IV. La formazione e la morale

 

 

4.1 La nuova pedagogia religiosa

 

    Per un’adeguata e sia pur limitata analisi della pedagogia settecentesca occorre portare indietro l’orologio di mezzo secolo per comprendere quale sia il back ground sul quale essa si innesta. Con tutti i limiti delle generalizzazioni noi possiamo individuare due filoni pedagogici abbastanza definiti sin dal Cinquecento: uno religioso e uno laicistico. Il primo si rifà esclusivamente al messaggio evangelico, il secondo attinge indifferentemente alla cultura precedente se vi trova elementi utili per una nuova pedagogia non-teologica di cui tratteremo al § 4.2. Tra un concetto ideologico-dogmatico dell’educazione e uno pluralistico-utilitaristico corre lo spartiacque tra due differenti concezioni della formazione dell’uomo: quella che auspica la realizzazione del regno di Dio e quella che intende migliorare la vita reale. La prima trova nel prete moravo Jan Amos Komenski (1592-1670), più noto come Comenius o Comenio. I suoi primi studi pongono gli elementi basilari della Didactica Magna (ma pubblicata assai più tardi), mentre la prima opera ad apparire a stampa è la Janua linguarym reserata (La porta aperta delle lingue), del 1631. È la prima testimonianza pubblica del metodo comeniano, che intende lasciarsi alle spalle l’astrattezza dell’insegnamento “colto” per concentrare l’attenzione sul soggetto discente, il bambino, cogliendone limiti e potenzialità reali. Nondimeno, da teologo, Comenio non pensa ad una didattica della contingenza,  ma ad una didattica istitutiva generale, che trova la propria definizione come Pansofia e la propria realizzazione come Panpedia, un modello didattico valido per ogni disciplina..    

    Comenio appartiene alla setta protestante dei Fratelli Boemi, un’appartenenza che gli riserverà non pochi guai da parte dei cattolici e che troverà temporanea soluzione nell’esilio di Leszno, in Polonia, dal 1628 al 1656 (quando i cattolici polacchi distruggeranno la città costringendolo di nuovo all’esilio). A Leszno (e sia pure con l’interruzione di numerosi viaggi) egli riuscirà ad attendere all’elaborazione del suo metodo pedagogico e alla sua applicazione pratica. Dopo il 1656 Comenio ripara in Slesia insieme al suo gruppo,  approdando infine ad Amsterdam dove chiuderà la propria esistenza; ma nel frattempo Comenio ha viaggiato in Svezia, Ungheria e Inghilterra, approfondendo le sue esperienze didattiche ed affinando il suo metodo. Ciò che non deve sfuggire è che Comenio è uno spirito religioso che vede l’educazione come una realizzazione della religiosità, ma ciò non gli impedisce di intuire grandi novità didattiche come il ricorso alle attività manuali (specialmente agricole e artigianali) e la facilitazione dell’apprendimento in tutti i modi possibili, per esempio arricchendo i libri di immagini, di cui è ottimo esempio l’Orbis sensualium pictus, del 1658. L’assunto didattico comeniano ha come obbiettivo tre poli: la fede, la cultura e la virtù, ed è su tale schema che viene strutturata la sua opera maggiore, la Didactica Magna, pubblicata nel 1657, che egli così presenta:

 

La Grande Didattica mostra l’arte universale di insegnare tutto a tutti, ossia il modo certo ed eccellente per fondare ogni comunità, città o villaggio, di qualsiasi regno cristiano. Scuole tali che la gioventù dei due sessi, nessuno escluso, sia formata alle lettere, affinata nei costumi, educata alla pietà e, in questo modo, negli anni della prima giovinezza possa essere istruita su tutto ciò che è della vita presente e futura, sinteticamente, piacevolmente, solidamente. [1]  

 

Insegnare « tutto a tutti » in modo confacente e, soprattutto, senza alcuna distinzione di sesso. Considerazione che a noi può sembrare superflua, ma all’epoca di peso notevole, e tanto più se la si confronta con la sessuofobia discriminatoria di un’opera come l’Emilio, il cui autore, Rousseau, passa persino per un illuminista! Non solo, non vi deve esser discriminazione tra i sessi e neppure per questioni di censo: «Alle scuole non devono essere affidati solo i figli dei ricchi o delle persone importanti; tutti devono essere alla pari, nobili o plebei, ricchi o poveri, femmine o maschi, in tutte le città, paesi, villaggi e case.» [2] Non è tutto, anche gli handicappati vanno inclusi:

 

Né è di ostacolo che alcuni sembrino per natura ebeti o stupidi, questo mostra ancor più l’urgenza e l’importanza di educare l’animo di tutti. Quanto più uno ha una natura tarda e infelice, tanto più   ha bisogno di aiuto, per potersi liberare, dalla sua animalesca stupidità e ottusità. Né è possibile  trovare un’intelligenza così infelice, che non abbia alcun correttivo nell’educazione. [3]

 

Il fatto di includere l’handicappato a pari titolo con gli altri nello stesso programma didattico lascia intendere come non fosse il profitto nell’apprendimento il fine della pedagogia comeniana. È infatti la formazione del bambino come frutto dello sviluppo della sua struttura mentale, sia caratteriale che intellettiva, il fine posto. E ciò grazie all’applicazione di un metodo universale attraverso il quale ogni bambino trae il meglio da sé in rapporto alle sue possibilità mentali.

    Quella di Comenio è una didattica che non solo ha per fine la realizzazione dell’uomo pio, probo laborioso, ragionevole. Dio stesso è il modello:

 

Dio, colui che ha concepito l’universo, mostra la sua sapienza nell’uovo, nel quale si forma un uccello, lentamente, organicamente, gradualmente, conseguentemente, in buon ordine e così via. […] Questo esempio di Dio seguono e devono seguire: i costruttori, i giardinieri e gli ortolani, i pittori, gli speziali. Soltanto se essi, come Dio nell’uovo, procedono dai primi elementi lentamente, organicamente, gradualmente, conseguentemente, in buon ordine; soltanto se trasfondono la ragione di Dio nella loro opera, se rispettano ed utilizzano la natura propria delle cose, delle piante e degli animali, dei minerali e dei materiali, allora, e solo allora, si produce una casa, un orologio, una pianta sana, un quadro, una pozione benefica. La tecnica è impiego metodico della conoscenza, imitazione della sapienza di Dio. [4]

 

Il modello è sì la natura nelle sue funzioni, ma di una natura che ha Dio “in sé” come progettista e manovratore. Su questa base Comenio pone il criterio del «tempo adatto», ma anche il criterio dell’insegnamento collettivo, poiché con Comenio nasce la “classe”, in cui più alunni apprendono insieme. Un apprendimento che parte no non dalla lettura dei libri, ma dall’osservazione diretta di «faggi e querce », infatti: « La scienza è scienza della natura perché in essa si coglie la sapienza di Dio» Non entreremo in ulteriori dettagli, ma basti tener presente che la Didactica Magna si occupa di ogni minimo dettaglio organizzativo e operativo, degli insegnanti, della suddivisione delle classi, degli orari, ecc. costituendosi come il primo modello esaustivo di scuola collettiva in senso moderno: metodica, organizzata e basata su programmi ripetibili.

   L’eredità di Comenio viene raccolta dalla scuola pietista. Il pietismo è un grande movimento religioso che nasce all’interno del luteranesimo, ma che si costituisce come corrente propria sin dal Seicento. Essa accentua l’aspetto individualistico della fede, sviluppandosi via via e trovando sbocchi culturali di grande importanza, come nella musica di Johann Sebastian Bach e di Georg Friederich Händel. In campo pedagogico il pietismo trova in August Hermann Francke (1663-1727) una figura di grande rilievo; egli, in riferimento ai testi sacri, ritiene che «Le sentenze della Bibbia, rettamente intese dal cuore e dall’intelletto, debbono tradursi in atti di fede e di amore […] solo l’azione concreta indica se l’insegnamento è stato correttamente appreso.» [5] L’educazione è vista in modo austero: « niente favolette, spettacoli e giochi banali. Tutto ciò è “ozio”.». Si privilegia l’attività lavorativa di carattere ricreativo; così il bambino lavora pensando di giocare ed insieme impara “a fare”. Francke non solo è sospettoso nei confronti dell’elemento ludico di per se stesso, ma anche riguardo alla musica: «tendente al godimento auditivo più che ad onorare Dio.» [6] Nel 1695 fonda la Deutsche Schule a Halle, un orfanotrofio aperto anche a bambini poveri non orfani, dove si insegna lettura, scrittura e calcolo, insieme a molto catechismo. Ma in seguito egli fonderà anche una scuola per i figli della borghesia e nel 1696 il Paedagogium, una scuola superiore per l’avviamento alla didattica. Poi, nel 1698, un collegio per fanciulle che privilegia i lavori domestici e le attività devozionali. Le scuole di Halle trovarono quali continuatori un figlio e un genero del fondatore, e il modello franckiano si svilupperà in Germania sino a diventare, in forma meno confessionale e più aperta ad opera di un nipote, la base del sistema educativo prussiano.

    Dobbiamo ora accennare a Jean-Jacques Rousseau, poiché il suo Emilio è opera di grande peso nella pedagogia del Settecento, con qualcosa di positivo e molto di negativo. L’assunto ideologico rousseauano, in base al quale la civiltà e il progresso avrebbero corrotto gli uomini sviandoli dalla “naturale via al bene” oltre che inconsistente era anche assai pericoloso. Per fortuna che la pedagogia del ginevrino fu un fenomeno di moda che non si tradusse in veri e propri sistemi pedagogici, se non nel chiuso dei palazzi di alcune nobildonne “fulminate” dal fascinoso “arcaismo” di Rousseau. E tuttavia la pedagogia rousseauana ha avuto un certo merito nel porre nella natura la culla dell’uomo, una natura-madre che chiede solo di essere compresa e rispettata per donarci tutto ciò di cui abbiamo bisogno, mentre l’artificio umano ha prodotto soltanto guasti. Le scienze e la arti, in quanto non-natura, vengono espunte in linea di massima dalla pedagogica, le prime perché svianti sui fini dell’uomo, le seconde perché foriere di mollezze e vizi. E tuttavia Rousseau stesso era un artista, un musicista come abbiamo già visto, ma la musica per lui è un frutto della natura solo come canto, perché la voce umana è il più nobile suono in natura, mentre gli strumenti musicali sono frutti dell’artificio. Venendo all’Emilio, di cui  daremo trattazione più approfondita con dovizia di citazioni nel § 7.3, è il caso di rilevare qui alcuni elementi importanti del metodo pedagogico in esso proposto. Il primo di questi, strettamente connesso alla tesi della “corruzione” dell’animo umano, è la stigmatizzazione dell’abitudine,  un comportamento negativo che può diventare una sorta di auto-educazione del fanciullo. Per tale ragione egli deve essere condotto al punto di esecrare le abitudini negative e saper ricreare ogni giorno se stesso al lume della natura, in cui deve riconoscersi. Un orizzonte panteistico che nel Settecento si configura come una nuova forma di religiosità neo-cristiana o post-cristiana.

    L’Emilio è un romanzo didascalico, che segue la crescita del protagonista dalla prima infanzia allo stato adulto, e che fissa “per fasi” i criteri pedagogici che l’educatore deve applicare. Il modello si basa anche su un rapporto simbiotico tra educatore ed educando che esclude ogni elemento di collettività e socializzazione, e in qualche caso perfino i genitori. Il topos pedagogico rousseauano è un laboratorio chiuso, in cui un adulto e un minore si sintonizzano sino al momento in cui il minore, diventato a sua volta adulto, può fare da solo. Ciò che è importante ai fini educativi non è la “conoscenza oggettiva e razionale ” ma il “rapporto soggettivo e sentimentale” che l’individuo stabilisce con le cose del mondo; da ciò il rifiuto della scienza e l’esclusione nel suo programma educativo delle discipline scientifiche in quanto tali.  In un’epoca in cui uno scientismo pedante e arrogante incomincia a farsi strada inquinando l’autentica cultura scientifica non vi è da stupirsi se l’Emilio ha un enorme successo e le teorie di Rousseau scatenano diffusi entusiasmi. L’attribuzione a Rousseau del merito specifico di aver “scoperto l’infanzia”, come se prima di lui nessuno avesse prestato attenzione al bambino come bambino, è leggenda messa in giro dai filo-rousseauani che si smentisce da sé quando si legga appena i Pensieri sull’educazione di Locke, di cui ci occuperemo nel § 4.2. Ma, come si sa, i miti, una volta creati, sono duri a morire. L’individuazione dei “bisogni reali” del bambino contrapposti ai “bisogni artificiali” indotti dalla civilizzazione è una manichea separazione priva di fondamento reale, ideologica e dogmatica, come d’altra parte è dogmatico il tono. Quale conclusione trarre? Rousseau è importante per gli sviluppi della pedagogia moderna? Forse, ma soltanto nella misura in cui certe sue acute intuizioni sono state sottratte al suo dogmatismo e “tradotte” in sollecitazioni “aperte”, ragionevoli e realizzabili. 

    Kant ha messo per iscritto le sue idee pedagogiche in tarda età, dando alle stampe un Pedagogia soltanto nel 1804. Ma va rilevato che in esso sono ripresi criteri già presenti, sia pure erraticamente, nella sua opera precedente, e per questa ragione ne accenniamo qui. Partendo dal presupposto che «L’uomo può diventare uomo solo attraverso l’educazione. Egli è quello che l’educazione lo fa.» [7] egli aggiunge poco oltre: «perciò l’educazione è il problema più grande e più difficile che possa essere proposto agli uomini. Ora, ciò che noi  sappiamo dipende dall’educazione, ma l’educazione a sua volta dipende da ciò che noi  sappiamo.» [8] Per quanto Kant nutra attenzione e stima per Rousseau la sua impostazione pare quasi opposta, poiché se per questo la formazione del minore doveva essere un “diventare per essere”, per Kant pare configurarsi come un “imparare per sapere” dove la cultura torna in primissimo piano. Sappiamo però che è ancora sempre la “morale” la scienza prima per l’uomo, ed il  sapere è un “saper decidere” per la virtù.  Il grande Immanuel pensa anche che: «Il meccanismo dell’arte educativa deve trasformarsi in scienza » [9]; un meccanismo-scienza assai lontano dall’empirismo di Locke, che in pedagogia riteneva impossibile elaborare un “sistema”. Ma il sistema per Kant è già stato delineato e definito nella Fondazione della metafisica dei costumi e nella Critica della ragion pratica, sicché il Pedagogia è solo una ripetizione “dedicata” alla scienza educativa, che non aggiunge molto a ciò che era già stato enunciato. Infatti: «La prima preoccupazione dell’educazione morale è di formare il carattere. Il carattere consiste nell’abito di agire secondo massime di scuola, in seguito le massime dell’umanità.» [10] Ancora sempre le massime, dunque; esse sono i punti fermi del comportamento virtuoso e formule di cogenza che debbono essere interiorizzate e applicate.

    Anche lo zurighese Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827) ha già un piede nell’Ottocento, ma la maggior parte dei suoi primi lavori si collocano tra il 1780 e il 1799, mentre il suo capolavoro pedagogico Come Geltrude istruisce i suoi figli, è pubblicato nel 1801. Ma già nel saggio Le veglie di un solitario (1780) e nel romanzo Leonardo e Geltrude (1781) sono poste le premesse sociologiche e morali del pensiero pestalozziano. Quale membro della borghesia elvetica progressista Johann Heinrich è anche uomo aperto alle nuove idee dell’Illuminismo francese, e da giovane idealista e sognatore di una nuova umanità si entusiasma alle idee rousseauane. Le tesi dell’Emilio hanno lasciato un’importante traccia nella sua formazione giovanile, e il suo primo figlio verrà allevato “alla Rousseau”. Scrive nel 1826: «Non appena apparve il suo Emilio il mo spirito sognatore e tutt’altro che pratico fu conquistato entusiasticamente da questo libro sognatore e altrettanto puro di spirito pratico.» [11] Un”sogno”, dunque, visto a posteriori come tanto affascinante quanto inconsistente, e tuttavia un’esperienza culturale che segnerà Pestalozzi e lo indirizzerà verso una rielaborazione e razionalizzazione dei principi pedagogici del ginevrino. Ma prima dovrà accadergli un fatto spiacevole: il fallimento della sua scuola-fattoria di Neuhof. Il progetto era ambizioso quanto innovativo ed aveva come referente prossimo Rousseau; riprendeva però anche principi che erano stati di Comenio e metteva in atto i suoi ideali filantropici. Possessore di una terreno agricolo presso Birr (Cantone di Berna), d’accordo con la moglie Anna, decide di costruire una fattoria modello da destinare alla crescita, all’istruzione e all’educazione dei contadini poveri della zona. L’intellettuale Pestalozzi impara così le tecniche agricole ed a partire dal 1774 imposta uno straordinario modello pedagogico in quel luogo ideale che battezzerà Neuhof. Ma le cose non vanno ben e  si ritrova presto in gravi difficoltà finanziarie; nel 1779 la fattoria–scuola deve chiudere; egli raccoglie le sue idee, diventa scrittore e incomincia a pubblicare libri. 

    Il fallimento di Neuhof si faceva sentire, ma Pestalozzi era uomo ormai noto e apprezzato per i suoi intenti filantropici e per la sua cultura pedagogica, sicché, nel 1804, viene chiamato dal governo di Losanna ad organizzare, nel castello di Yverdon, una scuola modello. L’istituto diventa notissimo e visitato da pedagoghi (come Fröbel) e da letterati (come Madame de Staël) interessati a studiare e a capire il metodo pestalozziano. Ma anche qui, al colmo del successo e della fama, già nel 1810 una commissione ispettiva giudica negativamente l’istituto, che dopo alterne vicende viene chiuso nel 1825. Il Nostro si ritira a Neuhof e attende alla stesura de Il canto del cigno, nel quale tira le somme delle sue complesse e travagliate esperienze educative. Tra La veglia di un solitario e quest’ultimo lavoro si collocano, oltre al già citato Leonardo e Geltrude, Legislazione e infanticidio del 1783, Sì o no? del 1793, Sanculottismo e Cristianesimo del 1793, Le mie indagini sul corso della natura nello sviluppo del genere umano del 1797, Il linguaggio come fondamento della cultura del 1799, Come Geltrude istruisce i suoi figli, che è del 1801, e Il libro delle madri del 1803. In questo corpus di opere, perlopiù teoriche, ha un ruolo a parte Leonardo e Geltrude, poiché con esso Pestalozzi delinea i termini sociologico-morali in cui si muove. Nel romanzo, rileva Carlo Talenti (autore di un’esemplare voce “Pestalozzi” nel Grande Dizionario Enciclopedico UTET del 1989), confluiscono tre modelli sociali: il  patriarcalismo urbano tipico del cantone di Zurigo, la forma feudale paternalistica del cantone di Berna e il modello burocratico centralizzato absburgico. Modelli noti ed esperiti da Pestalozzi fusi in una sintesi virtuale che fa da sfondo e cornice d’insieme agli sviluppi del suo sistema didattico. Secondo Fritz Blättner protagonisti non sono i personaggi, bensì il villaggio di Bonnal: «dove si incontrano e vivono uomini reali, che operano in tre ambienti: famiglia, mestiere e stato sociale » e, in contrapposizione a personaggi colti positivi e negativi emergono contadini indigenti e vilipesi, che però riescono ad acculturarsi, ad organizzarsi ed a trovare uno sbocco alla loro situazione attraverso un’auto-promozione evolutiva. Più critica, invece, la condizione degli operai, soggetti alle mutazioni dell’economia ed in balìa dell’imprenditore, a testimonianza della scarsa fiducia del Nostro (in ciò rousseauano) nell’industrializzazione e nei progressi tecnologici.

    In La veglia di un solitario Pestalozzi pone tre sfere esistenziali “esterne”: la famiglia, la professione e lo Stato. Queste tre sfere si connettono e si compenetrano, ma devono rapportarsi e integrarsi con la sfera interiore (l’inneres), la quale, espandendosi verso esse, si realizza. Infatti: «Il sentimento interiore del tuo essere e delle tue forze è la prima manifestazione formatrice della natura. Ma tu non vivi solo per te sulla terra: la natura ti forma e ti educa anche in vista dei rapporti esterni.» [12] L’estroversione dell’interiorità nell’esteriorità, quale dinamica naturale, di per se stessa non è comunque in grado di assicurare le due finalità primarie dell’esistenza umana: il conseguimento della saggezza e quello della pace interiore, ed è in relazione a questa insufficienza che deve entrare in scena l’azione pedagogica. Ma qualsiasi evoluzione dell’uomo non può fare a meno della fede: « Dio, tuo padre, in questa fede tu trovi la pace, la forza e la saggezza, che né violenza né morte possono scuotere in te » poiché «La fede in Dio è la fonte di ogni puro sentimento paterno e fraterno dell’umanità, la fonte di ogni giustizia.» [13] In Le mie indagini sul corso della natura nello sviluppo del genere umano, secondo una schematizzazione triadica cara al Nostro, vengono individuati tre stadi: quello naturale, quello sociale e quello morale. Qui fa capolino Kant, il quale, a differenza di Rousseau, tiene sempre ben distinti natura e moralità, ed infatti Pestalozzi ci precisa che l’evoluzione implica l’abbandono della passività istintuale verso l’attivismo morale, sicché solo nel terzo stadio ègli è «opera di se stesso »

    Con il successivo Il linguaggio come fondamento della cultura il ”metodo” pestalozziano incomincia a definirsi in  maniera chiara. Carlo Talenti così lo sintetizza: «Tutto il processo di apprendimento venne organizzato intorno a tre centri fondamentali di interesse: la forma, il linguaggio e il numero (Form, Sprache e Zahl), che costituiscono tre punti di innesco e di sviluppo di tutta l’esperienza del bambino. L’intuizione della forma parte dalle impressioni dei cinque sensi, che famigliarizzano il fanciullo con le differenze degli oggetti; l’intuizione del linguaggio nasce dall’esigenza di definire gli oggetti e di rendere chiara la loro rappresentazione mentale; l’intuizione del numero nasce dall’esperienza della molteplicità degli oggetti e dalle variazioni di questa molteplicità in più e in meno.» [14] Tre sono gli strumenti dell’uomo attraverso i quali egli si realizza: la mano, la testa e il cuore; ed essi si estrinsecano in tre facoltà: il potere, il sapere e il volere. Indubitabile l’influenza kantiana in questa triade, che vede il volere (morale) come la più alta espressione umana, nel conseguimento della quale però Pestalozzi sostituisce la ragione con l’intuizione; uno spostamento concettuale piuttosto importante che ci riporta verso Rousseau e il suo    arcaismo naturistico.

    Relativamente all’atteggiamento nei confronti dei sommovimenti sociali in Francia, già espresso in Sanculottismo e Cristianesimo del 1793, così si esprime Pestalozzi in una lettera di circa un decennio dopo: « Io ho sempre ritenuto l’intera Rivoluzione, fin dalle sue origini, come una semplice conseguenza della corrotta natura umana e ho considerato la sua rovina come una necessità inevitabile per ricondurre gli uomini  inselvatichiti alla consapevolezza dei loro problemi più essenziali.» [15] Risulta qui una forma mentis che può apparire reazionaria; essa va però inquadrata nella mentalità protestante, che della Rivoluzione coglie perlopiù la violenza e non le istanze democratiche che ne avevano animato la genesi. Pestalozzi non è u reazionario perché concepisce l’elemento religioso in maniera aperta e vede nel rispetto dell’individuo un fondamentale criterio di civiltà, che implica il diritto ad un adeguata istruzione. La questione è che l’illuminismo in ambito tedesco si esprime in forme specifiche e piuttosto differenti da quello francese. In generale si può affermare che nel mondo protestante l’Illuminismo intende il “miglioramento” in senso meno laicistico e sempre anche religioso. Non solo, il mondo religioso protestante (anglicano, luterano, calvinista, ecc.) finisce per rivelarsi assai più solido e meno vulnerabile di quello cattolico. La ragione sta nel fatto che esso è nel Settecento socialmente e culturalmente più evoluto, permettendogli di rimanere abbastanza estraneo ai turbamenti che determineranno la ventata laicistica e anti-cristiana della Rivoluzione Francese. E tuttavia Pestalozzi è ritardatario nell’idea di un assetto statico della società, priva di alcuna dinamica sociale. Il contadino, che è l’oggetto di studio del Nostro, deve rimanere contadino, sia perché ha il vantaggio di mantenere un rapporto diretto con la natura e sia perché la produzione di derrate agricole viene considerata l’attività principale dell’uomo e socialmente più utile.

    Ma il Pestalozzi maturo si sgancia anche da Rousseau, non vedendo più la natura come una “gran madre divina” da cui trarre tutto. Egli è ora convinto che la natura «dà soltanto inclinazioni », e non tutte positive, da ciò la necessità di un’adeguata educazione che porti a una formazione dell’uomo basata sulla fede, sul senso morale, su un etica del lavoro e dell’operosità, sul filantropismo e sul senso dello stato. L’elemento cosmico maternale passa dalla natura alla donna, si antromorfizza, ed il rapporto madre-figlio diviene l’asse portante del fatto educativo, il quale, lo ripetiamo, non è fondato sulla ragione ma sull’intuizione. Il primo rapporto con l’esistenza il bambino lo coglie nel piacere della suzione al seno materno, ed questo piacere elementare è il criterio di vita primario rispondente alla natura; ma anche da adulto l’uomo mostra una sua costante tendenza a permanere allo stato naturale e quindi relativamente bruto. Ciò fa dell’uomo “un essere manchevole”, che dalla condizione animalesca deve raggiungere la condizione morale attraverso un’educazione che deve fare riferimento ad un “metodo” adeguato per organizzarla ed attuarla. La madre pilota l’evoluzione del bambino verso l’uscita dal calore materno e dal focolare domestico, verso il mondo, ma per affrontarlo adeguatamente coi suoi pericoli e le sue difficoltà il bambino, che ha verso la madre amore e riconoscenza, deve imparare ad essere anche paziente e obbediente. Seguiamo ancora la sintesi di Talenti: «Amore e riconoscenza, pazienza e obbedienza preparano la coscienza di ciò che è giusto e quindi il senso del dovere e del diritto. Quando il bambino si affaccia al di là del mondo della madre nel vasto mondo della natura  e degli uomini, i suoi sentimenti di fiducia e di giustizia non possono avere appagamento che nella fede in Dio, autore della natura e padre degli uomini.» [16]

    Chiudiamo con pochi cenni a Come Geltrude istruisce i suoi figli, che è in forma epistolare ed espone per argomenti il metodo pestalozziano maturo. Il Nostro vede, metaforicamente, l’ingiustizia sociale a causa di un sistema educativo “bloccato”:

 

Ora che lo conoscevo, il nostro sistema di istruzione mi appariva una gran casa, il cui piano superiore è ornato con arte perfetta e squisita, ma è abitato solo da pochi uomini. Al piano di mezzo alberga un numero già maggiore di persone, ma esso manca di scale con cui  queste possano, come si usa tra gli uomini, salire a quello superiore, e se qualcuno di loro mostra il desiderio di arrampicarvisi in qualche modo, gli viene tagliato un braccio o una gamba perché non vi riesca. Al pianterreno dimora un gregge innumerevole di uomini che hanno lo stesso diritto alla luce del sole e all’aria pura, pure non sono solo abbandonati a se stessi nell’oscurità ributtante di stanze prive di ogni finestra, ma se qualcuno osa solo sollevare la testa o volger lo sguardo verso lo splendore dei piani superiori, gli vengono senz’altro strappati gli occhi. [17]

 

Metafora dai toni cruenti e piena di indignazione compressa. Essa cela l’appassionata perorazione per la soluzione di un problema che Pestalozzi sente come bruciante, ma la cui soluzione gli appare lontana. Qui appare anche l’elemento sociologico-morale che anima la sua pedagogia, che nella maturità sempre più rivela reminiscenze kantiane, come in questa frase: «l’uomo non diventa uomo se non per mezzo dell’educazione » [18] che ripete pari pari una frase della Pedagogia [19].  Torna, riformulato, un  concetto metodico già espresso in opere precedenti:

 

L’arte didattica deve dunque fissare come legge immutabile dell’insegnamento quella di partire da questo triplice fondamento  nel modo seguente: 1) insegnare ai fanciulli a considerare ogni oggetto di cui abbiamo coscienza come unità, cioè ogni distinto da quelli con cui sembra unito; 2) Insegnar loro a riconoscere le forme di ciascun oggetto, cioè le sue misure e le sue proporzioni; 3) Render loro il più presto possibile famigliare l’insieme delle parole e di nomi degli oggetti da loro riconosciuti.  [20]

 

Un’indicazione che potremo leggere anche come: 1) analitica della pluralità del reale; 2) connotazione qualitativa-quantitativa del reale; 3) verbalizzazione della conoscenza. La gnoseologia pestalozziana non è fine a se stessa: conoscere il mondo significa eminentemente rapportarsi ad esso in modo quanto più possibile sintonico e virtuoso, ma non naturistico.  L’uomo è natura, e tuttavia è distinto da essa; deve diventarne tutore virtuoso, ma non deve lasciare alla natura la funzione di educatrice:

 

Se tu abbandoni alla natura la terra, essa produce zizzania e cardi; se tu abbandoni alla natura l’educazione, essa ci conduce a una caotica confusione d’intuizioni che manca, sia per il suo intelletto, come per quello dei tuoi figli, di quell’ordine che si richiede al primo insegnamento. [21]

 

I fanciulli debbono vivere all’aria aperta, essere a contatto con la natura, “stare” nella natura, ma non “diventare” natura, bensì uomini.

 

 

 

 

4.2 Per un’educazione laica e democratica

     

    Passando ora all’indirizzo laicistico ne troviamo compiuta espressione nella pedagogia illuministica di Locke. Ma bisogna precisare che egli è ancora uomo del Seicento e, per quanto credente, non particolarmente animato da pulsioni populistiche e solidaristiche. Il soggetto a cui egli dedicale sue ricerche pedagogiche è infatti il gentlemen della classe medio borghese. Ma, a parte questo, egli lascia in eredità al Settecento la più avanzata pedagogia laica e razionalistica possibile per l’epoca. Sono stati individuati quattro punti principali della pedagogia lockiana [22], che sono: 1. Il principio latino della mens sana in corpore sano; 2. Un rapporto colloquiale col bambino; 3. la prevalenza dell’educazione pratico-morale (rispetto ad un mero apprendimento nozionistico) in senso utilitaristico; 4. la centralità educativa dell’”esperienza”, da attuarsi attraverso il gioco e attraverso le attività manuali. I Pensieri sull’educazione sono del 1693 e compiuta espressione delle teorie pedagogiche di un Locke sessantunenne. L’opera inizia con una certo spazio dedicato a questioni salutistiche, e d’altra parte essa apre col notissimo adagio mens sana in corpore sano tratta da Giovenale. Ma vediamo prima la Lettera di J.Locke a sir Eduard Clarke di Chipley, dedicatario dell’opera, poiché in essa troviamo in sintetizzato il tema di fondo: 

 

L’educar bene i propri figli è tale dovere e tale preoccupazione per i genitori, e il benessere e la prosperità della Nazione ne dipendono talmente, che io vorrei che tutti prendessero la cosa seriamente a cuore; e che, dopo aver bene esaminato e distinto ciò che la fantasia, l’usanza o la ragione consigliano in proposito, portassero il proprio contributo per diffondere dappertutto il metodo di educazione che, tenuto conto delle diverse condizioni, appaia il più facile, il più rapido e il più adatto a formare uomini virtuosi utili e capaci di ben disimpegnare quei compiti a cui si dedicheranno. [23]

 

Se si confronta il finale di questo passo e lo si confronta con la supponenza e la saccenza di molti trattati pedagogici si coglie la statura intellettuale e morale di un uomo che ha fatto della ragione la sua guida e che individua nella facilità, nella rapidità e nella confacenza a una condizione data i criteri di riferimento a cui attenersi. La questione salutistica, che deve accompagnare l’evoluzione intellettuale del bambino, viene così conclusa: «poche regole facili da seguirsi: abbondanza d’aria aperta, di moto e di sonno; dieta semplice […] » [24] Sulle pene corporali, assai utilizzate all’epoca come mezzo educativo, il Nostro dice:

 

Le percosse, e tutti gli altri generi di punizioni servili e corporali, non sono disciplina che si confaccia all’educazione di coloro che vogliamo riescano uomini saggi, buoni e sinceri; perciò si deve ricorrere ad esse rarissimamente e soltanto nelle gravi occasioni o nei casi estremi. D’altra parte, bisogna evitare con altrettanta cura di lusingare i bambini, dando loro per ricompensa quelle cose di cui sono desiderosi. [25]

 

La severità non si deve esprimere in maniera violenta, ma con la costante attenzione e un appropriato equilibrio tra premi e punizioni, laddove i primi non debbono esse quelli che istintivamente il bambino vorrebbe. ma Locke precisa: «Non dico con questo che si debbano privare i bambini di quelle comodità o di quei piaceri della vita che non sono nocivi alla salute e alla virtù; al contrario vorrei che la loro vita fosse resa quanto più possibile piacevole e lieta.» Piacevolezza, giocosità e allegria non contrastano con la severità masi coniugano con un’educazione basata sulla razionalità e sull’opportunità.

    Per quanto riguarda le regole didattiche Locke raccomanda di non «sovraccaricare  in ogni contingenza la memoria dei bambini con regole e precetti » [26], astenendosi per quanto possibile dal mero «comando». Da cui l’ammonimento: «date dunque a vostro figlio meno regole che sia possibile, e piuttosto meno che più anche di quelle che vi sembrano assolutamente necessarie.» [27] Il bambino va educato con lavoro pedagogico costante e puntuale che punti alla naturale assunzione della regola senza che si presenti come impositiva e quasi inconsapevolmente: «Ciò che stimate necessario sia fatto da lui; inculcateglielo mediante l’esercizio, ogni volta che se ne presenti l’occasione » [28]  Ma un punto molto importante della pedagogia lockiana, e molto in anticipo sulla mentalità dell’epoca, è quello di uscire da quella rozza mentalità che vede i bambini come delle bestioline “incapaci di capire”:

 

Sorprenderà, forse, che io parli del ragionare con i bambini; eppure io non posso far a meno di credere che questo è il vero modo di trattarli. I bambini sanno ragionare da quando cominciano a parlare, e, se non ho osservato male, amano di essere trattati come creature ragionevoli, assai prima di quanto ci si immagini. È questa un’ambizione che va coltivata in loro, facendone, per quanto possibile, lo strumento più valido della loro educazione. [29]

 

Il bambino “ragiona” da subito, ma ciò che gli manca totalmente è l’esperienza, e siccome non si può pretendere che egli faccia esperienza sulla propria pelle più del dovuto è molto importante che l’educatore «conosca bene il mondo» e sia in grado di trasmettere all’educando, appena possibile, alcuni elementi fondamentali su di esso e sulle tipologie dei suoi componenti e a cercare di «indovinare le intenzioni delle persone » [30] Ciò allo scopo di evitare che allorché nel mondo “vi entrano” «trovandolo differente da quanto era stato loro insegnato ed essi avevano immaginato che fosse, si lasciano facilmente persuadere da certi altri maestri, nei quali sicuramente si imbatteranno […] » [31] I genitori, e chi per loro, debbono impartire nozioni indispensabili, e determinare una forma mentis di sufficiente solidità da non andare soggetta ad influssi incontrollabili da parte di “maestri occasionali” che potrebbero produrre effetti devastanti sul minore:

 

Perciò ritengo che sia cosa della massima importanza instillare tale conoscenza [del mondo] nel giovane ad ogni occasione che si presenti; affinché quando sarà lanciato in pieno mare, non vi si trovi come un navigante senza riga, senza bussola e carte marine; ma abbia in   precedenza qualche conoscenza degli scogli e delle secche, delle correnti o delle sabbie mobili, e sappia governare, per non affondare prima d’aver fatta esperienza. [32]

 

Il “filosofo dell’esperienza” quando si tratta di pedagogia vede quale rischio essa implichi nel vivere reale dell’”inesperto”, da ciò l’indispensabilità di una pre-esperienza virtuale attraverso l’educazione. 

   Un altro elemento fondamentale di un buona educazione è per Locke l’utilizzo della curiosità infantile come motore pedagogico:

 

Per conseguenza deve essere incoraggiata, non soltanto come un buon segno, ma come il grande strumento fornito dalla Natura per rimuovere l’ignoranza in cui sono nati, la quale senza quest’instancabile bramosia di sapere, farebbe di loro delle creature ottuse ed inutili. [33] 

 

Troviamo qui la negazione dell’innatismo esposta nel Saggio sull’intelligenza umana e la sua sostituzione radicale con l’apprendimento attraverso i mezzi di cui la Natura ci dota, e quindi per nulla attraverso il richiamo dei “segni divini” nell’anima, come vorrebbe la pedagogia platonica. Da ciò alcune indicazioni:

 

Non frenate né disapprovate alcuna domanda che il bambino possa fare, né tollerate che altri ne rida, rispondete invece a tutte le sue domande e spiegategli quanto desidera conoscere […] Osservate a  che cosa egli miri con la sua domanda e non badate a quali parole utilizzi per formularla; e quando lo avrete illuminato e soddisfatto, vedrete allargarsi il campo dei suoi pensieri […] il loro desiderio di apprendere va incoraggiato e lodato. Ed io non dubito punto che la ragione per cui molti bambini  si abbandonano interamente ai loro giochi puerili, e buttano via tutto il loro tempo, dipenda dal fatto che vedono male accolta la loro curiosità e trascurate le loro domande. [34]   

 

Ma nel soddisfare la loro curiosità è indispensabile l’impegno e la correttezza e perciò «si deve aver gran cura di non dar mai risposte ingannevoli ed elusive » [35] , anche perché:

 

Essi si accorgono facilmente se vengono trascurati o ingannati, e presto imparano il malvezzo della negligenza, della dissimulazione e della falsità, di cui hanno veduto gli altri avvalersi. In nessun discorso noi dobbiamo alterare la verità, e meno che mai con i bambini; giacché se li inganniamo non soltanto ne deludiamo l’aspettativa e ne impediamo l’istruzione, ma corrompiamo la loro innocenza ed insegniamo loro il peggiore dei vizi. [36]

 

Locke vede chiaramente come « corrompiamo la loro innocenza » quando diciamo loro che i bambini “nascono sotto i cavoli” e altri simili sciocchezze sul sesso e la procreazione.

    Locke consiglia molta attenzione al “tipo” di giocattoli messi nelle mani dei bambini ed è contrario in linea di massima ai giocattoli “comprati”. Ne nasce una domanda e una risposta:

 

Come potranno dunque avere quei giocattoli che permettete loro, se non se ne compera nessuno? Risponderò che i bambini devono fabbricarseli da sé, o almeno cercare di farlo o provarcisi. Fino allora non  debbono possederne nessuno, e così non avranno bisogno di averne di quelli molto complicati. Un ciottolo levigato, un pezzo di carta, il mazzo di chiavi della mamma, o qualsiasi altra cosa che non faccia loro male, serve a divertire i piccini quanto i giocattoli più costosi e strani […] Naturalmente si potranno comperare quei giocattoli che la loro abilità non arriva a fabbricare, come trottole, frullini, racchette e simili […] [37]

 

Il gioco è visto da Locke come un’attività molto importante e da tenere rigorosamente sotto controllo, poiché: «Ogni cosa che i bambini fanno in quella tenera età lascia loro qualche impressione, e da essa ricevono una tendenza al bene o al male; ed ogni cosa che abbia un’influenza di questo genere non dovrebbe essere trascurata.» [38] Un ammonimento semplice, ma carico di implicazioni pedagogiche importanti.

    Relativamente all’istruzione (proposizioni da 147 a 195), Locke è contrario all’apprendimento mnemonico:

 

175. C’è un’altra cosa, assai comune nel metodo ordinario seguito dalle scuole di grammatica, della quale io non vedo utilità alcuna […] Ciò che intendo dire, e di cui mi lamento, è l’obbligarli ad imparare a memoria lunghi brani degli autori di cui loro si parla […] e quando se n’è imbottita la testa di un uomo, gli si è giusti dato quanto occorre ad un pedante o quanto basta per diventare pedanti. [39]  

 

Ma non ne esclude l’uso: «Con questo non voglio dire che non si debba esercitare la memoria dei bambini. Penso invece che essa debba venir allenata, ma non facendo loro imparare, a furia di ripeterle, intere pagine di libri che sono poi di nuovo destinate all’oblìo » [40]  Anche su questo argomento Locke mostra il criterio di fondo che lo guida, che potremmo chiamare sia ragionevolezza o buon senso, e che sono uno degli elementi fondamentali del miglior pensiero illuministico, tanto lontano dall’irrazionalità quanto dal quell’ottusa velleitaria e dogmatica “razionalità irragionevole” del razionalismo metafisico.  In questo senso la Conclusione del saggio è esemplare, poiché Locke si guarda ben dal porre le sue riflessioni sulla pedagogia come un “trattato”, consapevole dell’impossibilità di “fissare” regole, poiché occorrerebbe uno studio esteso e profondo, tale da considerare «mille altre cose» e specialmente «i vari temperamenti, le diverse inclinazioni, i difetti particolari che si possono scoprire nei bambini, e si dovessero prescrivere i rimedi appropriati. […] L’animo di ogni uomo, proprio come il suo volto, ha qualcosa di particolare che lo distingue da tutti gli altri, e non si trovano forse due bambini che possano essere allevati con lo stesso preciso sistema.» [41]

    Chiudiamo questo breve excursus con Condorcet (1743-1794), uno degli ultimi philosophes, eccellente matematico, filosofo ed economista; un intellettuale prestato alla politica che dell’istruzione popolare aveva fatto uno dei suoi principali obbiettivi morali. Sostenitore delle non-violenza, ed anche per questo  ostile a Robespierre, morirà in carcere come traditore della Repubblica nei sanguinosi giorni del governo totalitario dell’Incorruttibile [42]. Un progresso che deve esser sociale e culturale nello stesso tempo e che deve trovare nell’istruzione pubblica il proprio fondamento, poiché  conoscenza scientifica e cultura umanistica sono fatti sociali. Si batte dal 1789 per la realizzazione di un sistema scolastico aperto a tutti, a carico dello stato, basato su tre principi irrinunciabili: obbligatorietà, gratuità, laicità. In qualità di membro del Comité d’instruction publique presenta all’Assemblea Generale il Rapport et projet de décret sur l’organisation générale de l’instruction publique di cui riportiamo un importante un paio di passaggi. Il primo:

 

Offrire a tutti gli individui della specie umana i mezzi per provvedere ai propri bisogni, per assicurarsi il benessere, per conoscere ed esercitare i propri diritti, intendere ed adempiere i propri doveri; assicurare  a ciascuno l’opportunità di perfezionare la propria abilità, di divenire capace di esercitare le funzioni alle quali ha diritto di essere chiamato, di sviluppare nel più ampio modo le doti che ha ricevuto dalla natura; e in tal modo stabilire tra i cittadini un’uguaglianza di fatto e rendere reale l’uguaglianza politica riconosciuta dalla legge. [43]   

 

Anche queste parole di Condorcet sono “la Rivoluzione”, ma è chiaro che “dal di fuori” fosse difficile comprenderne tutti gli aspetti. Se così fosse stato, Pestalozzi non avrebbe potuto scrivere la frase vista sopra: « Io ho sempre ritenuto l’intera Rivoluzione, fin dalle sue origini, come una semplice conseguenza della corrotta natura umana. » Ed ora un secondo passaggio:

 

Noi abbiamo osservato, infine, che l’istruzione non deve abbandonare i giovani nel momento in cui escono dalla scuola; che essa deve abbracciare tutte le età, giacché non ce n’è alcuna in cui non sia utile e possibile apprendere, e che questa seconda istruzione è tanto più necessaria in quanto quella dell’infanzia è stata contenuta in limiti assai ristretti. […] Essa deve, nei suoi diversi gradi, abbracciare l’intero sistema delle conoscenze umane […] Nessun potere pubblico deve aver l’autorità di impedire lo sviluppo di verità nuove o l’insegnamento di teorie contrarie alla sua particolare politica o ai suoi interessi contingenti. [44]

 

Un’educazione permanente, dunque, e la “conoscenza” sopra ogni altra cosa. Si coglie qui lo iato tra quest’etica della conoscenza ed i concetti pedagogici, prevalentemente su base religiosa e morale, che animavano i personaggi da noi precedentemente considerati. Il laicismo estremo di Condorcet era così “rivoluzionario” che non poteva trovar posto neppure nella temperie rivoluzionaria. E su tutto il principio di uguaglianza (che per un marchese non è cosa da poco) :

 

Se l’istruzione è più uguale, nasce una maggiore uguaglianza nell’operosità e quindi nelle fortune, e l’eguaglianza delle fortune contribuisce necessariamente a quella dell’istruzione, mentre tanto l’eguaglianza tra i popoli, quanto quella che si stabilisce per ciascuno, hanno anch’esse un influsso scambievole l’una sull’altra. [45]

 

Sono parole de l’Esquisse d’un tableu historique des progrés de l’esprit humain, pubblicato dopo la sua morte. Parole di un uomo  per il quale l’eguaglianza tra gli uomini si pone come un “senza se e senza ma”, come si evince in saggi come le Réfléxions sur l’esclavage des négres (1781) o L’education des femmes, nel quale è detto: «Le donne hanno gli stessi diritti degli uomini, pertanto le stesse opportunità per acquisire realmente questi diritti con la medesima indipendenza e con uguale estensione.» [46]

 

 

 

 

 

4.3 La stagione della ragione e del sentimento

 

    Due concetti così apparentemente sconnessi, e molto spesso considerati oppositivi, come la ragione e il sentimento, trovano nel Settecento un’originale e comune culla di sviluppo e di nuova interpretazione. Essi costituiscono i poli di un’aspirazione diffusa nel secolo sia a livello intellettuale che esistenziale. Agire in maniera razionale e nel contempo condurre la propria vita coltivando i sentimenti è obiettivo conseguibile? Nel Settecento molti pensano di sì. Fenomeno tipico della temperie illuministica questa comunione di opposti (si pensi a certi atteggiamenti ottimisti/pessimisti o utopico/scettici) vede la messa in mora di molti schemi mentali della cultura precedente di origine perlopiù idealistica. Tali schematizzazioni opponevano una virtù, razionalmente fondata, a una passione irrazionale (diremmo forse noi moderni una “pulsione” interiore e istintuale). Quella nobile, questa deprecabile e volgare. Per quanto nella cultura greca neppure esistesse una parola che traducesse il termine moderno di sentimento, lo si può ritenere  assimilabile a quello di pathos (πάθος) in una gradazione meno impetuosa-superficiale e più gentile-profonda. Peraltro, neppure nella lingua latina troviamo un termine soddisfacente, poiché passio significa patimento/tortura/martirio ed il nostro “passione” può essere tradotto sia con affectio (effetto interiore di una causa esterna) e sia con  cupiditas, mentre il termine affectus ha sia un significato corrispondente a quello di affectio, sia quello di stato fisico negativo (indisposizione, malattia) e sia quello di passione amorosa. Si può pertanto concludere che la parola sentimento è termine moderno, nato nel Settecento, corrispondente al francese ed inglese sentiment ed al tedesco Gefühl. È Pascal a porre per primo la netta distinzione tra l’esprit de géométrie (o raison) e l’esprit de finesse quale “ragione del cuore”; la ragione geometrica serve a capire le cose del mondo e la materia; ma per capire Dio ci vuole la “finezza” del sentimento. E tuttavia anche Cartesio, col suo ultimo lavoro (Le passioni dell’anima, 1649), aveva prestato attenzione al sentimento rapportandolo alla ragione. E risalendo nel tempo va peraltro considerato che, per quanto non esplicitamente teorizzato, anche pensatori rinascimentali come Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci avevano immaginato la possibilità di un rapporto equilibrato tra i due.

    Vediamo ora Les passions de l’âme di René Descartes, uno scritto che ha esercitato un’enorme influsso sulla cultura dell’epoca e che è famosa anche per la localizzazione dell’anima nella ghiandola pineale. L’analisi cartesiana presenta elementi di indubbia acutezza psicologica. Nell’Articolo II si precisa che le passioni dell’anima vanno distinte dai movimenti del corpo, poiché il corpo (extensus) e l’anima (cogitans) sono strutture separate, ma interagenti, sicché: «una Passione dell’anima è comunemente un’Azione nel corpo.» [47] E tuttavia l’anima è estranea alla dinamica e alle funzioni del corpo, che dipendono completamente dagli “spiriti animali”, prodotti nel cervello [48]. L’anima è la struttura che genera i pensieri, che sono di due generi: «azioni » e «passioni» dell’anima stessa; attive le prime e passive le seconde [49]. Nell’Articolo XVII sono prese in considerazione «le lotte che abitualmente si immaginano fra la parte inferiore e quella superiore dell’anima.» [50] È un punto importante, perché Cartesio pone una «ripugnanza» tra i movimenti del corpo (provocati dagli spiriti) e i movimenti dell’anima (frutto della sua volontà), ma ribadisce anche che l’anima è unitaria ed indivisibile, sì da doversi evitare dualizzazioni in anima sensitiva e anima razionale. Ciò deriva dal fatto che « non si sono distinte bene le sue funzioni da quelle del corpo, al quale solo si deve attribuire tutto ciò che può esser osservato in noi come ripugnante alla nostra ragione.» [51] La ghiandola pineale può allora «essere spinta da una parte dall’anima, e dall’altra dagli spiriti animali », sicché capita spesso « che questi due impulsi siano contrari e che il più forte impedisca l’effetto dell’altro.» [52]  Una fenomenologia complessa che costringe Cartesio ad ammissioni abbastanza curiose del tipo: «Tuttavia si può ancora concepire un qualche contrasto, perché spesso la medesima causa che eccita nell’anima qualche passione, eccita anche certi movimenti del corpo, cui l’anima non contribuisce per niente e che essa arresta o cerca di arrestare appena se ne accorge.» [53]

    Che a qualche passione dell’anima (cioè a qualche sentimento) si accompagni qualche movimento (involontario) del corpo è cosa che ognuno sa, ma Descartes vede ciò come un «contrasto», ovvero una sorta ”contaminazione” funzionale tra principi differenti che quello “nobile” (l’anima) cerca di risolvere « appena se ne accorge ». Il problema è che l’anima può essere “forte” o “debole”  (Art.L), ma può, se «ben guidata», vincere le passioni, cioè controllare i sentimenti e non diventarne preda. Perciò, secondo il miglior insegnamento di Platone, la vittoria è possibile se si ha il coraggio della ragione:

 

Ora è utile sapere queste cose per dare a chiunque il coraggio di adoprarsi a dominare le sue passioni; infatti, poiché si può, con un po’ di cura, cambiare i movimenti del cervello negli animali sprovvisti di ragione, è evidente che lo si può fare ancor meglio negli uomini; e che anche quelli che hanno le anime più deboli potranno acquisire un dominio veramente assoluto su tutte le loro passioni, se avranno molta cura nel regolarle e nel guidarle. [54]

 

Cartesio non distingue tra passioni positive e negative, tra moderate ed eccessive; egli intende eliminare (come fanno tutti i metafisici) ogni relativizzazione e si vede così costretto ad accorpare tutte le passioni in un unico genere, come ciò che sfugge al controllo della ragione (la parte “alta” delle funzioni dell’anima).

    Tale esecrabile e pericolosa capacità delle passioni di imporsi e di turbare l’equilibrio mentale viene ora vista in maniera decisamente attenuata, al punto che l’irrazionalità del sentimento non viene più respinta, ma riabilitata; e ciò grazie soprattutto a Rousseau e a Diderot, che almeno su questo tema erano d’accordo. Nel Settecento si incomincia ad intravvedere un ribaltamento concettuale che porta all’analisi delle passioni ed a distinguere tra differenti generi e intensità di esse. Esse vanno “gestite” e persino “usate”, e, facendo di necessità virtù, la “fenomenologia passionale” diventa qualcosa da cavalcare trasformando la passione negativa in positiva, o  facilitando (per quanto possibile) l’instaurazione di un sentimento positivo al posto di uno negativo. Ed è significativo il fatto che nel Settecento i termini passione e sentimento finiscono per sovrapporsi con una nuova consapevolezza della loro natura e dei loro effetti esistenziali, sì che diventa, semmai, solo il grado di intensità del moto interiore a distinguerli. Però, come si sa, il Settecento è anche il secolo che non solo affina il significato di “ragione”, cessando di contrapporlo a passione/sentimento, ma li coniuga in una nuova dialettica emozionale e comportamentale che finisce anche per mutare il significato dei termini. A tal proposito è bene ricordare l’evoluzione concettuale di ragione, poiché né il greco lógos (λόγος), né il latino ratio, possono essere considerati traduzioni di ragione in senso moderno; il primo avendo una pluralità di significati forieri di grande ambiguità concettuale, il secondo essendo troppo legato alla computazione (per quanto Cicerone lo usasse già in senso analogico ed estensivo). E tuttavia è la linea platonico-aristotelica a prevalere, quella che la considera come “facoltà” specifica dell’uomo e “guida ideale” dei suoi comportamenti. Cartesio riprende questo indirizzo e lo rafforza ulteriormente, imponendolo, ed è solo con il pensiero illuministico che se nasce una nuova interpretazione, non più così oppositiva rispetto alla passione e al sentimento.

    Si può ritenere che il binomio ragione/sentimento come si configura nel Settecento sia il frutto del superamento sia dell’etica classica basata sul concetto di virtù, nel significato di “valore” e di religiosità, sia della morale cristiana, che fissa nel trinomio fede-speranza-carità l’aspetto “teologale” del concetto di virtù e nel quadrinomio prudenza-giustizia-fortezza–temperanza il fondamento morale del cristiano perfetto. Il fatto che una persona possa essere sentimentale/passionale e nel contempo razionale cessa con l’Illuminismo di essere un’antinomia. La moralità diventa l’equilibrata gestione dei desideri e delle passioni, dell’aspirazione alla felicità, del senso civico, della generosità, della benevolenza e delle istanze della razionalità. Una razionalità, quindi, che fa tutt’uno con la ragionevolezza, più o meno col significato di ciò che Cartesio intendeva con buon senso (distinguendolo da ragione), espressione che, non a caso, d’Holbach utilizzerà come titolo di un suo famoso libro. Potremmo allora concludere che se il significato moderno di ragione si delinea intorno al 1635 con Descartes, quello di sentimento (spirito di finezza) è posto verso il 1650 da Pascal e che essi risultavano teoricamente dicotomici, per quanto Cartesio non negasse il valore del sentimento e Pascal, il “razionalista sentimentale”, pensasse che nelle cose essenziali (quelle della fede) l’esprit de finesse fosse assai più importante dell’esprit de géométrie.

    Blaise Pascal (1623-1662) non è solo un matematico insigne, ma anche uno dei più raffinati pensatori di tutti i tempi, e sicuramente colui che meglio ha posto i diritti del sentimento di fronte ad una certa arroganza della ragione. La cosa interessante è che egli fa l’apologia del sentimento in termini rigorosamente razionalistici, soppesandolo in rapporto alla ragione, ed infine “scegliendo” e “scommettendo “ su esso per motivi esistenziali e fideistici. Ricordiamo alcuni brevi aforismi dei Pensées (apparsi postumi nel 1670): «128. Due eccessi: escludere la ragione, ammettere soltanto la ragione.» [55]; «130. La ragione comanda molto più imperiosamente di un padrone, perché disubbidendo a questo si è infelici, disubbidendo ad essa si è degli sciocchi.» [56]; «139. Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano. È ben debole se non giunge a riconoscerlo.» [57]; «Nulla è così conforme alla ragione come questa sconfessione della ragione.» [58] Da ciò le ragioni del cuore:

 

144. Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione ma anche col cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i principî primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d’impugnarne la certezza. I pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapace di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell’incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione e non, come essi pretendono, l’incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi principî, come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. […] I principî si sentono, le proposizioni si dimostrano […] Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi principî […] [59]

 

 È sulla base di considerazioni di questo tipo se molti Illuministi tenteranno di arrivare ad un criterio intellettuale in grado di coniugare le esigenze della ragione e quelle del sentimento, senza rinunce e senza delegittimazioni gnoseologiche dell’una o dell’altro. E quindi senza incorrere nella pascaliana conclusione:

 

Conosci, dunque, superbo, quale paradosso sei a te stesso. Umiliati ragione impotente; taci, natura [irrazionalismo naturale] imbecille: imparate che l’uomo eccede infinitamente l’uomo e apprendete dal vostro signore la vostra effettiva condizione, che ignorate. Ascoltate Iddio. [60]

 

    Condillac nel suo Saggio sull’origine della conoscenza umana coglie un rapporto strettissimo tra il formarsi delle idee e l’affettività, tra la ragione che dalle pure sensazioni produce pensieri e tra il sentimento che pilota la raccolta delle sensazioni. Ma questa razionalizzazione della dialettica ragione/sentimento vede nel Settecento una nuova dicotomizzazione che privilegia il secondo termine e si configura come una “gnoseologia sentimentale” ad opera di Jean-Jacques Rousseau. I suoi scritti traboccano del primato del sentimento sulla ragione, per quanto di tanto in tanto anche questa sia richiamata, ma con poca convinzione. Nel Libro IV de l’Emilio si legge:

Ora se, essendo tutti sottomessi alle miserie delle vita, nessuno concede agli altri se non la sensibilità di cui non ha attualmente bisogno per sé, ne consegue che la commiserazione dev’essere un sentimento molto dolce, poiché depone in nostro favore, e invece un uomo duro è sempre infelice, poiché lo stato del suo cuore non gli lascia alcuna sensibilità sovrabbondante da potersi concedere alle pene altrui. [61]

 

Noi siamo molto critici con Rousseau, come si vedrà nel Capitolo V della Seconda Parte, ma siamo disposti a riconoscergli una grande capacità introspettiva, qui testimoniata, per quanto prevalentemente autistica e scarsamente relazionale. Rousseau vede chiaramente che la felicità non è una categoria assoluta, ma relativa, e che, in quanto sentimento, si fonda sui sentimenti e si genera da essi. Relativamente alla sensibilità egli fa poi una distinzione tra la persona “sensibile” e quella “dura”; solo quella sensibile, possedendo un eccesso di sensibilità, ha la possibilità di cederne una parte a favore di altri. È un concetto “economico” che si trova spesso in Rousseau e che anche qui è all’opera: la commiserazione verso gli altri, in fondo, “conviene”. C’è infatti un “ritorno di dolcezza”, perché mettendola in opera ci sentiamo più buoni. In altre parole, la partecipazione al dolore dell’altro, la com-passione, l’assunzione su di sé di una parte del dolore dell’altro, può diventare foriera di un piacere di ritorno.

    La complessità dei meccanismi del sentimento è anche tale che uno stesso soggetto che soffre può percepire dolcezza. La felicità è sempre soltanto intima, la persona che si sente veramente felice «chiude, per così dire, la felicità attorno al suo cuore.» [62]. Una bellissima espressione rousseauana che prelude al discorso sulla malinconia. Il disgusto e la noia, infatti, possono sì essere attenuati in qualche misura da ciò che ci muove al riso, come  la gioiosità e la giocosità chiassose: «Ma la melanconia è amica della voluttà: la tenerezza e le lacrime accompagnano i più dolci godimenti, e la stessa  gioia eccessiva strappa piuttosto il pianto che il riso.» [63]  Ma è nella Professione di fede del vicario savoiardo (a metà del Libro IV) che Rousseau mette a fuoco al meglio la tematica dei sentimenti. Il Vicario, dopo aver sostenuto che «noi sentiamo necessariamente prima di conoscere» (e quindi il sentire è almeno una forma di pre-conoscenza), afferma:

 

Gli atti della coscienza non sono dei giudizi, ma dei sentimenti; quantunque tutte le nostre idee ci vengano dal di fuori, i sentimenti che le valutano sono dentro di noi, ed è per essi soli che noi conosciamo la convenienza o la sconvenienza che esiste fra noi e le cose che dobbiamo ricercare o fuggire. [64]

 

Abbiamo qui una sorta di apologia di una “ragion pratica” che Kant avrebbe potuto persino sottoscrivere. Per Rousseau l’importante non è “conoscere”, ma “sapere” ciò che si deve perseguire o fuggire, il bene e il male “per l’uomo”. Secondo lui l’uomo non esiste per conoscere ma per sentire: «Esistere, per noi, sentire; la nostra sensibilità è incontestabilmente anteriore alla nostra intelligenza, e noi abbiamo avuto sentimenti prima che idee.». Affermazione  probabilmente vera, ma a cui segue una nota * particolarmente interessante, dove il Nostro aggiunge:

 

*Sotto certi riguardi le idee sono dei sentimenti e i sentimenti sono idee. I due nomi convergono ad ogni percezione che ci occupa del suo oggetto, e di noi stessi che ne siamo affetti: non c’è che  l’ordine di quest’affezione che determina il nome che le conviene. Quando, dapprima occupati dell’oggetto, non pensiamo a noi che per riflessione, è un’idea; invece, quando l’impressione ricevuta eccita la nostra prima attenzione e non pensiamo che per riflessione all’oggetto che la cagiona, è un sentimento. [65]

 

Analisi sufficientemente corretta, che probabilmente Rousseau desume dal Saggio sull’origine delle conoscenze umane di Condillac. Il Vicario ritiene che i sentimenti umani siano di vario tipo, ma uno su tutti deve farci da guida: quello del “bene”. Questo, tuttavia, non basta conoscerlo, bisogna anche amarlo: «Conoscere il bene non è amarlo; l’uomo non ne ha la conoscenza innata: ma appena la sua ragione glielo fa conoscere, la sua coscienza lo porta ad amarlo; è questo sentimento che è innato.» [66] Non la nozione del bene è innata, ma il trasporto amoroso che produce la conoscenza del bene. Se l’amore è all’opera il bene “si rivela”, altrimenti no. Abbiamo qui la comparsa di un accordo tra ragione e sentimento? Non è chiaro, parrebbe piuttosto una “ragione del bene” a fornircene conoscenza, in un cortocircuito dove il bene, che è amore, ci fa innamorare di sé, ed un sentimento di “riconoscimento” da parte della coscienza conclude il processo virtuoso. La “voce della coscienza”, che se non direttamente divina è comunque divinamente in noi (ancora un anticipo di Kant), è il nostro tesoro incommensurabile: «Coscienza! Coscienza! Istinto divino, voce immortale e celeste, guida sicura d’un essere ignorante e limitato, ma intelligente e libero; giudice infallibile del bene e del male, che rendi l’uomo simile a Dio.» [67] Non quindi la ragione (pallida copia dell’Onniscienza) ma la voce della coscienza (sensore della Bontà) è ciò che ci da simili a Dio.

 

   

 

 

 

4.4 La diffusione della conoscenza e l’Encyclopédie.

 

 

    La conoscenza, nel suo dispiegarsi, implica anche i metodi e gli strumenti con i quali viene diffusa, e pone inoltre l’importante questione della sua presa nella coscienza dell’uomo al fine di sottrarla alle intossicazioni metafisiche. Fino al Settecento, e per millenni, la scena culturale era rimasta dominata dalla metafisica, produttrice di una falsa conoscenza, propinata ed imposta dall’alto a fini ideologici o politici. Vi è di più; nella realtà soltanto la classe colta, costituita da aristocratici o da religiosi, raccoglieva il patrimonio culturale, lo custodiva, lo secretava, lo manipolava, lo porgeva infine al popolo. Il livello più basso di questo, soprattutto in ambito rurale, dipendeva esclusivamente dal clero locale ed in particolar dai parroci, indiscusse autorità culturali e morali nel mondo contadino. Ora, con la cultura illuministica (o almeno con una parte significativa di essa), la metafisica si trovava per la prima volta nella storia costretta a passare alla difensiva e cercare di difendere le proprie posizioni, spesso con accortezza e talvolta con grossolanità ideologica. In ogni caso la battaglia era aperta e la stampa diventava il campo di battaglia di questa contrapposizione culturale, che opponeva una cultura dogmatica e statica a una cultura euristica e dinamica.

    Sono queste le ragioni per cui l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, che vede la luce nel 1751, è salutata dai Gesuiti, ancora monopolisti dell’istruzione, come “Bibbia satanica” [68]. E tuttavia, si badi bene, il modello didattico gesuitico è stato uno dei più completi, efficienti e meglio realizzati per lungo tempo, al fine di dotare una persona di una cultura religiosa ed umanistica vasta e profonda. Ma, se cerchiamo di capire, oggi, che cosa potesse esserci di satanico nell’Enciclopedia, non troveremo nulla di ciò che con quell’aggettivo ci induce a pensare. Essa non era per nulla irreligiosa, ma agli occhi dei contemporanei anti-illuministi possedeva due difetti imperdonabili e considerati satanici: quello di non considerare la teologia “regina delle scienze”, come già pensava Aristotele, e quello di fare della scienza profana, quella naturalistica, insieme alle attività pratiche ad essa connesse (ciò che oggi chiamiamo tecnologia), l’oggetto primario della trattazione. Ciò, quindi, che risultava intollerabile all’epoca in larghi strati del mondo cattolico (e molto meno in quello protestante) era che si potesse pensare di spodestare la teologia cristiana e la cultura classica umanistica dal trono culturale, osando portare allo stesso livello, e addirittura anteporvi, una cultura profana che sviava dai giusti fini dell’uomo. Ed un ulteriore elemento: l’Enciclopedia, e con essa molta cultura scientifica, avevano abbandonato il latino per sostituirvi il francese (e l’inglese in ambito anglosassone), un insulto alla tradizione e quasi una blasfemità.   

    Tra i diffusori della conoscenza scientifica è da annoverare l’interessante figura di Bernard Le Bovier de Fontenelle (1657-1757); un uomo raffinato e brillante che ebbe la ventura di diventare centenario e di vedere evolvere la cultura francese sino al pieno illuminismo. Per quanto di formazione prettamente umanistica, Fontenelle, che si sposterà poi verso interessi filosofici e scientifici, può essere considerato un notevole divulgatore della fisica cartesiana e un antesignano dei philosophes. Un intellettuale che si distingue per la sua spregiudicatezza, espressa in una prosa caratterizzata da uno stile brillante ed insieme irriverente e spiritoso. Per quanto fortemente attardato su Cartesio e latore della sua metafisica, gli va comunque riconosciuto un ruolo importante per la sua apertura mentale e per la sua attenzione alle novità, di cui è via via testimone interessato e attento. Nel 1688 pubblica la Digressione sugli antichi e sui moderni, con la quale si inserisce nella nota querelle introducendo idee originali e proponendo una sorta di teoria generale del progredire umano, basata sull’assunto che, poiché il progresso è dato dall’”accumulo” della cultura e delle conoscenze, esso non potrà mai arrestarsi e sarà continuo nel tempo.  Poco prima ha pubblicato una Storia degli oracoli, nella quale, utilizzando come tema di partenza le superstizioni pagane, giunge a stigmatizzare le credenze irrazionali in generale e quelle cristiane in particolare, generando non poche perplessità e turbamenti nel pubblico devoto. L’opera è importante anche per un'altra ragione, che il confronto tra loro le varie religioni, sia pure negli aspetti più negativi, fornendo di esse un primo esempio di “storia comparata”, molto in anticipo su una scienza storica che nascerà organicamente assai più tardi. Gli va riconosciuto, infine, il grande merito di aver avuto il coraggio, con la Conversazione sulla pluralità dei mondi del 1686,  di aver esposto in forma accessibile la teoria copernicana, in un momento in cui era sotto il tiro della censura ecclesiastica, mentre altri (pur convinti della sua validità) avevano preferito tacere. È per l’insieme di tali ragioni che a Bernard Le Bovier si può riconoscere un ruolo di proto-divulgatore della cultura.

    L’Encyclopédie è un’opera di divulgazione, una chiave che spalanca la porta della cultura illuministica; Diderot, nel proporla alla sottoscrizione, spiega nel Prospectus che il termine deriva dal greco kyklòs e che significa il circolare “concatenamento delle scienze”. Concetto che rispondeva a due metafore, una vegetale e una geografica. La prima è l’albero della conoscenza, che dava l’idea dello svilupparsi del conoscere da un tronco centrale e generale fin nei rami più particolari e periferici e che era già stato utilizzato da Ephraim Chambers per la sua Cyclopaedia, che Diderot e d’Alembert aveva assunto a modello. La seconda è il mappamondo, a proposito della quale d’Alembert, nel Discours préliminaire, spiega essere l’insieme dei luoghi della scienza e delle strade che li congiungono. Lo straordinario e il nuovo dell’ Encyclopédie sta non tanto nell’integrazione genealogica della conoscenza presente già in Chambers, ma nella ricategorizzazione delle conoscenze che lascia l’opera di questi e va a riallacciarsi a Bacone.

   Per quanto la genesi e la storia dell’Encyclopédie siano molto note qualche cenno rammemorativo sarà opportuno. L’impresa nasce dal progetto di traduzione della Cyclopaedia di Chambers, ma presto si intravede l’opportunità di un completo rifacimento; Diderot, nel 1747, assume l’incarico di pilotare l’impresa. Egli coopta D’Alembert nella direzione e per il coordinamento di ciò che concerne le matematiche; poi vengono chiamati a collaborare intellettuali come Montesquieu, Voltaire, Buffon, De Prades, Rousseau, Quesnay, Turgot, Bordeu, d’Holbach e numerosi altri.  Nel 1750 Diderot pubblica il Prospectus col piano dell’opera e lancia la sottoscrizione; in pochi mesi i sottoscrittori sono quattromila: l’opera può partire. L’anno dopo esce il primo volume, nel 1752 il secondo e il gesuita Journal de Trévoux incomincia a demolirla sostenendo che l’opera si propone: «di distruggere l’autorità regia, diffondere atteggiamenti d’indipendenza e ribellione, e, sotto termini oscuri ed equivoci, gettare le basi dell’errore, della corruzione dei costumi, dell’irreligione e dell’incredulità.» [69] Intanto però esce il terzo volume con l’importante Discorso preliminare di D’Alembert; la reazione cresce e il boicottaggio si intensifica con tutti i possibili mezzi d’informazione e persino a teatro. Gazzettieri prezzolati creano la leggenda dei Cacouacs enciclopedisti o filo enciclopedisti, dei quali tra l’altro si dice: «Questi selvaggi, graziosi e piacevoli a prima vista, sono di una specie pericolosa, perché hanno i veleno nascosto sotto la lingua. Sono i soli esseri della natura che facciano il male per il gusto di farlo.» [70] Chi legge oggi l’Encyclopédie fa veramente fatica a comprendere la ragione di tali giudizi, ma la scienza e la tecnica, all’epoca, potevano essere considerate “demoniche” per varie ragioni. Per esempio perché la cosmologia poteva mettere in forse la Genesi, perché la medicina dissacralizzava la mente come sede dell’anima, o perché la meccanica creava strumenti e macchine che riducevano la fatica e impigrivano, facilitando gli spostamenti, alterando i rapporti delle famiglie, creando conforts inducenti alla superficialità e al vizio.

    Quando nel 1758 appare il settimo volume le cose si sono messe male. D’Alembert scrive un articolo tanto imprudente quanto discutibile su Ginevra; i calvinisti insorgono. Alla negatività del Genéve si aggiunge il fatto in quei giorni Helvétius dà alle stampe De l’esprit, opera ritenuta blasfema che mette immediatamente in subbuglio le autorità, scatenando l’indignazione per l’impudenza dei nuovi empi. Nasce la necessità di un “giro di vite” per fermarli e anche l’Encyclopédie finisce sotto tiro. D’Alembert, sommerso dalle critiche e sovraesposto come condirettore abbandona, altri lo seguono, Diderot resta il solo a combattere la sua battaglia; poi, nel settembre del ’62, viene revocato il permesso di stampa e diffusione dell’opera. Ma nel 1766 la censura si allenta e tacitamente viene dato il consenso per la distribuzione degli ultimi dieci volumi, nominalmente risultanti stampati all’estero; nel decennio successivo escono gli undici volumi delle tavole. Diderot ricorderà più tardi: «Abbiamo avuto per avversari la corte, i grandi, i militari, […] i preti, la polizia, i magistrati, i letterati che non partecipavano all’impresa, il bel mondo […] » [71]  Oltre ai religiosi erano particolarmente seccati i militari, poiché l’Encyclopédie, di ispirazione pacifista, non aveva dedicato alcun articolo alla guerra se non in termini negativi e ciò, per la gloriosa ”casta dei guerrieri”, era intollerabile.  

    D’Alembert, prima del suo pusillanime ritiro, ha un funzione importante, poiché è colui che con le sue competenze imprime il taglio tecnico-scientifico che l’opera si propone sin dal titolo, che recita: Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, ad opera di una società di persone di lettere.  Egli è anche l’autore del lungo e complesso Discorso preliminare, che si pone come un vero e proprio manifesto dell’Illuminismo pieno di riferimenti a pre-illuministi come Bacone e Locke. Dopo una prima enunciazione degli scopi D’Alembert afferma:

 

Il primo passo da fare in tale ricerca è esaminare, ci si passi il termine, la genealogia e filiazione delle conoscenze, le loro cause, i loro caratteri distintivi; risalire in breve, all’origine e alla genesi stessa delle nostre idee. [72]

 

Già di queste poche parole i conservatori avevano seri motivi per preoccuparsi. Si tratta di un programma di ”rilettura” della storia delle conoscenze, della loro formazione, del loro accumulo; ed insieme di una  “rifondazione” di esse ai “nuovi lumi”. Si ribadisce che i sensi sono la fonte della conoscenza e con essi il corpo diventa, come loro sede, oggetto prevalente di studio rispetto ad un’anima che è stata per millenni al centro dell’attenzione speculativa. D’Alembert nota:

 

Molti filosofi hanno attribuito siffatta tendenza [a riconoscere ai corpi esistenza reale] all’influsso di un essere superiore, stimando questo la prova più conveniente dell’esistenza degli oggetti stessi. In effetti, non essendovi rapporto alcuno tra una sensazione e l’oggetto che la genera – o, almeno, al quale noi lo riferiamo – non sembra che si possa trovare con il ragionamento alcuna possibile mediazione tra l’uno e l’altra: solo una sorta di istinto, più sicuro della ragione medesima, può farci compiere un passo così lungo. E tale istinto è così forte in noi che supponendo per un momento che, annullati gli oggetti esterni, esso continui a sussistere, l’improvvisa ricomparsa di quei medesimi oggetti non potrebbe renderlo più forte. Possiamo dunque stabilire senza incertezze che le nostre sensazioni hanno effettivamente fuori di noi la causa che attribuiamo loro; poiché l’effetto che può derivare dall’esistenza reale di siffatta causa non potrebbe essere in nessun modo diverso da quello che proviamo. [73]  

 

    La percezione che abbiamo dei corpi ha una relazione diretta con l’esistenza dei corpi stessi. Asserzione ovvia, ma che in un’epoca in cui forte era la presa del tendenziale immaterialismo di Malebranche, e soprattutto di quello esplicito di Berkeley, doveva essere ribadita con forza dalla comunità scientifica.  La ricerca consiste eminentemente nell’individuazione di elementi della realtà, nella scoperta dei fenomeni in cui si estrinsecano, nella definizione delle modalità combinatorie e nel calcolo. Da ciò:

 

I risultati di siffatte combinazioni, generalizzati, saranno appunto calcoli aritmetici simboleggiati o rappresentati mediante l’espressione più semplice e breve che la loro generalità consente. La scienza o l’arte di designare in tal modo i rapporti è l’algebra. […] generalizzando ancora le nostre idee perveniamo a quella parte principale delle matematiche e di tutte le scienze naturali. Che è detta scienza delle grandezze in generale; è questo il fondamento di tutte le scoperte che si possono fare circa la  quantità, ossia riguardo a tutto ciò che è suscettibile di aumento o diminuzione. [74]­­                    

   

La matematica costituisce « il limite estremo » della «contemplazione della materia », cioè dell’astrazione sul reale e «se tentassimo di procedere oltre, usciremmo totalmente dall’universo materiale.» D’Alembert pone un paletto chiaro: se l’oggetto d’indagine è il reale cosmico le matematiche costituiscono il confine estremo dell’astrazione. Oltre essa ci sono soltanto le fantasie metafisiche.

    La scienza non deve limitarsi a “fare scienza”, ma deve anche comunicarsi, diventare di dominio comune, perciò: «La scienza della comunicazione delle idee non consiste soltanto nell’ordinamento delle idee; insegna altresì a esprimere ciascuna idea nel modo più netto possibile e perfezionare i relativi segni; gli uomini hanno fatto questo per gradi.» [75]  Quello della cultura è un processo di accumulo che procede gradualmente per aggiunte e perfezionamenti come “ordinamento” del sapere. Ma per essere comunicabile deve assumere una “segnatura” adeguata, cioè il linguaggio adatto, e trasmettersi con i mezzi più efficaci e opportuni. Chi impara non deve doverlo fare a fatica e rischiare di essere dissuaso dall’ apprendimento di nuove cose, sì da «non arrestarsi a quelle già acquisite.» [76]  Il Nostro, dopo aver accennato alle connotazioni della grammatica e definito le nozioni della retorica «pedantesche puerilità», fornisce alcuni giudizi e precisazioni circa varie discipline come la cronologia, la geografia, la storia, la politica, le arti figurative, la poesia. Osserva poi:

 

Speculazione e pratica costituiscono il principale criterio distintivo tra le scienze e le arti; seguendo più o meno tale distinzione si è dato l’uno o l’altro nome ad ogni nostra conoscenza. Bisogna tuttavia riconoscere che non abbiamo ancora idee ben precise in merito. Spesso non sappiamo che nome dare alla maggior parte delle nostre conoscenze nelle quali la speculazione si salda alla pratica; si discute quotidianamente nelle scuole, ad esempio, se la logica sia un’arte o una scienza; il problema sarebbe bell’e risolto se si rispondesse che è l’una e l’altra cosa. [77]   

 

La volontà di ordinare, di classificare, di definire, di formalizzare le discipline spesso rischia esiti inadeguati o confusi; ciò è facilmente evitabile lasciando che una disciplina sia “quel che è”, senza creare contenitori nominalistici da riempire. Una stessa disciplina può essere speculativa e pratica nello stesso tempo in ragione dei suoi “momenti operativi”, sicché:

 

Si può definire in generale arte ogni sistema di conoscenze riducibile a regole positive, invariabili e indipendenti dal capriccio e dall’opinione. E si potrebbe dire in tal senso che molte delle nostre scienze, considerate dal punto di vista prativo, sono arti. […] Donde la distinzione delle arti in liberali e meccaniche, e la superiorità concessa alle prime rispetto alle seconde: concessione indubbiamente ingiusta sotto vari punti di vista. [78]    

 

Il problema della nominazione e della distinzione assume importanza per un’opera come un’enciclopedia, anzi per un «dizionario ragionato sulle scienze, le arti e i mestieri » che deve informare e acculturare. Per fare un esempio: in quale misura curare la salute è una scienza (studiare il corpo umano), in quale un arte (saper adottare il farmaco adatto), in quale un mestiere (saper tagliare i tessuti e ricucirli)? È questo il problema qui posto da D’Alembert e quindi la proposta (d’accordo con Diderot) di una riconsiderazione del concetto di mestiere come “arte meccanica” e della sua rivalutazione:

 

Il disprezzo per le arti meccaniche sembra aver colpito fino a un certo punto anche i rispettivi inventori. I nomi di questi benefattori del genere umano sono pressoché sconosciuti, mentre la storia dei suoi distruttori – vale a dire dei politici e dei conquistatori – non è ignota a nessuno. Eppure, forse, bisogna andare a cercare presso gli artigiani le più ammirevoli prove di sagacia, di pazienza, di ingegnosità. [79]    

 

Problema culturale assai importante, di cui era già perfettamente consapevole Galileo, il quale, dopo aver speculato e sperimentato nel suo studio, andava a vedere il lavoro degli artigiani per capire il modo in cui risolvevano i problemi pratici contingenti. Teoria e prassi ineriscono alla scienza, e la conoscenza scientifica dipende essenzialmente da due tipi di giudizio: l’evidenza e la certezza:  

 

L’evidenza appartiene propriamente alle idee delle quali lo spirito coglie immediatamente il nesso; la certezza a quelle la cui connessione può essere conosciuta soltanto grazie ad un certo numero di idee intermediarie; oppure, il che è lo stesso, grazie a proposizioni la cui identità con un principio in sé evidente può essere scoperta soltanto mediante un giro più o meno lungo; […] Si potrebbe dire inoltre – prendendo le parole evidenza e certezza in un altro senso – che la prima è il risultato delle sole operazioni dello spirito e riguarda i ragionamenti metafisici; la seconda invece designa più propriamente gli oggetti fisici, la cui conoscenza è frutto della testimonianza costante  e immutabile dei sensi. [80]  

 

L’ « altro senso » è quello della metafisica quando autoreferenzialmente recita il ”è evidente” se i meccanismi logici sono rispettati, ma ciò spesso non porta alcuna conoscenza della realtà fisica. Una realtà che implica la pluralità delle conoscenze per esaurirne l’indagine o quanto meno renderla adeguata. Ed allora: «il sistema delle conoscenze è infine composto da diverse branche, molte delle qual convergono verso un medesimo centro » [81] E la realizzazione di un ordine enciclopedico «consiste nel collocare il filosofo, per così dire, al di sopra di questo vasto labirinto, in un punto di osservazione assai elevato, donde egli possa abbracciare tutte insieme le principali arti e scienze ». Ma egli deve anche saper «distinguere le branche generali delle conoscenze umane, i punti che le separano o le uniscono, e talvolta persino intravvedere le vie segrete che le pongono in comunicazione tra loro.» [82] La filosofia non può mai essere metafisica, a questa essa è radicalmente alternativa nel suo rapporto con la scienza, le cui vie segrete, essa sola, può intravvedere con il tipo d’indagine che le è propria.

    Relativamente all’organizzazione dell’Encyclopédie, per quanto concernente una grande pluralità di discipline e temi, ci si è attenuti a criteri rigorosi e con ordine: «L’ordine enciclopedico non presuppone affatto che tutte le scienze siano direttamente connesse le une con le altre. Sono rami che partono da un medesimo ronco, l’intelletto umano. Questi rami spesso non hanno tra loro alcun legame immediato, e molti si riuniscono soltanto nel tronco.» [83] La metafora dell’albero della conoscenza riceve qui un’ulteriore lettura, che vede la mente umana come il tronco a cui si uniscono i rami delle conoscenze particolari memorizzate. Ma quest’intelletto può anche agire in senso mistificatorio:

 

Mentre avversari ignoranti o malevoli combattevano apertamente la filosofia, essa cercò rifugio, per così dire, nelle opere di alcuni grandi: i quali, senza nutrire la pericolosa ambizione di far cadere la benda dagli occhi dei loro contemporanei, preparavano da lungi, nell’ombra e in silenzio, la luce che a poco a poco, per gradi insensibili, avrebbe illuminato il mondo. [84]

 

I Lumi sono nati nel silenzio e nell’ombra, per costruire una sapere nuovo, ma senza la pretesa di sbendare d’un sol colpo l’ignoranza dei molti. Poiché le bende sono tenute ben strette dall’anti-filosofia, che opera alla luce del sole sugli scranni universitari e dai pulpiti. E: «A capo di questi illustri personaggi dobbiamo porre l’immortale cancelliere d’Inghilterra, Francesco Bacone.» [85] Ma l’Encyclopédie nasce anche per rendere il dovuto in obscuram memoriam delle migliaia di ignoti ricercatori o di umili artigiani i quali, attraverso il loro ancor più oscuro e silenzioso lavoro, hanno con le loro intuizioni e coi loro strumenti reso possibile l’inarrestabile crescita dell’albero della conoscenza nel Secolo dei Lumi.   

  

 

 

 

 

 

NOTE

 

 



[1] J.A.Comenio, La grande didattica, in: Opere, a cura di M.Fattori, Torino, UTET 1974, p.115.

[2] Ivi, p.178.

[3] Ivi, p.179.

[4] F.Blättner, Storia della pedagogia, Roma, Armando 1976, p.80.

[5] Ivi, p.97.

[6] Ivi, pp.97-98.

[7] I.Kant, Pedagogia, a cura di N.Abbagnano, Torino, Paravia 1945, p.6.

[8] Ivi, p.9.

[9] Ivi, p.10.

[10] Ivi, p.49.

[11] E.Pestalozzi, Il canto del cigno, in: Scritti scelti, a cura di E.Becchi, Torino, UTET 1970, p.732.

[12] F.Blättner, Storia della pedagogia, Roma, Armando 1976, p.160.

[13] Ivi, p.161.

[14] C.Talenti, Grande Dizionario Enciclopedico, vol.XV, Torino, UTET 1989. p.819.

[15] R.Fornaca, Storia della pedagogia, Firenze, La Nuova Italia 1996, p.150.

[16] C.Talenti, cit, p.820.

[17] E.Pestalozzi, Come Geltrude istruisce i suoi figli, a cura di A.Banfi, Firenze, La Nuova Italia 1974, p.77.

[18] Ivi, p.77.

[19] Vedi supra p.??? (181)

[20] E.Pestalozzi, Come Geltrude istruisce i suoi figli, cit., p.91.

[21] Ivi, p.163.

[22] F.Cambi, Storia della pedagogia, Roma-Bari, Laterza 1995, p.259.

[23] J.Locke, Pensieri sull’educazione, Firenze, La Nuova Italia 1963, p.3.

[24] Ivi, p.44.

[25] Ivi, p.60.

[26] Ivi, p.70.

[27] Ivi, p.71.

[28] Ibidem.

[29] Ivi, pp.102-103

[30] Ivi, p.118.

[31] Ivi, p.119.

[32] Ivi, p

[33] Ivi, pp.163-164.

[34] Ivi, p.164.

[35] ivi, p.165

[36] Ivi, p.165.

[37] Ivi, p.176.

[38] Ivi, pp.177-178.

[39] Ivi, p.236.

[40] Ivi, pp.237-238.

[41] Ivi, p.282.

[42] Robespierre odiava Condorcet sentendolo come il suo opposto caratteriale e come un competitore pericoloso. Riuscì a far cadere sistematicamente tutte le sue proposte spalleggiato dai suoi fedelissimi, riuscendo infine a spedirlo in carcere con l’accusa di tradimento.

[43] J.A.N. de Condorcet, Sull’istruzione pubblica, a cura di P.L.Previato, Treviso, Canova 1956, p.32.

[44] Ivi, pp.34-35.

[45] Condorcet, Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, a cura di M.Minetrbi, Torino, Einaudi 1969, p.175.

[46] Condorcet, Sull’istruzione pubblica, cit.p.175.

[47] R.Cartesio, Le passioni dell’anima, a cura di G.Cairola, Torino, UTET 1951, p.26..

[48] Ivi, p.32.

[49] Ivi, p.39.

[50] Ivi, p.59.

[51] ivi, p.60.

[52] Ibidem.

[53] Ivi, p.61.

[54] Ivi, p.65.

[55] B.Pascal, Pensieri, a cura di P.Serini, Torino, Einaudi 1962, p.58.

[56] Ibidem.

[57] Ivi, p.61.

[58] Ibidem.

[59] Ivi, p.63.

[60] Ivi, p.213.

[61] J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, in: Opere, a cura di P.Rossi, Firenze, Sansoni 1988, p.508

[62] Ibidem.

[63] Ibidem.

[64] Ivi, p.557.

[65] Ibidem.

[66] Ivi, p.558.

[67] Ibidem.

[68] U. Im Hof, cit.,p.169.

[69] D’Alembert-Diderot, La filosofia dell’Encyclopédie, a cura di P.Casini, bari, Laterza 1966, p.12.

[70] Ivi, p.13.

[71] Ivi, p.14.

[72] Ivi, p.44.

[73] Ivi, p.47.

[74] Ivi, p.57.

[75] Ivi, p.69.

[76] Ibidem.

[77] Ivi, p.77.

[78] Ibidem.

[79] Ivi, p.79.

[80] Ivi, p.81.

[81] Ivi, p.83.

[82] Ivi, p.84.

[83] Ivi, pp.89-90.

[84] Ivi, p.105.

[85] bidem.