, appena due anni dopo, all’incendio simbolico di una copia del Dizionario voltairiano insieme col corpo del povero Cavalier de La Barre (Jean-François Lefebvre d’Ormesson) il 1° luglio del 1766. Il supplizio di costui, un diciannovenne di Abbevillle (piccola città della Somme), colpevole di non essersi tolto il cappello al passaggio di una processione e di essere un libertino è uno dei più tristi episodi di una Francia bigotta che tredici anni dopo avrebbe visto l’assalto alla Bastiglia. Il giovane (accusato in soprappiù di un reato di cui non era colpevole (aver anche rotto un crocifisso ligneo posto su di un ponte), venne torturato, gli venne amputata una mano e tagliata la lingua, infine fu bruciato vivo sul rogo.

     Il tema del progresso umano si estrinseca attraverso un processo evolutivo di perfettibilità. Un’evoluzione umana che è sì vista come progressiva e meliorativa, ma nel dettaglio l’atteggiamento rispetto al concetto di “progresso” si presenta all’epoca assai articolato, passando dalle posizioni dall’arcaismo nostalgico di Rousseau, per il quale progredire significa ritornare verso lo stato di natura, e quelle di Marie-Jean-Antoine Caritat de Condorcet (1743-1794), che auspica invece il superamento del passato in un nuovo orizzonte di socialità. Per lui le premesse indispensabili del progresso umano sono: l’eliminazione di tutte le disuguaglianze sul piano politico, l’instaurazione di una democrazia rappresentativa, la fissazione di garanzie giuridiche per tutti; con ciò si apre la possibilità di un perfezionamento continuo dell’uomo basato sul fatto che egli è animale sociale ed intelligente. A mezza strada si colloca Guillaume-Thomas Raynal, il quale, concependo il progresso come miglioramento del modo di vivere, rileva:

 

Il desiderio e la libertà riguardano il godimento; ed essi costituiscono le due basi di attività, i due principi della socialità umana. […] Nella natura dell’uomo debbono essere cercati i suoi mezzi di felicità. Che cosa occorre all’uomo per essere il più possibile felice? La sussistenza per il presente e, se egli pensa al futuro, la speranza e la certezza di questo primo bene. Ma l’uomo selvaggio, che le società civili non hanno respinto o confinato nelle regioni artiche, è forse privo di questo elemento indispensabile? […] È molto importante, per le generazioni future, non perdere di vista il quadro della vita e dei costumi dei selvaggi. […] Questa scoperta ha diffuso grandi lumi, ed è stata l’origine dei piccoli beni prodotti dall’opera di riforma. Si può pertanto dire che l’ignoranza dei selvaggi abbia rischiarato i popoli civili. [23]   

 

Raynal ha una concezione particolarmente interessante di progresso, intanto perché pone il benessere materiale e una certa felicità come suoi presupposti indispensabili, poi perché la sua prospettiva implica considerazioni antropologiche profonde e vede l’attività riformista in funzione di queste.

    Anche Turgot è esponete di maggior del concetto di progresso; sentiamo che cosa pensa:

 

I progressi, benché necessari, sono interrotti da decadenze frequenti, a causa degli avvenimenti e delle rivoluzioni che vengono ad arrestarlo. Perciò essi sono stati diversi presso i vari popoli … Il popolo che ha acquistato per primo cognizioni un po’ maggiori è diventato rapidamente superiore ai propri vicini: ogni progresso rende più agevole quello successivo. [24]

 

Ma torniamo a Condorcet che è il più decido assertore e teorizzatore del progresso umano. Sin dalla gioventù i suoi interessi sono di carattere eminentemente matematico ed egli immagina un modello matematico anche per l’evoluzione dell’uomo. Amico di Turgot e di D’Alembert, da vero “tecnico della socialità”, egli pubblica poco prima di finire in carcere e morirvi [25] un Tableau général de la science qui a pour objet l’application du calcul aux sciences politiques et morales, dove delinea un nuovo tipo di scienza sociale basato sulla matematica. In Esquisse d’un tableau historique des progrés de l’esprit humain, pubblicato poco dopo la sua morte, egli scrive:

 

[Introduzione] Al perfezionamento delle facoltà umane non è stato posto alcun termine, e la perfettibilità dell’uomo è realmente indefinita: i progressi di questa perfettibilità, ormai svincolati da ogni potere che volesse arrestarli, non hanno altro termine che la durata del pianeta su cui la natura ci ha collocati. […] [Cap.IX] Tutte le occupazioni intellettuali degli uomini, per quanto differenti nel loro oggetto e nel loro metodo, oppure per le qualità che esigono, hanno contribuito ai progressi della ragione umana. […] [Cap. X] Le nostre speranze sul futuro del genere umano possono venir riassunte in tre punti importanti: la distruzione della disuguaglianza tra le nazioni: i progressi dell’eguaglianza all’interno di uno stesso popolo, ed infine il perfezionamento reale dell’uomo. [26]    

 

    Sul tema della legge come su quello della tolleranza si innesta anche la figura di Cesare Beccaria (1738-1794), il giurista che nel 1764 dà alle stampe Dei delitti e delle pene, dove, ad un accurata analisi delle distorsioni della giustizia del tempo, si accompagna la proposta dell’abolizione della pena di morte. Egli è dello parere di Montesquieu nel considerare la fede una realtà della sfera individuale, che non deve interferire con quella collettiva e civile ed a lui ha fatto costante riferimento nei suoi studi sulla in rapporto alla legge e alla sua applicazione. A questo intellettuale schivo e solitario toccherà un’inaspettata fama, poiché il suo piccolo ma straordinario saggio, tradotto in quasi tutte le lingue europee, diventa un testo cult per un più moderno modo di considerare gli strumenti della giustizia, sì da far dire a Melchior Grimm, il grande amico di Diderot: «Sarebbe auspicabile che tutti i legislatori dell’Europa prendessero in considerazione le idee del signor Beccaria per rimediare alla barbarie fredda e giuridica dei nostri tribunali.[27] Nell’Introduzione si sottolinea:

 

Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon essere patti di uomini liberi, non sono state perlopiù che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate de una fortuita e passeggera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. [28]

 

Di questo principio, a base di tutte le teorie eudemonistiche posteriori, ne darà teorizzazione compiuta l’utilitarista inglese Jeremy Bentham (1748-1832) nei termini canonici della “maggior felicità possibile per il maggior numero possibile di uomini”. Per quanto Bentham sicuramente lo desuma da Beccaria, va anche rilevato che già nel Sistema di filosofia morale di Francis Hutcheson (1694-1746), pubblicato postumo nel 1755, era stato accennato un principio simile. Ma è solo dopo il libro di Beccaria che il principio eudemonistico si affermerà diventando condiviso dalla maggior parte degli intellettuali progressisti europei. Com’è noto, non però da Kant, che ne l’Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798) sostenne la felicità individuale essere inconciliabile con la moralità dello stato quale espressione della virtù della comunità.

    Relativamente al diritto di punire Beccaria riprende Montesquieu nel sostenere che: «ogni atto di autorità di uomo a uomo che non  derivi dall’assoluta necessità è tirannico.» [29] Il concetto di “utilità” si concilia e con l’eudemonismo e con il bene comune attraverso un sistema giudiziario giusto, forte e sicuro, che realizzi l’utilità sociale [30]:

 

Osservate che la parola diritto non è contraddittoria alla parola forza, ma la prima è piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione più utile al maggior numero. E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gli interessi particolari, che senz’esso si scioglierebbono nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. [31]

 

La conclusione è di notevole peso: la comminazione di pene “non necessarie” si traduce immediatamente in ingiustizia. Non solo, l’infliggere pubbliche sofferenze al reo («Le strida di un infelice») oltre a non mutare le conseguenza del delitto compiuto non è neppure dissuasivo per altri potenziali criminali, sicché: « Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle dev’essere prescelto che, serbata la proporzione, farà un’impressione più  efficace e durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.» Un principio dirompente sulla radicata e diffusa teoria “dell’esempio” che continuerà a sopravvivere ben oltre Beccarla e che delle esecuzioni pubbliche aveva fatto il piacere dei sadici e degli imbecilli. Ma su questo tema si sviluppa l’ancor più importante accusa beccariana contro la tortura, pratica diffusissima sia nei tribunali ecclesiastici che in quelli pubblici, mirante ad estorcere confessioni a volte del tutto false, poiché il torturato segue l’unico impulso di interrompere la sofferenza. Per questo, da un punto di vista morale, l’abolizione della tortura è ben più importante di quella della pena di morte, ma  anche su questo terreno in molti contesti la perorazione del Nostro resterà lettera morta.  

    La tortura è un’infamia che cala ingiustamente sulla vittima, poiché: «La tortura medesima cagiona una reale infamia a che ne è la vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l’infamia dando l’infamia.» [32] Se l’infamia è un costo che grava giustamente sul crimine la sofferenza indebita sul criminale finisce per cancellare un’infamia con un’altra infamia ed il crimine della tortura finisce per alleggerire la colpa del criminale, con un risultato morale opposto a quello perseguito dalla giustizia. Inoltre, « Questo infame crogiuolo della verità » [33] è una barbarie risalente ancora ai « giudizi di Dio » (come le “prove del fuoco”) dove era solo l’insensibilità al dolore e la resistenza ad essa a determinare il riconoscimento dell’innocenza o della colpevolezza. Qui Beccaria, che pure è fervente cristiano, si oppone alla convinzione teologica in base alla quale si ritiene che ci pensi Dio a rivelare l’innocenza del supposto reo rendendolo resistente alla prova. Quest’idea perversa in qualche modo persisteva, e in relazione alla diversa soglia del dolore o a gradi differenti dell’istinto di conservazione sotto tortura poteva accadere che un innocente poco resistente confessasse una colpa non compiuta, mentre un colpevole capace di resistere poteva venire assolto con la convinzione che “era Dio ad averlo aiutato”; un vero e proprio stravolgimento degli scopi della giustizia che Beccarla evidenzia con forza [34]  Ma se le pene devono essere le minori possibili esse debbono esser “certe”, poiché a funzionare «non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse.» e «La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell’impunità.» [35]

    Relativamente alla pena di morte: l’infliggerla non è un diritto della comunità, ma è piuttosto «una guerra della nazione contro il cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere.» [36] Beccaria considera “casi eccezionali”, in cui la pena di morte può essere presa in considerazione, solo quelli in cui l’operato di qualcuno possa mettere a repentaglio l’integrità e la libertà della comunità, nonché quelli in cui la morte di un colpevole risulti un sicuro fattore dissuasivo di emulazione [37]. In generale egli ritiene però che il vero fattore dissuasivo sia la durata della pena e non la sua violenza: «Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa[38], perciò propone l’ergastolo al posto della morte, anche perché: «moltissimi riguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo e chi per vanità.» [39] Nel seguente passo si evidenzia la ragione di fondo che ispira il Nostro, cioè l’abbandono, per quanto possibile, del ricorso alla violenza [40]:

 

Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbero aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con  formalità. Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. [41]  

 

Non si dà, quindi, un buon esempio contro il delitto, commettendone uno legalizzato, ed i delitti non si riducono attraverso la punizione, ma per mezzo della prevenzione:

 

È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale di ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d’infelicità possibile, per parlare secondo tutt’i calcoli dei beni e dei mali della vita. [42]

 

Né le leggi debbono essere troppe, poiché: «A che saremmo ridotti, se ci dovesse esser vietato tutto ciò che può indurci al delitto? Bisognerebbe privare l’uomo dell’uso dei suoi sensi.» Ma oltre al numero è molto importante la qualità:

 

Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi siano chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. Fate che gli uomini le temano, e temano esse sole.[43]

 

La legge determina lo stare insieme degli uomini e va difesa con tutti i possibili sforzi per la difesa dell’armonia della comunità e il conseguimento del “bene possibile”, ma all’interno della comunità i raggruppamenti e le classi sono meno importanti dell’individualità, sicché esse devono “per l’uomo” e non per “una classe” di privilegiati (il clero e l’aristocrazia).

    La prospettiva eudemonistica e l’attenzione all’individuo sono due tra gli elementi emergenti del pensare illuministico, ma sono strettamente connessi ai progressi nella cultura scientifica e alla sua diffusione:

 

Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa alla loro diffusione, e i loro beni lo sono nella diretta. […] Le cognizioni facilitano i paragoni degli oggetti e moltiplicandone i punti di vista, contrappongono molti sentimenti gli uni agli altri, che si modificano vicendevolmente, tanto più facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le medesime resistenze. [44] 

 

                                               

  

 

 

8.2 Per una civiltà della tolleranza

 

    Il XVIII secolo è quello in cui il principio della tolleranza comincia ad imporsi come elemento indispensabile della convivenza tra visioni del mondo differenti e soprattutto tra indirizzi religiosi alternativi. Marsilio da Padova (1275-1343) era stato il primo a porre in modo chiaro, nel Defensor pacis del 1324, la distinzione tra laica societas ed ecclesialae communitas e la tesi che la convivenza civile, nello spirito della prima, non dovesse venire influenzata dalla dottrina e dai precetti della seconda; posizione condannata dalla Chiesa nel 1327. Sarà però in seguito alla Riforma che il tema della tolleranza tornerà in primo piano in opere di umanisti come Tommaso Moro (Utopia, 1515) ed Erasmo da Rotterdam (Colloquia familiaria, 1518), trovando nel savoiardo Martinus Bellius (pseudonimo di Sébastien Castellion) il più valido assertore nel De Haereticis an sint persequendi del 1554. L’opera è ispirata dalla condanna di Serveto e costituisce una forte apologia della tolleranza, cui farà seguito anche Jean Bodin coi suoi Traité de la Republique (1576) e Colloquium Heptaplomeres (1593). Il Seicento, peraltro, aveva visto un riaccentuarsi delle guerre di religione e con esse la diffusa coscienza dei pericoli dell’intolleranza religiosa ed anche Spinoza (Etica, Parte Quinta), difendendo la libertà interpretativa delle Sacre Scritture, operare a favore della tolleranza. Ma è Locke a dare il maggior contributo col Saggio sulla tolleranza del 1667 e poi con le tre Lettere sulla tolleranza, scritte tra il 1689 e il 1692. 

    Vediamo alcune puntualizzazioni lockiane relative a tre tipi di costrizione: «1. La proibizione di pubblicare o divulgare una qualsiasi opinione. 2. L’imposizione di rinunciare od abiurare una certa opinione. 3. La costrizione di dichiarare un assenso ad un opinione contraria.» [45]. Locke sostiene, A.: «Che il magistrato può proibire di manifestare pubblicamente una di queste opinioni, quando in se stessa tenda a creare disturbi al governo della cosa pubblica.» [46] B.: «Che nessun uomo dovrebbe essere costretto a rinunciare a una sua convinzione o a dare il suo assenso ad una convinzione contraria alla sua.» [47]. C.: «Che il magistrato ha il potere di ingiungere o proibire ogni azione che derivi da una di queste opinioni, come tutte le altre cose indifferenti nella misura in cui esse tendono alla pace e alla sicurezza » [48]. D.: «Che se il magistrato, in siffatte opinioni ed azioni, tenti, con leggi ed imposizioni, di costringere ed indirizzare gli uomini in una direzione contraria alle convinzioni sincere della loro coscienza, è lecito chiedersi se essi debbano fare ciò che la loro coscienza esige.» [49]. Considerazioni che possono parere abbastanza ovvie, ma che non lo erano affatto alla fine del XVII secolo e per nulla gradite ai poteri costituiti e meno che mai alle gerarchie ecclesiastiche, sia protestanti che cattoliche. Vediamo gli sviluppi dell’argomentazione:

 

Considerando, dunque, il potere che ha il magistrato sulle azioni buone e cattive, mi pare che ne debbano seguire le seguenti conclusioni:

1)      Che egli non è tenuto a punire tutto, cioè può tollerare alcuni vizi; e vorrei ben sapere quale governo al mondo non agisce in questo modo!

2)      Che egli non deve imporre la pratica di nessun vizio, poiché un ordine siffatto non potrebbe in alcun modo riuscire utile al bene […]

3)      Dal momento che gli uomini adottano la loro religione quasi in blocco e accettano come loro proprie tutte le opinioni della professione religiosa cui aderiscono, accade spesso che essi mescolino col loro culto religioso e con le loro opinioni speculative altre dottrine completamente distruttive della società in cui vivono, come è chiaro nel caso dei cattolici, che non sono sudditi di alcun altro sovrano che non del papa. Pertanto, coloro i quali mescolano alla loro religione siffatte opinioni e le riveriscono come verità fondamentali […] non dovrebbero esser tollerati dal magistrato. [50]

 

Seguono altre considerazioni importanti:

 

Se tutte le cose che possono occasionare disordini o cospirazioni in uno stato dovessero non essere tollerate, allora tutti gli uomini scontenti ed attivi dovrebbero essere allontanati […] E se non possono esser tollerate tutte le associazioni e corporazioni promosse da individui e distinte dallo stato, allora si dovrebbero abolire tutte le corporazioni di città, soprattutto delle grandi città oggi esistenti. [51]

 

La conclusione è drastica:

 

E se v’è qualche uomo fornito di ragione che inclini a pensare che la forza e la costrizione si siano mai dimostrati anche una sola volta il modo giusto per distruggere un’opinione o una religione, o a distruggere un gruppo di uomini uniti nella professione di una religione, allora sono tenuto a dire che questo è, invece, il metodo peggiore di tutti. [52]

 

Sono poi precisate le ragioni di tale negatività, mentre la tolleranza migliora l’industriosità del popolo e favorisce la ricchezza dello stato. Le controversie religiose nascono da elementi «non sostanziali » [53] della religione stessa e la cristiana è quella che ha visto le peggiori lotte intestine per la mancanza di tolleranza reciproca tra le fazioni.

    Con la seconda Lettera sulla tolleranza, del 1790, l’argomento è sviluppato con ulteriori precisazioni, a partire dalla fondamentale premessa che: « La tolleranza verso chi dissente in fatto di religione è così gradita al Vangelo […] da far apparire mostruoso il fatto che gli uomini siano talmente ciechi da non distinguere chiaramente la necessità e il vantaggio di essa.» [54]. Da ciò:

 

Ritengo che la società politica sia un’associazione di uomini costituita solo per curare, difendere e migliorare i loro interessi civili. Chiamo interessi civili la vita, la libertà, la salute e il benessere del corpo, oltre al possesso di cose esteriori come denaro, terre, case, mobilio e simili. […] l’intera giurisdizione del magistrato riguardi solo questi interessi civili […] [55]

 

Con estrema chiarezza il cristiano Locke condanna l’ingerenza religiosa negli affari civili ribadendo la separazione dei poteri Alla religione compete gestione di ciò che riguarda l’anima ma non di ciò che concerne il corpo, e di converso «la cura del anime non può dipendere dal magistrato civile.» [56] E poi un richiamo che all’epoca non doveva suonare peregrino:

 

Non basta che gli ecclesiastici si astengano dalla violenza, dalla rapina e da ogni tipo di persecuzione, Chi pretende di essere un successore degli apostoli, e si assume il compito di insegnare, è anche obbligato a predicare ai suoi ascoltatori il dovere di pace e di buona volontà verso tutti gli uomini. [57]

 

    Locke ha visto chiaramente come sia dai pulpiti che nasce l’intolleranza e come sia necessario che siano proprio gli ecclesiastici a combatterla. E relativamente ai poteri della magistratura: «ciò che è lecito nella società politica non può essere interdetto dall’autorità civile in chiesa.» [58]; ed ancora: «Si potrebbe chiedere: il magistrato deve anche tollerare che una chiesa sia idolatra? Rispondo: quale autorità potrebbe essere concessa al magistrato per sopprimere una chiesa idolatra, che a suo tempo e luogo non possa esser usata per distruggere una chiesa ortodossa?» [59] L’argomento è posto in generale, ma qui pare rivolto al Calvinismo, che all’epoca si distingueva per la persecuzione in quanto “idolatra” di ogni altra fede alternativa. Un personaggio degno di essere ricordato è anche Christian Thomasius (1655-1728), docente di diritto a Lipsia, Berlino e Halle, che col suo Fundamenta juris naturae del 1705 si espresse duramente contro un’intolleranza religiosa ancora presente anche nel mondo luterano. Il suo bersaglio principale era il defunto teologo-giudice Benedikt Carpzov (1505-1666), che soleva vantarsi di essere riuscito a condannare a morte e mandare al rogo almeno 20.000 persone [60] Resta da aggiungere che il principio di tolleranza troverà compimento legislativo ufficiale nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776, ripresa e confermata nella Costituzione federale (Bill of Rights) nel 1791. La tolleranza teorizzata da Voltaire trova diretta espressione all’indomani dello scoppio della Rivoluzione con l’Articolo 10 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che recita: « Nessuno deve essere disturbato per le sue opinioni anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla legge.»

 

 

 

                  

 

8.3 La felicità e il diritto al piacere

 

 

    Pascal verso la fine della sua breve vita scrive nei Pensées: « [387] Desideriamo la verità e non troviamo in noi se non incertezza. Cerchiamo la felicità, e non troviamo se non miseria e morte. Siamo capaci di non aspirare alla verità e alla felicità, e siamo incapaci di certezza e di felicità. Tale aspirazione ci è lasciata sia per punirci sia per farci sentire di dove siamo caduti.» [61] Com’è noto il matematico-teologo francese aveva risolto il problema con l’affidamento alla fede, trovandovi certezza immediata e felicità differita, ma nel secolo del Lumi questo atteggiamento risultava “medievale”. Felicità e piacere non sono necessariamente connessi, ma nel XVIII secolo, acquistano un loro nesso preciso in relazione all’affermazione della dimensione individuale, ed anche al delinearsi di un nuovo orizzonte di libertà personale, sia di pensiero che di comportamento. L’aspirazione dell’individuo a realizzarsi liberamente ed indipendentemente da schemi etici tradizionali (con una nuova attenzione alla sfera del profano, a scapito di quella del sacro) determina anche un nuovo rapporto col piacere e indirettamente con la sessualità. Nei confronti di essa, anche in relazione ad una maggior informazione sul piano medico-fisiologico, muta l’atteggiamento comune, o quanto meno di buona parte della popolazione. E il Settecento è il secolo in cui anche la “felicità generale” diventa oggetto di studio coniugandosi con la socialità e la politica.

    Vediamo ora, in rapidissima sintesi, com’era stata vista la felicità precedentemente. Nel VII sec.a.C. il naturalista ionico Talete la vedeva nella buona salute, in un po’ di fortuna e in una buona educazione; il materialista Democrito in un misurato piacere e nell’uso della ragione. Poi arrivano Socrate e Platone, i quali predicano che la felicità sta nella “virtù” (Gorgia, 508 b; Simposio, 202 c; Repubblica I, 353 d) e più o meno negli stessi termini la pensano Aristotele (Et. Nicomachea I, 13; Politica VII, 1, 1323) e gli Stoici. I Cirenaici ed Epicuro rompono questa uniformità moralistica portando in primo piano il piacere quale grande risorsa per il raggiungimento della felicità, i primi in senso dinamico (come corsa al piacere) il secondo in senso statico (come assenza di dolore). Per il Neoplatonismo e il Cristianesimo la felicità è vita in riferimento a Dio, per il primo come ascesi alla sfera del divino e per il secondo nello stato di Grazia sulla Terra in attesa della beatitudine eterna. Nel Medioevo il problema della felicità è del tutto accantonato come blasfemo, ancorché  i potenti, laici o religiosi, possano permettersi di realizzarla agevolmente senza renderne conto a un Dio che sembra punire solo i deboli.. L’Umanesimo vede una ripresa dell’epicureismo e con esso una riattualizzazione del tema della felicità terrena, concettualizzata in varie sfumature ma perlopiù inquinata da elementi platonici e stoici che portano a formulazioni sincretiche assai ambigue.

    Il problema della felicità occupa Lorenzo Valla (1405-1457) dalla giovinezza alla vecchiaia. Il suo primo saggio sull’argomento è il De voluptate, del 1431, cui seguono successive rielaborazioni di esso con titoli diversi: De vero falsoque bono del 1433, De vero bono dal 1444 al 1449, per tornare a De vero falsoque bono nell’ultima edizione. Si tratta del primo tentativo di approfondire il problema della felicità in diverse accezioni ma specialmente sotto il profilo antropologico, in quanto il ”piacevole” e l’”utile” sono le vere molle dell’agire umano, senza essere per nulla incompatibili con l’onesta, la rettitudine e la virtù. L’intento è di depurare il concetto di felicità da equivoci inquinamenti moralistici di matrice stoica, presenti specialmente nel De consolatione philosophiae di Boezio (480-526), un testo tanto prestigioso quanto diffuso che vede la felicità in uno stato virtuoso che prevede la rinuncia al piacere e la repressione del desiderio. Una prima enunciazione schietta del “principio di piacere” l’aveva offerta nel 1431 l’umanista Cosma Raimondi (1400 c.a-1435), già autore nel 1429 di una Defensio Epicuri contra Stoicos, che scrive in una lettera:

 

La figura e la costituzione dell’uomo è fatta in modo che possa soprattutto ottenere il piacere; essendo noi tratti ad esso per natura; essendo state moltissime e notevolissime cose generate per il piacere; dirigendosi tutte le nostre azioni a questo fine, al vivere cioè senza molestia; tutto essendovi cercato per il godimento. Chi ci può essere così avverso ad Epicuro che, essendo la sua dottrina provata e sostenuta da argomenti così veri e stringenti, non aderisca infine alle sue concezioni e non affermi che la più grande felicità è nel piacere? [62]

 

La “naturalità” del piacere legittima l’aspirazione incondizionata ad un piacere “dinamico” che non è quello di Epicuro, ma piuttosto quello dei Cirenaici, e particolarmente di Aristippo [63]. Ma l’importante da rilevare è che nel Rinascimento si comincia a riconoscere il diritto al piacere fisico quale legittimità naturale, contrapponendola ad una millenaria e teologica esecrazione di esso, ma va detto che si tratta perlopiù di un concetto di “nicchia culturale”. 

    Locke, come abbiamo visto, identifica chiaramente la felicità col massimo piacere possibile nell’ambito del lecito, ed anche Gassendi era praticamente su questa linea. Ma è l’inglese ad affermare esplicitamente l’incompatibilità del dolore con la felicità, identificando chiaramente questa come non solo connessa allo stato fisico,  ma dipendente da esso (Saggio sull’intelligenza, II, XXI, 36) :

 

E pertanto, ciò che immancabilmente determinerà la scelta della volontà nostra nei riguardi della prossima azione, sarà sempre la rimozione del dolore finché noi ne proviamo alcuno, come primo e necessario passo verso la felicità. [64]

 

E dunque:

 

42. Se si domandasse ancora che cosa sia che muove il desiderio, risponderei: la felicità, ed essa sola. […] 43. La felicità, dunque, nella sua estensione piena, è il massimo piacere di cui siamo capaci, e l’infelicità è il massimo dolore; e l’estremo grado di ciò che può esser chiamato felicità è di essere tanto liberi da ogni pena, e di aver tanto piacere presente, da non poter essere contenti con meno. [65]

 

La sensazione di essere felici ha quindi l’assenza di dolore come suo presupposto ma nello stesso tempo ciò si costituisce come una “limite inferiore” dello stato di benessere.

    Locke ha chiarissimo il senso dell’”essere felici” come fatto individuale e soggettivo e che la felicità può essere sperimentata tanto con i piaceri spirituali quanto con quelli fisici, senza porre pregiudizialmente su differenti piani assiologici e morali i due tipi di piacere:

 

Nessuno, penso, sarà tanto insensato da negare che vi sia un piacere della conoscenza;  e quanto ai piaceri dei sensi, essi hanno troppi seguaci perché si possa mettere in dubbio che gli uomini ne siano attratti. Ora, poniamo che una persona riponga la sua soddisfazione nei piaceri sessuali, un’altra nel diletto della conoscenza: sebbene ciascuna di loro non possa non confessare che si trova un grande piacere in ciò che l’altra persegue, tuttavia, poiché nessuno dei due fa del piacere dell’altro una parte della sua propria felicità, i loro desideri non ne sono mossi, bensì ciascuno è soddisfatto pur non avendo la cosa che all’altro dà piacere; e così la volontà sua non è determinata a perseguirla. [66] 

 

Ma nello stesso individuo i piaceri spirituali e quelli fisici sono soggetti ad una “compensazione” e ad una “alternanza” nella misura in cui l’intellettuale non accede al piacere  spirituale se soffre di qualche dolore nel corpo, mentre il sensuale può essere attratto dallo studio per uscire dal disagio morale che gli può derivare dalla noia della pura fisicità. L’analisi di Locke dei rapporti diretti piacere-felicità e dolore-infelicità non significa che egli assuma un atteggiamento agnostico nei confronti della morale e della virtù, ma semplicemente che egli intende operare su un piano rigorosamente antropologico. Poco oltre precisa: «55. Da ciò che si è detto è facile trarre la spiegazione  del perché avvenga che, sebbene tutti desiderino la felicità, la loro volontà li trascini in direzioni così contrastanti: e perciò, in certi casi, a ciò che è male.» [67] La scelta delle vie per essere felici non sono da lasciare in gestione al puro desiderio, poiché lo stato felice, che è di  per sé un bene, non esclude un male secondario, di tipo morale o fisico. E tuttavia permane l’assoluta soggettività del desiderio e della sensazione di felicità: «Questa varietà nei loro orientamenti dimostra che ognuno non ripone la sua felicità nella medesima cosa, o non sceglie la stessa via per arrivarci.» [68] Ma ciò né esclude né infirma la valutazione morale dei criteri per perseguire la virtù, poiché (II, XXVIII, 11): «Che questa sia la natura ordinaria della virtù e del vizio apparirà chiaro a chi consideri che, sebbene in un  paese passi per vizio ciò che è considerato virtù, o almeno non vizio, in una altro, però, dovunque, virtù e lode vanno assieme, e così vizio e biasimo.» [69]

    Il giurista-filosofo tedesco Christian Thomasius (1655-1728), sulla base della fondamentale “socialità” dell’uomo, aveva definito nel suo Dell’arte di amare ragionevolmente e virtuosamente (1692) la felicità come «tranquillo diletto. Essa consiste nel fatto che l’uomo non percepisce né dolori né gioia per qualcosa, e in questo tende ad unirsi con altri uomini che posseggono siffatta tranquillità d’animo.» [70]; una nuova atarassia di tipo “associativo” dove l’uomo «è stato creato per amare altri uomini, poiché è creato per la pace.» [71]. A questo proposito è interessante anche la posizione di Morelly, il misterioso proto-comunista e utopista di cui si ignorano le date di nascita e di morte, il quale scrive  nel 1755 essere l’uomo debole e non-autosufficiente, in quanto la natura sembra aver fatto sì «che i nostri bisogni eccedano sempre, anche se di poco, i limiti del nostro potere » [72]  Da questa insufficienza individuale di fronte alla vita nasce la socialità che rende bisognosi gli uni degli altri, e: «Desideri e inquietudini, causati dalla distanza momentanea di un oggetto capace di soddisfarli » generano la ricerca dell’altro sotto forma di un «attrazione morale » che ci fa cercare una «affezione benefica per tutto ciò che allevia o soccorre la nostra debolezza.» [73]  

    Il tema è prepotentemente posto nella letteratura libertina sin dal Seicento, per diventare tema frequente in molti pensatori del Settecento, tra i quali emergono gli atei La Mettrie, Helvétius, d’Holbach e Diderot, il pensiero dei quali verrà trattato nella Parte Quarta, ai capitoli XI, XVI e XVII. Il conseguimento della felicità è frutto di un nuovo modo guardare alla vita, ma in quanto problema etico per eccellenza si intreccia con quello della moralità. Diderot ne tratta nel Il sogno di d’Alembert e nel Supplemento al viaggio di Bougainville: nel primo la liberazione sessuale si esprime come superamento dei tabù per mezzo della razionalità della scienza, nel secondo con la riconsiderazione di una naturalità per noi perduta. Nel Nipote di Rameau Diderot ci offre la contrapposizione dialettica tra i due concetti in maniera flagrante: il filosofo parla in nome della ragione e della morale illuministica facendo i conti col salace nipote del grande musicista. Questi, incline alla crapula e al sesso, rivendica un “suo” modo d’essere felice, rimproverando al filosofo di arrogarsi il diritto di trattare quello di felicità come un concetto universale. In questa dialettica Diderot è sdoppiato, assumendo alternativamente la parte di sé e quella dell’”altro”, che mette in difficoltà il “se stesso” moralista. Tra la presa in giro di questo, la messa in evidenza dell’ipocrisia moralistica, e la liberatoria e disordinata aspirazione del nipote ad essere se stesso, Diderot traccia una linea tortuosa e problematica che lascia del tutto aperta la questione di una possibile conciliazione di piacere e morale. Conciliazione forse intravista nella socialità, nel bene pubblico, scrivendo alla voce Societé dell’Encyclopédie: 

 

L’intera economia dell’umana società si basa su questo principio generale e semplice: «Io voglio esser felice, ma io vivo con uomini che, come me, vogliono ugualmente essere felici, ciascuno per loro conto; cerchiamo i mezzi di procurare la nostra felicità procurando la loro, o quanto meno senza mai nuocervi » [74]

 

Diderot sembra credere (o vuole credere?) nella possibilità di conciliare il bene comune con la felicità individuale. Alla sua posizione critica, dubbiosa, relativistica, fanno però riscontro nel secolo utopie sociologiche che la ritengono a portata di mano (con esiti, purtroppo, fallimentari!). 

    Il problema della felicità si coniuga con quello dell’infelicità e del dolore, ma il pensiero illuministico deve ancora fare i conti con l’onnipresente ottimismo leibniziano espresso nel Saggio di Teodicea del 1710. Il deista Voltaire, che, coerentemente con l’ottimistica credenza in un mondo armonico e perfetto pilotato dalla Provvidenza divina, ci ha creduto, si deve riscuotere annichilito dal terribile terremoto di Lisbona del 1755, che uccide in un istante 30.000 innocenti. Quale giustizia allora? Egli esprime il suo turbamento nella stesura della voce Giobbe dell’Encyclopedie, dove il suo scosso ottimismo metafisico tramuta il mistero del comportamento fideistico di Giobbe in una sarcastica commedia umana. Il patriarca biblico, il “giusto” per eccellenza, che Satana ha colpito su ordine di Dio per metterlo alla prova. Un Giobbe che tutto sopporta in nome del Creatore, ma, alla fine, domandandosi: «Qual è il mio peccato?», non ha compreso che il suo peccato (questa è la morale) è di essersi posta la domanda. Il turbamento del sensibile Voltaire contrasta con l’atteggiamento del cinico Rousseau, che in una lettera a lui del 18 agosto 1765 gli obbietta quasi beffardamente che dopo tutto Lisbona non era che una città, misera cosa della civiltà umana, e che quelle «ventimila case di sei o sette piani» non erano opera della Natura [75].   Guillaume-Thomas Raynal vede il problema in termini quasi “economicistici” e scrive ne L’histoire des deux Indes (1770): «La società universale esiste per l’interesse comune e per l’interesse reciproco di tutti gli uomini che la compongono. » [76]

   Questo criterio dell’« interesse comune » in funzione di un « accrescimento di felicità » trova oltre la Manica un teorico rigoroso in Jeremy Bentham (1748-1832), che nel 1789 dà alle stampe l’Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione, dove sono esposti i principi   dell’utilitarismo.  La dualità antropologica felicità/infelicità, dove il secondo termine ha come causa prima la sofferenza, impone al sociologo di trovare gli strumenti “utili” per mettere i singoli individui nella miglior condizione per cercare di conseguire il primo, poiché:

 

La natura ha posto l’uomo sotto l’imperio della “felicità” e del “dolore”. “Felicità” e “dolore” sono la fonte delle nostre idee, la sorgente dei nostri giudizi e delle nostre determinazioni. […] Questi sentimenti devono costituire il centro dell’indagine del moralista e del legislatore. Il principio dell’utilità subordina ad essi ogni cosa. “Utilità” è un termine astratto. Esso esprime la capacità e la tendenza di una cosa a preservarci da qualche male o a procurarci del bene. “Male” significa pena, dolore o causa di dolori. “Bene” è gioia o fonte di piaceri. È conforme all’utilità o all’interesse di un individuo tutto quanto tende ad aumentare la somma totale del suo benessere. Ciò che è conforme all’utilità e all’interesse di una comunità, è quanto tende ad aumentare la somma totale del benessere degli individui che la compongono. [77]  

 

Non è difficile intuire, sullo sfondo, un chiaro eco delle analisi lockiane e cogliervi la linea continua che la razionalità illuministica britannica ha seguito dal XVII al XVIII secolo, regalando all’Europa pochi principi semplici e pragmatici verso una “possibile felicità dei molti” che non va confusa con la felicità vera, quella individuale.

    Diderot resta certamente il pensatore che più di ogni altro ha colto la complessità del sentimento della felicità, la sua relatività, la sua irrangiungibilità e da questa posizione nasce il suo disprezzo per l’altro philosophe ateo Helvétius, assertore della realizzazione della felicità solo “nel sociale”. Egli è un individualista e trova quindi del tutto astratto, meramente teorico e inconsistente ogni riferimento ad un “insieme “ dove l’io-tu si possa realizzare nel noi.  La felicità per lui è u un problema dominante reso con la frase: «Abbiamo un solo dovere. Essere felici!» poiché «L’io vuol esser felice. Questa tendenza costante è la fonte eterna,  permanente, di tutti i suoi doveri. Qualunque legge contraria è un crimine di lesa umanità, un atto di tirannia.» [78] E tuttavia, se egli pone chiaramente come “fine” il conseguimento della felicità, si rende conto che si tratta di un concetto-limite e che non esiste alcun mezzo sicuro verso di essa. La felicità, qualche volta, “accade”, ma la strada è già scomparsa appena ci si accorge che la felicità è “passata” e Diderot oscillerà per tutta la vita tra l’utilizzo del “morale” o del “piacevole” per arrivarci, entrambi insufficienti e ingannatori. Da ciò il grande vantaggio di Kant che persegue solo il morale con il piacevole come subordinato e lo svantaggio di Diderot che in un breve scritto erratico del 1769 dal sarcastico titolo Il tempio della felicità aperto al pubblico afferma: «Volete che vi esponga un’idea vera? È del tutto indifferente essere uomo o coniglio. La felicità può variare tra gli individui di una stessa specie; ma credo che sia la stessa tra una specie e l’altra.» [79]   

 

 



[1] Montesquieu, Antologia degli scritti politici, a cura di N.Matteucci, Bologna, Il Mulino 1961, pp.136-137.

[2] Montesquieu, Dai pensieri, in: Antologia, a cura di N.Matteucci, Bologna, Il Mulino 1961, p.57.

[3] Ivi, p.60.

[4] Ivi, p.64.

[5] Ivi, p.90.

[6] Ivi, pp.92-93.

[7] Ivi, p.93.

[8] Ivi, p.94.

[9] Ivi, p.106

[10] Ivi, p.108.

[11] Ivi, p.109.

[12] Ivi, p.112.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, pp.179-180.

[15] Ivi, p.180.

[16] Ivi, p.180-181.

[17] R.Reichardt, Uguaglianza, in L’illuminismo, Dizionario storico, cit., p.92.

[18] Ivi, p.96.

[19] Ivi, pp.100-101.

[20] F.Diaz, Libertà, in L’illuminismo, Dizionario storico, cit., p.55.

[21] A.Rotondò, Tolleranza, in L’illuminismo, Dizionario storico, cit., p.65.

[22] Voltaire, Dizionario filosofico, a cura di F.Bonfantini, Milano, Mondadori 1970, p.620.

[23] Raynal, Histoire des deux Indes, in in L’illuminismo, Dizionario storico, cit., pp.365-369.

[24] Turgot, Plan de deux discours sur l’histoire universelle (I, Schelle, p.303) In: Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, p.357.

[25] Condorcet era girondino, sostenitore della legalità, contrario ai processi sommari e fortemente critico nei confronti dei comportamenti violenti dei Giacobini e soprattutto dei Montagnardi. Con l’andata al potere di questi, nel giugno le 1793, venne messo fuori legge. Riuscì a nascondersi e portare a termine i suoi ultimi iscritti. Scoperto e imprigionato si suicidò in carcere. 

[26] Condorcet, Esquisse d’un tableau historique des progrés de l’esprit humain. in: Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, pp.369-372.

[27] C.Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F.Venturi, Introduzione, Torino, Einaudi 1965, p.XXI.

[28] Ivi, p.9. 

[29] Ivi, p.12

[30] Tale opinione era quella di una classe intellettuale colta e progressista, ma non quella della maggior parte dei magistrati, conservatori e bigotti. Tra questi Pierre-François Muyart de Vouglans, appartenente ad una prestigiosa famiglia di magistrati ed esso stesso prima avvocato e poi consigliere del Parlamento di Parigi dal 1771. Autore anche di un grosso trattato sulla criminalità (Les lois criminelle de la France), obietta nel 1767: «Che cosa pensare di un autore che pretende di elevare il suo sistema sui rottami di tutte le nozioni ricevute sin qui? Che per accreditarlo fa il processo a tutte le nazioni civili; che non risparmia né i legislatori, né i magistrati, né i giureconsulti, che non rispetta le massime sacre del governo, dei costumi e della religione.» (Dei delitti e delle pene, cit., pp.426-427).  

[31] Ivi, p.13.

[32] Ivi, p.40.

[33] Ibidem.

[34] Ivi, pp.40-44.

[35] Ivi, p.59

[36] Ivi, p.62.

[37] Ivi, p.62-63.

[38] Ivi, p.63.

[39] Ivi, p.65

[40] Un intellettuale che aveva fatto della lotta alla violenza uno dei suoi primi compiti, Voltaire, fu un grande estimatore di Beccarla, a cui indirizzava una lettera nel maggio 1768 che iniziava con: «Le mie malattie, Signore, mi impediscono di ringraziarvi di mia mano, ma vi ringrazio francamente con tutto il mio cuore.» e così si chiudeva: «Dal momento che non ho potuto avere l’onore di vedervi, di abbracciarvi, oso dire di piangere con voi! Ho almeno la consolazione di potervi dire quanto vi stimi, vi ami e vi rispetti» (Dei delitti e delle pene, cit., pp.450-451).

[41] Ivi, p.67.

[42] Ivi, p.96.

[43] Ivi, p.97.

[44] Ivi, p.98.

[45] J.Locke, Antologia degli scritti politici, a cura di Felice Battaglia, Bologna, Il Mulino 1962, p.123.

[46] Ibidem.

[47] Ivi, p.124.

[48] Ibidem.

[49] Ivi, p.125.

[50] Ivi, pp.128-129.

[51] Ivi, p.129.

[52] Ivi, p.130.

[53] Ivi, p.144.

[54] Ivi, p.150

[55] Ivi, p.151.

[56] Ivi, p152

[57] Ivi, p.162.

[58] Ivi, p.175

[59] Ivi, p.175-176.

[60] N.Merker, Filosofia e libertà borghesi, in: Storia della filosofia, vol.II, Roma, Editori Riuniti 1984, p.133.

[61] B.Pascal, Pensieri, a cura di P.Serini, Torino, Einaudi 1962, p.176.

[62] C.Raimondi, Lettera ad Ambrogio Tignosi; in: F.de Luise-G.Farinetti, Storia della felicità, Torino, Einaudi 2001, p.186.

[63] Va rilevato che Lattanzio (IV sec.) aveva ancora un idea molto chiara della differenza tra la voluptas dei Cirenaici e quella di Epicuro, ma i teologi posteriori ne fecero un‘espressione “viziosa” unica.  

[64] J.Locke, Saggio sull’intellligenza umana, vol.I, Roma-Bari, Laterza2006, p.274

[65] Ivi, p.278.

[66] Ivi, p.279.

[67] Ivi, p.288.

[68] Ibidem.

[69] Ivi, pp.393-394.

[70] Cit. da P.Rossi, Storia sacra e storia profana, in: Storia della filosofia, a cura di P.Rossi e C.A.Viano, vol IV, Roma-Bari, Laterza 1995, p.

[71] Ibidem.

[72] Morelly, Codice della natura, in: F.de Luise-G.Farinetti, Storia della felicità, Torino, Einaudi 2001, p.433.

[73] Ivi, p.434.

[74] Ph.Roger, Felicità, in: L’Illuminismo, Dizionario storico, a cura di V.Ferrone e D.Roche, Roma-Bari, Laterza 1997, p.47.

[75] Ph.Roger, Felicità, in: L’Illuminismo, Dizionario storico, a cura di V.Ferrone e D.Roche, Roma-Bari, Laterza 1997, p.44.

[76] G.-F.-T. Raynal, Histoire philosophiqe et politique sure les établissements et les commerces des Européens dans les deux Indes, Genève, Pellet, 1780, in: http://www.univ.trieste.it/~humdiv/CORSO/Antologia_Raynal.doc, p.7.

 

[77] J.Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, in: S.Moravia, Filosofia, I testi, vol.II, Firenze, Le Monnier 1991, p.191.

[78] D.Diderot, Commento alla lettera di Hemsterhuis, in: F.de Luise-G.Farinetti, cit., p.389

[79] D.Diderot, Il tempio della felicità, in: F.de Luise-G.Farinetti, cit., p.394.