4.1 La nuova pedagogia religiosa
Per
un’adeguata e sia pur limitata analisi della
pedagogia settecentesca occorre
portare indietro l’orologio di mezzo secolo
per comprendere quale sia il back
ground sul quale essa si innesta. Con tutti i limiti
delle generalizzazioni
noi possiamo individuare due filoni pedagogici
abbastanza definiti sin dal Cinquecento:
uno religioso e uno laicistico. Il primo
si rifà esclusivamente al messaggio
evangelico, il secondo attinge indifferentemente
alla cultura precedente se vi trova
elementi utili per una nuova pedagogia non-teologica
di cui tratteremo al § 4.2.
Tra un concetto ideologico-dogmatico dell’educazione
e uno
pluralistico-utilitaristico corre lo spartiacque
tra due differenti concezioni
della formazione dell’uomo: quella che auspica
la realizzazione del regno di
Dio e quella che intende migliorare la vita
reale. La prima trova nel prete
moravo Jan Amos Komenski (1592-1670), più
noto come Comenius o Comenio.
I suoi primi studi pongono gli elementi basilari
della Didactica Magna
(ma pubblicata assai più tardi), mentre la
prima opera ad apparire a stampa è
la Janua linguarym reserata (La porta aperta delle lingue), del
1631. È la prima testimonianza pubblica del
metodo comeniano, che intende
lasciarsi alle spalle l’astrattezza dell’insegnamento
“colto” per concentrare
l’attenzione sul soggetto discente, il bambino,
cogliendone limiti e
potenzialità reali. Nondimeno, da teologo,
Comenio non pensa ad una didattica
della contingenza, ma ad una didattica
istitutiva generale, che trova la propria
definizione come Pansofia e la
propria realizzazione come Panpedia, un modello didattico valido per ogni
disciplina..
Comenio
appartiene alla setta protestante dei Fratelli
Boemi, un’appartenenza che gli
riserverà non pochi guai da parte dei cattolici
e che troverà temporanea
soluzione nell’esilio di Leszno, in Polonia,
dal 1628 al 1656 (quando i
cattolici polacchi distruggeranno la città
costringendolo di nuovo all’esilio).
A Leszno (e sia pure con l’interruzione di
numerosi viaggi) egli riuscirà ad
attendere all’elaborazione del suo metodo
pedagogico e alla sua applicazione
pratica. Dopo il 1656 Comenio ripara in Slesia
insieme al suo gruppo, approdando infine ad Amsterdam dove chiuderà
la propria esistenza; ma nel frattempo Comenio
ha viaggiato in Svezia, Ungheria
e Inghilterra, approfondendo le sue esperienze
didattiche ed affinando il suo
metodo. Ciò che non deve sfuggire è che Comenio
è uno spirito religioso che
vede l’educazione come una realizzazione
della religiosità, ma ciò non gli
impedisce di intuire grandi novità didattiche
come il ricorso alle attività manuali
(specialmente agricole e artigianali) e la
facilitazione dell’apprendimento in
tutti i modi possibili, per esempio arricchendo
i libri di immagini, di cui è
ottimo esempio l’Orbis sensualium pictus, del 1658. L’assunto didattico
comeniano ha come obbiettivo tre poli: la
fede, la cultura e la virtù, ed è su
tale schema che viene strutturata la sua
opera maggiore, la Didactica Magna,
pubblicata nel 1657, che egli così presenta:
La Grande Didattica
mostra l’arte universale di insegnare tutto
a tutti, ossia il modo certo ed
eccellente per fondare ogni comunità, città
o villaggio, di qualsiasi regno
cristiano. Scuole tali che la gioventù dei
due sessi, nessuno escluso, sia
formata alle lettere, affinata nei costumi,
educata alla pietà e, in questo
modo, negli anni della prima giovinezza possa
essere istruita su tutto ciò che
è della vita presente e futura, sinteticamente,
piacevolmente, solidamente. [1]
Insegnare « tutto a tutti » in
modo confacente e, soprattutto, senza alcuna
distinzione di sesso. Considerazione
che a noi può sembrare superflua, ma all’epoca
di peso notevole, e tanto più se
la si confronta con la sessuofobia discriminatoria
di un’opera come l’Emilio,
il cui autore, Rousseau, passa persino per
un illuminista! Non solo, non vi
deve esser discriminazione tra i sessi e
neppure per questioni di censo: «Alle
scuole non devono essere affidati solo i
figli dei ricchi o delle persone
importanti; tutti devono essere alla pari,
nobili o plebei, ricchi o poveri,
femmine o maschi, in tutte le città, paesi,
villaggi e case.» [2]
Non è tutto, anche gli handicappati vanno
inclusi:
Né è di ostacolo che alcuni sembrino per
natura
ebeti o stupidi, questo mostra ancor più
l’urgenza e l’importanza di educare
l’animo di tutti. Quanto più uno ha una natura
tarda e infelice, tanto più ha bisogno di aiuto, per potersi liberare,
dalla sua animalesca stupidità e ottusità.
Né è possibile trovare un’intelligenza così infelice, che
non abbia alcun correttivo nell’educazione.
[3]
Il fatto di
includere l’handicappato a pari titolo con
gli altri nello stesso programma
didattico lascia intendere come non fosse
il profitto nell’apprendimento il
fine della pedagogia comeniana. È infatti
la formazione del bambino come frutto
dello sviluppo della sua struttura mentale,
sia caratteriale che intellettiva, il
fine posto. E ciò grazie all’applicazione
di un metodo universale attraverso il
quale ogni bambino trae il meglio da sé in
rapporto alle sue possibilità mentali.
Quella di Comenio è una didattica che non
solo ha per fine la realizzazione dell’uomo
pio, probo laborioso, ragionevole.
Dio stesso è il modello:
Dio, colui che ha concepito l’universo, mostra
la sua sapienza nell’uovo, nel quale si forma
un uccello, lentamente,
organicamente, gradualmente, conseguentemente,
in buon ordine e così via. […]
Questo esempio di Dio seguono e devono seguire:
i costruttori, i giardinieri e
gli ortolani, i pittori, gli speziali. Soltanto
se essi, come Dio nell’uovo,
procedono dai primi elementi lentamente,
organicamente, gradualmente, conseguentemente,
in buon ordine; soltanto se trasfondono la
ragione di Dio nella loro opera, se
rispettano ed utilizzano la natura propria
delle cose, delle piante e degli
animali, dei minerali e dei materiali, allora,
e solo allora, si produce una
casa, un orologio, una pianta sana, un quadro,
una pozione benefica. La
tecnica è impiego metodico della conoscenza, imitazione della sapienza di
Dio. [4]
Il modello è
sì la natura nelle sue funzioni, ma di una
natura che ha Dio “in sé” come
progettista e manovratore. Su questa base
Comenio pone il criterio del «tempo
adatto», ma anche il criterio dell’insegnamento
collettivo, poiché con Comenio
nasce la “classe”, in cui più alunni apprendono
insieme. Un apprendimento che
parte no non dalla lettura dei libri, ma
dall’osservazione diretta di «faggi e
querce », infatti: « La scienza è scienza
della natura perché in essa si coglie
la sapienza di Dio» Non entreremo in ulteriori
dettagli, ma basti tener
presente che la Didactica Magna si occupa di ogni minimo dettaglio organizzativo
e operativo, degli insegnanti, della suddivisione
delle classi, degli orari,
ecc. costituendosi come il primo modello
esaustivo di scuola collettiva in
senso moderno: metodica, organizzata e basata
su programmi ripetibili.
L’eredità di Comenio viene raccolta dalla
scuola pietista. Il pietismo è un grande
movimento religioso che nasce
all’interno del luteranesimo, ma che si costituisce
come corrente propria sin
dal Seicento. Essa accentua l’aspetto individualistico
della fede,
sviluppandosi via via e trovando sbocchi
culturali di grande importanza, come
nella musica di Johann Sebastian Bach e di
Georg Friederich Händel. In campo
pedagogico il pietismo trova in August Hermann
Francke (1663-1727) una figura
di grande rilievo; egli, in riferimento ai
testi sacri, ritiene che «Le
sentenze della Bibbia, rettamente intese
dal cuore e dall’intelletto, debbono
tradursi in atti di fede e di amore […] solo
l’azione concreta indica se
l’insegnamento è stato correttamente appreso.»
[5]
L’educazione è vista in modo austero: « niente
favolette, spettacoli e giochi
banali. Tutto ciò è “ozio”.». Si privilegia
l’attività lavorativa di carattere
ricreativo; così il bambino lavora pensando
di giocare ed insieme impara “a
fare”. Francke non solo è sospettoso nei
confronti dell’elemento ludico di per
se stesso, ma anche riguardo alla musica:
«tendente al godimento auditivo più
che ad onorare Dio.» [6]
Nel 1695 fonda la Deutsche Schule a Halle, un orfanotrofio aperto anche
a bambini poveri non orfani, dove si insegna
lettura, scrittura e calcolo,
insieme a molto catechismo. Ma in seguito
egli fonderà anche una scuola per i
figli della borghesia e nel 1696 il Paedagogium, una scuola superiore
per l’avviamento alla didattica. Poi, nel
1698, un collegio per fanciulle che
privilegia i lavori domestici e le attività
devozionali. Le scuole di Halle
trovarono quali continuatori un figlio e
un genero del fondatore, e il modello
franckiano si svilupperà in Germania sino
a diventare, in forma meno
confessionale e più aperta ad opera di un
nipote, la base del sistema educativo
prussiano.
Dobbiamo ora accennare a Jean-Jacques
Rousseau, poiché il suo Emilio è opera di grande peso nella pedagogia
del Settecento, con qualcosa di positivo
e molto di negativo. L’assunto
ideologico rousseauano, in base al quale
la civiltà e il progresso avrebbero
corrotto gli uomini sviandoli dalla “naturale via al bene” oltre
che inconsistente era anche assai pericoloso.
Per fortuna che la pedagogia del
ginevrino fu un fenomeno di moda che non
si tradusse in veri e propri sistemi
pedagogici, se non nel chiuso dei palazzi
di alcune nobildonne “fulminate” dal
fascinoso “arcaismo” di Rousseau. E tuttavia
la pedagogia rousseauana ha avuto
un certo merito nel porre nella natura la
culla dell’uomo, una natura-madre che
chiede solo di essere compresa e rispettata
per donarci tutto ciò di cui
abbiamo bisogno, mentre l’artificio umano
ha prodotto soltanto guasti. Le
scienze e la arti, in quanto non-natura,
vengono espunte in linea di massima dalla
pedagogica, le prime perché svianti sui fini
dell’uomo, le seconde perché
foriere di mollezze e vizi. E tuttavia Rousseau
stesso era un artista, un
musicista come abbiamo già visto, ma la musica
per lui è un frutto della natura
solo come canto, perché la voce umana è il
più nobile suono in natura, mentre gli
strumenti musicali sono frutti dell’artificio.
Venendo all’Emilio, di
cui daremo trattazione più approfondita
con dovizia di citazioni nel § 7.3, è il
caso di rilevare qui alcuni elementi
importanti del metodo pedagogico in esso
proposto. Il primo di questi,
strettamente connesso alla tesi della “corruzione”
dell’animo umano, è la
stigmatizzazione dell’abitudine,
un comportamento negativo che può diventare
una sorta di auto-educazione
del fanciullo. Per tale ragione egli deve
essere condotto al punto di esecrare
le abitudini negative e saper ricreare ogni
giorno se stesso al lume della
natura, in cui deve riconoscersi. Un orizzonte
panteistico che nel Settecento
si configura come una nuova forma di religiosità
neo-cristiana o post-cristiana.
L’Emilio è un romanzo didascalico,
che segue la crescita del protagonista dalla
prima infanzia allo stato adulto,
e che fissa “per fasi” i criteri pedagogici
che l’educatore deve applicare. Il
modello si basa anche su un rapporto simbiotico
tra educatore ed educando che
esclude ogni elemento di collettività e socializzazione,
e in qualche caso
perfino i genitori. Il topos pedagogico rousseauano è un laboratorio
chiuso, in cui un adulto e un minore si sintonizzano
sino al momento in cui il
minore, diventato a sua volta adulto, può
fare da solo. Ciò che è importante ai
fini educativi non è la “conoscenza oggettiva
e razionale ” ma il “rapporto
soggettivo e sentimentale” che l’individuo
stabilisce con le cose del mondo; da
ciò il rifiuto della scienza e l’esclusione
nel suo programma educativo delle
discipline scientifiche in quanto tali.
In un’epoca in cui uno scientismo pedante
e arrogante incomincia a farsi
strada inquinando l’autentica cultura scientifica
non vi è da stupirsi se l’Emilio
ha un enorme successo e le teorie di Rousseau
scatenano diffusi entusiasmi.
L’attribuzione a Rousseau del merito specifico
di aver “scoperto l’infanzia”,
come se prima di lui nessuno avesse prestato
attenzione al bambino come bambino,
è leggenda messa in giro dai filo-rousseauani
che si smentisce da sé quando si legga
appena i Pensieri sull’educazione di Locke, di cui ci occuperemo nel § 4.2.
Ma, come si sa, i miti, una
volta creati, sono duri a morire. L’individuazione
dei “bisogni reali” del
bambino contrapposti ai “bisogni artificiali”
indotti dalla civilizzazione è
una manichea separazione priva di fondamento
reale, ideologica e dogmatica,
come d’altra parte è dogmatico il tono. Quale
conclusione trarre? Rousseau è importante
per gli sviluppi della pedagogia moderna?
Forse, ma soltanto nella misura in
cui certe sue acute intuizioni sono state
sottratte al suo dogmatismo e
“tradotte” in sollecitazioni “aperte”, ragionevoli
e realizzabili.
Kant ha
messo per iscritto le sue idee pedagogiche
in tarda età, dando alle stampe un Pedagogia
soltanto nel 1804. Ma va rilevato che in
esso sono ripresi criteri già
presenti, sia pure erraticamente, nella sua
opera precedente, e per questa
ragione ne accenniamo qui. Partendo dal presupposto
che «L’uomo può diventare uomo solo
attraverso l’educazione. Egli è quello che
l’educazione lo fa.» [7]
egli aggiunge poco oltre: «perciò l’educazione
è il problema più grande e più
difficile che possa essere proposto agli
uomini. Ora, ciò che noi sappiamo dipende dall’educazione, ma
l’educazione a sua volta dipende da ciò che
noi
sappiamo.» [8] Per
quanto Kant nutra attenzione e stima per
Rousseau la sua impostazione pare
quasi opposta, poiché se per questo la formazione
del minore doveva essere un
“diventare per essere”, per Kant pare configurarsi
come un “imparare per
sapere” dove la cultura torna in primissimo
piano. Sappiamo però che è ancora
sempre la “morale” la scienza prima per l’uomo,
ed il sapere è un “saper decidere” per la
virtù. Il grande Immanuel pensa anche
che: «Il meccanismo dell’arte educativa deve
trasformarsi in scienza » [9];
un meccanismo-scienza assai lontano dall’empirismo
di Locke, che in pedagogia riteneva
impossibile elaborare un “sistema”. Ma il
sistema per Kant è già stato
delineato e definito nella Fondazione della metafisica dei costumi e nella Critica
della ragion pratica,
sicché il Pedagogia è solo una ripetizione “dedicata” alla scienza
educativa, che non aggiunge molto a ciò che
era già stato enunciato. Infatti:
«La prima preoccupazione dell’educazione
morale è di formare il carattere. Il
carattere consiste nell’abito di agire secondo
massime di scuola, in seguito le
massime dell’umanità.» [10]
Ancora sempre le massime, dunque; esse sono i punti fermi del
comportamento virtuoso e formule di cogenza
che debbono essere interiorizzate e
applicate.
Anche lo zurighese Johann Heinrich
Pestalozzi (1746-1827) ha già un piede nell’Ottocento,
ma la maggior parte dei
suoi primi lavori si collocano tra il 1780
e il 1799, mentre il suo capolavoro
pedagogico Come Geltrude istruisce i suoi figli, è pubblicato nel 1801.
Ma già nel saggio Le veglie di un solitario (1780) e nel romanzo Leonardo
e Geltrude (1781) sono poste le premesse sociologiche
e morali del pensiero
pestalozziano. Quale membro della borghesia
elvetica progressista Johann
Heinrich è anche uomo aperto alle nuove idee
dell’Illuminismo francese, e da
giovane idealista e sognatore di una nuova
umanità si entusiasma alle idee
rousseauane. Le tesi dell’Emilio hanno lasciato un’importante traccia
nella sua formazione giovanile, e il suo
primo figlio verrà allevato “alla
Rousseau”. Scrive nel 1826: «Non appena apparve
il suo Emilio il mo
spirito sognatore e tutt’altro che pratico
fu conquistato entusiasticamente da
questo libro sognatore e altrettanto puro
di spirito pratico.» [11]
Un”sogno”, dunque, visto a posteriori come
tanto affascinante quanto
inconsistente, e tuttavia un’esperienza culturale
che segnerà Pestalozzi e lo
indirizzerà verso una rielaborazione e razionalizzazione
dei principi
pedagogici del ginevrino. Ma prima dovrà
accadergli un fatto spiacevole: il
fallimento della sua scuola-fattoria di Neuhof.
Il progetto era ambizioso
quanto innovativo ed aveva come referente
prossimo Rousseau; riprendeva però anche
principi che erano stati di Comenio e metteva
in atto i suoi ideali
filantropici. Possessore di una terreno agricolo
presso Birr (Cantone di
Berna), d’accordo con la moglie Anna, decide
di costruire una fattoria modello
da destinare alla crescita, all’istruzione
e all’educazione dei contadini poveri
della zona. L’intellettuale Pestalozzi impara
così le tecniche agricole ed a
partire dal 1774 imposta uno straordinario
modello pedagogico in quel luogo
ideale che battezzerà Neuhof. Ma le cose
non vanno ben e si ritrova presto in gravi difficoltà finanziarie;
nel 1779 la fattoria–scuola deve chiudere;
egli raccoglie le sue idee, diventa
scrittore e incomincia a pubblicare libri.
Il fallimento di Neuhof si faceva sentire,
ma Pestalozzi era uomo ormai noto e apprezzato
per i suoi intenti filantropici
e per la sua cultura pedagogica, sicché,
nel 1804, viene chiamato dal governo
di Losanna ad organizzare, nel castello di
Yverdon, una scuola modello.
L’istituto diventa notissimo e visitato da
pedagoghi (come Fröbel) e da
letterati (come Madame de Staël) interessati
a studiare e a capire il metodo
pestalozziano. Ma anche qui, al colmo del
successo e della fama, già nel 1810
una commissione ispettiva giudica negativamente
l’istituto, che dopo alterne
vicende viene chiuso nel 1825. Il Nostro
si ritira a Neuhof e attende alla
stesura de Il canto del cigno, nel quale tira le somme delle sue
complesse e travagliate esperienze educative.
Tra La veglia di un solitario
e quest’ultimo lavoro si collocano, oltre
al già citato Leonardo e Geltrude,
Legislazione e infanticidio del 1783, Sì o no? del 1793, Sanculottismo
e Cristianesimo del 1793, Le mie indagini sul corso della natura nello
sviluppo del genere umano del 1797, Il linguaggio come fondamento della
cultura del 1799, Come Geltrude istruisce i suoi figli, che è del
1801, e Il libro delle madri del 1803. In questo corpus di opere,
perlopiù teoriche, ha un ruolo a parte Leonardo e Geltrude, poiché con
esso Pestalozzi delinea i termini sociologico-morali
in cui si muove. Nel
romanzo, rileva Carlo Talenti (autore di
un’esemplare voce “Pestalozzi” nel Grande
Dizionario Enciclopedico UTET del 1989), confluiscono tre modelli
sociali:
il patriarcalismo urbano tipico del
cantone di Zurigo, la forma feudale paternalistica
del cantone di Berna e il
modello burocratico centralizzato absburgico.
Modelli noti ed esperiti da
Pestalozzi fusi in una sintesi virtuale che
fa da sfondo e cornice d’insieme
agli sviluppi del suo sistema didattico.
Secondo Fritz Blättner protagonisti
non sono i personaggi, bensì il villaggio
di Bonnal: «dove si incontrano e
vivono uomini reali, che operano in tre ambienti:
famiglia, mestiere e stato
sociale » e, in contrapposizione a personaggi
colti positivi e negativi emergono
contadini indigenti e vilipesi, che però
riescono ad acculturarsi, ad organizzarsi
ed a trovare uno sbocco alla loro situazione
attraverso un’auto-promozione
evolutiva. Più critica, invece, la condizione
degli operai, soggetti alle
mutazioni dell’economia ed in balìa dell’imprenditore,
a testimonianza della
scarsa fiducia del Nostro (in ciò rousseauano)
nell’industrializzazione e nei
progressi tecnologici.
In La veglia di un solitario
Pestalozzi pone tre sfere esistenziali “esterne”:
la famiglia, la professione e
lo Stato. Queste tre sfere si connettono
e si compenetrano, ma devono
rapportarsi e integrarsi con la sfera interiore
(l’inneres), la quale,
espandendosi verso esse, si realizza. Infatti:
«Il sentimento interiore del tuo
essere e delle tue forze è la prima manifestazione
formatrice della natura. Ma
tu non vivi solo per te sulla terra: la natura
ti forma e ti educa anche in
vista dei rapporti esterni.» [12]
L’estroversione dell’interiorità nell’esteriorità,
quale dinamica naturale, di
per se stessa non è comunque in grado di
assicurare le due finalità primarie
dell’esistenza umana: il conseguimento della
saggezza e quello della pace
interiore, ed è in relazione a questa insufficienza
che deve entrare in scena
l’azione pedagogica. Ma qualsiasi evoluzione
dell’uomo non può fare a meno
della fede: « Dio, tuo padre, in questa fede tu trovi la pace, la forza
e la saggezza, che né violenza né morte possono
scuotere in te » poiché «La
fede in Dio è la fonte di ogni puro sentimento
paterno e fraterno dell’umanità,
la fonte di ogni giustizia.» [13]
In Le mie indagini sul corso della natura nello
sviluppo del genere umano, secondo una schematizzazione
triadica cara al Nostro, vengono individuati
tre stadi: quello naturale,
quello sociale e quello morale. Qui fa capolino Kant, il quale, a
differenza di Rousseau, tiene sempre ben
distinti natura e moralità, ed infatti
Pestalozzi ci precisa che l’evoluzione implica
l’abbandono della passività
istintuale verso l’attivismo morale, sicché
solo nel terzo stadio ègli è «opera
di se stesso »
Con il successivo Il linguaggio come
fondamento della cultura il ”metodo” pestalozziano incomincia a definirsi
in maniera chiara. Carlo Talenti così lo
sintetizza: «Tutto il processo di apprendimento
venne organizzato intorno a tre
centri fondamentali di interesse: la forma,
il linguaggio e il numero (Form,
Sprache e Zahl), che costituiscono tre punti di innesco
e di
sviluppo di tutta l’esperienza del bambino.
L’intuizione della forma parte
dalle impressioni dei cinque sensi, che famigliarizzano
il fanciullo con le
differenze degli oggetti; l’intuizione del
linguaggio nasce dall’esigenza di
definire gli oggetti e di rendere chiara
la loro rappresentazione mentale;
l’intuizione del numero nasce dall’esperienza
della molteplicità degli oggetti
e dalle variazioni di questa molteplicità
in più e in meno.» [14]
Tre sono gli strumenti dell’uomo attraverso
i quali egli si realizza: la mano,
la testa e il cuore; ed essi si estrinsecano
in tre facoltà: il potere,
il sapere e il volere. Indubitabile l’influenza kantiana in
questa triade, che vede il volere (morale) come la più alta espressione
umana, nel conseguimento della quale però
Pestalozzi sostituisce la ragione
con l’intuizione; uno spostamento concettuale piuttosto importante
che
ci riporta verso Rousseau e il suo
arcaismo naturistico.
Relativamente all’atteggiamento nei
confronti dei sommovimenti sociali in Francia,
già espresso in Sanculottismo
e Cristianesimo del 1793, così si esprime Pestalozzi in
una lettera di
circa un decennio dopo: « Io ho sempre ritenuto
l’intera Rivoluzione, fin dalle
sue origini, come una semplice conseguenza
della corrotta natura umana e ho
considerato la sua rovina come una necessità
inevitabile per ricondurre gli
uomini inselvatichiti alla
consapevolezza dei loro problemi più essenziali.»
[15]
Risulta qui una forma mentis che può apparire reazionaria; essa va però
inquadrata
nella mentalità protestante, che della Rivoluzione
coglie perlopiù la violenza
e non le istanze democratiche che ne avevano
animato la genesi. Pestalozzi non
è u reazionario perché concepisce l’elemento
religioso in maniera aperta e vede
nel rispetto dell’individuo un fondamentale
criterio di civiltà, che implica il
diritto ad un adeguata istruzione. La questione
è che l’illuminismo in ambito
tedesco si esprime in forme specifiche e
piuttosto differenti da quello
francese. In generale si può affermare che
nel mondo protestante l’Illuminismo
intende il “miglioramento” in senso meno
laicistico e sempre anche religioso.
Non solo, il mondo religioso protestante
(anglicano, luterano, calvinista,
ecc.) finisce per rivelarsi assai più solido
e meno vulnerabile di quello
cattolico. La ragione sta nel fatto che esso
è nel Settecento socialmente e
culturalmente più evoluto, permettendogli
di rimanere abbastanza estraneo ai
turbamenti che determineranno la ventata
laicistica e anti-cristiana della
Rivoluzione Francese. E tuttavia Pestalozzi
è ritardatario nell’idea di un
assetto statico della società, priva di alcuna
dinamica sociale. Il contadino,
che è l’oggetto di studio del Nostro, deve
rimanere contadino, sia perché ha il
vantaggio di mantenere un rapporto diretto
con la natura e sia perché la
produzione di derrate agricole viene considerata
l’attività principale
dell’uomo e socialmente più utile.
Ma il Pestalozzi maturo si sgancia anche
da
Rousseau, non vedendo più la natura come
una “gran madre divina” da cui trarre
tutto. Egli è ora convinto che la natura
«dà soltanto inclinazioni », e non
tutte positive, da ciò la necessità di un’adeguata
educazione che porti a una
formazione dell’uomo basata sulla fede, sul
senso morale, su un etica del
lavoro e dell’operosità, sul filantropismo
e sul senso dello stato. L’elemento
cosmico maternale passa dalla natura alla
donna, si antromorfizza, ed il
rapporto madre-figlio diviene l’asse portante
del fatto educativo, il quale, lo
ripetiamo, non è fondato sulla ragione ma
sull’intuizione. Il primo rapporto
con l’esistenza il bambino lo coglie nel
piacere della suzione al seno materno,
ed questo piacere elementare è il criterio
di vita primario rispondente alla
natura; ma anche da adulto l’uomo mostra
una sua costante tendenza a permanere
allo stato naturale e quindi relativamente
bruto. Ciò fa dell’uomo “un essere
manchevole”, che dalla condizione animalesca
deve raggiungere la condizione
morale attraverso un’educazione che deve
fare riferimento ad un “metodo”
adeguato per organizzarla ed attuarla. La
madre pilota l’evoluzione del bambino
verso l’uscita dal calore materno e dal focolare
domestico, verso il mondo, ma
per affrontarlo adeguatamente coi suoi pericoli
e le sue difficoltà il bambino,
che ha verso la madre amore e riconoscenza,
deve imparare ad essere anche
paziente e obbediente. Seguiamo ancora la
sintesi di Talenti: «Amore e
riconoscenza, pazienza e obbedienza preparano
la coscienza di ciò che è giusto
e quindi il senso del dovere e del diritto.
Quando il bambino si affaccia al di
là del mondo della madre nel vasto mondo
della natura e degli uomini, i suoi sentimenti di fiducia
e di giustizia non possono avere appagamento
che nella fede in Dio, autore
della natura e padre degli uomini.» [16]
Chiudiamo con pochi cenni a Come
Geltrude istruisce i suoi figli, che è in forma epistolare ed espone per
argomenti il metodo pestalozziano maturo. Il Nostro vede,
metaforicamente, l’ingiustizia sociale a
causa di un sistema educativo
“bloccato”:
Ora che lo conoscevo, il nostro sistema di
istruzione mi appariva una gran casa, il
cui piano superiore è ornato con arte
perfetta e squisita, ma è abitato solo da
pochi uomini. Al piano di mezzo
alberga un numero già maggiore di persone,
ma esso manca di scale con cui queste possano, come si usa tra gli uomini,
salire a quello superiore, e se qualcuno
di loro mostra il desiderio di
arrampicarvisi in qualche modo, gli viene
tagliato un braccio o una gamba
perché non vi riesca. Al pianterreno dimora
un gregge innumerevole di uomini
che hanno lo stesso diritto alla luce del
sole e all’aria pura, pure non sono
solo abbandonati a se stessi nell’oscurità
ributtante di stanze prive di ogni
finestra, ma se qualcuno osa solo sollevare
la testa o volger lo sguardo verso
lo splendore dei piani superiori, gli vengono
senz’altro strappati gli occhi. [17]
Metafora dai
toni cruenti e piena di indignazione compressa.
Essa cela l’appassionata
perorazione per la soluzione di un problema
che Pestalozzi sente come
bruciante, ma la cui soluzione gli appare
lontana. Qui appare anche l’elemento
sociologico-morale che anima la sua pedagogia,
che nella maturità sempre più
rivela reminiscenze kantiane, come in questa
frase: «l’uomo non diventa uomo se
non per mezzo dell’educazione » [18]
che ripete pari pari una frase della Pedagogia [19]. Torna, riformulato, un concetto metodico già espresso in opere
precedenti:
L’arte didattica deve dunque fissare come
legge
immutabile dell’insegnamento quella di partire
da questo triplice
fondamento nel modo seguente: 1)
insegnare ai fanciulli a considerare ogni
oggetto di cui abbiamo coscienza come
unità, cioè ogni distinto da quelli con cui
sembra unito; 2) Insegnar loro a
riconoscere le forme di ciascun oggetto,
cioè le sue misure e le sue
proporzioni; 3) Render loro il più presto
possibile famigliare l’insieme delle
parole e di nomi degli oggetti da loro riconosciuti. [20]
Un’indicazione
che potremo leggere anche come: 1) analitica
della pluralità del reale; 2)
connotazione qualitativa-quantitativa del
reale; 3) verbalizzazione della
conoscenza. La gnoseologia pestalozziana
non è fine a se stessa: conoscere il
mondo significa eminentemente rapportarsi
ad esso in modo quanto più possibile
sintonico e virtuoso, ma non naturistico.
L’uomo è natura, e tuttavia è distinto da
essa; deve diventarne tutore
virtuoso, ma non deve lasciare alla natura
la funzione di educatrice:
Se tu abbandoni alla natura la terra, essa
produce zizzania e cardi; se tu abbandoni
alla natura l’educazione, essa ci conduce
a una caotica confusione d’intuizioni che
manca, sia per il suo intelletto,
come per quello dei tuoi figli, di quell’ordine
che si richiede al primo
insegnamento. [21]
I fanciulli
debbono vivere all’aria aperta, essere a
contatto con la natura, “stare” nella
natura, ma non “diventare” natura, bensì
uomini.
4.2
Per un’educazione laica e democratica
Passando
ora all’indirizzo laicistico ne troviamo
compiuta espressione nella pedagogia
illuministica di Locke. Ma bisogna precisare
che egli è ancora uomo del
Seicento e, per quanto credente, non particolarmente
animato da pulsioni
populistiche e solidaristiche. Il soggetto
a cui egli dedicale sue ricerche
pedagogiche è infatti il gentlemen
della classe medio borghese. Ma, a parte
questo, egli lascia in eredità al
Settecento la più avanzata pedagogia laica
e razionalistica possibile per
l’epoca. Sono stati individuati quattro punti
principali della pedagogia
lockiana [22],
che sono: 1. Il principio latino della mens
sana in corpore sano; 2. Un rapporto colloquiale col bambino;
3. la
prevalenza dell’educazione pratico-morale
(rispetto ad un mero apprendimento
nozionistico) in senso utilitaristico; 4.
la centralità educativa
dell’”esperienza”, da attuarsi attraverso
il gioco e attraverso le attività
manuali. I Pensieri sull’educazione sono del 1693 e compiuta espressione
delle teorie pedagogiche di un Locke sessantunenne.
L’opera inizia con una
certo spazio dedicato a questioni salutistiche,
e d’altra parte essa apre col
notissimo adagio mens sana in corpore sano tratta da Giovenale. Ma
vediamo prima la Lettera di J.Locke a sir Eduard Clarke di
Chipley,
dedicatario dell’opera, poiché in essa troviamo
in sintetizzato il tema di
fondo:
L’educar bene i propri
figli è tale dovere e tale preoccupazione
per i genitori, e il benessere e la
prosperità della Nazione ne dipendono talmente,
che io vorrei che tutti
prendessero la cosa seriamente a cuore; e
che, dopo aver bene esaminato e
distinto ciò che la fantasia, l’usanza o
la ragione consigliano in proposito,
portassero il proprio contributo per diffondere
dappertutto il metodo di
educazione che, tenuto conto delle diverse
condizioni, appaia il più facile, il
più rapido e il più adatto a formare uomini
virtuosi utili e capaci di ben
disimpegnare quei compiti a cui si dedicheranno.
[23]
Se si confronta il finale di questo passo
e lo si
confronta con la supponenza e la saccenza
di molti trattati pedagogici si
coglie la statura intellettuale e morale
di un uomo che ha fatto della ragione
la sua guida e che individua nella facilità,
nella rapidità e nella confacenza
a una condizione data i criteri di riferimento
a cui attenersi. La questione salutistica, che deve
accompagnare l’evoluzione intellettuale del
bambino, viene così conclusa:
«poche regole facili da seguirsi: abbondanza
d’aria aperta, di moto e di sonno;
dieta semplice […] » [24]
Sulle pene corporali, assai utilizzate all’epoca
come mezzo educativo, il Nostro dice:
Le percosse, e tutti
gli altri generi di punizioni servili e corporali,
non sono disciplina che si
confaccia all’educazione di coloro che vogliamo
riescano uomini saggi, buoni e
sinceri; perciò si deve ricorrere ad esse
rarissimamente e soltanto nelle gravi
occasioni o nei casi estremi. D’altra parte,
bisogna evitare con altrettanta
cura di lusingare i bambini, dando loro per
ricompensa quelle cose di cui sono
desiderosi. [25]
La severità non si deve esprimere in maniera
violenta, ma con la costante attenzione e
un appropriato equilibrio tra premi e
punizioni, laddove i primi non debbono esse
quelli che istintivamente il
bambino vorrebbe. ma Locke precisa: «Non
dico con questo che si debbano privare i
bambini di quelle comodità o di quei
piaceri della vita che non sono nocivi alla
salute e alla virtù; al contrario
vorrei che la loro vita fosse resa quanto
più possibile piacevole e lieta.»
Piacevolezza, giocosità e allegria non contrastano
con la severità masi
coniugano con un’educazione basata sulla
razionalità e sull’opportunità.
Per quanto riguarda le regole didattiche
Locke raccomanda di non «sovraccaricare
in ogni contingenza la memoria dei bambini
con regole e precetti » [26],
astenendosi per quanto possibile dal mero
«comando». Da cui l’ammonimento:
«date dunque a vostro figlio meno regole
che sia possibile, e piuttosto meno
che più anche di quelle che vi sembrano assolutamente
necessarie.» [27]
Il bambino va educato con lavoro pedagogico
costante e puntuale che punti alla
naturale assunzione della regola senza che
si presenti come impositiva e quasi
inconsapevolmente: «Ciò che stimate necessario
sia fatto da lui;
inculcateglielo mediante l’esercizio, ogni
volta che se ne presenti l’occasione
» [28] Ma un punto molto importante della pedagogia
lockiana, e molto in anticipo sulla mentalità
dell’epoca, è quello di uscire da
quella rozza mentalità che vede i bambini
come delle bestioline “incapaci di
capire”:
Sorprenderà, forse, che io parli del ragionare
con i bambini; eppure io non posso far a
meno di credere che questo è il vero
modo di trattarli. I bambini sanno ragionare
da quando cominciano a parlare, e,
se non ho osservato male, amano di essere
trattati come creature ragionevoli,
assai prima di quanto ci si immagini. È questa
un’ambizione che va coltivata in
loro, facendone, per quanto possibile, lo
strumento più valido della loro
educazione. [29]
Il bambino
“ragiona” da subito, ma ciò che gli manca
totalmente è l’esperienza, e siccome
non si può pretendere che egli faccia esperienza
sulla propria pelle più del
dovuto è molto importante che l’educatore
«conosca bene il mondo» e sia in
grado di trasmettere all’educando, appena
possibile, alcuni elementi
fondamentali su di esso e sulle tipologie
dei suoi componenti e a cercare di
«indovinare le intenzioni delle persone »
[30]
Ciò allo scopo di evitare che allorché nel
mondo “vi entrano” «trovandolo
differente da quanto era stato loro insegnato
ed essi avevano immaginato che
fosse, si lasciano facilmente persuadere
da certi altri maestri, nei quali
sicuramente si imbatteranno […] » [31]
I genitori, e chi per loro, debbono impartire
nozioni indispensabili, e
determinare una forma mentis di sufficiente solidità da non andare
soggetta ad influssi incontrollabili da parte
di “maestri occasionali” che
potrebbero produrre effetti devastanti sul
minore:
Perciò ritengo che sia cosa della massima
importanza instillare tale conoscenza [del
mondo] nel giovane ad ogni occasione
che si presenti; affinché quando sarà lanciato
in pieno mare, non vi si trovi
come un navigante senza riga, senza bussola
e carte marine; ma abbia in precedenza qualche conoscenza degli scogli
e
delle secche, delle correnti o delle sabbie
mobili, e sappia governare, per non
affondare prima d’aver fatta esperienza.
[32]
Il “filosofo
dell’esperienza” quando si tratta di pedagogia
vede quale rischio essa implichi
nel vivere reale dell’”inesperto”, da ciò
l’indispensabilità di una
pre-esperienza virtuale attraverso l’educazione.
Un altro elemento fondamentale di un buona
educazione è per Locke l’utilizzo della curiosità
infantile come motore
pedagogico:
Per conseguenza deve essere incoraggiata,
non
soltanto come un buon segno, ma come il grande
strumento fornito dalla Natura
per rimuovere l’ignoranza in cui sono nati,
la quale senza quest’instancabile
bramosia di sapere, farebbe di loro delle
creature ottuse ed inutili. [33]
Troviamo qui
la negazione dell’innatismo esposta nel Saggio sull’intelligenza umana e
la sua sostituzione radicale con l’apprendimento
attraverso i mezzi di cui la
Natura ci dota, e quindi per nulla attraverso
il richiamo dei “segni divini”
nell’anima, come vorrebbe la pedagogia platonica.
Da ciò alcune indicazioni:
Non frenate né disapprovate alcuna domanda
che
il bambino possa fare, né tollerate che altri
ne rida, rispondete invece a
tutte le sue domande e spiegategli quanto
desidera conoscere […] Osservate
a che cosa egli miri con la sua domanda
e non badate a quali parole utilizzi per
formularla; e quando lo avrete
illuminato e soddisfatto, vedrete allargarsi
il campo dei suoi pensieri […] il
loro desiderio di apprendere va incoraggiato
e lodato. Ed io non dubito punto
che la ragione per cui molti bambini si
abbandonano interamente ai loro giochi puerili,
e buttano via tutto il loro
tempo, dipenda dal fatto che vedono male
accolta la loro curiosità e trascurate
le loro domande. [34]
Ma nel soddisfare
la loro curiosità è indispensabile l’impegno
e la correttezza e perciò «si deve
aver gran cura di non dar mai risposte ingannevoli
ed elusive » [35]
, anche perché:
Essi si accorgono facilmente se vengono
trascurati o ingannati, e presto imparano
il malvezzo della negligenza, della
dissimulazione e della falsità, di cui hanno
veduto gli altri avvalersi. In
nessun discorso noi dobbiamo alterare la
verità, e meno che mai con i bambini;
giacché se li inganniamo non soltanto ne
deludiamo l’aspettativa e ne impediamo
l’istruzione, ma corrompiamo la loro innocenza
ed insegniamo loro il peggiore
dei vizi. [36]
Locke vede
chiaramente come « corrompiamo la loro innocenza
» quando diciamo loro che i
bambini “nascono sotto i cavoli” e altri
simili sciocchezze sul sesso e la
procreazione.
Locke consiglia molta attenzione al “tipo”
di giocattoli messi nelle mani dei bambini
ed è contrario in linea di massima
ai giocattoli “comprati”. Ne nasce una domanda
e una risposta:
Come potranno dunque avere quei giocattoli
che
permettete loro, se non se ne compera nessuno?
Risponderò che i bambini devono
fabbricarseli da sé, o almeno cercare di
farlo o provarcisi. Fino allora
non debbono possederne nessuno, e così
non avranno bisogno di averne di quelli molto
complicati. Un ciottolo levigato,
un pezzo di carta, il mazzo di chiavi della
mamma, o qualsiasi altra cosa che
non faccia loro male, serve a divertire i
piccini quanto i giocattoli più
costosi e strani […] Naturalmente si potranno
comperare quei giocattoli che la
loro abilità non arriva a fabbricare, come
trottole, frullini, racchette e
simili […] [37]
Il gioco è
visto da Locke come un’attività molto importante
e da tenere rigorosamente
sotto controllo, poiché: «Ogni cosa che i
bambini fanno in quella tenera età
lascia loro qualche impressione, e da essa
ricevono una tendenza al bene o al
male; ed ogni cosa che abbia un’influenza
di questo genere non dovrebbe essere
trascurata.» [38] Un
ammonimento semplice, ma carico di implicazioni
pedagogiche importanti.
Relativamente all’istruzione (proposizioni
da 147 a 195), Locke è contrario all’apprendimento
mnemonico:
175. C’è un’altra cosa, assai comune nel
metodo
ordinario seguito dalle scuole di grammatica,
della quale io non vedo utilità
alcuna […] Ciò che intendo dire, e di cui
mi lamento, è l’obbligarli ad
imparare a memoria lunghi brani degli autori
di cui loro si parla […] e quando
se n’è imbottita la testa di un uomo, gli
si è giusti dato quanto occorre ad un
pedante o quanto basta per diventare pedanti.
[39]
Ma non ne
esclude l’uso: «Con questo non voglio dire
che non si debba esercitare la
memoria dei bambini. Penso invece che essa
debba venir allenata, ma non facendo
loro imparare, a furia di ripeterle, intere
pagine di libri che sono poi di
nuovo destinate all’oblìo » [40] Anche su questo argomento Locke mostra il
criterio di fondo che lo guida, che potremmo
chiamare sia ragionevolezza
o buon senso, e che sono uno degli elementi fondamentali
del miglior
pensiero illuministico, tanto lontano dall’irrazionalità
quanto dal
quell’ottusa velleitaria e dogmatica “razionalità
irragionevole” del
razionalismo metafisico. In questo senso
la Conclusione del saggio è esemplare, poiché
Locke si guarda ben dal porre le
sue riflessioni sulla pedagogia come un “trattato”,
consapevole
dell’impossibilità di “fissare” regole, poiché
occorrerebbe uno studio esteso e
profondo, tale da considerare «mille altre
cose» e specialmente «i vari
temperamenti, le diverse inclinazioni, i
difetti particolari che si possono
scoprire nei bambini, e si dovessero prescrivere
i rimedi appropriati. […]
L’animo di ogni uomo, proprio come il suo
volto, ha qualcosa di particolare che
lo distingue da tutti gli altri, e non si
trovano forse due bambini che possano
essere allevati con lo stesso preciso sistema.»
[41]
Chiudiamo questo breve excursus con
Condorcet (1743-1794), uno degli ultimi philosophes, eccellente
matematico, filosofo ed economista; un intellettuale
prestato alla politica che
dell’istruzione popolare aveva fatto uno
dei suoi principali obbiettivi morali.
Sostenitore delle non-violenza, ed anche
per questo ostile a Robespierre, morirà in carcere come
traditore della Repubblica nei sanguinosi
giorni del governo totalitario
dell’Incorruttibile [42].
Un progresso che deve esser sociale e culturale
nello stesso tempo e che deve
trovare nell’istruzione pubblica il proprio
fondamento, poiché conoscenza scientifica e cultura umanistica
sono fatti sociali. Si batte dal 1789 per
la realizzazione di un sistema
scolastico aperto a tutti, a carico dello
stato, basato su tre principi
irrinunciabili: obbligatorietà, gratuità,
laicità. In qualità di membro del Comité
d’instruction publique presenta all’Assemblea Generale il Rapport et
projet de décret sur l’organisation générale
de l’instruction publique di
cui riportiamo un importante un paio di passaggi.
Il primo:
Offrire a tutti gli individui della specie
umana
i mezzi per provvedere ai propri bisogni,
per assicurarsi il benessere, per
conoscere ed esercitare i propri diritti,
intendere ed adempiere i propri doveri;
assicurare a ciascuno l’opportunità di
perfezionare la propria abilità, di divenire
capace di esercitare le funzioni
alle quali ha diritto di essere chiamato,
di sviluppare nel più ampio modo le
doti che ha ricevuto dalla natura; e in tal
modo stabilire tra i cittadini
un’uguaglianza di fatto e rendere reale l’uguaglianza
politica riconosciuta
dalla legge. [43]
Anche queste
parole di Condorcet sono “la Rivoluzione”,
ma è chiaro che “dal di fuori” fosse
difficile comprenderne tutti gli aspetti.
Se così fosse stato, Pestalozzi non
avrebbe potuto scrivere la frase vista sopra:
« Io ho sempre ritenuto l’intera
Rivoluzione, fin dalle sue origini, come
una semplice conseguenza della
corrotta natura umana. » Ed ora un secondo
passaggio:
Noi abbiamo osservato, infine, che l’istruzione
non deve abbandonare i giovani nel momento
in cui escono dalla scuola; che essa
deve abbracciare tutte le età, giacché non
ce n’è alcuna in cui non sia utile e
possibile apprendere, e che questa seconda
istruzione è tanto più necessaria in
quanto quella dell’infanzia è stata contenuta
in limiti assai ristretti. […]
Essa deve, nei suoi diversi gradi, abbracciare
l’intero sistema delle
conoscenze umane […] Nessun potere pubblico
deve aver l’autorità di impedire lo
sviluppo di verità nuove o l’insegnamento
di teorie contrarie alla sua
particolare politica o ai suoi interessi
contingenti. [44]
Un’educazione
permanente, dunque, e la “conoscenza” sopra
ogni altra cosa. Si coglie qui lo
iato tra quest’etica della conoscenza ed i concetti pedagogici,
prevalentemente su base religiosa e morale,
che animavano i personaggi da noi
precedentemente considerati. Il laicismo
estremo di Condorcet era così
“rivoluzionario” che non poteva trovar posto
neppure nella temperie
rivoluzionaria. E su tutto il principio di
uguaglianza (che per un marchese non
è cosa da poco) :
Se l’istruzione è più uguale, nasce una maggiore
uguaglianza nell’operosità e quindi nelle
fortune, e l’eguaglianza delle
fortune contribuisce necessariamente a quella
dell’istruzione, mentre tanto
l’eguaglianza tra i popoli, quanto quella
che si stabilisce per ciascuno, hanno
anch’esse un influsso scambievole l’una sull’altra.
[45]
Sono parole de l’Esquisse d’un tableu historique des
progrés de l’esprit humain, pubblicato dopo la sua morte. Parole di un uomo per il quale l’eguaglianza tra gli uomini
si
pone come un “senza se e senza ma”, come
si evince in saggi come le Réfléxions
sur l’esclavage des négres (1781) o L’education des femmes, nel
quale è detto: «Le donne hanno gli stessi
diritti degli uomini, pertanto le
stesse opportunità per acquisire realmente
questi diritti con la medesima
indipendenza e con uguale estensione.» [46]
4.3 La stagione della ragione e
del sentimento
Due
concetti così apparentemente sconnessi, e
molto spesso considerati oppositivi,
come la ragione e il sentimento, trovano
nel Settecento un’originale e comune
culla di sviluppo e di nuova interpretazione.
Essi costituiscono i poli di
un’aspirazione diffusa nel secolo sia a livello
intellettuale che esistenziale.
Agire in maniera razionale e nel contempo
condurre la propria vita coltivando i
sentimenti è obiettivo conseguibile? Nel
Settecento molti pensano di sì.
Fenomeno tipico della temperie illuministica
questa comunione di opposti (si
pensi a certi atteggiamenti ottimisti/pessimisti
o utopico/scettici) vede la
messa in mora di molti schemi mentali della
cultura precedente di origine
perlopiù idealistica. Tali schematizzazioni
opponevano una virtù,
razionalmente fondata, a una passione irrazionale (diremmo forse noi
moderni una “pulsione” interiore e istintuale).
Quella nobile, questa
deprecabile e volgare. Per quanto nella cultura
greca neppure esistesse una
parola che traducesse il termine moderno
di sentimento, lo si può
ritenere assimilabile a quello di pathos
(πάθος) in una gradazione meno
impetuosa-superficiale e più gentile-profonda.
Peraltro, neppure nella lingua
latina troviamo un termine soddisfacente,
poiché passio significa
patimento/tortura/martirio ed il nostro “passione”
può essere tradotto sia con affectio
(effetto interiore di una causa esterna)
e sia con cupiditas, mentre il termine affectus
ha sia un significato corrispondente a quello
di affectio, sia quello di
stato fisico negativo (indisposizione, malattia)
e sia quello di passione
amorosa. Si può pertanto concludere che la
parola sentimento è termine
moderno, nato nel Settecento, corrispondente
al francese ed inglese sentiment
ed al tedesco Gefühl. È Pascal a porre per primo la netta distinzione
tra l’esprit de géométrie (o raison) e l’esprit de finesse
quale “ragione del cuore”; la ragione geometrica serve a capire le cose
del mondo e la materia; ma per capire Dio
ci vuole la “finezza” del sentimento.
E tuttavia anche Cartesio, col suo ultimo
lavoro (Le passioni dell’anima,
1649), aveva prestato attenzione al sentimento
rapportandolo alla ragione. E
risalendo nel tempo va peraltro considerato
che, per quanto non esplicitamente
teorizzato, anche pensatori rinascimentali
come Leon Battista Alberti e
Leonardo da Vinci avevano immaginato la possibilità
di un rapporto equilibrato
tra i due.
Vediamo
ora Les passions de l’âme di René Descartes, uno scritto che ha
esercitato un’enorme influsso sulla cultura
dell’epoca e che è famosa anche per
la localizzazione dell’anima nella ghiandola
pineale. L’analisi cartesiana presenta
elementi di indubbia acutezza psicologica.
Nell’Articolo II si precisa
che le passioni dell’anima vanno distinte
dai movimenti del corpo, poiché il
corpo (extensus) e l’anima (cogitans) sono strutture separate, ma
interagenti, sicché: «una Passione dell’anima è comunemente un’Azione
nel corpo.» [47]
E tuttavia l’anima è estranea alla dinamica
e alle funzioni del corpo, che
dipendono completamente dagli “spiriti animali”, prodotti nel cervello
[48].
L’anima è la struttura che genera i pensieri,
che sono di due generi: «azioni » e «passioni»
dell’anima stessa; attive le prime e passive
le seconde [49].
Nell’Articolo XVII sono prese in considerazione
«le lotte che abitualmente si
immaginano fra la parte inferiore e quella
superiore dell’anima.» [50]
È un punto importante, perché Cartesio pone
una «ripugnanza» tra i movimenti
del corpo (provocati dagli spiriti) e i movimenti
dell’anima (frutto della sua
volontà), ma ribadisce anche che l’anima
è unitaria ed indivisibile, sì da
doversi evitare dualizzazioni in anima sensitiva e anima razionale.
Ciò deriva dal fatto che « non si sono distinte
bene le sue funzioni da quelle
del corpo, al quale solo si deve attribuire
tutto ciò che può esser osservato
in noi come ripugnante alla nostra ragione.»
[51]
La ghiandola pineale può allora «essere spinta
da una parte dall’anima, e
dall’altra dagli spiriti animali », sicché
capita spesso « che questi due
impulsi siano contrari e che il più forte
impedisca l’effetto dell’altro.» [52] Una fenomenologia complessa che costringe
Cartesio ad ammissioni abbastanza curiose
del tipo: «Tuttavia si può ancora
concepire un qualche contrasto, perché spesso
la medesima causa che eccita
nell’anima qualche passione, eccita anche
certi movimenti del corpo, cui
l’anima non contribuisce per niente e che
essa arresta o cerca di arrestare
appena se ne accorge.» [53]
Che
a qualche passione dell’anima (cioè a qualche
sentimento) si accompagni qualche
movimento (involontario) del corpo è cosa
che ognuno sa, ma Descartes vede ciò
come un «contrasto», ovvero una sorta ”contaminazione”
funzionale tra principi
differenti che quello “nobile” (l’anima)
cerca di risolvere « appena se ne
accorge ». Il problema è che l’anima può
essere “forte” o “debole” (Art.L), ma può, se «ben guidata», vincere
le
passioni, cioè controllare i sentimenti e
non diventarne preda. Perciò, secondo
il miglior insegnamento di Platone, la vittoria
è possibile se si ha il
coraggio della ragione:
Ora è utile sapere queste cose per dare a
chiunque il coraggio di adoprarsi a dominare
le sue passioni; infatti, poiché
si può, con un po’ di cura, cambiare i movimenti
del cervello negli animali
sprovvisti di ragione, è evidente che lo
si può fare ancor meglio negli uomini;
e che anche quelli che hanno le anime più
deboli potranno acquisire un dominio
veramente assoluto su tutte le loro passioni,
se avranno molta cura nel
regolarle e nel guidarle. [54]
Cartesio non distingue tra passioni positive
e negative, tra moderate ed eccessive; egli
intende eliminare (come fanno tutti
i metafisici) ogni relativizzazione e si
vede così costretto ad accorpare tutte
le passioni in un unico genere, come ciò
che sfugge al controllo della ragione
(la parte “alta” delle funzioni dell’anima).
Tale
esecrabile e pericolosa capacità delle passioni
di imporsi e di turbare
l’equilibrio mentale viene ora vista in maniera
decisamente attenuata, al punto
che l’irrazionalità
del sentimento non viene più respinta, ma
riabilitata; e ciò grazie soprattutto
a Rousseau e a Diderot, che almeno su questo
tema erano d’accordo. Nel Settecento si
incomincia ad intravvedere un ribaltamento
concettuale che porta all’analisi
delle passioni ed a distinguere tra differenti
generi e intensità di esse. Esse
vanno “gestite” e persino “usate”, e, facendo
di necessità virtù, la
“fenomenologia passionale” diventa qualcosa
da cavalcare trasformando la
passione negativa in positiva, o
facilitando (per quanto possibile) l’instaurazione
di un sentimento
positivo al posto di uno negativo. Ed è significativo il fatto che nel Settecento
i
termini passione e sentimento finiscono per sovrapporsi con una
nuova consapevolezza della loro natura e
dei loro effetti esistenziali, sì che
diventa, semmai, solo il grado di intensità
del moto interiore a distinguerli.
Però, come si sa, il Settecento è anche il
secolo che non solo affina il
significato di “ragione”, cessando di contrapporlo
a passione/sentimento, ma li
coniuga in una nuova dialettica emozionale
e comportamentale che finisce anche
per mutare il significato dei termini. A
tal proposito è bene ricordare
l’evoluzione concettuale di ragione, poiché né il greco lógos (λόγος),
né il latino ratio, possono essere considerati traduzioni di
ragione
in senso moderno; il primo avendo una pluralità
di significati forieri di
grande ambiguità concettuale, il secondo
essendo troppo legato alla
computazione (per quanto Cicerone lo usasse
già in senso analogico ed
estensivo). E tuttavia è la linea platonico-aristotelica
a prevalere, quella
che la considera come “facoltà” specifica
dell’uomo e “guida ideale” dei suoi
comportamenti. Cartesio riprende questo indirizzo
e lo rafforza ulteriormente,
imponendolo, ed è solo con il pensiero illuministico
che se nasce una nuova
interpretazione, non più così oppositiva
rispetto alla passione e al sentimento.
Si può ritenere che il binomio ragione/sentimento
come si configura nel Settecento sia il frutto
del superamento sia dell’etica classica basata
sul concetto di virtù, nel significato di
“valore” e di religiosità, sia della morale
cristiana, che fissa nel trinomio fede-speranza-carità
l’aspetto “teologale” del concetto di virtù
e nel quadrinomio prudenza-giustizia-fortezza–temperanza
il fondamento morale del cristiano perfetto.
Il fatto che una persona possa
essere sentimentale/passionale e nel contempo
razionale cessa con l’Illuminismo
di essere un’antinomia. La moralità diventa
l’equilibrata gestione dei desideri
e delle passioni, dell’aspirazione alla felicità,
del senso civico, della
generosità, della benevolenza e delle istanze
della razionalità. Una
razionalità, quindi, che fa tutt’uno con
la ragionevolezza, più o meno col
significato di ciò che Cartesio intendeva
con buon senso (distinguendolo
da ragione), espressione che, non a caso, d’Holbach
utilizzerà come
titolo di un suo famoso libro. Potremmo allora
concludere che se il significato
moderno di ragione si delinea intorno al 1635 con Descartes,
quello di sentimento
(spirito di finezza) è posto verso il
1650 da Pascal e che essi risultavano teoricamente
dicotomici, per quanto
Cartesio non negasse il valore del sentimento
e Pascal, il “razionalista
sentimentale”, pensasse che nelle cose essenziali
(quelle della fede) l’esprit de finesse fosse assai più
importante dell’esprit de géométrie.
Blaise
Pascal (1623-1662) non è solo un matematico
insigne, ma anche uno dei più
raffinati pensatori di tutti i tempi, e sicuramente
colui che meglio ha posto i
diritti del sentimento di fronte ad una certa
arroganza della ragione. La cosa
interessante è che egli fa l’apologia del
sentimento in termini rigorosamente
razionalistici, soppesandolo in rapporto
alla ragione, ed infine “scegliendo” e
“scommettendo “ su esso per motivi esistenziali
e fideistici. Ricordiamo alcuni
brevi aforismi dei Pensées (apparsi
postumi nel 1670): «128. Due eccessi: escludere
la ragione, ammettere soltanto
la ragione.» [55];
«130. La ragione comanda molto più imperiosamente
di un padrone, perché
disubbidendo a questo si è infelici, disubbidendo
ad essa si è degli sciocchi.»
[56];
«139. Il supremo passo della ragione sta
nel riconoscere che c’è un’infinità di
cose che la sorpassano. È ben debole se non
giunge a riconoscerlo.» [57];
«Nulla è così conforme alla ragione come
questa sconfessione della ragione.» [58]
Da ciò le ragioni del cuore:
144. Noi conosciamo la verità non soltanto
con
la ragione ma anche col cuore. In quest’ultimo
modo conosciamo i principî
primi; e invano il ragionamento, che non
vi ha parte, cerca d’impugnarne la
certezza. I pirroniani, che non mirano ad
altro, vi si adoperano inutilmente.
Noi, pur essendo incapace di darne giustificazione
razionale, sappiamo di non
sognare; e quell’incapacità serve solo a
dimostrare la debolezza della nostra
ragione e non, come essi pretendono, l’incertezza
di tutte le nostre
conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi
principî, come l’esistenza dello
spazio, del tempo, del movimento, dei numeri,
è altrettanto salda di qualsiasi
di quelle procurateci dal ragionamento. E
su queste conoscenze del cuore e
dell’istinto deve appoggiarsi la ragione,
e fondarvi tutta la sua attività
discorsiva. […] I principî si sentono, le
proposizioni si dimostrano […] Ed è
altrettanto inutile e ridicolo che la ragione
domandi al cuore prove dei suoi
primi principî […] [59]
È
sulla base di considerazioni di questo tipo
se molti Illuministi tenteranno di
arrivare ad un criterio intellettuale in
grado di coniugare le esigenze della
ragione e quelle del sentimento, senza rinunce
e senza delegittimazioni
gnoseologiche dell’una o dell’altro. E quindi
senza incorrere nella pascaliana
conclusione:
Conosci, dunque, superbo, quale paradosso
sei
a te stesso. Umiliati ragione impotente;
taci, natura [irrazionalismo naturale]
imbecille: imparate che l’uomo eccede infinitamente
l’uomo e apprendete dal
vostro signore la vostra effettiva condizione,
che ignorate. Ascoltate Iddio. [60]
Condillac nel suo Saggio sull’origine della conoscenza umana coglie un rapporto
strettissimo tra il formarsi delle idee e
l’affettività, tra la ragione che
dalle pure sensazioni produce pensieri e
tra il sentimento che pilota la
raccolta delle sensazioni. Ma questa razionalizzazione
della dialettica
ragione/sentimento vede nel Settecento una
nuova dicotomizzazione che
privilegia il secondo termine e si configura
come una “gnoseologia
sentimentale” ad opera di Jean-Jacques Rousseau.
I suoi scritti traboccano del
primato del sentimento sulla ragione, per
quanto di tanto in tanto anche questa
sia richiamata, ma con poca convinzione.
Nel Libro IV de l’Emilio si
legge:
Ora se, essendo
tutti sottomessi alle miserie delle vita,
nessuno concede agli altri se non la
sensibilità di cui non ha attualmente bisogno
per sé, ne consegue che la
commiserazione dev’essere un sentimento molto
dolce, poiché depone in nostro
favore, e invece un uomo duro è sempre infelice,
poiché lo stato del suo cuore
non gli lascia alcuna sensibilità sovrabbondante
da potersi concedere alle pene
altrui. [61]
Noi siamo molto critici con Rousseau, come
si
vedrà nel Capitolo V della Seconda Parte, ma siamo disposti a
riconoscergli una grande capacità introspettiva,
qui testimoniata, per quanto
prevalentemente autistica e scarsamente relazionale.
Rousseau vede chiaramente
che la felicità non è una categoria assoluta,
ma relativa, e che, in quanto
sentimento, si fonda sui sentimenti e si
genera da essi. Relativamente alla sensibilità
egli fa poi una distinzione tra la persona
“sensibile” e quella “dura”; solo
quella sensibile, possedendo un eccesso di
sensibilità, ha la possibilità di
cederne una parte a favore di altri. È un
concetto “economico” che si trova
spesso in Rousseau e che anche qui è all’opera:
la commiserazione verso gli
altri, in fondo, “conviene”. C’è infatti
un “ritorno di dolcezza”, perché
mettendola in opera ci sentiamo più buoni.
In altre parole, la partecipazione
al dolore dell’altro, la com-passione, l’assunzione
su di sé di una parte del
dolore dell’altro, può diventare foriera
di un piacere di ritorno.
La
complessità dei meccanismi del sentimento
è anche tale che uno stesso soggetto
che soffre può percepire dolcezza. La felicità
è sempre soltanto intima, la
persona che si sente veramente felice «chiude,
per così dire, la felicità
attorno al suo cuore.» [62].
Una bellissima espressione rousseauana che
prelude al discorso sulla
malinconia. Il disgusto e la noia, infatti,
possono sì essere attenuati in
qualche misura da ciò che ci muove al riso,
come la gioiosità e la giocosità chiassose: «Ma
la
melanconia è amica della voluttà: la tenerezza
e le lacrime accompagnano i più
dolci godimenti, e la stessa gioia
eccessiva strappa piuttosto il pianto che
il riso.» [63] Ma è nella Professione di fede del vicario savoiardo (a metà del Libro IV) che
Rousseau mette a fuoco al meglio la tematica
dei sentimenti. Il Vicario, dopo
aver sostenuto che «noi sentiamo necessariamente
prima di conoscere» (e quindi
il sentire è almeno una forma di pre-conoscenza),
afferma:
Gli atti della
coscienza non sono dei giudizi, ma dei sentimenti;
quantunque tutte le nostre
idee ci vengano dal di fuori, i sentimenti
che le valutano sono dentro di noi,
ed è per essi soli che noi conosciamo la
convenienza o la sconvenienza che
esiste fra noi e le cose che dobbiamo ricercare
o fuggire. [64]
Abbiamo qui una sorta di apologia di una
“ragion pratica” che Kant avrebbe potuto
persino sottoscrivere. Per Rousseau
l’importante non è “conoscere”, ma “sapere”
ciò che si deve perseguire o
fuggire, il bene e il male “per l’uomo”.
Secondo lui l’uomo non esiste per
conoscere ma per sentire: «Esistere, per
noi, sentire; la nostra sensibilità è
incontestabilmente anteriore alla nostra
intelligenza, e noi abbiamo avuto
sentimenti prima che idee.». Affermazione
probabilmente vera, ma a cui segue una nota
* particolarmente
interessante, dove il Nostro aggiunge:
*Sotto certi
riguardi le idee sono dei sentimenti e i
sentimenti sono idee. I due nomi
convergono ad ogni percezione che ci occupa
del suo oggetto, e di noi stessi
che ne siamo affetti: non c’è che
l’ordine di quest’affezione che determina
il nome che le conviene.
Quando, dapprima occupati dell’oggetto, non
pensiamo a noi che per riflessione,
è un’idea; invece, quando l’impressione ricevuta
eccita la nostra prima
attenzione e non pensiamo che per riflessione
all’oggetto che la cagiona, è un
sentimento. [65]
Analisi sufficientemente corretta, che
probabilmente Rousseau desume dal Saggio sull’origine delle conoscenze umane
di Condillac. Il Vicario ritiene che i sentimenti
umani siano di vario tipo, ma
uno su tutti deve farci da guida: quello
del “bene”. Questo, tuttavia, non
basta conoscerlo, bisogna anche amarlo: «Conoscere
il bene non è amarlo; l’uomo
non ne ha la conoscenza innata: ma appena
la sua ragione glielo fa conoscere,
la sua coscienza lo porta ad amarlo; è questo
sentimento che è innato.» [66] Non la nozione del bene è
innata, ma il trasporto amoroso che produce
la conoscenza del bene. Se l’amore
è all’opera il bene “si rivela”, altrimenti
no. Abbiamo qui la comparsa di un
accordo tra ragione e sentimento? Non è chiaro,
parrebbe piuttosto una “ragione
del bene” a fornircene conoscenza, in un
cortocircuito dove il bene, che è
amore, ci fa innamorare di sé, ed un sentimento
di “riconoscimento” da parte
della coscienza conclude il processo virtuoso.
La “voce della coscienza”, che
se non direttamente divina è comunque divinamente
in noi (ancora un anticipo di
Kant), è il nostro tesoro incommensurabile:
«Coscienza! Coscienza! Istinto
divino, voce immortale e celeste, guida sicura
d’un essere ignorante e
limitato, ma intelligente e libero; giudice
infallibile del bene e del male,
che rendi l’uomo simile a Dio.» [67] Non quindi la ragione
(pallida copia dell’Onniscienza) ma la voce
della coscienza (sensore della
Bontà) è ciò che ci da simili a Dio.
4.4
La diffusione della conoscenza e l’Encyclopédie.
La conoscenza, nel suo
dispiegarsi, implica anche i metodi e gli
strumenti con i quali viene diffusa, e
pone inoltre l’importante questione della
sua presa nella coscienza dell’uomo
al fine di sottrarla alle intossicazioni
metafisiche. Fino al Settecento, e per
millenni, la scena culturale era rimasta
dominata dalla metafisica, produttrice
di una falsa conoscenza, propinata ed imposta
dall’alto a fini ideologici o
politici. Vi è di più; nella realtà soltanto
la classe colta, costituita da
aristocratici o da religiosi, raccoglieva
il patrimonio culturale, lo
custodiva, lo secretava, lo manipolava, lo
porgeva infine al popolo. Il livello
più basso di questo, soprattutto in ambito
rurale, dipendeva esclusivamente dal
clero locale ed in particolar dai parroci,
indiscusse autorità culturali e
morali nel mondo contadino. Ora, con la cultura
illuministica (o almeno con una
parte significativa di essa), la metafisica
si trovava per la prima volta nella
storia costretta a passare alla difensiva
e cercare di difendere le proprie
posizioni, spesso con accortezza e talvolta
con grossolanità ideologica. In
ogni caso la battaglia era aperta e la stampa
diventava il campo di battaglia
di questa contrapposizione culturale, che
opponeva una cultura dogmatica e
statica a una cultura euristica e dinamica.
Sono queste le ragioni per
cui l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, che vede la luce
nel 1751, è
salutata dai Gesuiti, ancora monopolisti
dell’istruzione, come “Bibbia
satanica” [68]. E tuttavia, si badi
bene, il modello didattico gesuitico è stato
uno dei più completi, efficienti e
meglio realizzati per lungo tempo, al fine
di dotare una persona di una cultura
religiosa ed umanistica vasta e profonda.
Ma, se cerchiamo di capire, oggi, che
cosa potesse esserci di satanico nell’Enciclopedia, non troveremo nulla
di ciò che con quell’aggettivo ci induce
a pensare. Essa non era per nulla
irreligiosa, ma agli occhi dei contemporanei
anti-illuministi possedeva due
difetti imperdonabili e considerati satanici:
quello di non considerare la
teologia “regina delle scienze”, come già
pensava Aristotele, e quello di fare
della scienza profana, quella naturalistica,
insieme alle attività pratiche ad
essa connesse (ciò che oggi chiamiamo tecnologia),
l’oggetto primario della
trattazione. Ciò, quindi, che risultava intollerabile
all’epoca in larghi
strati del mondo cattolico (e molto meno
in quello protestante) era che si
potesse pensare di spodestare la teologia
cristiana e la cultura classica
umanistica dal trono culturale, osando portare
allo stesso livello, e
addirittura anteporvi, una cultura profana
che sviava dai giusti fini
dell’uomo. Ed un ulteriore elemento: l’Enciclopedia, e con essa molta
cultura scientifica, avevano abbandonato
il latino per sostituirvi il francese
(e l’inglese in ambito anglosassone), un
insulto alla tradizione e quasi una
blasfemità.
Tra i diffusori della conoscenza
scientifica è da annoverare l’interessante
figura di Bernard Le Bovier de Fontenelle
(1657-1757); un uomo raffinato e brillante
che ebbe la ventura di diventare
centenario e di vedere evolvere la cultura
francese sino al pieno illuminismo.
Per quanto di formazione prettamente umanistica,
Fontenelle, che si sposterà
poi verso interessi filosofici e scientifici,
può essere considerato un
notevole divulgatore della fisica cartesiana
e un antesignano dei philosophes.
Un intellettuale che si distingue per la
sua spregiudicatezza, espressa in una
prosa caratterizzata da uno stile brillante
ed insieme irriverente e spiritoso.
Per quanto fortemente attardato su Cartesio
e latore della sua metafisica, gli
va comunque riconosciuto un ruolo importante
per la sua apertura mentale e per
la sua attenzione alle novità, di cui è via
via testimone interessato e
attento. Nel 1688 pubblica la Digressione sugli antichi e sui moderni,
con la quale si inserisce nella nota querelle introducendo idee
originali e proponendo una sorta di teoria
generale del progredire umano,
basata sull’assunto che, poiché il progresso
è dato dall’”accumulo” della
cultura e delle conoscenze, esso non potrà
mai arrestarsi e sarà continuo nel
tempo. Poco prima ha pubblicato una Storia
degli oracoli, nella quale, utilizzando come tema di partenza
le
superstizioni pagane, giunge a stigmatizzare
le credenze irrazionali in
generale e quelle cristiane in particolare,
generando non poche perplessità e
turbamenti nel pubblico devoto. L’opera è
importante anche per un'altra
ragione, che il confronto tra loro le varie
religioni, sia pure negli aspetti
più negativi, fornendo di esse un primo esempio
di “storia comparata”, molto in
anticipo su una scienza storica che nascerà
organicamente assai più tardi. Gli
va riconosciuto, infine, il grande merito
di aver avuto il coraggio, con la Conversazione
sulla pluralità dei mondi del 1686,
di aver esposto in forma accessibile la teoria
copernicana, in un
momento in cui era sotto il tiro della censura
ecclesiastica, mentre altri (pur
convinti della sua validità) avevano preferito
tacere. È per l’insieme di tali ragioni
che a Bernard Le Bovier si può riconoscere
un ruolo di proto-divulgatore della
cultura.
L’Encyclopédie è
un’opera di divulgazione, una chiave che
spalanca la porta della cultura illuministica;
Diderot, nel proporla alla sottoscrizione,
spiega nel Prospectus che il termine deriva dal greco kyklòs
e che significa il circolare “concatenamento
delle scienze”. Concetto che
rispondeva a due metafore, una vegetale e
una geografica. La prima è l’albero
della conoscenza, che dava l’idea dello svilupparsi del conoscere
da un
tronco centrale e generale fin nei rami più
particolari e periferici e che era
già stato utilizzato da Ephraim Chambers
per la sua Cyclopaedia, che
Diderot e d’Alembert aveva assunto a modello.
La seconda è il mappamondo, a
proposito della quale d’Alembert, nel Discours préliminaire, spiega
essere l’insieme dei luoghi della scienza
e delle strade che li congiungono. Lo
straordinario e il nuovo dell’ Encyclopédie sta non tanto
nell’integrazione genealogica della conoscenza
presente già in Chambers, ma
nella ricategorizzazione delle conoscenze
che lascia l’opera di questi e va a
riallacciarsi a Bacone.
Per quanto la genesi e la storia dell’Encyclopédie siano molto note qualche
cenno rammemorativo sarà opportuno. L’impresa
nasce dal progetto di traduzione
della Cyclopaedia di Chambers, ma presto si intravede l’opportunità
di
un completo rifacimento; Diderot, nel 1747,
assume l’incarico di pilotare
l’impresa. Egli coopta D’Alembert nella direzione
e per il coordinamento di ciò
che concerne le matematiche; poi vengono
chiamati a collaborare intellettuali
come Montesquieu, Voltaire, Buffon, De Prades,
Rousseau, Quesnay, Turgot,
Bordeu, d’Holbach e numerosi altri. Nel
1750 Diderot pubblica il Prospectus
col piano dell’opera e lancia la sottoscrizione;
in pochi mesi i sottoscrittori
sono quattromila: l’opera può partire. L’anno
dopo esce il primo volume, nel
1752 il secondo e il gesuita Journal de
Trévoux incomincia a demolirla sostenendo che l’opera
si propone: «di
distruggere l’autorità regia, diffondere
atteggiamenti d’indipendenza e
ribellione, e, sotto termini oscuri ed equivoci,
gettare le basi dell’errore,
della corruzione dei costumi, dell’irreligione
e dell’incredulità.» [69] Intanto
però esce il terzo volume con l’importante
Discorso
preliminare di D’Alembert; la reazione cresce e il boicottaggio
si
intensifica con tutti i possibili mezzi d’informazione
e persino a teatro.
Gazzettieri prezzolati creano la leggenda
dei Cacouacs enciclopedisti o filo enciclopedisti, dei
quali tra
l’altro si dice: «Questi selvaggi, graziosi
e piacevoli a prima vista, sono di
una specie pericolosa, perché hanno i veleno
nascosto sotto la lingua. Sono i
soli esseri della natura che facciano il
male per il gusto di farlo.» [70] Chi
legge oggi l’Encyclopédie fa veramente fatica a
comprendere la ragione di tali giudizi, ma
la scienza e la tecnica, all’epoca,
potevano essere considerate “demoniche” per
varie ragioni. Per esempio perché
la cosmologia poteva mettere in forse la
Genesi, perché la medicina dissacralizzava
la mente come sede dell’anima, o perché la
meccanica creava strumenti e
macchine che riducevano la fatica e impigrivano,
facilitando gli spostamenti,
alterando i rapporti delle famiglie, creando
conforts inducenti alla superficialità
e al vizio.
Quando nel 1758 appare il settimo volume
le cose si sono messe male.
D’Alembert scrive un articolo tanto imprudente
quanto discutibile su Ginevra; i
calvinisti insorgono. Alla negatività del
Genéve
si aggiunge il fatto in quei giorni Helvétius
dà alle stampe De l’esprit, opera ritenuta blasfema che
mette immediatamente in subbuglio le autorità,
scatenando l’indignazione per
l’impudenza dei nuovi empi. Nasce la necessità
di un “giro di vite” per fermarli
e anche l’Encyclopédie finisce sotto
tiro. D’Alembert, sommerso dalle critiche
e sovraesposto come condirettore abbandona,
altri lo seguono, Diderot resta il solo a
combattere la sua battaglia; poi, nel
settembre del ’62, viene revocato il permesso
di stampa e diffusione
dell’opera. Ma nel 1766 la censura si allenta
e tacitamente viene dato il consenso
per la distribuzione degli ultimi dieci volumi,
nominalmente risultanti
stampati all’estero; nel decennio successivo
escono gli undici volumi delle
tavole. Diderot ricorderà più tardi: «Abbiamo
avuto per avversari la corte, i
grandi, i militari, […] i preti, la polizia,
i magistrati, i letterati che non
partecipavano all’impresa, il bel mondo […]
» [71] Oltre ai religiosi erano particolarmente
seccati i militari, poiché l’Encyclopédie, di ispirazione pacifista, non aveva
dedicato alcun articolo alla guerra se non
in termini negativi e ciò, per la
gloriosa ”casta dei guerrieri”, era intollerabile.
D’Alembert, prima del suo pusillanime ritiro,
ha un funzione importante,
poiché è colui che con le sue competenze
imprime il taglio tecnico-scientifico
che l’opera si propone sin dal titolo, che
recita: Enciclopedia o Dizionario
ragionato delle scienze, delle arti e dei
mestieri, ad opera di una società di
persone di lettere. Egli è anche
l’autore del lungo e complesso Discorso
preliminare, che si pone come un
vero e proprio manifesto dell’Illuminismo pieno di riferimenti a
pre-illuministi
come Bacone e Locke. Dopo una prima enunciazione
degli scopi D’Alembert afferma:
Il primo passo da fare in tale ricerca è
esaminare, ci si passi il termine, la genealogia
e filiazione delle conoscenze,
le loro cause, i loro caratteri distintivi;
risalire in breve, all’origine e alla
genesi stessa delle nostre idee. [72]
Già di queste
poche parole i conservatori avevano seri
motivi per preoccuparsi. Si tratta di
un programma di ”rilettura” della storia
delle conoscenze, della loro
formazione, del loro accumulo; ed insieme
di una “rifondazione” di esse ai “nuovi lumi”. Si
ribadisce che i sensi sono la fonte della
conoscenza e con essi il corpo
diventa, come loro sede, oggetto prevalente
di studio rispetto ad un’anima che
è stata per millenni al centro dell’attenzione
speculativa. D’Alembert nota:
Molti filosofi hanno attribuito siffatta
tendenza [a riconoscere ai corpi esistenza
reale] all’influsso di un essere
superiore, stimando questo la prova più conveniente
dell’esistenza degli
oggetti stessi. In effetti, non essendovi
rapporto alcuno tra una sensazione e
l’oggetto che la genera – o, almeno, al quale
noi lo riferiamo – non sembra che
si possa trovare con il ragionamento alcuna
possibile mediazione tra l’uno e
l’altra: solo una sorta di istinto, più sicuro
della ragione medesima, può
farci compiere un passo così lungo. E tale
istinto è così forte in noi che
supponendo per un momento che, annullati
gli oggetti esterni, esso continui a
sussistere, l’improvvisa ricomparsa di quei
medesimi oggetti non potrebbe
renderlo più forte. Possiamo dunque stabilire
senza incertezze che le nostre
sensazioni hanno effettivamente fuori di
noi la causa che attribuiamo loro;
poiché l’effetto che può derivare dall’esistenza
reale di siffatta causa non
potrebbe essere in nessun modo diverso da
quello che proviamo. [73]
La percezione che abbiamo dei corpi ha una
relazione diretta con l’esistenza dei corpi
stessi. Asserzione ovvia, ma che in
un’epoca in cui forte era la presa del tendenziale
immaterialismo di
Malebranche, e soprattutto di quello esplicito
di Berkeley, doveva essere
ribadita con forza dalla comunità scientifica.
La ricerca consiste eminentemente
nell’individuazione di elementi della realtà,
nella scoperta dei fenomeni in
cui si estrinsecano, nella definizione delle
modalità combinatorie e nel calcolo.
Da ciò:
I risultati di siffatte combinazioni,
generalizzati, saranno appunto calcoli aritmetici
simboleggiati o rappresentati
mediante l’espressione più semplice e breve
che la loro generalità consente. La
scienza o l’arte di designare in tal modo
i rapporti è l’algebra. […] generalizzando ancora
le nostre idee perveniamo a quella parte
principale delle matematiche e di
tutte le scienze naturali. Che è detta scienza delle grandezze in generale; è questo il fondamento di
tutte le scoperte che si possono fare circa
la
quantità, ossia riguardo a tutto ciò che
è suscettibile di aumento o
diminuzione. [74]
La matematica costituisce « il limite estremo
» della «contemplazione
della materia », cioè dell’astrazione sul
reale e «se tentassimo di procedere
oltre, usciremmo totalmente dall’universo
materiale.» D’Alembert pone un
paletto chiaro: se l’oggetto d’indagine è
il reale cosmico le matematiche
costituiscono il confine estremo dell’astrazione.
Oltre essa ci sono soltanto
le fantasie metafisiche.
La scienza non deve limitarsi
a “fare scienza”, ma deve anche comunicarsi,
diventare di dominio comune,
perciò: «La scienza della comunicazione delle
idee non consiste soltanto
nell’ordinamento delle idee; insegna altresì
a esprimere ciascuna idea nel modo
più netto possibile e perfezionare i relativi
segni; gli uomini hanno fatto
questo per gradi.» [75] Quello della cultura è un processo di
accumulo che procede gradualmente per aggiunte
e perfezionamenti come
“ordinamento” del sapere. Ma per essere comunicabile
deve assumere una
“segnatura” adeguata, cioè il linguaggio
adatto, e trasmettersi con i mezzi più
efficaci e opportuni. Chi impara non deve
doverlo fare a fatica e rischiare di essere
dissuaso dall’ apprendimento di nuove cose,
sì da «non arrestarsi a quelle già
acquisite.» [76] Il Nostro, dopo aver accennato alle connotazioni
della grammatica e definito le nozioni della
retorica «pedantesche puerilità», fornisce
alcuni giudizi e precisazioni circa varie
discipline come la cronologia, la
geografia, la storia, la politica, le arti
figurative, la poesia. Osserva poi:
Speculazione e pratica costituiscono il principale
criterio distintivo
tra le scienze e le arti; seguendo più o meno tale distinzione si
è dato l’uno o l’altro nome ad ogni nostra
conoscenza. Bisogna tuttavia riconoscere
che non abbiamo ancora idee ben precise in
merito. Spesso non sappiamo che nome
dare alla maggior parte delle nostre conoscenze
nelle quali la speculazione si
salda alla pratica; si discute quotidianamente
nelle scuole, ad esempio, se la
logica sia un’arte o una scienza; il problema
sarebbe bell’e risolto se si
rispondesse che è l’una e l’altra cosa. [77]
La volontà di ordinare, di classificare,
di definire, di formalizzare le
discipline spesso rischia esiti inadeguati
o confusi; ciò è facilmente evitabile
lasciando che una disciplina sia “quel che
è”, senza creare contenitori
nominalistici da riempire. Una stessa disciplina
può essere speculativa e
pratica nello stesso tempo in ragione dei
suoi “momenti operativi”, sicché:
Si può definire in generale arte ogni sistema
di conoscenze riducibile
a regole positive, invariabili e indipendenti
dal capriccio e dall’opinione. E
si potrebbe dire in tal senso che molte delle
nostre scienze, considerate dal
punto di vista prativo, sono arti. […] Donde
la distinzione delle arti in
liberali e meccaniche, e la superiorità concessa
alle prime rispetto alle
seconde: concessione indubbiamente ingiusta
sotto vari punti di vista. [78]
Il problema della nominazione e della distinzione
assume importanza per
un’opera come un’enciclopedia, anzi per un
«dizionario ragionato sulle scienze,
le arti e i mestieri » che deve informare
e acculturare. Per fare un esempio:
in quale misura curare la salute è una scienza
(studiare il corpo umano), in
quale un arte (saper adottare il farmaco
adatto), in quale un mestiere (saper
tagliare i tessuti e ricucirli)? È questo
il problema qui posto da D’Alembert e
quindi la proposta (d’accordo con Diderot)
di una riconsiderazione del concetto
di mestiere come “arte meccanica” e della
sua rivalutazione:
Il disprezzo per le arti meccaniche sembra
aver colpito fino a un certo
punto anche i rispettivi inventori. I nomi
di questi benefattori del genere
umano sono pressoché sconosciuti, mentre
la storia dei suoi distruttori – vale
a dire dei politici e dei conquistatori –
non è ignota a nessuno. Eppure,
forse, bisogna andare a cercare presso gli
artigiani le più ammirevoli prove di
sagacia, di pazienza, di ingegnosità. [79]
Problema culturale assai importante, di cui
era già perfettamente
consapevole Galileo, il quale, dopo aver
speculato e sperimentato nel suo
studio, andava a vedere il lavoro degli artigiani
per capire il modo in cui risolvevano
i problemi pratici contingenti. Teoria e
prassi ineriscono alla scienza, e la
conoscenza scientifica dipende essenzialmente
da due tipi di giudizio: l’evidenza
e la certezza:
L’evidenza appartiene propriamente alle idee delle
quali lo
spirito coglie immediatamente il nesso; la
certezza a quelle la cui
connessione può essere conosciuta soltanto
grazie ad un certo numero di idee
intermediarie; oppure, il che è lo stesso,
grazie a proposizioni la cui
identità con un principio in sé evidente
può essere scoperta soltanto mediante
un giro più o meno lungo; […] Si potrebbe
dire inoltre – prendendo le parole evidenza
e certezza in un altro senso – che la prima
è il risultato delle sole operazioni
dello spirito e riguarda i ragionamenti metafisici;
la seconda invece designa
più propriamente gli oggetti fisici, la cui
conoscenza è frutto della
testimonianza costante e immutabile dei
sensi. [80]
L’ « altro senso » è quello della metafisica
quando autoreferenzialmente
recita il ”è evidente” se i meccanismi logici
sono rispettati, ma ciò spesso
non porta alcuna conoscenza della realtà
fisica. Una realtà che implica la pluralità
delle conoscenze per esaurirne l’indagine
o quanto meno renderla adeguata. Ed
allora: «il sistema delle conoscenze è infine
composto da diverse branche,
molte delle qual convergono verso un medesimo
centro » [81] E la
realizzazione di un ordine enciclopedico
«consiste nel collocare il filosofo,
per così dire, al di sopra di questo vasto
labirinto, in un punto di osservazione
assai elevato, donde egli possa abbracciare
tutte insieme le principali arti e
scienze ». Ma egli deve anche saper «distinguere
le branche generali delle
conoscenze umane, i punti che le separano
o le uniscono, e talvolta persino
intravvedere le vie segrete che le pongono
in comunicazione tra loro.» [82] La
filosofia non può mai essere metafisica,
a questa essa è radicalmente alternativa
nel suo rapporto con la scienza, le cui vie
segrete, essa sola, può intravvedere
con il tipo d’indagine che le è propria.
Relativamente
all’organizzazione dell’Encyclopédie, per quanto
concernente una grande pluralità di discipline
e temi, ci si è attenuti a criteri
rigorosi e con ordine: «L’ordine enciclopedico non
presuppone affatto che tutte le scienze siano
direttamente connesse le une con
le altre. Sono rami che partono da un medesimo
ronco, l’intelletto umano.
Questi rami spesso non hanno tra loro alcun
legame immediato, e molti si
riuniscono soltanto nel tronco.» [83] La
metafora dell’albero della conoscenza riceve qui un’ulteriore lettura,
che vede la mente umana come il tronco a
cui si uniscono i rami delle
conoscenze particolari memorizzate. Ma quest’intelletto
può anche agire in
senso mistificatorio:
Mentre avversari ignoranti o malevoli combattevano
apertamente la
filosofia, essa cercò rifugio, per così dire,
nelle opere di alcuni grandi: i
quali, senza nutrire la pericolosa ambizione
di far cadere la benda dagli occhi
dei loro contemporanei, preparavano da lungi,
nell’ombra e in silenzio, la luce
che a poco a poco, per gradi insensibili,
avrebbe illuminato il mondo. [84]
I Lumi sono nati nel silenzio e nell’ombra, per
costruire una
sapere nuovo, ma senza la pretesa di sbendare
d’un sol colpo l’ignoranza dei
molti. Poiché le bende sono tenute ben strette
dall’anti-filosofia, che opera
alla luce del sole sugli scranni universitari
e dai pulpiti. E: «A capo di
questi illustri personaggi dobbiamo porre
l’immortale cancelliere
d’Inghilterra, Francesco Bacone.» [85] Ma l’Encyclopédie nasce anche per rendere il dovuto in obscuram memoriam delle migliaia di ignoti ricercatori o di
umili artigiani i quali, attraverso il loro
ancor più oscuro e silenzioso
lavoro, hanno con le loro intuizioni e coi
loro strumenti reso possibile l’inarrestabile
crescita dell’albero della conoscenza nel
Secolo dei Lumi.
NOTE
[1] J.A.Comenio, La grande didattica, in: Opere, a cura di M.Fattori, Torino, UTET 1974, p.115.
[2] Ivi, p.178.
[3] Ivi, p.179.
[4] F.Blättner, Storia della pedagogia, Roma, Armando 1976, p.80.
[5] Ivi, p.97.
[6] Ivi, pp.97-98.
[7] I.Kant, Pedagogia, a cura di N.Abbagnano, Torino, Paravia 1945, p.6.
[8] Ivi, p.9.
[9] Ivi, p.10.
[10] Ivi, p.49.
[11] E.Pestalozzi, Il canto del cigno, in: Scritti scelti, a cura di E.Becchi, Torino, UTET 1970, p.732.
[12] F.Blättner, Storia della pedagogia, Roma, Armando 1976, p.160.
[13] Ivi, p.161.
[14] C.Talenti, Grande Dizionario Enciclopedico, vol.XV, Torino, UTET 1989. p.819.
[15] R.Fornaca, Storia della pedagogia, Firenze, La Nuova Italia 1996, p.150.
[16] C.Talenti, cit, p.820.
[17] E.Pestalozzi, Come Geltrude istruisce i suoi figli, a cura di A.Banfi, Firenze, La Nuova Italia 1974, p.77.
[18] Ivi, p.77.
[19] Vedi supra p.??? (181)
[20] E.Pestalozzi, Come Geltrude istruisce i suoi figli, cit., p.91.
[21] Ivi, p.163.
[22] F.Cambi, Storia della pedagogia, Roma-Bari, Laterza 1995, p.259.
[23] J.Locke, Pensieri sull’educazione, Firenze, La Nuova Italia 1963, p.3.
[24] Ivi, p.44.
[25] Ivi, p.60.
[26] Ivi, p.70.
[27] Ivi, p.71.
[28] Ibidem.
[29] Ivi, pp.102-103
[30] Ivi, p.118.
[31] Ivi, p.119.
[32] Ivi, p
[33] Ivi, pp.163-164.
[34] Ivi, p.164.
[35] ivi, p.165
[36] Ivi, p.165.
[37] Ivi, p.176.
[38] Ivi, pp.177-178.
[39] Ivi, p.236.
[40] Ivi, pp.237-238.
[41] Ivi, p.282.
[42] Robespierre odiava Condorcet sentendolo come il suo opposto caratteriale e come un competitore pericoloso. Riuscì a far cadere sistematicamente tutte le sue proposte spalleggiato dai suoi fedelissimi, riuscendo infine a spedirlo in carcere con l’accusa di tradimento.
[43] J.A.N. de Condorcet, Sull’istruzione pubblica, a cura di P.L.Previato, Treviso, Canova 1956, p.32.
[44] Ivi, pp.34-35.
[45] Condorcet, Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, a cura di M.Minetrbi, Torino, Einaudi 1969, p.175.
[46] Condorcet, Sull’istruzione pubblica, cit.p.175.
[47] R.Cartesio, Le passioni dell’anima, a cura di G.Cairola, Torino, UTET 1951, p.26..
[48] Ivi, p.32.
[49] Ivi, p.39.
[50] Ivi, p.59.
[51] ivi, p.60.
[52] Ibidem.
[53] Ivi, p.61.
[54] Ivi, p.65.
[55] B.Pascal, Pensieri, a cura di P.Serini, Torino, Einaudi 1962, p.58.
[56] Ibidem.
[57] Ivi, p.61.
[58] Ibidem.
[59] Ivi, p.63.
[60] Ivi, p.213.
[61] J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, in: Opere, a cura di P.Rossi, Firenze, Sansoni 1988, p.508
[62] Ibidem.
[63] Ibidem.
[64] Ivi, p.557.
[65] Ibidem.
[66] Ivi, p.558.
[67] Ibidem.
[68] U. Im Hof, cit.,p.169.
[69] D’Alembert-Diderot, La filosofia dell’Encyclopédie, a cura di P.Casini, bari, Laterza 1966, p.12.
[70] Ivi, p.13.
[71] Ivi, p.14.
[72] Ivi, p.44.
[73] Ivi, p.47.
[74] Ivi, p.57.
[75] Ivi, p.69.
[76] Ibidem.
[77] Ivi, p.77.
[78] Ibidem.
[79] Ivi, p.79.
[80] Ivi, p.81.
[81] Ivi, p.83.
[82] Ivi, p.84.
[83] Ivi, pp.89-90.
[84] Ivi, p.105.
[85] bidem.