6.1
Premessa
L’ontologia finalistica e provvidenzialistica
(ed ovviamene anche
deterministica) costituisce il contrapposto
dell’ateismo in una temperie
caratterizzata da grandi fermenti scientifici
e religiosi, con una
Cristianesimo in crisi nel suo dogmatismo
immobile e con una messa in crisi
della cogenza della Rivelazione verso orizzonti
fideistici di tipo
razionalistico, espressi dal Deismo e dal
Panteismo. Appare pertanto,
all’interno della filosofia dei Lumi, una
dialettica complessa tra tendenze
atee e teologiche, tra materialismo e spiritualismo,
tra il primato del
sentimento e quello della ragione, intersecantesi
l’un l’altra in una
articolazione complessa che vede i più accesi
esponenti dell’anti-ateismo
essere nel contempo i più decisi detrattori
del Cristianesimo. Esiste pertanto,
sul piano delle weltanschauungen, un groviglio di posizioni
filosofico-teologiche che abbiamo l’impressione
non sia stato in passato
affrontato adeguatamente, sì che molto spesso
si confonde l’anticristianesimo
con l’ateismo e si appiattisce questo sul
più rozzo materialismo
riduzionistico. In realtà, il Deismo e il
Panteismo, aldilà delle attribuzioni
di comodo, sono da accorpare al Cristianesimo
in un fronte comune in funzione
anti-atea. Occorre dunque, preliminarmente,
definire meglio ciò che abbiamo già
osservato nel Capitolo V relativamente alle
nuove teologie, per
coglierne la specifica funzione fideistica
e ideologica in opposizione alla
negazione di Dio di cui è portatore l’ateismo.
Se il
cosmo ha un fine, questo fine è conferito
da un Essere che ne è causa prima ed
ultima, che lo ha creato ed ordinato, che
vigila su esso in modo
provvidenziale. Il termine “provvidenza”
deriva dal latino providentia e se ne trova traccia sia in Cicerone che
in Seneca, quale traduzione del termine greco
prònoia (πρόνοία),
introdotto dagli Stoici per indicare il governo
divino del mondo (coincidente
col fato, o destino) da parte del Lògos, il Dio-Ragione-Necessità
posto da Zenone di Cizio. Il termine sarà
poi utilizzato nel Cristianesimo in
un senso molto differente, poiché, a differenza
dell’impersonale Dio-Necessità
stoico quello cristiano è un personale Dio-Volontà
richiedendo così la
reinterpretazione del concetto di Provvidenza.
Nell’Illuminismo per molti versi
è ripreso il concetto stoico in funzione
di una nuova definizione del divino,
sì da metterne in evidenza gli attributi,
oscillanti tra razionalità e bontà.
Noi ritroviamo entrambi i significati in
due giganti del pensiero
settecentesco, in Voltaire come divina “necessità”
razionale e ordinatrice e in
Rousseau come “bontà” di Dio.
Sia
Voltaire che Rousseau sono stati i grandi
numi tutelari della Rivoluzione, il
primo in senso illuministico il secondo in
senso anti-illuministico. Entrambi
sono dei provvidenzialisti, ma le loro aspirazioni
e le loro fobie quasi
antitetiche: Voltaire tutto proiettato verso
un progresso umano e sociale
coerente con una realtà in movimento, Rousseau
tirato indietro nel recupero nostalgico della fanta-realtà
di
un’età d’oro sepolta nel passato. Ma per
quale ragione due weltanschauug
sì provvidenzialistiche, ma libertarie e
tolleranti, hanno potuto diventare
orizzonti rivoluzionari (ma non sempre illuministici!)
e costituire due linee
di movimento per il capovolgimento di un
sistema sociale? Perché in esse
(spesso fraintendendone i termini) è stato
vista l’enunciazione di un
messianismo rivoluzionario che esse non possedevano?
Pur nelle loro grandi
differenze, sia la visione voltairiana che
quella rousseauana escludevano del
tutto quella violenza che caratterizzerà
l’operato di alcuni profeti-capipopolo
(come Saint-Just e Robespierre) che ne faranno
arma politica. E tuttavia un
“messaggio” (se pur strumentale e stravolto)
messianico poteva venir colto
proprio perché ogni teorizzazione della Provvidenza
delinea un Destino del
mondo che il “veggente” privilegiato può
coglier attraverso le nebbie
dell’ignoto futuro. Facile quindi interpretare
l’illuminazione intellettuale
come illuminante una “via della prassi”,
ormai solo da imboccare e percorrere
in una corsa verso un futuro provvidenziale
“da cogliere” qui-ora o
mai-più.
La
voce “Fine, Cause finali” del Dizionario filosofico (1764) di
Voltaire esprime bene il senso di un finalismo
assoluto che intende porsi al
disopra di ogni casistica particolare:
Sembra che bisogni
essere forsennati per negare che lo stomaco
è fatto per digerire, gli occhi per
vedere, le orecchie per udire. Ma d’altra
parte, bisogna essere dominati da uno
strano amore per le cause finali, per sostenere
che le pietre sono state create
per costruire le case e che i bachi da seta
sono nati in Cina affinché noi
potessimo aver del satin in Europa. [1]
Voltaire, nel precisare che la Provvidenza
non
può essere ammessa e nel contempo negata
a seconda dei casi, afferma:
[…] tutto ciò che avviene
è stato previsto, combinato; non c’è combinazione
senza uno scopo, non c’è
effetto senza una causa. Dunque tutto è senza
eccezione il risultato, il
prodotto di una causa finale […] Ma gli uni
e gli altri [casi controversi] sono
ugualmente nel piano della Provvidenza universale:
non c’è dubbio che nulla
accada contro i suoi disegni, o all’infuori
di essa. Tutto ciò che però alla
natura è uniforme, immutabile, è l’opera
immediata del Signore. [2]
6.2
François-Marie Arouet, detto Voltaire
Voltaire è il pensatore che per primo, e
forse anche meglio di ogni altro, ha incarnato
lo spirito dei Lumi,
diventandone poi una vera icona negli ultimi
vent’anni della sua lunga vita (82
anni erano molti per l’epoca). Nato nel 1694,
giornalista polemico e moralista
precoce e irrequieto, già nel 1717 ha dei
guai con la giustizia a causa di una sua
satira contro il reggente Filippo d’Orléans
che gli vale la condanna ad un anno
di Bastiglia. Chiusa questa esperienza egli
si dedica, tra l’altro, al teatro e
riesce a portar in scena il suo Edipo, una tragedia in cui incominciano
a prendere forma quel teatro e quella narrativa
“di pensiero” che
accompagneranno la sua riflessione filosofica.
Nel 1726 ha luogo un episodio
che risulterà determinante per la sua esistenza
e per la sua formazione
culturale; un contrasto col cavaliere di
Rohan, rampollo di un’illustre e
potente famiglia bretone, gli fece capire
come la giustizia francese dell’epoca
fosse molto lontana dall’essere “uguale per
tutti”. Il contrasto gli costò una
solenne bastonatura da parte dei servi del
signorotto, il rifiuto di questi a
battersi a duello con un plebeo, ed infine
una nuova condanna con il riacquistò
della libertà soltanto al prezzo dell’esilio.
Scelta la Gran Bretagna come
paese ospite, vi soggiornò tre anni, venendo
a contatto con una società ed una
cultura totalmente differenti da quella dell’Ancien Régime e che gli
dettero la misura dell’arretratezza culturale
e sociale della Francia; pur
essendo la nazione più potente dell’epoca
e, con circa 25 milioni di abitanti
(il Regno Unito ne aveva un terzo), anche
la più popolosa.
Uno dei maggiori equivoci aleggianti intorno alla figura di Voltaire è una sua presunta irreligiosità, propagandata dal cattolicesimo per controbilanciare il suo profondo disprezzo per la Chiesa di Roma e per i suoi rappresentanti. Il suo anti-cattolicesimo, ma presto diventato per estensione anti-cristianesimo, nasceva dal suo profondo orrore per la violenza fisica e per lo scenario di orrori rappresentato dalle lotte interreligiose svoltesi in Francia tra il XIII e il XVII secolo. Il genocidio dei Catari di Béziers nel 1209 aveva dato inizio a tale temperie violenta e all’istituzione del Tribunale dell’Inquisizione. La più tarda strage degli Ugonotti nella cosiddetta Notte di San Bartolomeo del 1572 era un più recente esempio, ma non meno efferato, della furia omicida religiosa. Si trattava dei due fatti più noti di un pressoché ininterrotta catena di violenze che all’inizio del Settecento avevano ancora eco nell’intolleranza della religione dominante sia rispetto al protestantesimo e sia ad ogni deviazione dall’ortodossia cattolica. Ma, per quanto si debba ascrivere ai Cattolici l’esser stati i protagonisti riconosciuti delle più grandi atrocità, va detto che anche i loro avversari non si erano comportati troppo meglio.
Voltaire, fin da giovane è attento studioso della storia, delle istituzioni e del costume; vede gli accadimenti e la situazione corrente come un segno della necessità di superare la violenza dell’ideologia e del fanatismo in un nuovo orizzonte del sacro, che mandi in soffitta la superstizione e l’attaccamento a quelle Sacre Scritture che generavano un’ermeneutica tanto infinita ed oziosa quanto foriera di settarismo. La sua sensibilità è profondamente turbata e disgustata da una realtà, sia storica che contemporanea, caratterizzata dalla violenza compiuta in nome del Dio della “vera fede”, spingendolo a cercare un “suo” Dio, i riferimento al quale sia possibile mettere d’accordo tutti: dagli Europei agli Africani ai Cinesi.. Voltaire, d’altra parte, era spirito profondamente religioso, e così intriso di afflato morale da sentirsi spinto a battersi, in ogni momento della sua vita, contro le arroganze e le ingiustizie, sia quelle delle istituzioni religiose e sia quelle di una monarchia dispotica, ma molto spesso alleate negli abusi e nei fini politici.
Nei tre anni passati in Gran Bretagna
Voltaire vede aprirsi i propri orizzonti
sul terreno della politica, della
socialità, della scienza, della filosofia,
della religione. La conoscenza della
fisica di Newton gli fa comprendere l’inconsistenza
della maggior parte di
quella di Cartesio [3],
mentre l’antropologia e la gnoseologia di
Locke [4]
gli aprono quei nuovi orizzonti filosofici
che costituiranno il nucleo della
sua riflessione posteriore. Sul terreno religioso
il deismo, quello di Clarke [5]
prima e più tardi quello di Collins [6],
costituirà per molti anni la sua visione del mondo. Sarà il deismo, che
egli chiamerà anche “religione naturale”,
e la riflessione su esso che gli
permetterà, nella vecchiaia, di definire
una teologia cui egli darà poi, ma di
passaggio, il nome di teismo; ultimo esito della sua personale ricerca
di Dio a compimento di un ”itinerario al
sacro” che lo aveva occupato per tutta
la vita. È abbastanza significativo che nel
Dizionario
filosofico (1769) non compaia la voce “Deista” e ci
sia invece quella
“Teista”, che è così definito:
Il
teista è un uomo fermamente persuaso dell’esistenza
di un Essere supremo tanto
benigno quanto potente, il quale ha formato
tutti gli esseri estesi, vegetanti,
o dotati di sentimento, o di sentimento e
ragione; e perpetua la loro specie, e
punisce senza crudeltà i delitti e ricompensa
con bontà le azioni virtuose. Il
teista non sa in qual modo Iddio punisce,
né come egli premia […] Le difficoltà che si
oppongono all’idea della Provvidenza non
lo scuotono nella sua fede, […] Egli è
sottomesso a questa Provvidenza, benché non
ne scorga se non alcuni effetti e
alcune apparenze; […] La sua religione è
la più antica e la più estesa, perché
la semplice adorazione di un Dio ha preceduto
tutte le dottrine del mondo. Egli
parla una lingua che tutti i popoli intendono,
mentre questi popoli non si
intendono fra di loro. [7]
La
definizione è qui generica e non entra nel
problema ontologico necessità/libertà
che Voltaire affronterà nei suoi ultimi anni
(in Quesiti sull’Enciclopedia).
Ma d’altra parte ciò che egli intende qui
sottolineare è il cosmopolitismo di
un orizzonte fideistico di carattere irenico,
tale da poter superare
definitivamente la conflittualità religiosa,
poiché il suo senso del sacro è totalmente
inconciliabile con quella violenza fisica
che perlopiù caratterizza
storicamente la sfera del sacro.
Ma facciamo un passo indietro al 1742 per leggere questa significativa considerazione sul deismo:
Molti si domandano se il deismo, considerato
a parte,
e senz’alcuna cerimonia religiosa, sia veramente
una religione. La risposta è
facile: chi riconosce soltanto un Dio creatore,
chi considera in Dio solo un
essere infinitamente potente, e vede nelle
sue creature solo ammirevoli
macchine, non ha verso di lui un’attitudine
religiosa più di quanto un europeo
che ammiri l’imperatore della Cina non è
per questo suddito di quel sovrano. Ma
chi pensa che Dio si degnò di stabilire un
rapporto tra lui e gli uomini, che
li fece liberi, capaci del bene e del male,
e che dette a tutti quel buon senso
che è l’istinto dell’uomo, e sul quale riposa
la legge naturale, costui ha
senza dubbio una religione, e una religione
molto migliore di tutte le sètte
esistenti fuori della nostra Chiesa: perché
tutte quelle sètte sono false,
mentre la legge naturale è vera. [8]
L’elemento più
rilevante di questo passaggio sta nel fatto
che il deismo è definito una
“Chiesa”, cioè una comunità religiosa, a
pieno diritto, e fondata sulla legge
naturale che è «vera».
Mentre le altre sètte, tra cui quella
storicamente istituzionalizzata come “Chiesa”
(la cristiana), sono fondate sulla falsità. Si evince qui
come per Voltaire la legittimità della verità
spetti alla religione che si
fonda sulla “naturalità”, mentre, ogni altra
religione che ne prescinda, è
stata fondata su di un qualche “artificio”
dell’uomo.
La nostra stessa religione rivelata non è,
e non
poteva essere, se non quella legge naturale
perfezionata. Perciò il deismo è il
buon senso non ancora istruitosi intorno
alla rivelazione, e le altre religioni
sono il buon senso pervertito dalla superstizione.
[9]
Essendo la
“rivelazione” una delle modalità “non naturali”
di relazione con Dio, ne deriva
la loro artificialità, che si traduce, per
ciò stesso, in falsità. Il buon
senso, che qui l’anti-cartesiano Voltaire mutua
proprio da Cartesio, è alla base del deismo quale
religione in fieri, non ancora “compiuta”, perché la ricerca
di Dio è
sempre incompiuta nella misura in cui si
accompagna al progresso delle
conoscenze della Creazione, ovvero della
natura. Questa è la sola e autentica
via alla verità divina, mentre tutte le altre
non sono altro che “perversioni”
del buon senso stesso di cui Dio ci ha dotati. Voltaire
ha così operato
un capovolgimento teologico radicale, dove
l’affidamento a una rivelazione è
ora considerato come una forma di pura superstizione.
La religione “vera”, il deismo, si
qualifica anche come il superamento di tutte
le vecchie forme religiose a
carattere etnico. Poiché la natura è “di
tutti”, il deismo, facendovi
riferimento, è religione “universale”, mentre
ogni altra religione è falsa o
quanto meno soltanto prodromo rozzo di esso.
Venticinque anni dopo, in uno
scritto del 1767, egli dirà: «I principi
della religione universale sono comuni
a tutte le nazioni civili, che tutte riconoscono
un Dio e che possono quindi
lusingarsi che questa conoscenza sia una
verità.» [10] Risalendo più indietro va rilevato che la
scoperta
del deismo britannico, nel 1726, aveva costituito
per Voltaire anche la
scoperta dell’ottimismo antropologico ed
ontologico clarkeano. Ciò si contrapponeva
al pessimismo di Pascal [11],
latore di una teologia allora molto forte
in Francia, diventando così la base
teorica di una profonda critica a questi.
Più tardi egli si schiererà anche
contro l’ottimismo metafisico di Leibniz,
della cui inconsistenza teorica si
era andato convincendo specialmente dopo
il disastroso terremoto di Lisbona del
1755, difficilmente riferibile al disegno
divino del “miglior mondo possibile”.
Atteggiamento che però si attenuerà negli
anni della senilità.
È stata rimarcata, e non a torto, la scarsa
originalità di Voltaire in filosofia. Egli
è uomo d’azione più che teorico; il suo pensiero è costruito su quelli di
Locke, di Bayle, di Newton e di Clarke, che
vengono sintetizzati in una visione
sincretica priva di sviluppi reali. E tuttavia,
filosofia a parte, Voltaire è
stato un letterato brillante, che ha prodotto
una serie di opere poetiche e
narrative importanti, però sempre punteggiate
da acute considerazioni di ordine
antropologico, filosofico e teologico. Ma
è nel campo storico che egli è stato
un vero innovatore, dando inizio ad un modo
completamente nuovo di “fare
storia” quale storia della civiltà e della
cultura e non solo di eventi
cruciali o eclatanti. Prima di lui la storiografia
si estrinsecava perlopiù in
un’elencazione di fatti relativi alla religione,
alla guerra o alla politica,
di cui erano protagonisti pochi “grandi”
personaggi. Una storia che, inoltre,
era vista molto spesso come la realizzazione
della Provvidenza, con
protagonisti investiti di potere e gloria
da un Dio che li usava come
marionette, buone o cattive, con cui scrivere
la storia terrena di un’umanità
peccatrice. Con Voltaire la storia diventa
“cosa degli uomini” e fatta da
uomini, come peraltro già Vico aveva già
intuito. In tale prospettiva le Sacre
Scritture vengono viste, finalmente, per
quello che sono: la storia del popolo
ebraico. La storiografia voltairiana si configura
come storia di culture e di
popoli, con una nuova attenzione a istituzioni,
situazioni, usi e costumi.
Ciò definisce un nuovo orizzonte
storiografico, che non è più solo encomiastico,
celebrativo o moralistico ad
personam, ma antropologico, sociologico e politico.
Su questo terreno è
specialmente il Saggio sui costumi e sullo Spirito delle
nazioni, in
sette volumi e pubblicato tra il 1754 e il
1758, a costituire il suo
capolavoro.
Il suo tendenziale cosmopolitismo lo portò
anche ad interessarsi dei popoli extraeuropei,
sì da essere il primo a tentare
un disegno della storia della Cina, con un
ampliamento di interessi planetari
ancora del tutto sconosciuti nel Seicento
e presenti solo nelle relazioni dei
viaggiatori. E a proposito di religione e
di morale nella Cina è interessante
rilevare che nel Dizionario filosofico Voltaire vi dedichi un certo
spazio nell’articolo Catechismo cinese, dove si immaginano sei dialoghi
tra il principe Kou e il monaco Cu-Su, discepolo
di Confucio, relativi alla
religione, alla morale e al comportamento
del capo di stato virtuoso. Cu-Su così spiega al principe
l’essenza della Divinità, evocando quel Dio
teista (meta-deista) cui Voltaire
farà riferimento d’ora in poi:
Questo
pezzetto di vetro è penetrato d’ogni parte
dalla luce; ma è forse luce lui
stesso? È semplicemente un po’ di sabbia
fusa. Certo che tutto è in Dio; e ciò
che anima tutto deve essere ovunque. Dio
non è come l’imperatore della Cina,
che abita il suo palazzo e manda i suoi
ordini a mezzo dei Kolaos. Per il fatto di
esistere, l’essere suo
pervade di necessità tutto lo spazio e
tutte le sue opere. E poiché egli è in voi,
ciò è un avvertimento continuo di
non fare nulla di cui voi possiate arrossire
davanti a lui. [12]
Attribuendo
ad un cinese la definizione del Dio a cui
crede egli stesso, François-Marie Arouet indica un
concetto universale della Divinità a cui
si atterrà dalla giovinezza alla
vecchiaia, cui egli affida la sua profonda
religiosità e moralità.
Voltaire è autore estremamente complesso
e
poliedrico, ma noi ci limiteremo a considerare
quei pochi aspetti del suo
pensiero che più strettamente concernono
la filosofia, la morale e la teologia,
Come filosofo, lo abbiamo già detto, il Nostro
è modesto; come moralista
notevole, come teologo interessante, e ciò
specialmente per il suo determinato
e convinto anti-ateismo. La religiosità di
Voltaire ebbe peraltro, nel corso
della sua lunga vita, un’evoluzione non trascurabile,
passando dalle forme
giovanili, più vicine a Clarke [13],
a quelle della vecchiaia, tendenzialmente
favorevoli a Collins [14].
Il pensiero filosofico si distende tra le
Lettere filosofiche del 1734
(note anche come Lettere sugli Inglesi), di un Voltaire di trentotto
anni, e le Questioni sull’Enciclopedia (1776) scritte ad ottanta. in
questo lasso di tempo si sviluppano i mutamenti
di una filosofia strettamente
intrecciata con la teologia, trovando nell’etica
la sua compiuta e coerente
sintesi. Nel nostro piccolo excursus iniziamo dall’articolo Ateo-Ateismo
del Dizionario filosofico (1764) come introduzione alla nostra disamina.
Dopo una breve ricognizione storica sul problema,
l’autore relativamente ai
senza-dio, si domanda «Quale conclusione
trarremo da tutto ciò?» La risposta:
Che
l’ateismo è un mostro assai pericoloso in
quelli che governano; che lo è anche
nelle persone di studio, se pure la loro
vita è innocente, perché dal loro
studio esso può arrivare sino a quelli che
vivono in piazza; e che, se non è
certo funesto quanto il fanatismo, è tuttavia
quasi sempre fatale alla virtù. [15]
A
questa asserzione vi è un’aggiunta piuttosto
interessante dove si afferma:
Ma
se vi sono degli atei, di chi è la colpa
se non di quei tiranni mercenari delle
anime, i quali, obbligandoci a ribellarci
contro le loro furfanterie, spingono
alcuni spiriti deboli a negare quel Dio che
questi mostri disonorano? [16]
I
“mercenari delle anime”, i ministri della
religione istituzionale, sono per il
Nostro i veri responsabili della rinascita
dell’ateismo. La conclusione è: «Dio è precisamente il
contrario di quello che essi dicono.» [17]
Siamo entrati così d’un sol colpo nella tematica
religiosa e nel contempo
nell’anti-cristianesimo del Nostro, che su
Dio aveva già idee molto chiare nel
1734, quando, nel Trattato di metafisica, scriveva:
Due
sono le maniere di giungere al concetto di
un essere reggitore dell’universo.
La più naturale e la più efficace per le
capacità mentali comuni è quella che
considera non solo l’ordine che regna nell’universo,
ma anche il fine cui ogni
cosa sembra riferirsi. Su questa sola idea
sono stati composti molti grossi
volumi, ma essi, tutt’insieme, non contengono
nulla di più del seguente
argomento. Quando vedo un orologio la cui
lancetta segna le ore, ne concludo
che un essere intelligente ha congegnato
gl’ingranaggi di questa macchina
affinché la lancetta segni le ore. Così,
quando considero gl’ingranaggi del
corpo umano, concludo che un esser intelligente
ha congegnato quegli organi […]
[18]
Abbiamo qui
l’enunciazione di tre concetti teologici
fondamentali: l’ordine dell’universo e
delle sue parti, un fine per cui è stato
creato, l’intelligenza creatrice e
ordinatrice che lo ha determinato. Nelle
opere successive, e specialmente dopo
il 1760, i punti fermi qui posti risulteranno
confermati, ma talvolta in un
atteggiamento più consapevole dei limiti
umani e sempre più tormentato da
dubbi. Ma leggiamo l’ulteriore passaggio:
Il
secondo argomento è più metafisico, meno
accessibile alle menti rozze, e
conduce a conoscenze assai più vaste. Eccolo
in breve. Io esisto, dunque
qualcosa esiste. Se qualcosa esiste, qualcosa
deve essere esistito sin
dall’eternità, perché quel che esiste o è
per se stesso o ha ricevuto il suo
essere da un altro. Se è per se stesso, esiste,
ed è sempre esistito,
necessariamente ed è Dio. [19]
Enunciazione classica,
quasi paradigmatica ed ovvia. Completata
da un «Sono pertanto costretto ad
ammettere che c’è un essere che esiste necessariamente
per sé sin
dall’eternità, e che è l’origine di tutti
gli altri esseri.», frase che
eccheggia la Proposizione III di A Demonstration of the Being and
Attribute of God (1705) di Clarke.
Voltaire valuta poi come insussistenti le
obiezioni contro l’esistenza di Dio, poiché:
«Dire che Dio non ha potuto creare
questo mondo né necessariamente né liberamente
è un sofisma che cade da sé,
appena si sia dimostrato che esiste un Dio
e che il mondo non è Dio.» [20] Ci è
dato qui rilevare come il teologo Voltaire,
quanto meno all’epoca, presenti
scarsa originalità nel ribadire argomenti
dialettici aprioristici e arbitrari.
Nella Metafisica di Newton (Capit. I), sei anni più tardi, il Nostro
scrive: «Tutta la filosofia di Newton conduce
in modo necessario alla
conoscenza di un Essere supremo.» [21]
Indubbia forzatura teologica, che farebbe
pensare ad un fisico che si sarebbe
occupato di fisica solo per scoprire Dio,
mentre invece è vero che Newton vede
il mondo fisico attraverso la sua credenza
in Dio. Si percepisce bene il senso
dell’affermazione quando poco oltre si aggiunge:
«I pretesi principi fisici di
Descartes sono ben lontani dal condurre così
la mente alla conoscenza del suo
Creatore.», dove si evince che a Voltaire
interessa contrapporre la fisica del
britannico alla pseudo-fisica del francese,
sia in quanto opposizione di una
vera fisica ad una falsa fisica (in quanto
meta-fisica) e sia i funzione del
rafforzamento del concetto di Dio.. L’adesione
al newtonismo implica anche
quella al suo “finalismo”: «Molti stupiranno
forse che, tra tutte le prove
dell’esistenza di Dio, quella delle cause
finali fosse considerata da Newton
come la più valida.» [22].
Sono queste le radici immutabili della sempiterna
credenza nel “Disegno
Intelligente”, che muta pelle ma che, nella
sostanza, rimane sempre il
medesimo.
François-Marie Arouet rileva poco dopo che per quanto «tutto sia
eterno e
necessario» sarebbe molto difficile dimostrare
che per ciò stesso «che
quell’Essere sia infinitamente benefico»
[23] e
che ciò può lasciare spazio all’ateismo,
poiché l’ateo può sempre obiettare:
«Se esiste un Dio, questi deve esser la bontà
stessa: chi mi ha dato l’essere,
mi deve il benessere; ora, nel genere umano
non vedo che disordine e calamità.»
In realtà quest’obiezione Voltaire la fa
a se stesso, poiché questo è il grande
problema della teodicea che lo tormenterà
per tutta la vita, facendogli
considerare inaccettabile la teologia di
Leibniz ma attenuando più tardi la
severità del suo giudizio. In questo momento,
siamo nel ’40, Voltaire è ancora
convinto della realtà assoluta del libero arbitrio, e rivolgendosi agli
atei ammonisce:
A
voi non sembra che il Creatore sia buono, perché nella terra esiste del male.
Ma la necessità, che dovrebbe fare le veci
d’un Essere supremo, sarebbe forse
alcunché di migliore? Nel sistema che ammette
un Dio, ci sono soltanto alcune
difficoltà da superare, mentre in tutti gli
altri sistemi si debbono
trangugiare assurdità. La filosofia ci mostra
bensì che esiste un Dio, ma è
anche incapace di insegnarci quel che è,
quel che fa e come e perché lo fa. Mi
sembra che per saperlo bisognerebbe essere
Dio stesso. [24]
Voltaire opererà
successivamente alcuni aggiustamenti della
sua fede, soprattutto in riferimento
al binomio libertà/necessità, ma qui definisce
un atteggiamento scettico che lo
accompagnerà sino alla fine dei suoi giorni.
Relativamente alle possibilità della
conoscenza del mondo fisico egli approderà
al concetto di un’ignoranza
relativa, ma sul conoscere l’essenza di Dio,
e specialmente per quella
dell’anima, tale ignoranza sarà
considerata assoluta. Si tratta di una sorta
di “teologia negativa” che rivela
l’onestà intellettuale di Voltaire in fatto
di filosofia; ma occorre anche
ricordare, e lo vedremo al Cap.X, , che nello
stilare il suo Abrégé del Testamento
di Meslier, egli, volendone fare un deista,
opererà una forzatura che assumerà
i caratteri di una vera mistificazione. Anche
a proposito del concetto di anima
il suo atteggiamento è negativo, concludendo
che: «L’Essere supremo non ha
ritenuto opportuno insegnarlo agli uomini.»
[25]
Concetto ribadito in una lettera dell’ottobre
’37 a Federico di Prussia, dove
dice: «Ho esaminato sinceramente, e con tutta
l’attenzione di cui sono capace,
se posso avere alcune nozioni dell’anima
umana, e mi sono reso conto che il
frutto di tutte le mie ricerche è l’ignoranza.»
[26]
Voltaire è sempre stato un grande paladino
della libertà personale come diritto civile
irrinunciabile, ma a questo
atteggiamento antropologico se ne accompagna
uno ontologico assai più
problematico, e che si evolverà via via verso
un sempre maggior determinismo.
In gioventù, sul problema del libero arbitrio, aveva fatto proprie le
posizioni di Locke e di Clarke, affermando
nel capitolo VII del Trattato di
metafisica (1734): « La libertà è unicamente il potere
di agire » [27]. Ma
il senso della totale accettazione del concetto
di libero arbitrio
concesso all’uomo da Dio sta nel fatto che
Dio stesso, in quanto libertà
assoluta di volere, ne è garante. Da
ciò:
Volete
e agire sono precisamente la stesa cosa che
essere libero. Dio stesso può esser
libero soltanto in questo senso. Egli ha
voluto e agito secondo la sua volontà.
Se si concepisse la sua volontà come necessariamente
determinata, se si
dicesse: « Dio è stato necessitato a volere
quel che ha fatto » si cadrebbe
nella stessa assurdità che se si dicesse:
«C’è un Dio, e non c’è nessun Dio»:
perché, se egli fosse necessitato, non sarebbe
più agente, ma paziente, e non
sarebbe più Dio. [28]
Il rimprovero è
ovviamente diretto a Spinoza, ma dopo il
1770 rivedrà la sua opinione; ciò che
però sfugge qui a Voltaire è che il concetto
stesso di Dio, in quanto Bene
supremo, presuppone che Egli non possa fare
altro che il Bene, ed essere quindi
il Bene stesso la quintessenza della Creazione.
Affermazione però priva di
qualsiasi tentativo di dimostrazione; e Voltaire
stesso, pochi anni dopo, lo
metterà seriamente in dubbio. Ma intanto
questa posizione “giovanile” è
confermata poco oltre:
Ma,
se Dio è libero, la libertà è possibile,
e quindi l‘uomo può possederla. [29]
[…] Dio, ripetiamolo, non può esser libero
che in questo modo: può agire solo
secondo il suo piacere. Tutti i sofismi contro
la libertà dell’uomo attentano
egualmente anche alla libertà di Dio. [30]
Si noterà come, in
questo momento, il Voltaire ribelle al Cristianesimo
faccia suo uno degli assunti
fondamentali di questo contro il necessitarismo
spinoziano, considerato
all’epoca uno dei più gravi attentati dottrinari
alla teologia cristiana.
Ma
già dal 1740 egli, sul problema della libertà,
pare cominci a mutare posizione,
e tuttavia non riesce a disgiungere la libertà
dell’uomo da quella di chi lo avrebbe
creato. Il capitolo III della Metafisica di Newton si apre con la
precisazione: «Newton sosteneva che Dio,
infinitamente libero quanto
infinitamente potente, ha fatto molte cose
che hanno come sola ragione della
loro esistenza la sua volontà. », aggiungendo
subito dopo: «Il celebre Leibniz
sosteneva il contrario », poiché: «Nulla
avviene senza causa o senza una
ragione sufficiente e Dio ha fatto in ogni
cosa il meglio.» [31] Il
newtoniano Clarke replicava ai leibniziani:
«La vostra dottrina conduce alla
fatalità assoluta. Voi fate di Dio un essere
che agisce per necessità e,
quindi, un essere affatto passivo, che non
è più Dio.» Accusa ovviamente
ingiustificata, alla quale Leibniz poteva
replicare: «Il vostro Dio è un
operaio capriccioso»; e Clarke, a sua volta:
«La ragione è la stessa volontà di
Dio.» [32]
Abbiamo qui un botta e risposta immaginario nei confronti del quale
Voltaire assume un atteggiamento neutrale
e critico, senza prendere partito. Poco
più avanti (Cap.IV) egli afferma sconsolato:
«la libertà è, come tutto il
rimanente, limitata, variabile, insomma ben
poca cosa, perché l’uomo è ben poca
cosa.» Un’ammissione di pochezza sicuramente
sincera concernente l’homo
sapiens, ma che non si direbbe concernere l’uomo-Voltaire,
talvolta
altezzoso e sprezzante.
Egli pare aver trovato la soluzione del
problema nella frase di chiusura dello stesso
capitolo IV, quando afferma: «Una
sola riflessione ci consola: che, qualunque
sistema si accetti, e a qualsiasi
fatalità si stimino soggette tutte le nostre
azioni, si agirà sempre come se si
fosse liberi.» [33] È “consolante” pensare di
esser liberi, ma il fatto che si possa agire
«come se » così fosse, non
significa affatto che così sia. Come si vede
bene, quasi inevitabilmente, chi
crede in un Dio-Intelligenza-Perfezione e
in un cosmo-ordine-immutabilità,
finisce sempre nel determinismo. Dopo il
1760, e nello specifico ne Il
filosofo ignorante (pubblicato nel 1766), in coincidenza con
l’avvicinamento al deismo di Collins e l’abbandono
di quello di Clarke, il
distacco di Voltaire dal libero arbitrio umano appare ormai completo, con
l’approdo ad un determinismo radicale. Nel
§ XIII, rimproverando a Clarke di
aver operato un distinzione fittizia tra
“necessità fisica” e “necessità
morale”, afferma:
La
necessità morale è soltanto una parola: tutto
quanto avviene è assolutamente
necessario. Tra la necessità e il caso non
c’è nessuna condizione intermedia;
noi sappiamo che il caso non esiste: dunque
tutto quanto avviene è necessario. [34]
L’assunzione del
determinismo permette adesso a Voltaire di
trovare la miglior conciliazione col
concetto di ordine cosmico e di superare
le impasses nei confronti della
teodicea. Con sicurezza egli ora afferma:
« Per la ragione, il Caos è
impossibile, perché è impossibile che, essendo
eterna l’intelligenza, sia mai
esistito qualcosa di opposto alle sue leggi:
ora, il Caos è precisamente
l’opposto di tutte le leggi della natura.»
[35]
L’idea del “sacro” nel monoteismo, e non
solo in esso, è tutt’uno con quella di
“ordine” e di “bene”; in Voltaire Bene +
Ordine trovano la loro espressione
umana nel comportamento morale. Nel 1742,
in Sul deismo, afferma: «
Tutte le sètte differiscono l’una dall’altra,
perché provengono dagli uomini;
la morale è in ogni dove la medesima, perché
proè da Dio.» La morale diventa
quindi per Voltaire il fondamento della religiosità,
a partire dalla quale
diventa possibile risalire a Dio, in quanto
Bene Assoluto, nella sua
autenticità. Anzi, il senso morale e l’idea
del bene sono gli unici chiari
segni del divino nel cuore degli uomini.
Una convinzione che sarà condivisa e
fortemente ribadita da Kant nella Critica della ragion pratica.
Il tema della tolleranza in Voltaire è
nella sua opera ubiquitario, ma è in Sul deismo, del 1742, che si legge:
Ci
si domanda perché, su cinque o seicento sètte,
non ce n’è una sola che non
abbia fatto versare sangue umano, mentre
i deisti, che sono dappertutto tanto
numerosi, non hanno mai causato il minimo
tumulto? Perché sono filosofi. Ora, i
filosofi possono ben fare pessimi ragionamenti,
non mai intrighi. Così coloro
che perseguitano un filosofo, col pretesto
che le sue idee possono essere
pericolose per il pubblico, sono altrettanto
assurdi di coloro che temessero
che lo studio dell’algebra possa far rincarare
il pane sul mercato. Bisogna
compiangere un essere pensante che fuorvii;
perseguitarlo, è in insensato e orribile.
Noi siamo tutti fratelli: se qualcuno dei
miei fratelli, pieno di rispetto e di
amor filiale, animato dalla carità più fraterna,
non onora il nostro padre
comune con le mie stesse cerimonie, dovrò
forse sgozzarlo e strappargli il
cuore? [36]
Alla virtù della
tolleranza è qui connesso l’esercizio della
filosofia, quale “via a Dio”
attraverso la razionalità e la non-violenza.
Il deismo è non-violento perché è
religione “filosofica”, e in quanto tale
è lontanissimo da ogni violenza
settaria e per imporsi usa solo gli strumenti
della ragione. Esso è quindi religione
eminentemente “morale”, in quanto basata
sull’amore fraterno tra tutti gli
uomini, i quali, indipendentemente dal tipo
di culto (le «cerimonie»), sono
tutti “fratelli in Dio”. Sull’argomento il
testo più importante è però il Trattato
sulla tolleranza, del 1763, un’opera che trae spunto dall’ingiusta
condanna
e messa morte di Jean Calas, un ugonotto
accusato dell’assassinio di un figlio (in
realtà suicida) solo sulla base di dicerie
circa la sua volontà di convertirsi
al cattolicesimo. Voltaire si era impegnato
a fondo per salvare il poveretto
senza riuscirci, con l’unica soddisfazione
di vederne più tardi riconosciuta
l’innocenza. Il Trattato inizia col seguente Avvertimento al
lettore:
Osiamo
credere, a onore del secolo in cui viviamo,
che non vi sia in tutta l’Europa un
solo uomo illuminato che non consideri la
tolleranza come un diritto di
giustizia, un dovere prescritto dall’umanità,
dalla coscienza, dalla religione;
una legge necessaria alla pace e alla prosperità
degli stati. [37]
È qui sintetizzato in
una cinquantina di parole il senso del termine,
in riferimento alla giustizia,
all’umanità, alla coscienza, alla religione
e alla pace sociale. L’Avvertimento
si chiude con l’apologia del “libero pensiero”
quale presupposto irrinunciabile
di ogni libertà d’espressione:
Si
è anche sostenuto che i liberi pensatori
fossero pericolosi perché formavano
una setta: anche ciò è assurdo. Essi non
possono formare una setta perché il
loro primo principio è che ciascuno deve
essere libero di pensare ciò che
vuole; ma essi si riuniscono contro i persecutori,
e non significa formare una
setta il fatto che ci si accordi a difendere
il diritto più nobile e più sacro
che l’uomo ha ricevuto dalla natura. [38]
Tali premesse sarebbero
già sufficienti a condensare il contenuto
dell’opera. Ma soffermiamoci sul
Capitolo VI, breve ma intenso, dove si dichiara:
Il
diritto naturale è quello che la natura indica
a tutti gli uomini. […] Il
diritto umano non può in ogni caso fondarsi
che su questo diritto di natura; e
il grande principio, il principio universale
dell’uno e dell’altro è in tutta
la terra: “Non fare ciò che non vorresti
fosse fatto a te”. Orbene non si vede
come, seguendo questo principio, un uomo
potrebbe dire a un altro: “Credi
quello che io credo, e che tu non puoi credere,
oppure tu morrai. È quanto si
dice in Portogallo, in Spagna, a Goa. Ci
si accontenta adesso, in qualche altro
paese, di dire: ”Credi o ti aborrisco; credi,
o ti farò tutto il male che potrò;
mostro, tu non segui la mia religione, tu
non hai quindi nessuna religione. [39]
L’essenza
dell’intolleranza sta in ogni credenza che
neghi legittimità a qualsiasi altra
che ne differisca, sino a odiarla. Non è
tutto, siccome ogni “forma” della
credenza (ogni interpretazione del Testo
Sacro) si erge a portatrice “unica”
della verità, ogni dettaglio interpretativo
di una fede può diventare dirimente
e fonte di intolleranza contro ogni altra
interpretazione. Da ciò la celebre
chiusa del Capitolo VI stesso: « […] noi
ci siamo sterminati per dei
paragrafi.» [40]
Segue un excursus storico sugli effetti
dell’intolleranza religiosa nel corso dei
secoli (oggetto di studio dal VII al
XXI capitolo) e nel XXII (con titolo Della tolleranza universale) il
Nostro ammonisce:
Non
ci vuole una grande arte, né un’eloquenza
molto ricercata, per provare che i
cristiani devono tollerarsi gli uni gli altri.
Mi spingo oltre: vi dico che
bisogna considerare tutti gli uomini come
nostri fratelli. Come! Mio fratello
il turco? Mio fratello il cinese? L’ebreo?
Il siamese? Sì, senza dubbio; non
siamo tutti figli dello stesso padre, e creature
dello stesso Dio? [41]
Il monito, ad un primo
livello, invita i Cristiani a tollerare ogni
“altra” variante del
Cristianesimo; ad un secondo prescrive l’accettazione
delle convinzioni
religiose di “tutti” gli uomini sulla faccia
della Terra in quanto “tutti”
figli di uno stesso Padre. Il breve XXIII
capitolo è una Preghiera a Dio
il cui inizio recita:
Non
più dunque agli uomini mi rivolgo, ma a te,
Dio di tutti gli esseri, di tutti i
mondi e di tutti i tempi: se è lecito a deboli
creature sperdute
nell’immensità, e impercettibili dal resto
dell’universo, osare chiedere
qualche cosa a te, a te che hai dato tutto,
a te i cui decreti sono immutabili quanto
eterni, degnati di guardare con pietà gli
errori legati alla nostra natura. [42]
L’ipocrita prosopopea
ecumenistica di qualche recente “Santo Padre”,
era stata preceduta, come si
vede e da gran tempo, dal sincero ecumenismo
di un anti-cristiano che adorava
un Dio “di tutti” che la Chiesa di Roma pare
debba ancora scoprire.
Abbiamo sottolineato essere Voltaire uomo
profondamente religioso, riteniamo ora di
poter affermare che anche i suoi
atteggiamenti più profani vadano collocati
nel suo orizzonte sacrale. Riprendiamo
allora i problemi di Dio e dell’anima che
lo hanno così impegnato per corredarli
di alcune considerazioni finali che ci siano
di ulteriore chiarimento. Per
quanto non si possa sostenere che egli abbia
formulato una “sua” originale religione,
è indubitabile che abbia operato una sintesi
tra le diverse correnti del
deismo, del quale è stato apologeta, promotore,
ed anche proselitista. Prima di
considerare alcuni articoli dei tardi Quesiti sull’Enciclopedia
(1770-1774) concernenti il divino e la religione,
nei quali è raggiunta una
formulazione abbastanza definita della voltairiana
religione naturale
deista/teista, vediamo ancora qualche punto
della Metafisica di Newton.
In apertura del Capitolo V si rileva che
Leibniz accusava Newton di avere un
idea “bassa” di Dio, per considerarlo troppo
“fisico” ed autore di un mondo che
appariva come una macchina troppo “imperfetta”
[43]. Nel
capitolo successivo si sottolinea il fatto
che l’anima per Newton fosse una «
sostanza incomprensibile », aggiungendo che
da testimonianze attendibili egli
avrebbe confessato a Locke: «Non conosciamo
abbastanza la natura da osar
sentenziare che a Dio sia impossibile conferire
a un essere esteso qual si sia
il dono del pensiero.»
L’asserzione di Newton, da ritenersi
attendibile, si accompagna ad un passo di
Locke nel Capitolo III (§ 6) del
Libro Quarto del Saggio sull’intelligenza umana che ci dà la sua
opinione sull’argomento:
Abbiamo
le idee di materia e di pensare, ma forse
non saremo mai in grado di sapere se
un qualunque essere materiale pensi o no:
essendo impossibile a noi, mediante
la contemplazione delle nostre idee, e senza
rivelazione, scoprire se
l’Onnipotente non abbia dato a certi sistemi
di materia, acconciamente
disposti, il potere di percepire e pensare,
oppure abbia congiunto e fissato ad
una materia, così predisposta, una sostanza
immateriale pensante;. [44]
Il tono dubitativo e
prudente di Locke si rafforza nel prosieguo:
non
essendo, rispetto alle nostre nozioni, cosa
molto più remota dalla comprensione
nostra concepire che Dio possa, se vuole,
aggiungere alla materia una facoltà
di pensare, che non che egli vi aggiunga
un’altra sostanza con una facoltà di
pensare; poiché non sappiamo in che consista
il pensare, né a quali specie di
sostanze l’Onnipotente abbia voluto dare
quel potere, che non può esistere in
alcune esser creato, se non puramente in
seguito alla buona grazia e generosità
del Creatore. [45]
Il problema posto è se sia “più semplice”
immaginare una materia “acconciamente disposta”
a ricevere direttamente da Dio
la facoltà di pensare (in termini cartesiani
un’extensa “modificata” = cogitans),
oppure ad una sostanza pensante ad essa aggiunta
e sovrapposta per conferire
pensiero a questo nuovo aggregato eterogeneo
(= extensa + cogitans).
Il problema è quindi se l’uomo rappresenti
tale “materia modificata” pensante
(unitaria) o se egli sia materia + spirito
(duale). La difficoltà teorica è
risolta col «se vuole» il Creatore, che sottolinea
un’ipotesi che risulta non
già indebolita ma rafforzata dal «poiché
non sappiamo in che consista il
pensare ». Se noi non sappiamo che cosa sia
il pensare è deprivata di ogni
senso la tesi cartesiana di una sostanziale
differenza tra la materia (extensa)
e lo spirito (cogitans). Leggiamo l’ovvia conclusione del passo
lockiano, che intende sfuggire il rischio
che l’ipotesi possa configurarsi come
una “materializzazione” di Dio:
Poiché
non vedo contraddizione nel fatto che il
primo ed eterno Essere Pensante, o
Spirito Onnipotente, qualora lo desiderasse,
desse a certi sistemi di materia
insensibile creata, messi insieme come a
lui pareva adatto, certi gradi di
senso, percezione e pensiero: sebbene, come
credo di aver dimostrato nel Libro
IV, capitolo 10, § 14 e sgg., non è nient’altro
che una contraddizione supporre
che la materia (la quale evidentemente, di
natura sua, è priva di senso e di
pensiero) sia quell’Essere eterno che per
primo ha pensato. [46]
Indipendentemente
dal fatto che l’ipotesi sia più lockiana
che newtoniana o viceversa, rimane il
fatto che Voltaire la condivide. E la condivide
anche perché è un’idea “aperta”
e possibilista rispetto alla “chiusa” e definita
idea cartesiana. Da ciò il
rimprovero:
Ora, se l’essenza dello spirito sta nel pensiero,
ne è che esso pensa
in modo necessario, e che pensa sempre, allo
stesso modo che ogni triangolo ha
sempre e necessariamente tre angoli, indipendentemente
da Dio. Come! Dacché Dio
crea qualcosa che non è materia, è proprio
assolutamente necessario che questo
essere pensi? Miseri e temerari che siamo!
Sappiamo forse che Dio non abbia formato
milioni di esseri senza le
proprietà dello spirito o della materia a
noi note? Non ci comportiamo come un
mandriano che, avendo visto in vita sua soltanto
dei buoi, dica: «Se Dio vuol
fare altri animali, bisogna che abbiano e
corna e che ruminino!» [47]
L’espediente
retorico dell’indignazione nasconde un’ipotesi
ben più ardita, poiché sostenere
(in deroga alla Genesi biblica) che Dio a Mosè “non avrebbe detto
tutto”
sul Cosmo da Lui creato, oppure che lo abbia
“integrato” a posteriori, può
suonare blasfemo per chi creda in una verità
“esaustiva” della Bibbia. Ma
Voltaire può appoggiare questo rilievo alla
sua più volte dichiarata
“ignoranza” circa Dio, e quindi, senza negare
nulla del “già detto” su di Lui,
ammettere un “dicibile” giustificato dal
mistero profondo che lo avvolge. E nel
ricordare che Newton riteneva possibili altre
sostanze pensanti presenti nel
cosmo aggiunge che la posizione dei cartesiani
«appare simile alla definizione
di un sordo e di un cieco i quali, definendo
gli organi di senso, non
sospettino nemmeno l’esistenza dell’udito
o della vista. Con qual diritto
infatti, si può affermare che Dio non ha
riempito lo spazio immenso di
un’infinità di sostanze non aventi nulla
di comune con noi?» [48]
L’idea voltairiana dell’immutabilità della
Creazione è rigorosa. Egli ammette che noi
non possiamo sapere quante e quali
cose abbia voluto creare Dio, ma si sente
sicuro che, comunque, le forme, i
modi e le strutture di quella Creazione siano
fissi e immutabili. Questa
rigidità teorica, fortemente antievoluzionistica,
e quindi decisamente
contraria alle tesi avanzate da Maupertuis
e Buffon, costituisce un
avvicinamento a Leibniz e, contemporaneamente,
un allontanamento da Newton. Il
suo assunto è il seguente: «È impossibile concepire l’immutabilità
delle specie, ove
non si ammetta ch’esse sono composte di principi
inalterabili.» [49] E
ritenendo impossibile che nell’universo un
elemento possa cambiarsi in una
altro, a meno che si verifichi un processo
di annichilimento e una successiva
nuova creazione, conclude:
Non
riesco a capire come Newton, che pur ammetteva
gli atomi, non ne avesse tratto
quest’induzione così naturale. Egli ammetteva,
come Gassendi, veri e propri
atomi, corpi indivisibili; ma a tale concezione
era giunto per mezzo delle sue
matematiche. E ammetteva in pari tempo, che
tali atomi, tali elementi indivisi,
si tramutano senza posa gli uni negli altri.
Newton era uomo e, quindi,
soggetto a sbagliare come tutti quanti. [50]
Voltaire radicalizza qui
un posizione newtoniana che in realtà era
assai più sfumata. Ma ciò che ci interessa cogliere è l’atteggiamento, tutto
teologico, di chi non considera possibile
alcuna “dinamica” cosmica che, in
qualche modo, aggiorni la creazione. E ciò
perché Voltaire, contrariamente a
Newton (che era memore del passo del Genesi, 6, 5-7: «Il Signore,
vedendo che la malvagità degli uomini era
grande […] si pentì di aver fatto
l’uomo.») non riusciva ad immaginare in Dio
ripensamenti o instabilità di tipo
“antropico”, ma lo vedeva come Ragione Assoluta.
In quanto tale, e lo abbiamo
già sottolineato, considerare Dio al modo
dei Cristiani era per Voltaire una
vera bestemmia.
In un breve scritto del 1742, intitolato
Sul
deismo, Voltaire ci dà un’interessante definizione,
che ci permette di
cogliere meglio il senso della sua adesione
ad esso:
Il
deismo è una religione diffusa in tutte le
religioni; è un metallo che fa lega
con tutti gli altri e le cui vene si protendono
nel sottosuolo sino ai quattro
angoli del mondo. Questa miniera si trova
più allo scoperto, ed è più
attivamente lavora nella Cina; altrove, è
dappertutto nascosta, e il segreto è
unicamente nelle mani degli adepti. [51]
Quest’affermazione ci conferma
che: 1. Voltaire considera il deismo come
un “fondamento naturale” di tutte le
religioni, indistintamente, e in quanto tale
con tutte conciliabile ed
assimilabile; 2. vede in una paese come la
Cina, collocato dall’altra parte del
pianeta e caratterizzato (in base alle informazioni
in suo possesso) da tolleranza
religiosa, un livello di religiosità superiore
a quello europeo. Ma, cosa ancor
più importante, vede nel deismo l’unica fede
capace di tenere a bada l’ateismo
e di sconfiggerlo. Ne abbiamo conferma poco
dopo:
Non
c’è paese che conti maggior numero di adepti
dell’Inghilterra. In quel paese,
nel secolo scorso, c’erano molti atei, come
in Francia e Italia. Si avverava
alla lettera quel che aveva detto il cancelliere
Bacone: che poca filosofia
rende atei e che molta conduce alla conoscenza
di Dio. Quando si credeva, con
Epicuro, che tutto dipendesse dal caso, o
con Aristotele e anche con moti
antichi teologi, che nulla nasca per corruzione,
e che materia e movimento
bastino a far procedere da solo il mondo,
si poteva non credere alla
Provvidenza. Ma da quando si intravede la
natura, che gli antichi non vedevano
affatto, che tutto è organizzato, che tutto
ha un germe; si sa che un fungo è,
come tutti i mondi, l’opera di una saggezza
infinita, coloro che hanno pensato
hanno adorato, mentre i loro predecessori
avevano bestemmiato. [52]
Si vede bene come il
Nostro, abbastanza estraneo all’attività
scientifica, ne colga le acquisizioni
conoscitive esclusivamente sotto il profilo
dell’”organizzazione” strutturale e
funzionale che le cose del mondo rivelano,
interpretando ciò in un direzione
univoca, quella dell’ordine. Ciò ci conferma
come i fideisti finiscono sempre
per trovare ciò cercano, e in questo caso
si può ben dire che Voltaire:
“volendo trovare l’ordine, finisce per non
vedere altro che ordine”.
Va ricordato che quello dell’ordine cosmico
è un elemento dogmatico del deismo che lo
aveva affascinato da subito. Nel
1755, avendolo il terremoto di Lisbona scosso
profondamente (30.000 morti in
pochi secondi) entrerà un poco in crisi il
suo concetto di un fisico”ordine
assoluto” del mondo e di una divina Provvidenza.
Ma quello che poteva diventare
un vulnus teorico non di poco conto, successivamente
venne superato con
l’adesione al determinismo di Collins. Nel
1740, quando egli affermava con
sicurezza: «I fisici sono divenuti gli araldi
della Provvidenza: un catechista
annunzia Dio ai fanciulli, e un Newton lo
dimostra ai saggi» [53], era
ancora convinto che la Provvidenza (il frutto
della Volontà di Dio) non dovesse
coincidere con la Necessità cosmica. In seguito,
dopo il 1760, la sua weltanschauung
trova un’ambigua sintesi nel riferirsi a
un poliedrico
Dio-Volontà-Provvidenza-Necessità di cui
si sottolinea l’incomprensibilità. Nel
§ XXII de Il filosofo ignorante egli afferma:
Convinto
dalla mia debole ragione che esiste un essere
necessario, eterno, intelligente,
dal quale ricevo le mie idee, senza sapere
né come né perché, mi chiedo che
cosa sia quest’Essere, se abbia la forma
delle specie intelligenti e agenti
superiori alla mia, esistenti in altri mondi.
Ho già detto (nel §1) che non ne
so nulla. [54]
Rifiutata la
“rivelazione” delle Sacre Scritture il cruccio
di ogni credente è di dover
constatare l’incapacità della ragione umana
di comprendere Dio, ed allora
Voltaire, in una reminiscenza classica dei
divini “molti mondi” possibili, qui
ne accenna come tesi “non inverosimile”,
lasciando «ai poeti antichi la cura di
far discendere Venere dal suo preteso terzo
cielo e Marte dal quinto.» Per
ribadire poco dopo: «Esiste pertanto una
potenza unica, eterna, alla quale
tutto è legato e dalla quale tutto dipende,
ma la cui natura mi è
incomprensibile.» L’avvicinamento a Spinoza
parrebbe inevitabile, ma Voltaire
continua a rimanere dell’opinione di Bayle,
che lo considerava incoerente, e
nel § XXIX sottolinea: «Spinoza si serve
sempre della parola “Dio”, e Bayle lo
prende in trappola con le sue stesse parole.»
[55], e,
in conclusione: «Egli fu la vittima della
sua mentalità geometrica.» [56]
Nell’articolo Bene dei Quesiti
sull’Enciclopedia il Nostro si riallaccia all’articolo di
Bayle Pauliciani
del Dizionario storico-critico nell’affrontare il binomio bene/male, ma
nel contempo riprende il tema di Dio e della
sua incomprensibilità, con un
ammonimento importante: «Cominciamo, dunque,
col dire che ci dobbiamo guardare
dal dare a Dio gli attributi umani e dal
concepirlo a nostra immagine e
somiglianza.» [57] Vengono prese qui
nettamente le distanze da ogni antropomorfismo
del divino, che il Voltaire
“clarkiano” ancora non escludeva. Ciò dipende
in gran parte dal fatto che
Voltaire, col passare degli anni, ha sempre
più spostato il concetto del divino
dal Dio-Volontà a un Dio-Necessità facilmente
identificabile con una Natura
divinizzata. In questo iter è abbastanza marginale Spinoza, dal quale
egli si è sempre tenuto a distanza, ma pare
invece emergere un sentimento
panico non del tutto privo di elementi misticheggianti
che probabilmente egli
ha sempre inconsapevolmente coltivato. La
teologia del Tutto che egli espone in
quest’ultimo scorcio della sua esistenza
ne è chiaro segno là dove scrive:
Nella
natura c’è un solo principio universale,
eterno e attivo; non possono essercene
due, perché allora sarebbero simili o differenti.
Se fossero differenti, si
distruggerebbero l’un l’altro; se simili,
sarebbero il medesimo che se ce ne
fosse uno solo. L’unità di disegno nel gran
Tutto infinitamente vario attesta
un solo principio: il quale deve agire su
ogni essere, altrimenti non sarebbe
universale. [58]
Il Gran Tutto è disegno,
progetto, ma è anche causa e azione: quindi
“motore dell’essere”. In uno
scritto del 1772, uno degli ultimi, che presenta
il doppio titolo di Bisogna
prender partito, ovvero, Il principio d’azione Voltaire precisa tra il
serio e il faceto: «Si tratta qui d’una modesta
bagattella: di sapere cioè se
esista un Dio. Problema che esaminerò con
molto impegno e molta buona fede,
perché interessa me e anche voi.» Pare voglia
ridisegnare, soprattutto per sé,
il concetto di un Dio di cui egli coglie
ora soprattutto la dinamicità. Il § 1
inizia con: «Tutto nella natura è movimento,
tutto agisce e tutto reagisce.» [59] E al
§ 2:
Tale
motore unico è potentissimo, perché dirige
una macchina tanto vasta e
complicata. È intelligentissimo perché l’infimo
ingranaggio di questa macchina
non può esser eguagliato da noi, che siamo
esseri intelligenti. È un essere
necessario, perché senza di lui la macchina
non esisterebbe. È eterno, perché
non può esser prodotto dal niente, che, essendo
niente, nulla può produrre. [60]
L’instancabile vegliardo
di 78 anni ancora si arrovella intorno al
problema di Dio e pare ora
ridefinirlo in senso decisamente panteistico.
Più avanti, infatti lo chiama
«gran Tutto» e «grande Essere». Al § 4 le
domande incalzano ancora: «Questo
Primo Principio dov’è “ora” e che cosa faceva
“prima di creare l’universo?”».
Tentativo di risposta: «Se anima ogni esistenza,
esso è in ogni esistenza: ciò
mi sembra indubbio. Esso è in tutto quel
che c’è, come il movimento è in tutto
il corpo d’un animale, se è lecito servirsi
di questo misero paragone.» [61]. E ancora
domande: «Ma, se esso è in quel che esiste,
può esser anche in quel che non
esiste? L’universo è infinito? Mi si dice
che è tale, ma chi me lo dimostrerà?»
[62]
Nelle circonvoluzioni mentali del vegliardo
il Dio-Necessità finisce per
identificarsi col Dio-Volontà al § 6:
È
chiaro che questa suprema intelligenza necessaria,
attiva, possiede una volontà
e che ha regolato ogni cosa perché l’ha voluto.
Perché com’è possibile agire e
formare tutto senza volerlo? […] Lo
stesso Spinoza riconosce nella natura una
potenza intelligente necessaria. Ma
un’intelligenza sprovvista di volontà sarebbe
qualcosa di assurdo, perché non
servirebbe a nulla: non farebbe nulla, poiché
non vorrebbe far nulla. Il grande
Essere necessario ha, pertanto, voluto tutto
quel che ha fatto. [63]
Inopinatamente Voltaire
sembra diventato spinoziano e nello stesso
tempo cristiano. Possiamo dire che
quest’esito era inevitabile? Forse, ma vediamo
come il nostro deista-panteista
opera la conciliazione:
Ho
detto testé che esso ha fatto tutto in modo
necessario, perché le sue opere, se
non fossero necessarie, sarebbero inutili.
Ma questa necessità gli toglie forse
la sua volontà? No certamente: io voglio
necessariamente essere felice, ma non
per questo lo voglio meno: anzi, lo voglio
tanto più fortemente quanto più lo voglio
in modo invincibile. [64]
Emerge qui chiaramente,
ancora una volta, la scarsa filosoficità
del Nostro, che, per giustificare una
tesi piuttosto incoerente, non esita a saltare
dal piano ontologico a quello
psicologico, tenendoli insieme “con la forza
del desiderio”. E tuttavia egli
insiste nell’uso di questa “colla”
nell’aggiungere:
Né
tale necessità toglie a lui la libertà: la
quale non può consistere che nel
poter di agire. Essendo onnipotente, l’Essere
supremo è il più libero d tutti
gli esseri. Ecco dunque, il grande artefice
delle cose riconosciuto come
necessario, eterno, intelligente, potente,
volente e libero. [65]
Abbiamo qui la curiosa
teorizzazione di un Dio la cui esistenza
è “necessaria” mentre la sua azione è
“libera”. La libertà si identifica quindi
con l’onnipotenza che Dio ha
ricevuto, in quanto esistente, da un principio
che lo precede e lo trascende:
la Necessità. La domanda inevitabile che
ne sorge è: come può la causa prima,
la Necessità, conferire a una causa seconda,
Dio, una libertà di cui non è
principio? Dove stava il principio della
libertà prima di apparire in Dio? Se
il principio-causa che lo ha determinato
è una Necessità/libertà, che bisogno
aveva di fare un Dio-principio-agente? Pare
di trovarci di fronte a una
riedizione del Timeo, dove il Dio-Demiurgo forma dalla materia
bruta il
mondo e lo ordina. Rimarrebbe in ogni caso
la domanda: chi ha creato la materia
bruta? Lo straordinario mitopoieta Platone,
con le sue fantasticherie
teologiche da Grande Pifferaio Magico ha
incantato, alla fine, anche
Voltaire?
6.3 Jean-Jacques Rousseau
Il ginevrino Rousseau è uno straordinario
personaggio del Settecento, un portatore
di idee dirompenti e nello stesso
tempo di interpretazioni erronee del passato
e di utopiche visioni sul futuro,
e tuttavia vi sono pochi uomini che abbiano
esercitato sulle idee della sua epoca
un’influenza più profonda. Ma egli è anche
uno straordinario personaggio sul
piano umano, un esemplare di tutte le contraddizioni
emergenti in una persona
che deve gestire se stesso a cavallo tra
la genialità e la precarietà psichica.
Questa personalità, eccezionale anche nelle
sue dissociazione caratteriali,
emerge nei tardi dialoghi (1772-1775) di
Rousseau giudice di Jean-Jacques,
laddove il Nostro dice di sé:
Questa
opposizione tra i primi elementi della sua
costituzione si fa sentire nella
maggior parte delle qualità che da essi derivano,
e in tutto il suo
comportamento. C’è poca coerenza nelle sue
azioni, perché i suoi moti naturali
e i suoi disegni meditati non procedono mai
sulla stessa linea: i primi lo
distolgono a ogni istante dalla via che si
è tracciata, e così, pur dandosi
molto da fare, non progredisce affatto. [66]
L’eccezionale
sincerità di un Jean-Jacques invecchiato,
spietato giudice di se stesso, ci
rende edotti del problema fondamentale del
Rousseau-uomo: quello di conciliare
e coordinare le pulsioni della sua natura
con delle grandi doti intellettuali.
Ma che siano le prime a dominarlo emerge
poco più avanti:
Volete
conoscer a fondo il suo comportamento e i
suoi costumi? Studiate bene le sue
inclinazioni e i suoi gusti: ché non si è
mai visto un uomo che faccia così
poco conto di principi e delle regole, e
segua così ciecamente le proprie inclinazioni.
Prudenza, ragione, precauzione, previdenza,
sono per lui tutte parole prive di
effetto. Quando è tentato, cede; quando non
lo è, resta nel suo stato di
inerzia. [67]
È
evidente come siamo nell’auto-fustigazione
espiatoria di una personalità eccezionale,
che non esita a mettersi a nudo pur di “dire
tutto” senza curarsi di eventuali
forzature. In realtà, a parte il gravissimo
abbandono dei figli, il Nostro non
si è mai macchiato di particolari scorrettezze;
tutto ciò che di scompensato e
di scomposto ha potuto commettere è sempre
andato principalmente a suo danno. Egli
ha sempre pagato fino all’ultimo centesimo
le sue sconsideratezze, che non sono
poi neppure state così costanti e
frequenti come la frase di cui sopra vorrebbe
sanzionare. In realtà egli è
persona estremamente problematica e complessa:
eccessivamente cordiale e
disarmato in certi momenti può diventare
scostante e scorbutico d’un tratto..
Un misantropo, che cerca il rapporto con
gli altri, ma per ritrarsi nel suo
guscio appena non ha trovato in essi ciò
che cercava o pensa che gli sia negato.
Dirà di sé verso il 1775: «Egli non fugge
gli uomini perché li odia, ma perché
ne ha paura.» [68].
Vi è stato chi, come Claire Salomon Bayet
[69],
ha visto nel graduale evolvere interiore
di Jean-Jacques verso una sempre
maggiore intimità con la natura e la contemporanea
chiusura al mondo degli
uomini come il segno di un processo estatico
inarrestabile e progressivo. Ne
trova conferma nelle Lettere a Malesherbes e nelle Fantasticherie di
un passeggiatore solitario (più oltre: Le passeggiate solitarie). In una lettera del 4 gennaio 1762 a
Malesherbes egli parla di «invincibile disgusto
per gli uomini», e in un’altra
di otto giorni dopo: «Ho preso in disprezzo
il mio secolo e i miei
contemporanei e, sentendo che non avrei potuto
trovare in mezzo a loro una
situazione capace di soddisfare il mio cuore,
l’ho distaccato a poco a poco
dalla società degli uomini e mi sono creato
un’altra situazione
nell’immaginazione…» [70]
Nella Terza passeggiata afferma:
La
meditazione nel suo ritiro, lo studio della
natura, la contemplazione
dell’universo costringono un solitario a
slanciarsi incessantemente verso il
Creatore delle cose, e a cercare con dolce
inquietudine lo scopo di tutto che
vede e la causa di tutto che sente. […] Di
modo che tutto contribuiva a
staccarmi dagli effetti di questo mondo […]
[71]
Rousseau
individua dai quarant’anni in poi una nuova
“epoca” della sua vita, in cui si
stacca gradualmente dal mondo per immergersi
in un solitario rapporto col “tutto
divino”:
Liberandomi
di tutte quelle lusinghe, di tutte quelle
vane speranze, mi abbandonai
pienamente all’incuria e alla calma dello
spirito, che sempre furono il mio
gusto, la mia inclinazione predominante:
[…] Da quest’epoca posso datare la mia
completa rinuncia al mondo e il vivo gusto
della solitudine, che da quel tempo
non mi lascia. [72]
Nella
Sesta l’autosufficienza estatica si manifesta
così: «Di che cosa si
gioisce in una simile situazione? Di nulla
che sia esteriore a se stessi, di
nulla che non sia di se stessi e della propria
esistenza; sino a tanto che
questo dura, si basta a se stessi, come Dio.»
[73]
Per quanto Rousseau venga considerato da
alcuni un filosofo, non soltanto egli non
é tale, ma neppure presenta i
caratteri del teologo filosofale. Egli è
per un verso un teologo “puro” e per
un altro un grande psicologo di se stesso.
Sintetizzando teologia e
auto-psicologia egli ha prodotto un lavoro
letterario a carattere eminentemente
autobiografico di altissimo livello, ma del
tutto privo di elementi filosofici.
Su un altro piano egli è un sociologo di
indubbio interesse, ma mancante di
qualsiasi conoscenza della storia in senso
lato ed ancor meno dell’antropologia.
La sua cultura storica è bloccata su Tacito,
Plutarco e poco altro; fondata non
sul divenire degli accadimenti umani ma sugli
exempla gloriosi e
virtuosi, nonché sul mito di un”età dell’oro”
che in quanto precedente la civiltà
sarebbe stata immune dalla corruzione. Nella
scala di valori culturali
rousseauana non si è lontani dal vero nel
ritenere che nella sua visione l’arte
è portatrice per l’uomo di una piccola corruzione,
la filosofia di una grande e
la scienza di una enorme. Relativamente alla
filosofia si porga attenzione a un
passaggio della Lettera a Voltaire
dell’agosto 1756 a commento del Poema sul disastro di Lisbona e sulla legge
naturale. Dopo aver affermato che l’ottimismo metafisico
è irrinunciabile
anche al cospetto di 30.000 innocenti sotterrati
da macerie in pochi istanti,
egli ne fa una questione di “esattezza della
proposizione”: non si può dire che «Tutto è bene» poiché
«
Tutto è bene per il tutto» (e le cose vanno
a posto!) Poi Jean-Jacques spiega:
Allora
è evidente che nessuno potrebbe portare prove
dirette né a favore né contro,
giacché simili prove dipendono da una perfetta
conoscenza della costituzione
del mondo e dello scopo del suo Autore, e
questa conoscenza è
incontestabilmente superiore all’intelligenza
umana. [74]
La verità
divina dell’affermazione è salva per il fatto
che « nessuno potrebbe portare prove
dirette né a favore né contro » poiché essa
è «incontestabilmente superiore»
alle prove scientifiche o filosofiche della
misera intelligenza umana. Gli
equivoci dipendono solo dagli erramenti della
ragione:
Se infatti nessuno di questi due problemi
[l’esistenza di Dio e quello
della sua Provvidenza] è stato trattato
meglio dell’altro, il motivo sta nel fatto
che si è sempre ragionato male sulla
Providenza, e che ciò che si è detto d’assurdo
su di essa ha notevolmente
ingarbugliato tutti i corollari che era possibile
dedurre da quel grande e
consolante dogma. [75]
I
grandi e consolanti dogmi teologici sono
sufficienti per capire non solo che
cos’è il mondo, ma anche come va e come funziona.
Inutili “bizzarrie” quindi, e
fonti di corruzione, la cosmologia, la fisica,
la biologia, la filosofia, la
storia. Punto di vista ben espresso dal seguente
passaggio dove il
Vicario-Rousseau parla di Clarke:
Immaginate
tutti i vostri filosofi antichi e moderni
che hanno dapprima esaurito i loro
bizzarri sistemi di forze, di probabilità,
di fatalità, di necessità, di atomi,
di mondo animato, di materia vivente, di
materialismo di ogni specie, e dopo
tutti loro l’illustre Clarke che illumina
il mondo, annunziando infine l’Essere
degli esseri e il dispensatore delle cose.
[…] questo nuovo sistema, così
grande, così consolante, così adatto ad elevare
l’anima, a dare una base alla
virtù. [76]
Dopo queste prime anticipazioni
introduttive procediamo nella nostra breve
indagine, con la quale ci proponiamo
di mettere in evidenza l’elemento psicologico,
quello socio-politico, quello etico-pedagogico
ed infine quello religioso concernenti il
Nostro. Relativamente al primo diciamo
subito che noi ci occupiamo di filosofia
e non abbiamo nessuna intenzione di
avventurarci nella psicanalisi; e tuttavia
non possiamo esimerci dal
soffermarci sulla complessità psichica di
un debole e piccolo uomo che era nel
contempo un grande moralista e un brillante
genio letterario. Nel definire il
ginevrino “piccolo uomo” non vi è nessun
intento diminutivo, ma soltanto la
consapevolezza di trovarsi di fronte a un
“mai cresciuto”, a un eterno
adolescente che ha scontato duramente la
sua incapacità di crescere. La
sindrome maniaco-depressiva che ha cominciato
a colpirlo nel 1768, e che lo
porta a dedicarsi quasi esclusivamente a
un scrittura querula e ripetitiva evocatrice
delle sue disgrazie, ci rende anche il Rousseau
più autentico. Quello che ricapitola la propria esistenza e che,
pur tra l’ossessione di esser oggetto di
persecuzione e malanimo, trova la
forza di confessarsi e di mettere a nudo
la propria anima in un empito
liberatorio e nello stesso tempo apologetico.
Un vero e proprio “testamento
spirituale”, in cui è affrontato, tra l’altro,
uno dei temi più scabrosi della sua
esistenza: quello dell’abbandono all’ospizio
dei trovatelli di cinque figli
avuti dalla povera (in tutti i sensi!) Therèse.
Scrive Jean-Jacques nella Nona
passeggiata:
Capisco
che il rimprovero di aver messa i miei figli
ai Trovatelli sia facilmente
degenerato, con qualche modificazione, in
quello di essere un padre snaturato e
di odiare i fanciulli; ciononostante, rimane
certo che la paura per essi d’un
destino mille volte peggiore, e quasi inevitabile
per qualsiasi altra vita, mi
decise soprattutto a quel passo. Con maggiore
indifferenza per quello che
potevano, e incapace di allevarli io stesso,
sarebbe bisognato, nella mia
situazione, lasciarli allevare dalla madre,
che li avrebbe guastati, e dalla
sua famiglia che ne avrebbe fatto dei mostri.
[77]
Pietosa
bugia, con ogni evidenza, quella di volerli
“salvare dalla madre”, bilanciata
dalla sincera ammissione della sua incapacità
(lui che aveva scritto l’Emilio!)
di educare dei figli. A parte lo stupefacente
disprezzo per una donna fedele e
devota che è ridotta alla funzione di una
concubina senza cervello (ma molto
utile!), la questione è molto semplice: un
“eterno bambino” non è in grado di
fare il padre. Il dramma di Rousseau sta
tutto in questa incapacità di
comportarsi come un adulto e di oscillarsi
tra stadi regressivi infantili e
vivaci fantasie che in qualche caso si traducono
in altrettanto straordinarie
perorazioni delle libertà individuale e di
anticipazioni socialisteggianti, molti aspetti delle quali verranno assimilate
nel modello rivoluzionario. Non è un caso
che quest’eterno adolescente muoia
nel 1778 come un disperato, abbandonato da
tutti (salvo che dall’umile e fedele
Therèse!) e come nel 1794 la sua salma entri
al Pantheon, come “padre della
Rivoluzione”, accanto a quella di Voltaire.
Nella Sesta passeggiata egli
afferma: «Non
ho mai pensato che la libertà dell’uomo consista
nel fare quello che vuole, ma
piuttosto nel non fare mai quello che non
vuole.» [78]
Chiunque abbia allevato dei bambini sa che
è molto difficile cogliere in loro
delle intenzioni ben definite, ma che è sempre
espresso molto chiaramente ciò a
cui vogliono sottrarsi; pochissimi bambini
sanno quello che vogliono, ma tutti
i bambini sanno molto bene quello che non
vogliono. È in questa luce che
diventa possibile comprendere la frase della
Terza passeggiata: «Mentre
io, tranquillo nella mia innocenza, non m’immaginavo
che affetto e stima per me
frammezzo agli uomini; mentre il mio cuore
aperto e fiducioso si effondeva con
amici e fratelli, i traditori mi stavano
avviluppando, in silenzio, con reti
fabbricate in fondo agli inferni.» I traditori,
che avevano ordito la congiura
per distruggerlo erano, oltre all’odiato
Grimm, tre ex-amici: D’Alembert,
Diderot, e Voltaire, che ne avevano preso
le distanze, sobillati nella perversa
impresa dall’ateo-materialista d’Holbach
e da altri “cattivi” di quel genere. E
ciò, probabilmente, non per malanimo, ma
unicamente per le stranezze in cui lo
stato depressivo aveva precipitato il Nostro;
semmai incapaci di vera
comprensione amicale (ma Rousseau era capace
di amicizia?) e forse poco
propensi all’umana compassione per un egoista
in difficoltà.
Relativamente alla sua formazione è sicuro
che
la Bibbia sia stata una lettura fondamentale;
Rousseau ci informa di averne
letto negli anni ’60 qualche passo ogni sera
prima di addormentarsi, per un
totale di cinque o sei volte di lettura completa
(Le confessioni, Libro
XI [79]). Accanto
ad essa Tacito e soprattutto Plutarco tra
gli antichi, e Grozio tra i moderni,
insieme con narrativa e saggistica varia.
Jean-Jacques è stato un giovane
straordinariamente volitivo e resterà anche
in seguito un grande lettore, come
si evince dai riferimenti e dalle citazioni.
Il pensiero rousseauano,
sicuramente uno dei più influenti sul XVIII
secolo, a dispetto di qualche
presunzione di troppo e di molta utopia,
resta come l’opera di un personaggio
geniale. Un bando del 1749 dell’Accademia
di Digione per un saggio sul tema “Se
il rinascimento delle scienze e delle arti
abbia contribuito alla purificazione
dei costumi” offre la possibilità al trentasettenne
intellettuale incostante un
po’ sbandato e vagabondo, ma pieno di energia,
di guadagnare qualche e soldo e
di imporsi all’attenzione del pubblico. Un
pubblico di lettori della pagina
scritta più vasto di quello acquisito con
difficoltà attraverso opere musicali
di scarso successo e con il saggio Dissertazione sulla musica moderna,
pubblicato nel 1743.
Dal ’44 Rousseau è a Parigi, frequenta intellettuali come
Condillac, Grimm, D’Alembert e Diderot, e,
nel 1745 inizia la sua relazione con
Therèse (che sposerà nel ’68) facendole fare
cinque figli, tutti abbandonati.
Il suo saggio è premiato, e questo Discorso sulle scienze e sulle le arti
(apparso a stampa nel 1750) suscita immediatamente
scalpore, poiché nega tutto
ciò che il pensiero illuministico va sostenendo
da tempo: la capacità della
cultura di migliorare l’uomo. Il Nostro sostiene
il contrario; imbevuto di
naturalismo sentimentalistico e di ammirazione
per l’austerità spartana perora
un ritorno alla naturalezza dei primitivi
e l’abbandono di un’esistenza moderna
fatua, lussuosa e viziosa. Ovviamente il
Nostro, in riferimento all’antica
Grecia, apprezza i lacedemoni quanto disprezza
gli ioni e gli attici corrotti
dalle arti e dalle scienze, sì da esclamare:
«Oh Sparta, rampogna eterna alla
vana dottrina! Mentre i vizi apportati dalle
belle arti s’introducevano insieme
in Atene […] tu cacciavi dalle tue mura,
le arti e gli artisti, le scienze e gli scienziati.»
[80]
Affermazione non da poco in una temperie
in cui la maggior parte della gente
pareva convinta che le scienze e le arti
avrebbero aperto nuovi orizzonti. O
forse non era affatto così! Ciò che sembra
certo è che l’esercito dei
nostalgici di un supposto aureo trapassato
storico “virtuoso” pensavano di aver
trovato nel Discorso la loro nuova bibbia e in Rousseau un grande
profeta.
Anche la decadenza di Roma ha una chiara
causa: «I Romani hanno confessato che il
valore militare si era spento fra loro
a misura che avevano incominciato a intendersi
di quadri, di incisioni, di
vasi, di oreficeria, e a coltivare le belle
arti.» [81] La rampogna sulla rilassatezza dei costumi
poteva trovare d’accordo certamente anche
i cattolici controriformisti, che
però non potevano immaginasse che cosa si
sarebbe inventato quel calvinista passato
al cattolicesimo ma già pronto a spiccare
il volo per altri orizzonti religiosi.
In un successivo passaggio le statue e i
quadri diventano «immagini di tutti i
traviamenti del cuore e della ragione», ovvero
« della distinzione degli ingegni e dell’avvilimento
della virtù »
[82].
Abbiamo qui posta chiaramente per la prima
volta la prima causa della
“disuguaglianza tra gli uomini”, un tema
a cui Rousseau si dedicherà a lungo,
poiché la “distinzione” delle capacità personali
“dislivella”, mentre la
“omologazione” delle virtù civiche e dei
costumi “livella”. Ovviamente
Jean-Jacques non si rende conto né ora né
in seguito di quanto tali asserzioni
potessero esser assunte da in senso totalitario,
come peraltro fu da parte di
qualche fanatico rivoluzionario negli anni
1793-1795, tenuto anche conto che
egli resta un libertario, nemico di ogni
discriminazione (a parte nei confronti
delle donne!) e fautore dell’abolizione di
ogni schiavismo e dello sfruttamento
dell’uomo sull’uomo.
Un secondo lavoro occasionato da un bando
dell’Accademia di Digione porterà al Discorso sull’origine e i fondamenti
della disuguaglianza fra gli uomini. Pubblicato nel 1755, è un’opera
fondamentale del pensiero di Rousseau, nella
quale la nascita della
disuguaglianza tra gli uomini è vista nel
momento stesso in cui l’homo
sapiens abbandona lo stato di natura per avviarsi
verso la civiltà. Il
Nostro precisa anche che mentre la disuguaglianza
“naturale o fisica” è poco
discriminate, lo è molto quella “morale o
politica”, poiché è questa a
determinare i privilegi e il potere dei pochi
sui molti. [83] La natura è giusta e imparziale, ciò che
ci dà
è sempre buono, il male nasce quando l’uomo,
anziché vivere in sintonia con
essa, incomincia a riflettere, uscendo dal
suo ambito: «
Se essa ci ha destinati a esser sani, oserei
quasi assicurare che lo stato di
riflessione è uno stato contro natura, e
che l’uomo che medita è un animale
depravato.»
[84]. Si
affaccia qui una tesi sulla quale Rousseau
tornerà anche nell’Emilio,
ovvero che la natura mette ogni uomo nella
condizione (anzi “lo destina”) di
far fronte ai problemi della salute che possono
via via porsi in maniera
naturale, senza fare alcun ricorso alla medicina.
Egli fonda questa
considerazione sull’idea, tutta da dimostrare,
della «buona costituzione dei
selvaggi » che i civilizzati hanno irrimediabilmente
perduto.
La proprietà privata è la seconda grande
causa di disuguaglianza; forse la peggiore
e la più grave: «Il primo che avendo
cinto un terreno, pensò di affermare: questo
è mio, e trovò persone abbastanza
semplici per crederlo, fu il vero fondatore
della società civile.» Quest’affermazione ha un fondamento teorico,
poiché Rousseau, facendo coincidere proprietà
e civiltà, ci spiega che ciò che
crea disuguaglianza è tutto ciò che mette
in mora il rapporto “di natura”
instaurando quello “di cultura”. Osservazione
acuta, se si pensa che,
effettivamente, anche per giustificare un
diritto di proprietà, occorre
trovarne una giustificazione “innaturale”
attraverso il linguaggio, organizzazione
grammatico-sintattica che “fabbrica” degli
argomenti probatori a sostegno del
preteso diritto. Più avanti il Nostro chiarisce
che il diritto di proprietà
sulla terra deve valere esclusivamente per
chi la lavora, e su altri mezzi o
beni solo per chi li usa e li fa produrre.
Un principio giusto e importante che
testimonia l’acutezza di un uomo che malgrado
debolezze e intemperanze è capace
di enunciare grandi princìpi morali e sociali.
Ma subito dopo Rousseau si
abbandona a una lunga ricognizione storica
assai opinabile sui mutamenti della
società umana e sull’abbandono di principi
e sentimenti che avevano fondato le
società antiche e le avevano conservate nella
virtù.
Anche il frutto dell’ingegno è causa di
disuguaglianza, perché altera i rapporti
umani nella loro naturalità. Nel mondo
arcaico il più forte produceva più lavoro
e il più debole meno, da ciò un
differente compenso in una logica di equità
sociale inoppugnabile e riconosciuta.
Ma l’ingegnoso esce da questa logica inventando
mezzi per fare meno fatica,
indirizzando lo sviluppo comunitario verso
la divisione del lavoro (poiché ci
vorranno artigiani che “fabbrichino” nuovi
attrezzi e ingeneri che li
progettano) e l’agricoltore pagherà il risparmio
di fatica comprando lavoro più
qualificato e idee (quello che oggi chiamiamo
know-how) che gli
costeranno più del valore delle derrate alimentari
con cui paga [85]. La
conclusione:
Tale
fu o dovette essere l’origine della società
e delle leggi, che diedero nuove
pastoie al debole e nuove forze al ricco,
distrussero senza scampo la libertà
naturale, fissarono per sempre la legge della
proprietà e della disuguaglianza,
d’una accorta usurpazione fecero un diritto
irrevocabile, e per il vantaggio di
qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto
i genere umano al lavoro della
servitù e della miseria. [86]
Quello della dinamica
sociale è il campo in cui Rousseau riesce
ad essere estremamente chiaro ed
efficace. Molti sociologi posteriori, a cominciare
da Marx, troveranno nelle
analisi rousseauane un precedente di straordinario
interesse su cui
riflettere.
Dopo il diritto di proprietà, l’istituzione
della magistratura è stato un altro duro
colpo all’eguaglianza, spostando
l’asse sociale dal diritto naturale e del
potere legittimo in diritto
artificiale e potere arbitrario [87].
Quel che è peggio è che tutto ciò genera solo
infelicità, infatti: «l’uomo selvaggio e
l’uomo incivilito differiscono
talmente, nel fondo del cuore e delle inclinazioni,
che ciò che forma la
felicità suprema dell’uno, ridurrebbe l‘altro
alla disperazione. Il primo non
respira che quiete e libertà; non vuole che
vivere e restare ozioso […] Al
contrario il cittadino, sempre attivo, suda,
s’agita, si tormenta senza posa
[…] » [88] È
straordinario come, già a metà del Settecento,
ci venga reso perfettamente da
Rousseau il quadro sociale delle società
tecnologica, con tutte le sue
negatività e le sue nevrosi, ma poco credibile
l’armonia e la serenità delle
società sottosviluppate. E tuttavia, per
quanto quest’analisi sia fortemente ideologica,
è qui posto correttamente un problema del
tutto aperto e che, in qualche misura,
delinea quella che può essere definita la
“malattia della modernità”. Vi è di
più: secondo Rousseau il selvaggio «vive
in se stesso» mentre il civilizzato,
dovendo fare continuamente i conti col giudizio
altrui vive «fuori di sé»,
estraniato. Ciò avviene poiché: «lo spirito
della società e la disuguaglianza che essa
genera cambiano ed alterano
così tutte le nostre inclinazioni naturali»
e questo determina una “perdita
d’anima” assai grave, sicché noi civilizzati
siamo finiti in una condizione per
cui «non cerchiamo che di espanderci all’esterno
e di esistere fuori di noi […]
» [89]
Analisi persino condivisibile se il Nostro
sapesse dirci che nel mondo
primitivo l’individualità non esiste per
nulla, poiché ogni componente del gruppo
sociale esiste unicamente in funzione della
“totalità” tribale [90].
Gli uomini sono diventati malvagi e
«tuttavia l’uomo è naturalmente buono», a
depravarli è stato il progresso
perché li ha portati ad agire «a misura che
i loro interessi s’intersecano, a
rendersi a vicenda servigi apparenti ed a
farsi in realtà tutti i mal
immaginabili.» [91] Sia la lo sforzo e il
disagio dei mestieri malsani richiesti
dall’industria e sia l’assurdità degli sprechi
del lusso (che ne è opposto e
nello stesso tempo complementare) sono i
segni di una dissociazione sociale
profonda che Rousseau coglie molto bene.
Ma se la sua diagnosi è corretta
sarebbe del tutto utopico supporre la via
d’uscita sia “in retromarcia”, non
solo perché poco plausibile ma perché del
tutto impraticabile, cosa della quale
peraltro (come abbiamo già rilevato) egli
stesso è consapevole. In realtà il
Nostro coglie le stesse cose che altri Illuministi
avevano già colto, ma
intendendo battersi per una loro soluzione
“in avanti”, mentre Rousseau, almeno
qui, continua a sognare un “indietro”. E
tuttavia egli stesso in maniera più realistica
affronterà il problema l’anno
seguente nel Discorso sull’economia politica e soprattutto, otto anni
dopo, nel Contratto sociale.
Tutte le considerazioni di Rousseau concernenti
la sfera della socialità e dei diritti civili
hanno per soggetto l’uomo e mai
la donna. Difficile tuttavia definire tout court Rousseau un misogino,
ma è indubitabile che egli ponga la donna
al disotto dell’uomo in conformità ad
una mentalità patriarcale ribadita anche
nel Discorso sull’economia politica,
del 1755. Qui, considerando la famiglia il
nucleo fondamentale di ogni società
umana, egli afferma: «Per molte ragioni legate
alla natura dell’istituzione, il
padre deve comandare in famiglia. Prima di
tutto non vi deve esser parità di
autorità tra il padre e la madre […] ». Non
basta: «Il marito inoltre dovrà sorvegliare la
condotta della moglie, dal momento che per
lui è importante esser sicuro che i
figli, che è costretto a riconoscere e a
nutrire, siano suoi e non di altri.» [92]
Nell’auspicio di una società costituita da
soggetti più virtuosi, con la patria
quale «madre comune di tutti i cittadini
» [93], il
Nostro rileva che di fronte al fatto che:
«Il peggiore dei mali è già stato
commesso se già ci sono dei poveri da difendere
e dei ricchi da tenere a freno»
l’obiettivo è di «prevenire l’estrema disuguaglianza delle fortune, non
portando via le ricchezze a chi le possiede,
ma togliendo tutti i mezzi per
accumularne; non costruendo ospizi per i
poveri ma garantendo i cittadini dal
divenire tali.» [94] Consapevole che la
confisca dei beni già acquisiti sia difficilmente
attuabile egli pensa di
bloccare ogni ulteriore accumulo di ricchezza
eliminando i mezzi per
acquisirla. Idea irrealistica ma anche anti-economica,
a cui nessun regime
egualitario ricorrerebbe causando il trionfo
di una neghittosità diffusa. Ma il
breve articolo sull’economia politica non
è che un primo tentativo di
affrontare una tematica che è poi straordinariamente
sviluppata nel Contratto
sociale, apparso nel 1762, di cui ora occuperemo.
L’opera è una
straordinaria analisi sui rapporti umani
e sociali, forse viziata da qualche
eccesso ideologico, ma certamente l’esempio
della capacità di Rousseau, a
dispetto delle sue incoerenze, di mostrarsi
non soltanto “adulto” e maturo
intellettualmente, ma anche un grande analista
della realtà umana e sincero
promotore di principi di libertà e uguaglianza.
Il sottotitolo del Contratto sociale
è Principi del diritto politico e la tematica affrontata è ben resa
dall’inizio del Capitolo I, che recita:
L’uomo
è nato libero, e dappertutto è in catene.
Quegli che si crede padrone degli
altri non è mai meno schiavo di essi. Come
s’è operato questo cambiamento? Io
l’ignoro. Che cosa può renderlo legittimo?
Credo di poter risolvere questo
problema. [95]
Jean-Jacques si sfila da
un’analisi storica difficile sul “come” l’uomo
abbia perso la sua originaria
libertà, ma spiega come questa perversione
dallo stato di natura abbia potuto
assumere legittimità e strutturarsi. Nel
Capitolo II, relativo alle società
primitive, Rousseau ribadisce la fondamentalità
della famiglia e del
patriarcato in ogni società equilibrata e
giusta, e che la legittimità di ogni
autorità che esuli dalla naturalità è il
frutto di mere “convenzioni”
artificiali. Il concetto di “alienazione
della libertà naturale”, che egli desume
da Grozio, è il tema del Capitolo IV,
che inizia col trattare della schiavizzazione
bellica del vinto, che è priva di alcun rapporto con la “relazione
interpersonale”, riguardando esclusivamente
la relazione tra stati, che già violano
con la guerra la libertà dei propri cittadini.
Infatti:
Il
rapporto con le cose e non quello con gli
uomini costituisce la guerra; e non
potendo lo stato di guerra nascere delle
semplici relazioni reali, la guerra
privata o fra uomo e uomo non può esistere
né nello stato di natura, dove non
c’è proprietà costante, né nello stato sociale,
dove tutto è sotto l’autorità
delle leggi. [96]
Rousseau rifiuta in
blocco la tesi hobbesiana dell’homo hominis lupus enunciata in De
cive (I, 12) e in Leviathan (XIII) [97],
assumendo invece come veritieri ed attendibili
i testi descrittivi del mondo
amerindo da parte di viaggiatori come Coreal
[98] e Laët
[99]. La guerra è rapporto conflittuale umano
depravato, poiché è fuori sia della naturalità
e sia della legalità. Né nella
socialità selvaggia né in quella civile la
guerra è fatto fisiologico ma sempre solo patologico. Asserzione
importante, poiché nel XVIII secolo la guerra
era ancora vista come possibile
occasione di virtù e dispensatrice di gloria,
ma incoerente col concetto di
“patria”che egli pone e sostiene. Il cittadino
diventa “soldato” a causa di
un’“accidentalità” negativa ineluttabile
e da quel momento l’unico diritto
reale diventa quello “della patria” annullando
il cittadino che deve servirla.
All’inizio del Capitolo VI Rousseau
riconosce che lo “stato di natura” è perduto
in Europa per sempre; a partire da
questa constatazione l’assunto primario del
Contratto sociale è:
«Trovare
una forma di associazione che difenda e protegga
con tutta la forza comune la
persona ed i beni di ciascun associato; e
per la quale ognuno, unendosi a
tutti, non ubbidisca tuttavia che a se stesso,
e resti altrettanto libero di
prima.» Tale il problema fondamentale,
di cui il contratto sociale dà la soluzione.
[100]
Dà la soluzione?
Vediamo. Encomiabile il proposito nella sua
idealità positiva, ma: è possibile
da parte del cittadino non “alienare” almeno
una parte della propria libertà a
favore dello “stare insieme”? Per Rousseau
il patto sociale deve rendere ciò
possibile: «Ciascuno di noi mette in comune
la sua persona e tutto il suo potere, sotto la suprema direzione della
volontà generale; e noi tutti in corpo riceviamo
ciascun membro come parte
indivisibile del tutto.» [101] Splendida
enunciazione metafisica! Ma realistica? Come
si può fondare una «volontà
generale?» Così ce lo spiega Rousseau:
Immediatamente,
in cambio della persona privata di ciascun
contraente, quest’atto di
associazione produce un corpo morale e collettivo,
composto di tanti membri
quanti voti ha l’assemblea; il quale riceve
da questo stesso atto la sua unità,
il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa
persona pubblica,
che si forma così dall’unione di tutte le
altre, prendeva altra volta il nome
di città [in senso antropologico e non urbanistico]
e prende ora quello di repubblica
o di corpo politico, il quale è chiamato dai suoi membri Stato,
in quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo, potenza nei
confronti con i suoi simili. Riguardo
agli associati, essi prendono collettivamente
il nome di popolo, e si
chiamano particolarmente cittadini in quanto partecipi dell’autorità
sovrana, e sudditi in quanto sottomessi alle leggi dello Stato.
Ma
questi termini si confondono spesso e si
scambiano l’uno con l’altro; basta
saperli distinguere quando sono usati in
tutta la loro precisione. [102]
La pregnante e
dettagliata enunciazione è straordinaria,
con essa Rousseau cassa d’un sol
colpo il modello aristocratico di Montesquieu
e disegna in sua vece un modello
democratico tanto perfetto quanto difficile
da realizzare, soprattutto per quel
concetto di “io sociale” piuttosto utopico. Sia il “contratto”
di Hobbes
e sia quello di Montesquieu, pur nella loro
discutibilità morale, erano
formulati in modo realistico, mentre quello
del Nostro appare troppo “ideale”
per diventare possibile. Nella prospettiva
rousseauana la regalità sembra messa
fuori gioco, nessun dominio reale sarebbe
più ammissibile. Uno stato
collettivo, in quanto “di tutti”, può essere
anche padrone di tutti i beni in
virtù del contratto sociale che
collettivizza il potere e il possesso (Capitoli
VII-IX) [103]. Nel
Capitolo I del Libro II, viene definita l’”inalienabilità
della sovranità”
popolare e la sua “indivisibilità”, sussistente
nella persona giuridica dello stato
sovrano quale potere unico [104].
Vediamo ora in che cosa devono consistere
le
“leggi” secondo Rousseau (Cap.VI). Essa nascono
come frutto di una volontà
“interna” allo stato stesso, ovvero dal popolo,
poiché solo in tal caso esse posseggono
carattere di cogenza e di generalità. In
quanto “generali” sono sia l’oggetto
di delibera e sia volontà deliberante:
Quando
dico che l’oggetto delle leggi è sempre generale,
intendo che la legge
considera i sudditi come corpo e le azioni
come astratte, mai un uomo come individuo, né un’azione
particolare. Così la legge puo’ ben decretare
che ci saranno certi privilegi,
ma non può conferirne personalmente a nessuno
[…] essa può stabilire un governo
reale e una successione ereditaria, ma non
può eleggere un dato re […] in una
parola ogni funzione, che si riferisca a
un oggetto individuale non appartiene
al potere legislativo. [105]
Non sfuggirà lo
schematismo e la rigidità del modello, nonché
l’intrinseca pericolosità
dell’ultima asserzione, poiché qui si ammette
l’eventualità che persino
l’ereditarietà regale possa venir sancita
come legge generale qualora un popolo
(autolesionisticamente e incoerentemente)
volesse promulgarla. Ma, per eliminare le perplessità, subito
dopo
Rousseau ribadisce che solo nella repubblica
la legalità possiede i caratteri
di generalità del modello proposto:
Io
chiamo dunque repubblica ogni stato retto
da leggi, sotto qualsiasi forma
d’amministrazione possa essere: perché allora
solo l’interesse pubblico
governa, e la cosa pubblica è una realtà.
Ogni governo legittimo è repubblicano
*; spiegherò più avanti che cosa sia il governo.[106]
E in nota * precisa:
Con
questa parola [repubblicano] non intendo
solo un’aristocrazia e una democrazia,
ma in generale ogni governo guidato dalla
volontà generale, che è la legge. Per
esser legittimo, non occorre che il governo
si confonda col sovrano, ma che ne
sia il ministro: allora la monarchia stessa
è repubblicana. [107]
Dopo aver sottolineato
che il popolo è sì sottomesso alle leggi
ma ne è anche autore, nel Capitolo VII si
passa a delineare la figura del
“legislatore”, ed è questo uno dei punti
più deboli del sistema. Rousseau
comincia col dirci che per il legislatore
ideale «ci vorrebbe un’intelligenza
superiore, che vedesse tutte le passioni
degli uomini e non ne sentisse alcuna;
che non avesse alcun rapporto con la nostra
natura, e pur la conoscesse a fondo
[…] » [108] Si sta parlando di una
sorta di semi-dio che dovrebbe donarsi al
popolo per disegnare regole statuali
talmente buone e perfette che il popolo “non
potrebbe” che approvare, “come se”
fosse esso stesso a farle. Il riferimento
a Platone e al dialogo Del Regno
(il Politico) [109] non
è casuale; il Nostro deve averlo letto e
meditato a fondo, poiché la
realizzazione dello “Stato Felice” è strettamente
legata alla ”scienza regia”
del filosofo-legislatore, colui che in concordia
e amicizia comunitaria è
capace di unire in sé il valore e la temperanza
(311 c); virtù che nella forma
dovuta possono venirgli soltanto dagli Dèi.
La premessa era infatti (309 b) che
in un processo connettivo di contrari e complementari:
«la scienza regia si
sforzi di legarle e intrecciarle [le nature]:
Innanzi
tutto, connettendo con un filo divino, secondo
l’affinità naturale, quelle
parte delle loro anime che la natura eterna,
e, dopo la parte divina,
connettendo la parte animale, a sua volta,
con fili umani. [309 c] Quando nelle
anime nasce, sul bello, sul giusto, sul bene
e sui loro contrari, l’opinione
realmente vera, accompagnata da un solido
fondamento, io dico che è un’opinione
divina che si genera in una stirpe divina.
[110]
La tesi platonica che il
legislatore, cioè il politico, debba essere
“di stirpe divina” (in quanto
filosofo depositario della divina Verità),
rifluisce in Rousseau, il quale
immagina il legislatore come un “uomo della
Provvidenza”, come lo erano stati
“per elezione divina” Mosè per gli Ebrei,
Numa per Roma e Licurgo per Sparta, la
polis che Jean-Jacques ha sempre considerato paradigma ideale dello stato virtuoso. Ma leggiamo:
Il
legislatore è, sotto tutti i rispetti un
uomo straordinario nello Stato. Se
tale deve essere pel suo genio, non è meno
tale per il suo ufficio. Questo non
è magistrature, non è sovranità. Questo è
ufficio, che costituisce la
repubblica, non entra nella sua costituzione:
è una funzione particolare e
superiore, che non ha niente di comune coll’impero
sopra gli uomini; perché, se
chi comanda agli uomini non deve comandare
alle leggi, neppure chi comanda alle
leggi deve comandare agli uomini; altrimenti
le sue leggi, ministre delle sue
passioni, non farebbero spesso che perpetuare
le sue ingiustizie; mai egli
potrebbe evitare che intendimenti particolari
alterassero la santità del suo lavoro. [111]
Il potere legislativo
deve astrarre da quello esecutivo. La «funzione
particolare e superiore» deve
determinare la «santità » del suo lavoro,
che non compatibile con l’imperio sui
sudditi. Licurgo, infatti, afferma Rousseau,
per dare le leggi alla patria
«cominciò dall’abdicare la sua dignità regale.»
Il re, che comanda gli uomini,
non può emanare le leggi, poiché è troppo
compromesso col “profano” del
governare; il suo lavoro è invece”santo”
nella misura in cui si staglia nella
sfera quasi sovrumana della “regola”. Nel
riferimento in nota ** al
Machiavelli, che nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio aveva
affermato (Libro I, Cap.XI): «non fu ordinatore
di leggi che non ricorresse a
Dio», Rousseau afferma:
Ecco
quel che obbligò, in ogni tempo, i padri
delle nazioni e a ricorrere
all’intervento del cielo, e ad onorare gli
dèi della loro propria saggezza […]
Questa ragione sublime, che si eleva al di
sopra delle capacità degli uomini
volgari, è quella di cui il legislatore mette
le decisioni nella bocca degli
immortali, per trascinare con la forza dell’autorità
divina quelli che la
prudenza umana non basterebbe a scuotere,
Ma non tocca a ogni uomo di poter far
parlare gli dèi, né di esser creduto, quando
si annunzi come loro interprete.
La grande anima del legislatore è il vero
miracolo che deve dar la prova della sua missione.
[112]
Si comprenderà come qui
la laicità del modello democratico repubblicano
rifluisca in una sacralità
paradigmatica, che non è compito degli uomini
“normali” elaborare. Essi possono
solo sperare nel “miracolo” dell’avvento
di una “grande anima” che riesca ad
interpretare i “modelli divini”. Si coglie
qui bene il platonismo nascosto di
Rousseau, mai sbandierato ma profondamente
presente e sentito. È ben vero che
il Nostro chiude il capitolo VI così: «Non
bisogna da tutto ciò concludere con
Warburton [113], che fra la politica e
la religione abbiano tra noi un comune oggetto;
ma che all’origine delle
nazioni l’una serve di strumento all’altra.»
[114], ma
questa finale precisazione non sminuisce
in nulla l’affermazione precedente. Il
Libro III del Contratto tratta delle diverse forme di governo, ma
al
Capitolo XV troviamo un’affermazione che
suscita qualche perplessità circa la
sua realizzazione pratica, ovvero la necessità
che “ogni” singolo cittadino
debba esser chiamato a dare il proprio assenso
alle leggi, poiché nessuna
rappresentanza può esser considerata veramente
valida. Si legga:
La
sovranità non può essere rappresentata, perla
ragione stessa che non può esser
alienata; essa consiste essenzialmente nella
volontà generale, e la volontà non
si rappresenta: o è essa stessa, ovvero è
un’altra; non c’è via di mezzo. I
deputati del popolo non sono dunque, né possono
essere, suoi rappresentanti;
non sono che i suoi commissari: non possono
concludere nulla in modo
definitivo. Ogni legge, che il popolo in
persona non abbia ratificata, è nulla;
non è una legge. [115]
Affermazione forte, che
pone il fondamento di una democraticità assoluta;
ma come realizzarlo
praticamente? Rousseau pensa qui ad una forma
di ratifica del popolo delle
leggi formulate dai suoi rappresentanti,
sul tipo del moderno referendum,
ma quanto frequente può diventare questa
chiamata alle urne se deve riguardare
ogni singola legge?
Il Libro IV si apre ribadendo l’unicità
della volontà generale nei seguenti termini:
«Finché parecchi uomini si
considerano come un solo corpo, non hanno
che una comune volontà, che si
riferisce alla comune conservazione e al
benessere generale.» [116] Ci
sono seri dubbi che quest’idea “sacrale”
dello stato, cioè di una
“chiesa” statualizzata, possa far sì che
una moltitudine di uomini, ognuno con
una propria testa, possa riconoscersi nello
stato come « un solo corpo »
e come « una comune volontà»! Non a caso
poco oltre Rousseau auspica l’armonia e l’unanimità
assembleare perché i
dissensi «annunziano la preponderanza degli
interessi particolari e la
decadenza dello Stato.» [117] Ma
egli pensa che la “devozione” alla legge,
ovvero il rispetto e l’applicazione
integrale della sua lettera, possano tenere
insieme “l’unità dei molti”, purché
essi sappiano annullare ogni loro volontà
nella legge, rinunciando a se stessi
e fondendosi nell’Unità-Totalità. Purtroppo
però che questa assume tutti i
caratteri dello stato totalitario, più o
meno nei termini in cui lo sognava già
Platone nel Leggi.
L’opera si conclude col Capitolo VIII, che
ha per titolo: Della religione civile.
Scartate le forme imperfette o precarie,
la miglior forma religiosa è un
Cristianesimo originario, autentico (“ non
quello d’oggi”), nei termini che
seguono:
Resta
dunque la religione dell’uomo o il cristianesimo,
non quello d’oggi, ma quello
del Vangelo, che ne differisce del tutto.
Per questa religione santa, sublime,
vera, gli uomini, figli dello stesso Dio,
si riconoscono tutti come fratelli, e
la società che li unisce non si dissolve
neanche con la morte. [118]
Affermazione coraggiosa;
poiché asserire che il Cristianesimo “d’oggi”
non si identifica col Vangelo è
una pesante accusa alla Chiesa cattolica
(in quanto dominante) ma anche a tutte
le altre confessioni. E tuttavia, anche questa
religione “autentica”, qualora
recuperata, non sarebbe sufficiente alla
realizzazione di uno vero “Spirito
dello Stato”:
Ma
questa religione [moderna], non avendo alcuna
speciale relazione col corpo politico,
lascia alle leggi la sola forza che traggono
da se stesse, senza aggiungerne
loro alcun’altra; e perciò uno dei grandi
vincoli della società particolare
resta senza affetto. Anzi, lungi dall’affezionare
i cuoi dei cittadini allo
Stato, essa ne li distacca come da tutte
le altre cose terrene. Non conosco
nulla di più contrari allo spirito sociale.
[119]
Ciò che Rousseau rileva
negli stati cristiani è la mancanza di una
sacralità che li impregni, poiché la
sfera del sacro è avulsa dalla sfera del
profano e non influisce su di essa,
lasciando operare le sue leggi «senza aggiungerne
loro alcun’altra ». Si tratta
quindi di un “eterogeneo”, costituito da
uno Stato + una Chiesa che non si
compenetrano e non si integrano, mentre egli
teorizza un “omogeneo” di essi. Egli pare qui pensare a un’ossimorica
“teocrazia laica”, dove Dio non è quello
della Rivelazione (o almeno “non solo”)
bensì qualcos’altro, poiché «Il cristianesimo
è una religione tutta spirituale,
occupata unicamente delle cose del cielo;
la patria del cristianesimo non è di
questo mondo.». Non solo:
Il
cristianesimo non predica che servitù e
dipendenza. Il suo spirito è troppo favorevole
alla tirannia, perché questa no
ne profitti sempre. I veri cristiani son
fatti per essere schiavi, lo sanno e non
se ne commuovono punto; questa breve vita
ha toppo poco valor ai loro occhi. [120]
Una vera capriola
concettuale: la scissione tra il Cristianesimo
e lo stato ideale è qui consumata.
La religione di Gesù non favorisce l’aggregazione
sociale e il conseguimento
dell’Unità-Totalità statuale, Ci vuole qualcos’altro,
che Rousseau chiama
«religione civile», e che in qualche misura
prefigura il socialismo se con
“sovrano” si intenda “popolo”:
Vi
è dunque una professione di fede puramente
civile, della quale spetta al
sovrano fissar gli articoli, non precisamente
come dogmi di religione, ma come
sentimenti di socievolezza, senza i quali
è impossibile esser buon cittadino o
suddito fedele. [121]
Non è tutto: «Senza
poter obbligare nessuno a crederli, può bandire
dallo Stato chiunque non li
creda.» Si lascia teoricamente libera una
persona di credere o no in
collettivistici «sentimenti di socievolezza
», ma, qualora non lo faccia i
creda, lo si esilia. Principio totalitario
difficilmente conciliabile con uno
stato che si pretende virtuoso. A meno che,
ed è proprio ciò che siamo
costretti a sospettare, il sogno di Rousseau
concerna una teocrazia molto
particolare, dove la devozione e l’ubbidienza
si debba a un Dio-Stato che emani
dei dogmi tanto semplici quanto cogenti:
«I dogmi della religione civile devono
esser semplici, di numero ristretto, enunciati
con precisione, senza
spiegazioni né commenti.» (Cioè, dei perfetti
“Libretti Rossi”, come quelli di
un Mao-Dio!)
A parte alcune cadute e qualche
incongruenza il Contratto sociale è un saggio importante, poiché in
esso, per la prima volta, vengono enunciati
in maniera chiara alcuni principi
basilari per la fondazione di una comunità
socialista e democratica. Il difetto
grave sta nel fatto che il modello prevede
che questa comunità coesa di
cittadini-sudditi debba condividere integralmente
delle leggi e dei modi
d’essere fissi e dogmatizzati, per cui il
“cittadino” deve rinunciare al “per-sé”
in funzione di un “per-lo-Stato”, oppure
votarsi all’esilio. Non meno dogmatico è il modello proposto
relativamente al tema etico-pedagogico, poiché,
anch’esso, si estrinseca in un pensiero
fondamentalmente teologico, reazionario,
antiscientifico e antifilosofico.
Rousseau vede la cultura e la civilizzazione
(motori primari del pensiero
illuministico) come fattori di corruzione
dell’anima umana, nonché pervertitori
della sfera dei sentimenti “naturali”. Tale
posizione reazionaria è facilmente
desumibile anche dall’atteggiamento filo-patriarcale,
assai ingeneroso nei
confronti della donna, vista come un essere
irrazionale, schiava dei suoi
istinti e dei suoi sentimenti [122],
negato alla cultura, il cui fine primario
resta quello di fare figli e
crescerli [123]. Sofia, la protagonista
femminile dell’Émile è infatti la compagna ideale di un uomo
soggetto ad
un progetto pedagogico, ma da tale progetto
essa è esentata, e quindi
implicitamente esclusa.
L’Emilio o dell’educazione è opera
pedagogica di grande impatto sulla cultura
settecentesca. In essa è sviluppato
il programma educazionale di Rousseau; un
programma che è arcaistico e nello
stesso tempo teologico, nel quale egli introduce
gran parte delle sue tesi e
convinzioni, ponendo all’inizio la famosa
frase, piuttosto dogmatica, che
esprime la base di una teoria antropologica
e di un modello pedagogico: «Tutte
le cose sono create buone da Dio. Tutte degenerano
tra le mani dell’uomo.» [124] E
poco più avanti: «Le città sono l’abisso
dove precipita il genere umano.» [125] Il
Nostro, che ha letto Cartesio, rivela che
il dualismo ontologico di questi ha
lasciato il segno per quanto incoerentemente
col suo deismo. Ciò si evidenzia
in quest’asserzione del Libro IV:
Giunto
non so come all’idea astratta di sostanza,
è chiaro che l’uomo, per ammettere
una sostanza unica, dovrebbe supporre in
essa qualità incompatibili che si
escludono a vicenda, quali il pensiero e
l’estensione, delle quali la seconda è
per essenza divisibile, mentre il primo esclude
ogni divisibilità. [126]
Ma come conciliare
questa professione di dualismo ontologico
con quella appena precedente e di un
neppur troppo vago sapore panteistico? Si
legga con attenzione:
L’essere
incomprensibile che tutto abbraccia, che
dà movimento al mondo che forma tutto il sistema degli esseri,
non
è visibile ai nostri occhi né palpabile per
le nostre mani, sfugge a tutti i
nostri sensi: l’opera è palese, ma l’artefice
rimane nascosto. [127]
E tuttavia, all’inizio
del Libro Primo, aveva affermato “leibnizianamente”:
«L’uomo naturale è
un’entità del tutto a sé stante, è l’unità
numerica, è l’intero assoluto che ha
rapporto solo con sé stesso o col suo simile.»
Il Nostro tende ad un pensiero
teorico unificante e totalizzante, ma in
realtà marcia su differenti binari,
appiccicando a una tesi antropologica un’incoerente
tesi filosofica. Il suo
concetto di sentimento, in quanto passione naturale, in che rapporto
sta
col “pensiero”, ovvero con l’”indivisibile”?
Poiché, delle due l’una: o il
sentimento è “spirito” oppure è “materia”,
e non si comprende bene in Rousseau
da che parte stiano il sentimento e la ragione,
della quale peraltro si dice ad
un certo punto: «Solo la ragione ci insegna
a conoscere il bene e il male, e
perciò la coscienza, che ci fa amare l’uno
e odiare l’altro, benché
indipendente dalla ragione, non può svilupparsi
senza di essa.» [128] Ma
se la ragione è una facoltà, è essa naturale
(cioè estesa) o spirituale? E se
la coscienza si sviluppa da essa a quale
categoria ontologica appartiene e come
si colloca il sentimento rispetto ad entrambe?
Il barone Wolmar nella Nuova
Eloisa afferma:
La
fredda ragione non ha mai prodotto nulla
di eccezionale, e il solo modo di
soffocare una passione è risuscitarne una
contraria. Quando nasce, la passione
della virtù regna sovrana e mantiene in equilibrio
tutte le altre. È questo che
costituisce il vero saggio, il quale non
è più degli altri uomini al riparo
dalle passioni, ma solo conosce il modo di
vincere le passioni con le passioni
stesse, come un pilota mantiene la rotta
malgrado i venti contrari. [129]
Alla luce di questa presa di posizione
noteremo che il problema pedagogico assume
nel Settecento una particolare
importanza sociale in relazione al conflitto
delle ideologie che si vengono a
confrontare. La pedagogia cristiana secentesca
è già ricca di nuovi fermenti,
come si è visto, e nel Settecento è
possibile individuare essenzialmente tre
indirizzi: quello gesuitico, quello
pietista e quello deista. Nell’ambito deista,
che potremmo chiamare anche
progressista, intende collocarsi il pedagogismo
di Rousseau, che si richiama
per un verso alla naturalità e per un altro
all’austerità dell’antico, in
riferimento specialmente alla grecità e alla
romanità pre-imperiale. Non ci stupiremo allora nel
richiamo a Platone espresso nei termini seguenti:
Chi voglia avere un’idea dell’educazione
pubblica, legga la Repubblica di Platone. Non è affatto un’opera
politica, come ritiene chi giudica i libri
solo dal titolo: è il più bel
trattato di educazione che sia mai stato
scritto. [130]
Apprezzamento
per Platone, dunque, e pessimismo di Rousseau
sulla pedagogia del suo tempo:
L’educazione pubblica non esiste e non può
esistere, perché dove non è più patria non
possono esser più cittadini. Queste
due parole “patria” e “cittadino”, debbono
esser cancellate dalle lingue
moderne. [131]
Un pessimismo che tuttavia non disarma
Rousseau, sempre pronto a “ripescare” le
virtù di un passato austero privo di
mollezze culturali. L’”esercizio fisico”
è lo strumento attraverso il quale il
giovane si educa, da ciò il disprezzo delle
“nozioni” della cultura. D’altra
parte la vera educazione inizia con l’allattamento
e procede per fasi
programmate; e così,citando un Varrone di
seconda mano (una testimonianza di
Nonio Marcello) emerge la sentenza: «La levatrice
presiede alla nascita, la
nutrice alleva, il pedagogo forma, il maestro
istruisce.» [132] La
distinzione è quasi ovvia; seguendo però
il discorso rousseauano diventa
difficile immaginare un’educazione pubblica
quando poco dopo si stabilisce che
ogni fanciullo deve essere affidato ad un
solo precettore, una sola guida, il
che significa inevitabilmente la personalizzazione
di essa:
Così tra queste tre attività dell’allevare,
dell’educare e dell’istruire vi è tanta diversità
quanta ne intercorre tra
nutrice, precettore e maestro. Ma tali distinzioni
vengono fraintese e il
bambino, per esser ben diretto, deve affidasi
a una sola guida. [133]
Di
contraddizione in contraddizione Rousseau
ci dirà poi che il buon pedagogo deve
lavorare gratis:
Si discute molto della qualità di un buon
pedagogo [gouverneur]. La prima da esigere, a parer mio, ed essa
sola ne
presuppone molte altre, è che non sia un
mercenario. Vi sono mestieri così
nobili che è impossibile farli per denaro
senza, per ciò stesso, mostrarsene
indegni: di tal genere è il mestiere dell’uomo
di guerra, tale è quello dl
pedagogo. [134]
L’appaiamento
dell’attività guerriera e quella pedagogica
nella “nobiltà” moral-patriottica è
significativa; la “macchina” che muove l’educazione
è analoga a quella che
muove la guerra, il fine sembra univoco:
vincere “per” qualcosa “contro”
qualcos’altro. L’educazione deve essere pubblica,
quindi “per tutti”. Molto
bene! Si penserebbe allora che il nuovo paradigma
educativo che si intende
proporre riguardi i figli dei poveri, ma
scopriamo presto che non è così:
Emilio deve essere ricco e nobile. Perché?
Questa la risposta:
Il povero non ha bisogno di educazione: la
sua
gli è impartita a forza del suo stesso stato,
né potrebbe averne un’altra;
invece l’educazione che il ricco riceve dalla
sua condizione sociale è quella
che meno si conviene a lui stesso e alla
società. [135]
Il
povero può restare ignorante perché la povertà,
di per se stessa, educa!
Curiosa teoria di chi è convinto, infallibilmente,
di sapere ciò che serve agli
individui e alla società, tanto più che l’individualità
di quelli deve perdersi
nell’”unità” e fondersi con la “totalità”
dello stato. Ma è il pedagogo stesso
che sembra quasi identificarsi con lo stato, sovrano e totale. Infatti
l’educando deve affidarsi ad esso. Afferma
infatti il pedagogo: «Emilio è
orfano. Non importa che abbia un padre e
una madre: assunti su di me i loro
doveri, eredito tutti i loro diritti, Egli
deve onorare i genitori, ma obbedire
esclusivamente a me.» [136] Il
verbo non è equivoco: obbedire! Il bambino
è come un mucchietto di argilla che
il pedagogo plasma con le sue mani “uniche”
e che si “fa” nella misura in cui
“obbedisce”. Il semi-divino filosofo platonico
(omogeneo alla divina Verità) è
diventato il pedagogo virtuoso che lavora
gratis per lo Stato-Virtù. E poiché
solo la virtù è la luce che illumina la via
e delinea l’orizzonte da seguire
rafforzando il corpo “secondo natura” per
rafforzare l’anima “secondo virtù”, anche
la medicina va bandita:
Un corpo debole indebolisce l’anima. Ecco
perché
impera l’arte della medicina, più perniciosa
agli uomini di tutti i mali che
pretende guarire. Per parte mia, non so di
che malattie ci guariscano i medici,
maso di certo che ce ne inoculano di assai
funeste: la viltà, la pusillanimità,
la credulità, il terrore della morte. Se
guariscono il corpo uccidono il
coraggio. [137]
Il
coraggio è dunque la vera salute dell’uomo
e l’uomo coraggioso è perciò stesso
sano. La medicina è un’arte menzognera che
rovina l’anima e il bambino deve
crescere coraggioso, forte, impavido di
fronte alla morte. Se non lo è colpa è della
medicina, della filosofia e della
religione cristiana:
Sono i medici con le loro prescrizioni, i
filosofi coi loro precetti, i preti con le
loro esortazioni che gli avviliscono
il cuore e gli fanno disimparare a morire.
[…] Mi si dia dunque un allievo che
non abbia bisogno di tutta codesta gente,se
no lo rifiuto. Non voglio che altri
sciupino l’opera mia; intendo educarlo da
solo oppure non immischiarmene
affatto. [138]
Rousseau
non vuole compromessi e pretende un bambino
ad hoc, che sappia curarsi
da solo con l’esercizio fisico, l’abnegazione
e il coraggio. Perciò: «Se il
bambino non è capace di guarire, sappia esser
malato.» [139]
Abbiamo cercato di mettere in evidenza i
punti critici del programma pedagogico rousseauano
non già per svalutarlo, ma
al fine di comprendere quanto di contraddittorio
si annidi all’interno di
questo “sistema” che tanto successo ha avuto
nel Settecento. Vediamo però subito,
per controbilanciare, di evidenziare gli
elementi positivi, che sono numerosi. Nel
modello vi sono infatti aspetti
estremamente concreti, tra i quali emerge
un principio estremamente importante
per quanto già avanzato da Locke: il bambino
va sempre considerato come un
bambino e non come “un piccolo adulto”. Un
principio per noi scontato, ma che
non lo era per nulla nel XVIII secolo come
non lo era quello per cui i genitori
debbono essere coinvolti direttamente nel
processo educativo (sia pure sotto
“agli ordini” del pedagogo). Il padre deve
dedicare in ogni caso una parte del
suo tempo al bambino; la madre lo deve allattare
personalmente e non delegare
alla nutrice questa fondamentale operazione.
E poi la disposizione di non
fasciare mai i neonati, ma di lasciarli liberi
di muoversi, evitando del tutto
anche ogni tipo di supporto alla prima deambulazione.
E inoltre di lavarli
spesso e sempre con acqua fredda. Acutamente
si rileva nel Libro Secondo come
nelle attività sportive risulti erroneamente
più insegnata l’equitazione del
nuoto, rilevando saggiamente: «[…] nell’acqua
chi non nuota affoga,e non si può
nuotare senza averlo imparto. Infine nessuno
è obbligato a cavalcare pena la
vita, mentre nessuno è sicuro di evitare
un pericolo al quale tutti sono tanto
spesso esposti.» [140]
La pedagogia di Rousseau è spesso colta in
una sua presunta monoliticità, il che può
parere vero a desumere da un tono
discorsivo molto deciso ed affermativo. A
ben vedere essa soffre invece di una
sorta di dicotomia tra una teoria, aprioristica
e dogmatica, assai discutibile,
e una prassi, utilitaristica e razionale,
del tutto condivisibile. Tutto ciò
che deriva dalla prima si impone alla seconda
non già rafforzandola, ma semmai proprio
indebolendola. Che cosa mai a che fare l’utilitarismo
dell’A che serve ciò?
nel quarto § del Libro III con il dogmatismo
idealistico dei Principi fondamentali
nel § 1 del Libro I? O di quella sorta di
panegirico sul “primato della virtù”
e della filippica contro la mollezza e la
pusillanimità in cui consiste il § 4 dello
stesso? E che dire del lungo § 13 del Libro
IV , la Professione d fede del
vicario savoiardo, così intriso di principi teologici? Il
meglio di
Rousseau è certamente in prese di posizione
come la seguente:
Non mi piacciono affatto le spiegazioni a
base
di discorsi: i giovani vi prestano poco orecchio
e non li fissano nella
memoria. Le cose! Le cose! Non mi stancherò
mai di ripetere che diamo troppa
importanza alle parole; con la nostra educazione
parolaia non fabbrichiamo
altro che chiacchieroni. [141]
Ma
anche il discorso sulle passioni all’inizio
del Libro IV si inscrive in una visione
dell’uomo laica (e biologica) del tutto condivisibile
e perfettamente consona
alla temperie illuministica:
Le
passioni sono i principali strumenti della
nostra conservazione: è dunque
impresa vana e insieme ridicola volerle distruggere,
è come pretendere di
controllare la natura, di riformare l’opera
di Dio. [142]
Già, ma come conciliare ciò con l’affermazione
che la Repubblica di
Platone: «è il più bel trattato di educazione
che sia mai stato scritto», dal
momento che l’ateniese è il pensatore più
“anti-passione naturale” che si possa
immaginare? [143] Si può essere però del
tutto d‘accordo con l’asserzione che sta
poco: «L’amore di sé è sempre buono,
sempre conforme all’ordine naturale», ma
come può ciò concilîarsi col concetto
di stato totalitario che Rousseau propone?
Passiamo ora allo scritto che
meglio di ogni altro delinea la fede post-cristiana
di Jean-Jacques: la Professione
di fede del vicario savoiardo, che occupa buona parte del Capitolo IV
dell’Emilio.
Ma prima, allo scopo di meglio comprendere
l’atteggiamento religioso del Nostro,
dobbiamo soffermarci sul suo ottimismo metafisico,
che ha come punti di
riferimento Leibniz e Pope. Ciò ci permette
anche di esemplificare con Rousseau
ciò che da tempo andiamo sostenendo circa
quella tendenza della nostra psiche
a far proprie e ad imporre all’intelletto e alla ragione le visioni
del mondo portatrici di omeostasi [144]. Dal
momento che il disordine e la sofferenza
rendono la vita “realmente” precaria,
la nostra psiche elabora antidoti efficaci in due forme:
o attraverso la
costruzione di una personale weltanschauung soddisfacente e
gratificante, oppure con l’adesione ad una
weltanschauung di gradimento
elaborata da altri ma che si accordi con
le nostre aspettative psichiche e
plachi i nostri turbamenti. Relativamente
a Rousseau è la Lettera a Voltaire
dell’agosto 1756 che ci permette di cogliere
la sua pulsione omeostatica.
L’antecedente è noto: Voltaire, in un impeto
di ribellione (ma poi in gran
parte rientrato) contro la supposta giustizia
divina, al cospetto del tragico
terremoto di Lisbona del 1755, aveva scritto
d’impeto il suo Poema sul
disastro di Lisbona e sulla legge naturale, mandandone anche copia a
Rousseau. Questi, dopo averlo considerato
attentamente, gli risponde. Nella sua
Lettera, dopo i riconoscimenti di circostanza, si
rileva:
Sono qui posti
due fondamentali concetti omeostatici, quello
di consolazione e quello
di tranquillizzazione. Il dolore e l’inquietudine, come disagio
“in
atto”, esigono la loro attenuazione attraverso
la consolazione per il dolere
che si soffre e l’esorcizzazione dell’inquietudine
attraverso la tranquillizzazione
sul futuro. La consolazione serve a far comprendere
al sofferente o che il
dolore non è così forte come è percepito
o che è assunto parzialmente dal
consolatore in termini di condivisione. La
tranquillizzazione consiste in una
correzione del quadro psichico sì da far
comprendere che “in prospettiva”
l’inquietudine si risolverà o almeno di attenuerà.
In entrambi i casi occorre
che l’una e l’altra rientrino in quadro ottimistico
di riferimento entro il
quale il male risulti transitorio e il bene invece strutturale e
fondamentale. Il prosieguo del testo rousseauano
ce ne dà conferma:
Quell’ottimismo che stimate così crudele
mi è
invece di consolazione proprio in quei dolori
che mi descrivete come
insopportabili. Il poema di Pope lenisce
i miei mali e mi induce alla
sopportazione, il vostro rende più aspre
le mie pene, mi spinge a discorsi di
recriminazione e privandomi di tutto eccetto
una vacillante speranza mi riduce
alla disperazione. [147]
In definitiva
Rousseau pone il problema ottimismo/pessimismo
in termini “economici”. Essere
ottimisti “conviene”. L’atteggiamento del
Nostro ci suggerisce due confronti:
uno con Pascal e l’altro con Voltaire. Anche
Pascal vede la convenienza di
scommettere sul Paradiso contro la possibilità
dell’Inferno: se c’è si guadagna
tutto, se non c’è no si è perso niente. Voltaire,
se pur incapace (da
provvidenzialista) di porsi il problema in
termini filosofici, coglie comunque
la profonda ipocrisia dell’ottimismo metafisico
e dà un’interpretazione
“tragica” dell’esistenza che a Rousseau non
sta affatto bene. Ciò perché
Voltaire è un illuminista e Rousseau un anti-illuminista.
Sicché ribadisce:
Sopporta
uomo mi dicono Pope e Leibniz. I tuoi mali
sono un effetto necessario della tua
natura e della costituzione di questo universo.
L’Essere eterno e benefico che
ti governa volle garantirtene. Fra tutte
le possibili economiche dell’universo,
ha scelto quella che riuniva il male minore
e il bene maggiore […] se non ha
fatto meglio è perché meglio non poteva fare.
[148]
La
“voglia di bene” non esita a ricorrere alla
bestemmia (come potrebbe mai
l’Onnipotente “non poter fare”!?) pur di
ribadire un determinismo ottimistico
di cui le psichi di Pope, di Lebniz e di
Rousseau hanno assolutamente bisogno
per restare in omeostasi. Sia il razionalista Leibniz e sia i
sentimentalisti Pope e Rousseau non possono
rinunciare a “sentire” che Dio ha
prodotto il “massimo bene possibile”. Ma
per Rousseau c’è di più: i sentimenti
sono per lui elementi fondamentali dello
stesso esser uomini, e il sentimento
del sacro fondamento dell’esser figli di
un Dio immensamente buono. A dispetto
di varie oscillazioni tra le fede tradizionale
e deista è interessante cogliere
il senso panteistico. Nella Lettera a Voltaire dell’agosto ’56, ad un
certo punto egli fa la distinzione tra il
male “particolare” e quello
“generale” (che ovviamente l’ottimista metafisico
non può che negare) e
conclude. «Credo che l’aggiunta di un articolo
renderebbe più esatta la
proposizione: e invece di dire: Tutto è bene, sarebbe forse meglio dire:
Il tutto è bene, o Tutto è bene per il tutto.» [149] Rousseau è qui panteista e tuttavia il legame
col Cristianesimo resta profondo insieme
con quello della tradizione
scritturale mosaica; e tuttavia, lo abbiamo
visto, esso è ritenuto “non utile”
a fini sociali, riguardando solo la sfera
intima del singolo e non l’insieme
degli individui, lo stato.
La religione civica deve avere altre basi,
ed è proprio nella Professione di fede che incontriamo una sintesi
conciliativa tra la religione “del cuore”
e quella “dello stato”. Il Vicario,
padre e maestro, è l’alter ego ideale di un Jean-Jacques ormai
nettamente deista. Il tono discorsivo è pieno di modestia ed
assai
prudente, con la consapevolezza di toccare
un argomento essenziale e scottante,
che deve fare i conti con la religione istituzionale
e le sue reazioni. Ma il
risultato mediatico per il Cristianesimo
è devastante, poiché, attraverso essa,
si va ad intaccare nettamene il suo impianto
dottrinario [150],
proponendo una vera e propria religione alternativa.
Protettore
degli oppressi, Dio di giustizia e di verità,
ricevi questo deposito che mette
sul tuo altare e affida alla tua provvidenza
uno sconosciuto sfortunato, solo,
senza appoggi, senza difensori su questa
terra, oltraggiato, deriso, diffamato,
tradito da tutta una generazione […] Provvidenza
eterna, sei la mia sola
speranza. [151]
Portando dunque in me per tutta filosofia
l’amore della verità e come solo metodo una
regola facile e semplice che mi
dispensa dalla vana sottigliezza degli argomenti,
riprendo alla luce di questa
regola l’esame delle conoscenze che m’interessano,
deciso a riconoscere come
evidenti tutte quelle a cui, nella sincerità
del mio cuore, non potrò rifiutare
il mio assenso, come vere tutte quelle che
mi appariranno legate alle prime da
un legame necessario, lasciando tutte le
altre nell’incertezza, senza
respingerle né accettarle, e senza tormentarmi
a spiegarle ,dal momento che a
nulla conducono che abbia pratica utilità.
[155]
Vediamo
il passaggio con attenzione. Intanto va osservato
che il “criterio di utilità”
che lo conchiude mal si concilia con l’”amore
della verità” che lo inizia, né
il criterio delle conoscenze “che interessano”
è corretto, poiché se la
validità di una conoscenza fosse dettata
dall’interesse sarebbe piuttosto mal
fondata. Ma se ci si chiede che cosa stia
alla base dell’assenso che forma la credenza
la risposta è, com’era prevedibile, nella
“sincerità del mio cuore”. Il
cerchio si chiude così tra le esigenze del
cuore (diremmo noi della psiche),
che determina una supposto innato “amore
della verità”, e le esigenze del
vivere, ovvero dell’utilità o meno di una
certa weltanschauung. Sarebbe
fin toppo facile osservare che il nostro
concetto di omeostasi risulta
qui non solo sostenuto e legittimato, ma
strettamente connesso alla necessità
psichica di immaginare un Dio puro spirito
quale causa prima e ultima della
materia. Infatti:
Quanto più osservo l’azione e reazione delle
forze della natura che agiscono le une sulle
altre, tanto più trovo che, di
effetto in effetto, bisogna sempre risalire
a qualche volontà come causa prima:
infatti, supporre una serie infinita di cause,
equivale a non supporne alcuna. [156]
Curioso
atteggiamento quello di respingere le “sottigliezze”
della filosofia, ma di
assumere in pieno quelle della metafisica
in nome delle fede. La quale così si
fonda: «Ecco il mio primo principio. Io credo
che una volontà muova l’universo
e animi la natura. Questo è il mio primo
dogma, il mio primo articolo di fede.»
[157]
Rousseau respinge il Cristianesimo come dogmatico,
in nome di una religione
“naturale” dettata dal cuore e dalla coscienza,
ma non trova altro modo di
formularla e proporla se non fissando altri
dogmi. Ed ecco un secondo dogma,
che riprende l’eterno disegno intelligente di tutte le teologie:
Se la materia in quanto mossa mi rivela una
volontà, la materia mossa secondo precise
leggi mi rivela un’intelligenza: è il
mio secondo articolo di fede. […] Sono come
un uomo che vedesse per la prima
volta l’interno di un orologio e non si stancasse
di ammirarne il funzionamento
[…] ammiro l’artefice nei particolari dell’opera
e sono pienamente convinto che
tutti questi ingranaggi non si muovono con
tanta sincronia se non per un fine
che mi è impossibile di scorgere. [158]
Il
“divino orologiaio” ritorna qui più o meno
nei termini relativi a una delle Cabales
(X, 182) di Voltaire, che recita: «L’universo
mi turba e proprio non so vedere
/ che tale oriolo esista senza l’orologiaio».
Ed ecco un “classico” contro il
materialismo: «È al di sopra delle mie capacità
credere che la materia passiva
e morta abbia potuto produrre esseri vivi
e sensibili, che una cieca fatalità
abbia potuto produrre esseri intelligenti,
che ciò che non pensa abbia potuto
produrre esseri pensanti.» [159]
Anche se Rousseau è deista più che panteista
non si può dimenticare l’assioma
che Spinoza pone all’inizio dell’Etica: «Dio è una cosa pensante».
Veniamo ora ad un punto importante
dell’opinione del vicario anche in rapporto
al panteismo, allorché Rousseau si
chiede: «Ma questo stesso mondo è eterno
o creato? Vi è un principio unico
delle cose, ve ne sono due, o ve ne sono
parecchi? E qual è la loro natura?»» [160] La
pronta risposta: «Non ne so niente e neppure
m’importa saperlo». Tipica
dell’economicismo del Nostro, che nell’impossibilità
di dirimere la questione
opta per una sospensione del giudizio che
lascia intatte le sue credenze.
L’atteggiamento è peraltro assimilabile anche
a quello di Descartes, per il
quale di tutto si deve dubitare salvo che
dell’esistenza di Dio. Da ciò la
professione di fede:
Eterna o creata che sia la materia, esista
o non
esista un principio attivo, è pur sempre
vero che il tutto è uno e perciò
attesta un’intelligenza unica, poiché nulla
vedo che non sia ordinato nello
stesso sistema che non concorra allo stesso
fine, cioè la conservazione del
tutto nell’ordine stabilito. Questo essere
che vuole e che può, questo essere
attivo di per se stesso, questo essere infine,
qualunque esso sia, che muove
l’universo e ordina tutte le cose, io lo
chiamo Dio. [161]
Fin
qui il discorso è basato sull’”ordine necessario”
del panteistico
Dio-Necessità, ma poi il tono muta:
Associo a questo nome le idee di intelligenza,
di potenza di volontà, che io stesso ho collegate,
e quella di bontà, che ne
costituisce un necessario complemento; ma
non per questo conosco meglio
l’essere che ho così nominato; egli si sottrae
egualmente ai miei sensi e al
mio intelletto; più ci penso, più mi confondo;
io so con assoluta certezza che
esiste, e che esiste per se stesso: so che
la mia esistenza è subordinata alla
sua e che tutte le cose a me note si trovano
esattamente nella stessa
condizione. Dappertutto scorgo Iddio nelle
sue opere: lo sento in me, lo vedo
intorno a me; ma non appena voglio contemplarlo
in se stesso, cercare dove sia,
che cosa sia, coglierne la sostanza, egli
mi sfugge e il mio spirito turbato
non coglie più nulla. [162]
La
sensazione di trovarsi di fronte al Dio-Volontà
ebraico o cristiano è netta, ma
il tono misticheggiante lo fa tendere verso
una “teologia negativa” che si
avvicina all’atteggiamento che avevamo rilevato
nel Voltaire maturo, al quale, qui
Rousseau pare abbastanza prossimo.
NOTE
[1] Voltaire, Dizionario filosofico, a cura di M.Bonfantini, Milano, Mondatori 1970, p.307.
[2] Ivi, pp.307-309.
[3] Nel 1734 in Lettere filosofiche, X, si dice: «egli finì […] con l’abbandonarsi allo spirito di sistema. Da allora la sua filosofia non fu più che un romanzo ingegnoso, e tutt’al più verosimile per gli ignoranti.» (in: Scritti filosofici, cit.,p.56). Ne Il filosofo ignorante, §5, del 1766, Voltaire dirà: «Descartes soprattutto, dopo aver fatto sembiante di dubitare, parla con tono talmente categorico di ciò che non intende; è talmente sicuro del fatto suo quando s’inganna in modo grossolano nella fisica; ha costruito un mondo tanto immaginario, e i suoi vortici e i suoi tre elementi sono così straordinariamente ridicoli, che debbo diffidare di tutto quanto egli mi dice sull’anima, dopo avermi ingannato a proposito dei corpi. Si faccia pure l’elogio di lui: a condizione però che non si faccia quello dei suoi romanzi filosofici, oggi disprezzati per sempre in tutta l’Europa.» (Ivi, p.508).
[4] Locke è il filosofo al quale Voltaire resterà costantemente legato. Questo il parere espresso nel 1734 in Lettere filosofiche: «Non vi fu mai forse uno spirito più saggio, più metodico e un logico più rigoroso di Locke; eppure, egli non fu un grande matematico. […] nessuno provò meglio di lui che si può possedere una mente matematica senza l’ausilio della geometria.» (Scritti filosofici, vol.I, cit., p.41) Nel 1766 egli dirà ne Il filosofo ignorante: «Dopo tanto sfortunato vagabondare, stanco, estenuato, e vergognoso di aver cercato tante verità e trovato tante chimere, ritornai, come il figlio prodigo al padre, a Locke; e mi gettai nelle braccia di un uomo modesto, che non finge mai di sapere quel che non sa.» (Ivi, p.538).
[5] Samuel Clarke (1675-1729), di cui abbiamo già parlato, fu il propugnatore di una teologia filosofale che venne definita anche “Razionalismo etico”. In essa si pone a priori la necessità dell’esistenza di un Essere divino eterno, di cui si dà una dimostrazione razionalistica utilizzando i concetti newtoniani di spazio e tempo infiniti, considerati attributi primari di Dio. Fu in corrispondenza con Leibniz, di cui contestava il concetto di armonia cosmica fissata da Dio dalla Creazione, proponendo in sostituzione il concetto di una Provvidenza “sempre all’opera”, come già proposto da Newton. (Si veda anche il § 5.3)
[6] Ne Il filosofo ignorante, § XIII, Collins è definito «un Locke perfezionato.» (Scritti filosofici, cit., p.515).
[7] Voltaire, Dizionario filosofico, a cura di M.Bonfantini, Milano, Mondatori 1970, p.619.
[8] Voltaire, Sul deismo, in Scritti filosofici, cit., p.258.
[9] Ibidem.
[10] Voltaire, Examen important de Milord Bolingbroke, in Œvres, XXVI, 198, citato in: Scritti filosofici, cit., p.258.
[11] Dopo aver definito la “scommessa” pascaliana «sconveniente e puerile», in Lettere filosofiche, V (Scritti filosofici, cit., vol.I, p.92) Voltaire rileva nell’Introduzione al Trattato di metafisica: «Pascal considera il mondo tutt’intero come un’accolta di malvagi e di sventurati, creati per esser dannati, tra i quali Dio ha scelto tuttavia sin dall’eternità alcune anime (una su cinque o sei milioni) destinate alla salvezza.» (Ivi, p.128).
[12] Voltaire, Dizionario filosofico, a cura di M.Bonfantini, Milano, Mondatori 1970, p.130.
[13] Voltaire dirà di Clarke ne Il filosofo ignorante (1766): «In Samuel Clarke il predicatore ha soffocato il filosofo» (Scritti filosofici, cit., vol.I, p.517), e nell’opera della vecchiaia Quesiti sull’Enciclopedia (dopo il 1770) all’articolo Eternità: «Nella mia giovinezza ammiravo tutti i ragionamenti di Samuel Clarke […] Ma il suggello delle sue idee, da lui impresso nel mio cervello ancora tenero, si cancellò quando questo divenne più forte.» (Scritti filosofici, cit., vol.II, p.596).
[14] L’adesione di Voltaire al deismo di Clarke è netta nel Trattato di metafisica del 1734, ma già nella Metafisica di Newton, del 1740, egli incomincia a prenderne le distanze e ad avvicinarsi a Collins
[15] Voltaire, Dizionario filosofico, a cura di M.Bonfantini, Milano, Mondatori 1970, p.99.
[16] Ivi, p.100.
[17] Ivi, p.101.
[18] Voltaire, Trattato di Metafisica, in Scritti filosofici, a cura di P.Serini, vol.I, Bari, Laterza 1962, pp.135-136.
[19] Ivi, pp.136-137.
[20] Ivi, p.144.
[21] Voltaire, Metafisica di Newton, in Scritti filosofici, cit., p.200.
[22] Ivi, p.201.
[23] Ivi, p.203.
[24] Ivi, pp.205-206.
[25] Voltaire, Trattato di Metafisica, in Scritti filosofici, cit., p.166.
[26] Voltaire, Œvre, XXXIV; Correspondence, VI, 226, in Voltaire, Scritti filosofici, cit., nota 14, p.166.
[27] Cfr. Locke (Saggio sull’intelligenza umana, Libro II, cap.XXI, 21 e 71) e Clarke in Remarks upon a Book entitled A Philosophical Inquiry concerning Human Liberty, uno scritto polemico contro Antony Collins.
[28] Voltaire, Trattato di metafisica, in Scritti filosofici, vol.I, cit., p.174.
[29] Cfr.: Clarke, A Demostration of
the Being and Attributes of God (1705), Proposition X...
[30] Voltaire, Trattato di metafisica, in Scritti filosofici, vol.I, cit., p.179.
[31] Voltaire, Metafisica di Newton, in Scritti filosofici, vol.I, cit., p.212.
[32] Ivi, p.213.
[33] Voltaire, Metafisica di Newton, in Scritti filosofici, volI, cit., p.221
[34] Voltaire, Il filosofo ignorante, in Scritti filosofici, vol.I, cit., pp.517-518.
[35] Ivi, p.519
[36] Voltaire, Sul deismo, in Scritti filosofici, cit., p.259.
[37] Voltaire, Trattato sulla tolleranza, a cura di S.Veca e L.Bianchi, Milano, Feltrinelli 1999, p.25.
[38] Ivi, p.31.
[39] Ivi, p.61.
[40] Ivi, p.62
[41] Ivi, p.143.
[42] Ivi, p.147.
[43] Voltaire, Metafisica di Newton, in Scritti filosofici, cit., p.222.
[44] J.Locke, Saggio sull’intelligenza umana, vol.II, Roma-Bari, Laterza 2006, p.611.
[45] Ibidem.
[46] J.Locke, Saggio sull’intelligenza umana, vol.II, Roma-Bari, Laterza 2006, p.611.
[47] Voltaire, Metafisica di Newton, in Scritti filosofici, cit., p.228.
[48] Ivi, p.229.
[49] Ivi, p.241.
[50] Ibidem.
[51] Voltaire, Sul deismo, in Scritti filosofici, cit., p.257.
[52] Ibidem.
[53] Voltaire, Sul deismo, in Scritti filosofici, cit., p.257.
[54] Voltaire, Il filosofo ignorante, in Scritti filosofici, vol.I, cit., p.524
[55] Ivi, p.529.
[56] Ivi, p.530.
[57] Voltaire, Quesiti sull’Enciclopedia, in: Scritti filosofici, cit., p.553.
[58] Ivi, p.603.
[59] Voltaire, Bisogna prender partito, ovvero, Il principio d’azione, in: Scritti filosofici, cit., p.674.
[60] Ivi, p.676.
[61] Ivi, p.678.
[62] Ibidem.
[63] Ivi, p.681.
[64] Ibidem.
[65] Ivi, p.682.
[66] J.-J.Rousseau, Rousseau giudice di
Jean-Jacques, in: Opere, a cura di P.Rossi, Firenze, Sansoni 1988,
pp.1211-1212.
[67] Ivi, p.1212.
[68] Ivi, p.1197.
[69] C.Salomon Bayet, Jean-Jacques Rousseau,
Paris, Seghers 1971.
[70] Rousseau, Corrrespondence complète, I, 1135, Genève, Leigh-Droz 1965. In: Opere, cit., p.XXXIX.
[71] J.-J. Rousseau, Le passeggiate solitarie, in: Opere, a cura di P.Rossi, Firenze, Sansoni 1988, p.1331
[72] Ivi, p.1332
[73] Ivi, p.1350.
[74] Rousseau, Lettera di J.-J. Rousseau a Voltaire, in: Opere, cit., p.130.
[75] Ibidem.
[76] J.-J. Rousseau, Emilio, in: Opere, a cura di P.Rossi, Firenze, Sansoni 1988, p.540.
[77] J.-J. Rousseau, Le passeggiate solitarie, in: Opere, cit., p.1371.
[78] Ivi, p.1356.
[79] Voltaire, Confessioni, in: Opere, cit., p.1077.
[80] Voltaire, Discorso sulle scienze e sulle arti, in: Opere, cit, , p.7.
[81] Ivi, p.13.
[82] Ivi, p.14.
[83] Voltaire, Discorso sull’origine della disuguaglianza, in: Opere, pp.42-43.
[84] Ivi, p.46.
[85] Ivi, pp.64-67.
[86] Ivi, p.67.
[87] Ivi, p.72-73
[88] Ivi, p.75.
[89] Ivi, p.77
[90] Cfr. C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, cit. pp.35-38.
[91] Ivi, p.82.
[92] Rousseau, Discorso sull’economia politica, in: Opere, cit., p.100.
[93] Il concetto di “patria” è posto nel Progetto di costituzione per la Corsica (scritto nel 1764 ma pubblicato postumo soltanto nel 1861) e è approvato da ogni còrso con un solenne giuramento che inizia così: «In nome di Dio onnipotente e dei Santi Evangelisti mediante un giuramento sacro e irrevocabile mi unisco col corpo, con i beni, con la mia volontà e con tutto il mio potere alla nazione còrsa […]». (Progetto, in: Opere, p.740).
[94] Ivi, p.110.
[95] Rousseau. Del contratto sociale, in: Opere, cit., p.279.
[96] Ivi, p.282.
[97] Negli Scritti sull’Abbé de Saint Pierre (1760) Rousseau aveva definito «orrendo sistema» la tesi antropologica di Hobbes; aggiungendo poi: «Chi può avere ideato senza fremere l’insensato sistema della guerra naturale di ciascuno contro tutti?» (Opere, cit., pp.165-166).
[98] Di Francisco Coreal (1648-1708) era apparso in francese, nel 1722, il Voyages de François Coreal aux Indes Occidentales, dove comparivano ricche e dettagliate descrizioni del mondo caraibico che avevano molto colpito Rousseau.
[99] Del fiammingo Jean Laët (1593-1649) era apparsa di recente (1750) la traduzione del Novus orbis seu descriptio In diae Occidentalis.
[100] Ivi, p.284.
[101] Ivi, p.285
[102] Ibidem.
[103] Ivi, pp.285-288.
[104] Ivi, pp.289-294.
[105] Ivi, p.295.
[106] Ibidem.
[107] Ibidem: nota .p.d.p.
[108] Ivi, p.296.
[109] Ibidem.
[110] Platone, Politico, in: Tutti gli scritti, a cura di G.Reale, Milano, Bompiani 2000, p.366.
[111] Ivi, pp.296-297.
[112] Ivi, pp.297-298.
[113] William Warburton (1698-1779) aveva
pubblicato nel 1736 The
[114] Rousseau. Del contratto sociale, cit., p.298.
[115] Ivi, p.322.
[116] Ivi, p.326.
[117] Ivi, p.327.
[118] Ivi, p.342.
[119] Ivi, p.342.
[120] Ivi, p.343.
[121] Ivi, p.344.
[122] Alla luce degli ultimi scritti “confessionali” rousseauani, ci si accorge facilmente che, in fondo, molti dei difetti che egli vede nella donna, sono poi gli stessi che riconosce in se stesso.
[123] Sull’opinione di Rousseau circa la donna si veda anche la Lettera a D’Alembert sugli spettacoli, scritta in febbraio-marzo del 1758, (cfr.in: Opere, pp.225-227 e 244-248).
[124] Rousseau, Emilio, o dell’educazione, a cura P.Massimi, Milano, Mondadori 2003, p.7.
[125] Ivi, p.41.
[126] Ivi, p.346.
[127] Ivi, p.344.
[128] Ivi, p.33.
[129] Citato in: N.Hampson, cit., p.216.
[130] Rousseau, Emilio, o dell’educazione, Milano, Mondadori 2003, pp.12-13
[131] Ibidem.
[132] Ivi, p.683.
[133] Ivi, p.15.
[134] Ivi, p.26.
[135] Ivi, p.31.
[136] Ibidem.
[137] Ivi, p.33.
[138] Ivi, p.35.
[139] Ibidem
[140] Ivi, p.155.
[141] Ivi, p.230
[142] Ivi, p.279.
[143] Ivi, p.13.
[144] Abbiamo trattato l’argomento in: Necessità e libertà, cit, pp.86-87; in: Ateismo filosofico nel mondo antico, cit, pp.87-88; in: La filosofia e la teologia filosofale, cit. pp.73-74.
[145] Il poeta inglese Alexander Pope (1688-1744) aveva scritto tra il 1732 e il 1734 quattro epistole raccolte sotto il titolo di Essays on man. Tradotte in francese dal 1736 e ripubblicate più volte, esse rappresentano bene quell’atteggiamento ottimistico circa il mondo, l’uomo e il suo destino.
[146] Rousseau, Lettera di J.-J. Rousseau a Voltaire, in: Opere, cit., p.125.
[147] Ivi, pp.125-126.
[148] Ivi, p.126.
[149] Rousseau, Lettera di J.-J. Rousseau a Voltaire, in: Opere, cit., p.130.
[150] L‘Emilio fu considerato libro blasfemo. Sequestrate tutte le copie in circolazione, il 9 giugno 1762 venne pronunciata la condanna al rogo e due giorni dopo resa esecutiva.
[151] Rousseau, Rousseau giudice di
Jean-Jacques, in : Opere, cit, p.1309.
[152] In: E.Brèhier, Etudes de Philosophie
moderne, P.U.F. 1965, p.100.
[153] J.-J.Rousseau, Emilio,cit., p.360.
[154] Ivi, p.363-364.
[155] Ivi, p.364.
[156] Ivi, p.370.
[157] Ibidem.
[158] Ivi, p.372.
[159] Ivi, p.374.
[160] Ibidem.
[161] Ivi, p.375.
[162] Ibdem.