3.1
Alfabetizzazione, libri, giornali e incontro
di opinioni
All’origine della lettura sta l’alfabetizzazione,
non quella più
elementare che consente solo di scrivere
il proprio nome in calce a un
documento, ma quella che permette di leggere
la parola scritta e i suoi
assemblaggi. La promozione dell’alfabetizzazione
inizia col Rinascimento ed è
promossa via via da isolati educatori e filantropi,
ma è anche il frutto della
nuova disponibilità di una parola scritta
“prodotta in serie”. Il libro
stampato, con l’aumento delle tipografie,
di nuove tecniche cartacee e della concorrenza,
diventa un bene ora accessibile anche alle
classi non abbienti e in ogni caso
incominciano a formarsi biblioteche aperte
al pubblico. All’alba del ‘700 il
libro stampato ha un secolo e mezzo di vita,
quindi non è un prodotto
tecnologico nuovo, ma la sua diffusione subisce
un’accelerazione esponenziale
inarrestabile in concomitanza coi processi
di emancipazione sociale, timidi nel
Seicento ma sempre più evidenti nel Settecento.
È infatti intorno al 1750 che
si ha un’accelerazione importante nel processo
di alfabetizzazione delle masse
popolari. Sino a tutto il Seicento il conoscere
per l’uomo comune era
costituito perlopiù dal “vedere” e dall’”ascoltare”.
Vista ed udito avevano la
loro funzione primaria nel mettere in memoria
fatti od oggetti veduti e
discorsi ascoltati direttamente o furtivamente.
Dopo tale data non solo
artigiani e commercianti, ma anche operai,braccianti
e contadini incominciano a
leggere. Certo, leggono, perlopiù il Vecchio
e il Nuovo Testamento su consiglio
del parroco o del confessore, ma anche i
libercoli della Biblioteque Bleu,
che contengono racconti popolari di facile
accesso. Letteratura di basso
livello, certo, e tuttavia un primo passo
verso l’abitudine alle lettura, cui
può seguire l’esercizio e il miglioramento
di essa in comprensione e velocità,
con ricadute importanti nell’incremento della
cultura generale dei ceti
popolari.
La
prima nazione a registrare un interessante
incremento nell’alfabetizzazione è
la Gran Bretagna, e in particolare l’Inghilterra
e la Scozia, dove all’inizio
del ‘600 dal 15 al 20% delle persone è in
grado di leggere la parola scritta,
contro una stima del 16% medio per la Francia.
Verso il 1675 in Inghilterra si
arriva al 45%, mentre in Francia tra il 1688
e il 1720 si conta il 29% di alfabetizzati [1]. A
questi dati medi si aggiungono statistiche
differenziate tra uomini e donne,
che vedono per la Francia nei cento anni
tra il 1690 e il 1790, passare dal 29
al 47% per gli uomini e dal 14 al 27% per
le donne [2].
Valori elevati si registrano anche nei Paesi
Bassi, in Germania e in
Scandinavia, mentre il mondo mediterraneo,
e specialmente l’Italia, resta
indietro. Un’Europa meridionale che incomincia
a perdere colpi proprio nel
momento in cui al Nord c’è un nuovo sviluppo
economico e culturale,
determinando presto quel gap di civiltà e di cultura di cui soffre anche
oggi il Sud europeo rispetto al Nord. Va
anche considerato, a questo proposito,
che indubitabilmente il mondo della Riforma,
con l’interiorizzazione della fede
e il rapporto diretto con la Sacra Scrittura,
promuove sicuramente l’accesso
diretto alla parola divina per mezzo della
lettura. E tuttavia la Francia,
paese perlopiù cattolico, e di cerniera tra
il Nord e il Sud dell’Europa,
assume con a Gran Bretagna la leadership culturale dell’Europa.
Sull’asse Parigi-Londra corre l’anticipazione
di tutte le novità culturali in
generale, e scientifiche in particolare,
che determinano il tumultuoso
progresso dell’epoca dei Lumi con le città
costiere dell’Olanda a fare da ponte.
In
questo contesto, oggetti specifici e protagonisti
di tale temperie culturale,
sono i libri e i giornali a trainare la cultura.
Con nuove tecniche di
composizione e stampa, il ridotto costo della
carta, entrano in circolazione
libri che hanno costi sempre minori e caratteristiche
sempre migliori in fatto
di formato, di qualità della carta, impaginazione,
caratteri di stampa,
rilegatura. Per quanto riguarda i giornali;
essi sono sempre più diffusi
capillarmente sul territorio, spaziando da
quelli di carattere nazionale a
quelli rigorosamente locali. I periodici
scientifici sono i principali motori
di cultura già dalla seconda metà del ‘600,
ed uno degli antesignani è stato
certamente il Philosophical Transactions che avevano iniziato per primo a
rendere pubblico il lavoro degli scienziati,
le nuove scoperte, i nuovi
orizzonti tecnologici. Il giornale è emanazione,
ma non organo ufficiale, della
Royal Society), e aveva iniziato le proprie pubblicazioni
nel marzo
1665.
Anche sul
continente analoghe pubblicazioni lo imitano,
ma ciò non è visto di buon occhio
dalla censura dell’Ancièn Régime, che ne sospetta possibili derive
antireligiose. In una lettera dell’8 maggio
1665 il medico progressista Guy
Patin, uomo colto in odore di libertinismo,
scriveva preoccupato:
Mi hanno detto stamani
che il «Journal
des Savants» ha avuto una lezione solenne.
Diventato ormai prudente, non si
diffonderà più troppo liberamente. Il signor
Cancelliere ha revocato il
privilegio di stampa, e il signor de Sallo,
Consigliere di Corte, che ne era
stato il fondatore e il direttore, glielo
ha inviato correttamente. C’è
tuttavia speranza che il «Journal» ottenga
nuovamente il permesso di
pubblicazione, ma che sia affidato ad altre
persone più prudenti e
disinteressate. [3]
Che
cosa poteva aver avuto la linea editoriale
di un periodico scientifico come il Journal
des Savants di così disdicevole da dar luogo a un revoca
del permesso di
pubblicazione? Nient’altro che l’annuncio
che sarebbero state tradotti e
pubblicati alcuni articoli tratti dal Philosophical Transactions; poco
dopo la pubblicazione era scattata la procedura
di revoca. Attori di tale censura
sistematica erano all’epoca due istituzioni
decisamente reazionarie, ma assai
potenti: la Sorbona e l’Ordine dei Gesuiti.
Entrambe non potevano tollerare il
rischio che notizie di nuove scoperte scientifiche
potessero turbare una
situazione culturale iper-religiosa consolidata,
da ciò il timore che qualche
“idea nuova” proveniente “dall’estero” risultasse
blasfema o anti-dottrinaria.
In effetti va ricordato che l’”estero”, e
in particolar modo l’Olanda, era un
temuto luogo di provenienza della miscredenza
e dell’immoralità per la parte
più bigotta, ma assai potente, della società
francese dell’epoca. D’altra parte
non solo questo era l’Olanda, come riconosce
uno storico dell’economia e della
scienza come Charles Wilson, il quale, da
inglese, riconosce:
Il centro di gravità di tale area economica
in
rapido mutamento [quella del Mare del Nord]
fu, fino alla metà del secolo
decimottavo, la Repubblica Olandese, la quale
era di gran lunga più avanti di
ogni altro paese europeo in ogni aspetto
o quasi della tecnica economica. Non è
necessario leggere molto della copiosa letteratura
del secolo, né passare in
rassegna molti dei progressi compiuti nel
settore tecnologico, nei metodi
commerciali e nella finanza pubblica e privata
per rendersi conto che tanta parte
dei progressi inglesi furono realizzati semplicemente
imitando gli olandesi. [4]
Ma torniamo al Journal des Savants,
che riotterrà il permesso di pubblicare dopo
che, nel gennaio del 1666, la
direzione del giornale sarà assunta dall’abate
Gallois [5] . Il
periodico scientifico francese, che dal 1668
pubblicò poi regolarmente,
mantenne sempre uno stretto rapporto col
Philosophical Transactions, e
gli scambi di articoli tra i due periodici
rappresentarono uno dei più proficui
collegamenti tra la cultura britannica e
quella francese, tenendo al corrente
il pubblico colto dei due paesi degli stessi
eventi scientifici d’avanguardia che
avvenivano sull’una o sull’altra sponda della
Manica. Ma la periodistica
scientifica continuò a progredire nella seconda
metà del Seicento e tra i più
seri e importanti certamente vi furono gli
Acta eruditorum di Lipsia,
che inizia a pubblicare dal 1682, e il Mémoires pour l’Histoire des Sciences
e des Beaux-Arts a partire dal 1701.
L’evoluzione
del tipo di articoli pubblicati nei più comuni
giornali dell’epoca tra il 1720
e il 1750 circa ha un significato culturale
non trascurabile, ma essa riguarda
quasi esclusivamente i giornali laici, mentre,
tra quelli clericali più letti,
il Journal de Trévoux, non subisce nel trentennio evoluzioni
apprezzabili. Il Mercure de France passa da 1 articolo di politica e 4
di scienza nel 1722-23 rispettivamente a
11 e 26 nel 1750-55. Il Journal des
Savants, che non si occupava di politica nel 1720-21,
trent’anni dopo, nel
1750-55, ne pubblica 15, mentre per la filosofia
e le scienze sperimentali passa da 13 a 71 [6]. Va
però precisato che per quanto riguarda la
filosofia (ad eccezione del Journal
encyclopedique) nei giornali ad ampia diffusione sopra
citati più che di
articoli singoli si trattava perlopiù di
inserti in contesti più ampi e
differenti, che potevano riguardare la storia,
la letteratura o il teatro. Né
va dimenticato che gli stessi giornali davano
largo spazio e risalto anche ad
articoli religiosi, la cui evoluzione però
non ci è nota.
Vi è un altro aspetto assai interessante
dell’evoluzione della pubblicistica settecentesca
consistente nel fatto che
l’uso della lingua latina subisce una riduzione
notevole dal 1750 in poi, pur rimanendo
la lingua principale della cultura umanistica.
E tuttavia alcuni fatti sono
significativi: dal 1757 non ci sono più in
Francia tesi di laurea di logica o
di fisica scritte in latino, dal 1759 i discorsi
per l’assegnazione di premi
vengono fatti in francese ed anche i testi
di retorica cui fare riferimento
diventano via via quelli scritti in francese
[7].
Questa tendenza naturalmente scatena la riprovazione
dei tradizionalisti, come
Rigollet de Jouvigny, che lamenta:
La nobiltà, la borghesia, la stupida opulenza
sono state sedotte dalla ciarlataneria di
queste nuove istituzioni dove tutto è
insegnato, tranne quello che sarebbe bene
sapere, in cui tutte le scienze
vengono ostentate, sfoggiate sulla porta,
ma in cui l’ignoranza insegna
all’interno. [8]
Qui
le scienze diventano ciarlataneria, mentre
la teologia patristica e scolastica,
insieme con la retorica ciceroniana, sono
“ciò che sarebbe bene sapere”. Ma gli
sviluppi della nuova sete di cultura risultano
inarrestabili, ed iniziative
estremamente importanti sono la fondazione
della Biblioteca Nazionale Centrale
di Parigi e di altre corrispondenti nelle
altre maggiori della Francia.
L’apertura di biblioteche pubbliche su tutto
il territorio e l’avviamento di
corsi pubblici di acculturazione, perlopiù
gratuiti, si hanno quasi ovunque in
Francia fin dai primi decenni del secolo,
con un’accelerazione netta di
iniziative del genere a partire dalla sua
metà.
La domanda di cultura costringe il regime
a
prenderne atto, e ad agire di conseguenza;
interessanti sono i provvedimenti relativamente
alle biblioteche. Mornet, nel suo Le origini intellettuali della Rivoluzione
Francese, ne fornisce una lunga elencazione, dalla
quale traiamo quelli che
ci paiono di maggior rilievo. Una biblioteca
comunale di 4.500 volumi è aperta
al pubblico a Meaux nel 1714 su lascito di
un certo Ronssin; la biblioteca
dell’università di Caen dal 1731 è aperta
al pubblico due giorni la settimana; negli
stessi anni la biblioteca dell‘Accademia
di Bordeaux apre tre giorni la
settimana a tutti; quella del Collegio dei
Grandans di Digione dal 1750 diventa
pubblica quattro giorni la settimana; tra
il 1753 e il 1771 aprono al pubblico
biblioteche a Nantes, Nancy e Lione. A Grenoble
nel 1773 il comune acquista la
biblioteca vescovile (33.000 volumi) e la
rende pubblica. Nel 1776 apre la
biblioteca di Carpentras, nel 1782 quella
dell’accademia di Rouen, nel 1783
quella di Bordeaux, nel 1784 quella di La
Rochelle. Risulta persino che a
Verdun, nella pubblica biblioteca, vengano
lette nel 1784 opere proibite
(Boulanger, Hèlvetius, Mably, Fréret) da
parte di un certo La Gorse [9].
Corsi pubblici di educazione scientifica
a
carattere popolare iniziano intorno al 1760.
Tra essi ci sono corsi di chimica
e botanica ad Angers dal 1770 e poco dopo
di fisica a Digione e Verdun,
filosofia e matematica a Orléans, chirurgia
e matematica a Rennes, matematica e
disegno a Reims nel 1772. Ancora ad Angers
seguono corsi di elettricità nel
1773, di fisica sperimentale a Rodez nel
1775, di fisica nel 1776 e di chimica
nel ’77 a Caen. Corsi di anatomia e chimica
vengono istituiti a Grenoble nel
1778, di matematica a Metz nel 1779, e ancora
di chimica ad Amiens e a Reims.
Un caso particolarmente interessante riguarda
il Museo di Bordeaux, fondato nel
1783, che organizza corsi di matematica,
astronomia geometria, ottica, fisica,
chimica, anatomia, geografia, letteratura,
greco, latino, tedesco ed inglese.
Quasi un’università per il grosso pubblico
e alla portata di molti. Ma le
iniziative di quest’associazione culturale,
che gode di moltissimi associati,
assumono anche simbolicamente un valore anche
etico-politico nel 1787, quando
il motto del museo diventa “Liberté et Egalité”,
anticipatore di un nuovo clima
sociale assetato di democrazia. Analogamente
a Lione nel 1786 nasce il Salon
des Arts, che organizza concerti ed esposizioni,
nonché corsi di lingua e
letteratura francese, inglese, italiana,
nonché fisica e medicina [10]. All’indomani
della Rivoluzione, con la legge Lakanal del
novembre 1794, si stabilirà (per la
verità con soverchio ottimismo) che in tutti
i comuni oltre i 1.000 abitanti venga
istituita una scuola elementare per ragazzi
e ragazze, con insegnanti reclutati
e valutati a livello distrettuale [11]. Ma
al maggior livello sarà il Direttorio a preoccuparsi
di fondare le prime grandes
écoles della Francia, l’École Normale Superieure e il Polytecnique,
le istituzioni che avrebbero dovuto istruire
le menti migliori al servizio dello stato.
A conferma del fiorire di tali iniziative
e
dello scetticismo che esse creavano in un
pubblico conservatore è interessante
leggere ciò che scriveva il romanziere Doray
de Longrais nel suo Faustin ou
le siècle philosophe del 1784:
Abbiamo scuole di provincia, giornali e riviste
(delle quali parleremo), biblioteche e raccolte,
gazzette politiche,
letterarie, economiche, di medicina, teatro:
almanacchi e portafogli,
enciclopedie e dizionari di scienze, lessici
e annali, istituti di filantropia
e di predicazione, scuole di arti e mestieri,
scuole di umanità, scuole di
diritto, collegi tradizionali, musei, licei,
giornali e romanzi per il popolo,
libri elementari e pedagogici, società economiche,
patriottiche, letterarie e
tipografiche, gabinetti di lettura, biblioteche
di lettura, club, taverne,
fumerie politiche e letterarie ecc. [12]
L’elencazione
un po’ noiosa cela un certo disprezzo anche
per gli accostamenti fatti ad arte
delle ultime voci, e tuttavia, come nota
Mornet, l’estensore di questo elenco
non vede nessun rischio in ciò che sta avvenendo,
ma solo il fatto che la
forza-lavoro del popolo, con tutte queste
offerte di socializzazione e
acculturazione, si stia perdendo in attività
inutili e improduttive. A
posteriori noi sappiamo che un rischio c’era:
che la gente, aumentando il
proprio livello culturale, cominciasse a
porsi qualche “perché?” di troppo, e
che non ricevendo risposte adeguate nei propri
Cahiers de doleance o
nell’intimità dei propri dubbi, cominciasse
ad inquietarsi sempre di più e ad
agitarsi di conseguenza.
Il Settecento vede anche il nascere di un
“pubblico” in senso moderno, ovvero di persone
che leggono e che partecipano
agli eventi sociali in vario modo, e dell’”opinione
pubblica” che ne deriva. Ad
essa ha dato molta importanza Mornet, quale
elemento tipico della società
moderna, che può esporre al potere le sue
insoddisfazioni, i suoi suggerimenti
e le sue speranze; ed un pubblico che prima
legge ed ascolta, e poi condiziona
con le sue scelte e le sue preferenze l’industria
culturale. Così un libro che
vende molte o poche copie o un giornale che
conta molti abbonati o pochi sanno
se l’opinione pubblica è favorevole, ma anche
un’opera teatrale od un programma
di musica misurano il loro successo attraverso
il numero di biglietti venduti o
di applausi agli interpreti. Ma con un pubblico
popolare nascono anche gli
opinionisti, i critici della politica, quelli
letterari, quelli dell’arte,
quelli, dello spettacolo; e nasce anche quell’ambiguo
connubio di gusto
naturale e di gusto indotto. Così il Settecento
vede per la prima volta il
plagio dell’intellettuale di professione
su un pubblico non sempre all’altezza
di ciò che fruisce. Il pubblico che accede
per la prima volta alla vista dei
quadri appesi nel Salon Carré del Louvre vive un’esperienza nuova,
esaltante o deludente; ma presto sui giornali
che legge qualcuno nella rubrica
culturale gli “insegnerà” come pensare gli
oggetti della sua esperienza. L’instaurarsi
di un’opinione pubblica, autonoma o influenzata
che sia, prepara anche il
terreno per la nascita di quella “logica
del consenso” che caratterizza ogni
società civile e democratica sostituendosi
alla “logica della forza”, tipica delle
società pre-democratiche. Ma quest’orizzonte,
che in Francia si affaccerà timidamente
con la Rivoluzione, verrà immediatamente
oscurato dall’Impero.
È probabilmente ad ogni livello e in ogni
strato sociale che l’indebolimento dell’autorità
morale del sovrano e della
Chiesa porta ad un aumento del confronto
di idee originali e di opinioni
critiche. Gli stessi scioperi attuati dai
lavoratori dal 1760 in poi nascono da
un confronto di idee all’interno del mondo
operaio, ma è sicuramente in quello
dell’alta borghesia e dall’aristocrazia
più aperta che i “salotti” d’incontro diventano
fucine di nuove idee. Nei
convegni da essi ospitati si parla di tutto,
ma anche si gioca e ci si
trattiene a tavola; non ci sono contrapposizioni
violente, o almeno il rango di
persone ben educate le evita accuratamente.
Ma possono nascere anche sincere
amicizie tra l’abate liberale e il borghese
ateo; e spesso, in questi salotti,
nascono anche le candidature ad incarichi
culturali o per l’elezione a membro
dell’Académie.
Ma non tutti gli uomini dell’epoca sono
entusiasti della diffusione della cultura
attraverso la carta stampata e tra
questi Rousseau, che dichiara:
L’abuso dei libri uccide la scienza. Credendo
di
sapere ciò che abbiamo letto, ci riteniamo
dispensati dall’imparare. Le troppe
letture servono solo a creare dei presuntuosi
ignoranti. Tra tutti ti secoli
della letteratura non ce n’è stato uno in
cui si leggesse tanto come in quello
presente e in cui gli uomini fossero meno
colti. [13]
L’opinione
di Jean-Jacques non sorprende, egli auspica
infatti il ritorno al “duro e puro”
primitivismo dell’uomo di natura, non ancora
corrotto dalla civiltà. L’eccesso
della lettura, che porta “mollezza” nei costumi
e ”impurezza” nelle emozioni e nei
desideri, è certamente contrario al
perseguimento di quell’ideale.
Nel Settecento è la Gran Bretagna il paese
d’avanguardia
per la presenza di un pubblico che determina
con le proprie preferenze
l’industria della cultura e dell’informazione;
ed è quindi lì dove nasce la
prima pubblicistica periodica di tipo moderno.
Lo Spectator, che esce
dal 1710, fornirà sino al 1724 un modello
insuperato di libera stampa ad ampio
ventaglio di argomenti. Presto imitato sul
continente dà luogo a numerose
pubblicazioni simili, anche se la censura,
specialmente in Francia, rende
piuttosto difficile il lavoro dei redattori.
Nella capitale, comunque, le cose risultano
più facili rispetto alla provincia, al punto
che qualcuno può affermare: «I
censori librari di Parigi sono i più giusti
e ragionevoli del mondo!» dove per
ragionevolezza, ovviamente, si deve intendere
tolleranza. Anche in un’Italia un
po’ retrograda, a Milano, quindi nell’abbastanza
liberale contesto
austro-ungarico, è interessante la pubblicazione
del Caffè, il giornale
dell’Accademia dei Pugni, un sodalizio di intellettuali aperti, colti,
intelligenti (e spesso autoironici), tra
i quali vi erano personaggi come
Pietro Verri e Cesare Beccaria. Sarà nelle
discussioni tra questi intellettuali
che matureranno i temi portati e sviluppati
da quest’ultimo nell’importante Dei
delitti e delle pene, forse la sola pubblicazione italiana che
avrà
risonanza internazionale.
3.2 Gli sviluppi della
pubblica opinione e del pensiero libero
Gli
storici del Settecento, e nello specifico
quelli dell’Illuminismo e della
Rivoluzione Francese, hanno prestato grande
attenzione, specialmente nella
seconda metà del ‘900, all’esistenza e agli
sviluppi della “opinione pubblica”
in Francia, che già abbiamo visto come nasce
e si presenta. L’evidenziazione
dell’importanza di questo fattore ha tra
i suoi sostenitori studiosi tedeschi come
Reinhart Koselleck e Jürgen Habermas; il
primo in chiave più strettamente
storica e il secondo in quella della filosofia
della storia. Essi saranno poi
seguiti da numerosi altri studiosi [14]
nell’ultimo ventennio del Novecento. Il Koselleck,
nel suo Critica
illuminista e crisi della società borghese
del 1959, esprime l’idea che il
popolo non abbia ottenuto affatto un vero
accesso all’opinione pubblica, essendo essa nata e usata a fini di potere
(quale
semplice dilatazione dello spazio privato
a dimensioni pubbliche) da un’élite
ne tiene le redini e la pilota. In tale ottica:
«L’Illuminismo inizia la sua
marcia trionfale nel momento stesso in cui
allarga lo spazio privato fino a
farlo diventare pubblico. Senza rinunciare
al suo carattere privato, questo
settore pubblico diventa la tribuna della
società che compenetra tutto lo
Stato. Infine la società busserà alla porta
dei detentori del potere per
esigere anche qui l’accesso all’opinione
pubblica.» [15]
Secondo quest’autore una volta infranta l’unità
sociale dell’Ancien Régime
la rivoluzione borghese, promossa da letterati
e massoni, porta ad un clima
iper-critico che devasta le antiche credenze
ma è incapace di crearne di nuove.
Si determina allora quel clima di “crisi
permanente” che crea una patogenesi della
moderna società borghese, e con ciò
la sua crisi e la sua corruzione. La “critica”
illuministica, secondo
Koselleck, è diventata prima contro-critica
e poi super-critica, per finire in
un’ipocrisia che sotto le spoglie della morale
cerca solo il compimento di fini
politici.
Il
libro di Habermas Storia e critica dell’opinione pubblica, del 1962, sviluppa
invece la tesi che la pubblica opinione di
epoca illuminista sarebbe la diretta
conseguenza dell’aprirsi di uno spazio informativo
pubblico promosso dalla
borghesia. Esso è del tutto distinto dalle
correnti dell’informazione ufficiale
del potere centrale e dell’aristocrazia,
e ad esse alternativo. Il suo difetto,
per Habermas, quello di attenersi troppo
spesso a logiche capitalistiche troppo
attente, per questioni di mercato, ai gusti
e alle preferenze del pubblico “che
consuma”. Gli uomini del Settecento, d’altra
parte, erano ben consapevoli che
questo nuovo potere “d’opinione” si coniugava
con quello “d’informazione” in
modo ambiguo, sicché il loro atteggiamento,
all’interno stesso del movimento
culturale illuministico, non era affatto
univoco. Se infatti Voltaire era
favorevole allo sviluppo della pubblica opinione,
essendone anzi un promotore,
vi era Rousseau che lo considerava nell’Émile
un potenziale ostacolo al
dispiegarsi della coscienza individuale (come
poteva vederla un “arcaista”.
Aggiungiamo noi!). In effetti, secondo Habermas,
l’opinione pubblica incrocia,
e per molti versi va a collidere con la coscienza
individuale, nella misura in
cui tende a modificarne il punto di vista,
la sensibilità, la metodologia del
giudizio. Voltaire, all’opposto, con la sua
estroversione filantropica, non
solo cavalcava l’opinione pubblica, ma quale
“avvocato del genere umano” era
capace, come fu a sostegno della propria
azione a favore di innocenti condannati
ingiustamente, come Jean Calas e Jean-Franςois
La Barre, di coinvolgere
migliaia di suoi corrispondenti a sostegno
di una pubblica protesta .
Solidale con Voltaire era tutto il gruppo
dei philosophes, che ne
condivideva le battaglie civili e vedeva
nell’accesso del pubblico alle idee
dei Lumi una missione inderogabile dell’intellettuale. Anche i cosiddetti fisiocrati, gli
economisti che vedono nella terra e nei suoi
prodotti la base dell’esistenza,
ritengono che il parere della maggioranza possa essere
l’espressione di
una nuova maturità della nazione”, ritenendo
di favorire attraverso la loro
parola e i loro scritti l’emancipazione del
popolo, indicandogli le linee guida
per la corretta opinione. Punto di vista
condiviso da Condorcet quando, nel
1774, vede nel provvedimento preso da Turgot
per la libertà del commercio del
grano il realizzarsi della forza d’opinione
del popolo e con ciò la miglior
garanzia della giustezza e dell’auspicabile
successo della nuova legge. Ma la
caduta del riformatore, appena due anni dopo,
nel 1776, lo induce a
differenziare il concetto di “opinione pubblica”,
quale espressione delle menti
colte e “illuminate”, da quello di ”opinione
popolare”, propria delle menti
incolte e grossolane e favorita dalla monarchia
e dal clero. Si faceva così
strada un processo di “intellettualizzazione”
dell’opinione pubblica che
tendeva a staccarla dalla generalità del
punto di vista o dei punti di vista
generalizzati e popolari voluti dal poter
. Opinione sostanzialmente condivisa
da d’Holbach, che nel Système social del 1773 manifestava le sue
preoccupazioni per un’opinione pubblica “costantemente
depravata” dalla falsa
informazione del regime. Un punto di vista
che diviene comune e montante tra
gli intellettuali, sì da indurre il ministro
Malesherbes a sostenere nel 1775 persino
la necessità di rendere note al pubblico
le decisioni regali, al fine di
migliorare il rapporto di un popolo da “informare”
su ciò che faceva il suo re.
[16]
Ma la
“tendenzialità” dell’intellettualismo illuminato,
ovvero dei philosophes
e più in generale degli anti-monarchici,
finiva anche per determinare alcuni
eccessi di “pilotaggio” dell’opinione in
direzioni enfatizzanti gli aspetti
negativi dell’Ancien Régime. È stato rilevato come sicuramente eccessive
erano le critiche diffamatorie che colpirono
la regina Maria Antonietta negli
ultimi decenni del secolo, sì da rendere
di lei un’immagine carica di
negatività, diventata poi opinione pubblica
diffusa e condivisa grazie a un’informazione
libellistica piuttosto scorretta. Ma l’azione
informativa conta anche aspetti
altamente positivi nella messa in evidenza
degli abusi e delle ingiustizie
perpetrate a danno del popolo da parte delle
strutture di potere centrali e
periferiche, come si può comprendere scorrendo
il Tableau de Paris del
1781 di Luis-Sebastien Mercier [17]. Il
problema di una corretta informazione dell’opinione
pubblica attraverso
l’informazione si intreccia ovviamente con
quello della libertà di stampa;
problema ben visto dal napoletano Gaetano
Filangieri, che auspicava la collaborazione
tra gli intellettuali e il potere e la possibilità
di fare dell’opinione
pubblica un tribunale popolare “saggio e
virtuoso”, capace di coniugare i
desideri e i doveri ai fini del conseguimento
della felicità generale [18].
Il
libero pensare e il libero discutere, almeno
in ambito privato e tra amici,
diventa frequente nel XVIII secolo, e ciò
fa riscontro, sotto il punto di vista
sociale e culturale, a quella della pubblica
opinione quale inedita forma di
“potere” della parola e delle sue possibilità
critiche. Il fenomeno del
“salotto di discussione” non è nuovo in senso
assoluto, ma sicuramente, per la
sua estensione in ambiti e circoli dell’alta
borghesia e della nobiltà
liberale, diventa in questo secolo un importante
motore di cultura. Come
abbiamo già rilevato i partecipanti agli
incontri nei salotti avevano opinioni
per nulla univoche. Nel salotto di Madame
du Deffand si potevano incontrare
anche i philosophes più libertari ed eversivi, ma poi la padrona
di casa
poteva scrivere in rima: «Oggi l’eccessiva
licenza si chiama libertà. A forza
d’insolenza si vuole fondare l’eguaglianza.
Ed esaltare la beneficenza senza
concorrere al bene viene chiamata umanità.»
[19]
L’intelligente donna, ma di modesta cultura,
ospitando ed ascoltando i più noti
intellettuali dell’epoca, era in grado di
cogliere facilmente un’ipocrisia che
permea in ogni tempo e in ogni luogo le élites.
Chiudiamo questo paragrafo con l’accenno
ad un argomento che ci dispone al
successivo: quello dei Salons, le mostre pubbliche che consentono anche
ai ceti più popolari di prendere contatto
con l’arte colta. L’organizzazione
dei Salons parte da lontano, ma è dal 1791 che, come
già detto,
divenendo annuale assume il carattere di
un avvenimento culturale fisso,
appuntamento di gente colta e non, oggetto
di
libera discussione e di confronto. Va detto
però che fin dal 1673
Colbert aveva aperto al pubblico le mostre
dell’Accademia Reale di pittura e
scultura, e che dal 1737 il Salon dell’Accademia Reale era diventato
biennale grazie a Jean Baptiste Chardin,
il grande pittore diventatone curatore
dal 1771. Nell’ultimo trentennio del secolo,
con le critiche d’arte di Caylus, di
Cochin e soprattutto di Diderot e di altri
innovatori, matura quella
contestazione del classicismo che porterà
nel Salon del 1784 al successo di
David col suo Giuramento degli Orazi, ma in seguito anche al nascere di
un nuovo convenzionalismo artistico sotto
il regime napoleonico.
Diderot scrive i suoi Salons (i suoi articoli di critica d’arte)
dal 1758 al 1781, costituendo con essi un
nuovo e facilmente accessibile modello
letterario dell’interpretazione dell’operare
artistico alla portata di tutti, e
pertanto nuovo mezzo di acculturazione di
notevole importanza sociale. Come già
detto i Salons diventano annuali dal 1791 ed aperti ad
artisti anche non
appartenenti all’Accademia. Ma siccome l’ammissione
era decretata da
un’apposita commissione dell’Institut de France, già dall’epoca del
Direttorio, ma specialmente dall’istituzione
dell’Impero in poi, le commissioni
furono sempre più pilotate dalla politica,
cassando così il più genuino spirito
dei Lumi. Va ricordato peraltro che il primo
resoconto su una mostra d’arte era
già apparso nel 1747 ad opera di La Font
de Saint-Yenne [20], che
si era posto il compito di testimoniare il
gusto del pubblico e le sue
opinioni, ma anche di indirizzarlo sulla
base di una formazione accademica di
tipo tradizionale; d’altra parte anche Anne-Claude-Philippe
Caylus (operante
sin dal 1757) non si scosta troppo da modelli
classicisti. Dopo di lui però furono
numerosi i letterati che vi si dedicarono
con continuità, per quanto sarà solo con
Diderot che si avrà la grande svolta in senso
illuministico della critica
d’arte.
3.3
Il senso estetico e l’estetica teorica
Si
tende speso a sottovalutare nell’analisi
storiografica l’importanza
dell’evoluzione dei gusti e delle preferenze
nel campo delle lettere, delle
arti e dello spettacolo. Sotto questo punto
di vista il ‘700 è un secolo
estremamente importante, non solo perché
con esso nasce “ il pubblico”, spettatore
e fruitore dei più svariati tipi di
svago e servizi culturali, ma perché una
vera e
diffusa sensibilità estetica generale si
va formando. Sia il fenomeno
estetico in sé (come creazione e fruizione)
e sia quei processi evolutivi di
mutazione del gusto rende euristicamente
importante occuparsene. Sia l’estetica
vera e propria (in senso teorico) e sia la
produzione e la fruizione artistica
(in senso pratico) ci permettono di cogliere
bene l’evoluzione della cultura del ‘700, la quale, per quanto caratterizzata
dall’affidamento alla ragione, non vede l’affermazione
della razionalità come fattore
determinante in arte, poiché gran parte di
essa nasce al di fuori di qualsiasi gabbia
razionalistica. Né è stato il
laicismo settecentesco più favorevole all’arte
di quanto lo sia stata la
religiosità tradizionale, poiché il clima
pietistico ha dato a Bach spunti
estetici assai più importanti di quanti ne
abbia dati il razionalismo francese a
Rameau. È stata semmai la Rivoluzione, col
suo intento di democratizzazione, ad
aver avuto un ruolo importante per rimescolare
le carte della cultura. Fu così
che, un po’ sotto pulsioni spontanee ed un
po’ con la regìa dell’intellettualità
“impegnata”, si è verificata una grande occasione
di incontro tra la cultura
delle classi alte e la voglia di imparare
di quelle basse. Ma questo incontro,
spesso pilotato ideologicamente, di per se
stesso non ha prodotto sempre buoni
risultati, dovuti perlopiù a situazioni contingenti
extrapolitiche o a grandi
personalità artistiche e letterarie, le quali,
come sempre, non hanno né patria
né parte.
Anche
nel mero senso di attività di intrattenimento
e svago le più diffuse e aperte
opportunità culturali diventano, in un’analisi
della temperie illuministica,
importanti fonti di informazione per una
miglior comprensione dell’evoluzione
sociale; ed è su questo sfondo che appare
il rilevante impegno rivoluzionario a
favore delle classi basse per la loro emancipazione
culturale. Di questa
opinione è anche Michel Vovelle che in La mentalità rivoluzionaria scrive:
«la Rivoluzione si definisce infatti come
uno dei primi e più giganteschi
tentativi di spostare, se non di abolire,
la frontiera tra cultura di élite e
cultura popolare, proponendo a tutti un modello
etico ed estetico comune. La
“Grande Arte”, divenuta arte impegnata, scende
in strada e ispira la
scenografia della festa rivoluzionaria, costituendo
una testimonianza sempre
più evidente di una sensibilità nuova.» [21] Va detto, tuttavia, che in Francia, sin
dall’ultimo quarto del secolo precedente,
una sapiente gestione delle risorse
culturali, sostenuta dal ministro Colbert,
aveva già permesso al grosso
pubblico di accedere a forme della cultura
colta da cui era stato
precedentemente escluso. È però solo nel
Settecento che sia in Francia che nel
resto d’Europa si assiste a una promozione
del piacere estetico. E ciò non
tanto, o non sempre, per il valore delle
opere realizzate, che è notevolissimo
in alcune arti (come la musica e la letteratura)
e modesto in altre (come la
pittura e la scultura), ma perché a cambiare
è la consapevolezza del valore
dell’arte in senso esistenziale, di ciò che
sia come fonte del bello, e
di quali siano i sentimenti del creatore
e del fruitore dell’opera.
Etimologicamente il termine estetica va inteso come “disciplina
per la conoscenza del sensibile”, essendo
il sensibile ciò che si offre alla
percezione dell’occhio e dell’orecchio. In
quest’accezione rigorosa del termine
non è posta alcuna differenza tra il fruire
lo spettacolo di un tramonto in
natura e quello di un quadro che lo rappresenti
per mezzo di colori su una
tela; e in tal senso lo intendeva Baumgarten
e così pure lo intendeva ancora
Hegel. Naturalmente il rapporto tra natura
ed arte coinvolge anche il concetto
di “imitazione”, oggetto di analisi e studi
sin dall’antichità, ma su cui qui
non ci soffermeremo. Pur ponendoci dei limiti,
l’argomento resta comunque così
complesso e vasto (il numero degli studi
sull’estetica settecentesca è
sterminato) che ci limiteremo a pochi accenni
sintetici. L’estetica,
come disciplina filosofica, nasce ufficialmente
nel 1735 con l’opera di
Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762)
che ha per titolo Meditationes
philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus, sviluppata poi nel
successivo Aesthetica del 1750. Il merito di Baumgarten sta nell’aver
posto in modo chiaro la distinzione tra ciò
che è soggetto a valutazioni di
tipo logico e ciò che si offre a una percezione
intellettuale di tipo
sensistico-percettivo, definita scientia cognitionis sensitivae. Già nel
primo paragrafo dell’opera cogliamo una definizione
sufficientemente chiara: «
L’estetica (ovvero teoria delle arti liberali, gnoseologia
inferiore,
arte del pensare bello, arte dell’analogo
della ragione) è la scienza della
conoscenza sensitiva.» [22] Dopo
di che essere l’estetica: 1. la categoria di attività delle arti
liberali in senso tradizionale; 2. relativa
ad un tipo di conoscenza secondario
e impreciso; 3. avere per ambito operativo
la bellezza; 4. fondarsi su una
razionalità analogica che la fonda e la rende
possibile. Con ciò la sensibilità
estetica, la cognitio sensitiva, è riconosciuta come una forma di
conoscenza di tipo particolare, assumendo
tra le attività umane una configurazione
specifica e indipendente. Non certo conoscenza
rigorosa, ma piuttosto “aurorale”
ed immediata, per quanto “non-irrazionale”.
Baumgarten coglie anche con
chiarezza il carattere polisemantico dell’estetica,
che deve saper cogliere in
oggetti e rappresentazioni di carattere assai
differente ciò che le
caratterizza. E tuttavia questo fondatore
della una pseudo-scienza “del bello” avrà
numerosi prosecutori, tra i quali, trent’anni
più tardi, anche il grande Kant.
Già
nella Critica della ragion pura vi è infatti una prima definizione
dell’estetica (trascendentale) come «scienza
di tutti i principi a priori della
sensibilità […] in opposizione a quella che
contiene i principi del pensiero
puro. » [23] La
conoscenza del “sensibile” e quella del “pensabile”
vengono divise, ma Kant,
sempre alla ricerca di ogni possibile unificazione
o quanto meno della ricerca
dell’elemento unificante, intravede la possibilità
di un legame tra la sfera
del naturale-conoscibile e quella dell’umano-agibile:
«Sicché vi deve essere un
fondamento dell’unità tra il soprasensibile, che sta a fondamento
della
natura, e quello che il concetto della libertà
contiene praticamente » [24], e:
«nella famiglia delle facoltà conoscitive
superiori vi è ancora un termine
medio tra l’intelletto e la ragione.» [25] Esso
è così individuato:
Questo temine medio è
il Giudizio; del quale si ha ragione di presumere, per
analogia, che
contenga anch’esso, se non una sua propria
legislazione, almeno un principio
proprio di ricercare secondo le leggi, e
che in ogni caso sarebbe un principio a
priori puramente soggettivo; un principio che,
se anche non avrà dominio su
verun campo di oggetti, potrà tuttavia avere
un qualche suo territorio, così
costituito che in nesso soltanto quel principio
sia valido. [26]
L’indeterminazione della disciplina, che
permaneva forte in Baumgarten, è superata
dalla pulsione teorizzatrice di Kant
avviandosi una « legislazione », o quantomeno
un criterio rigoroso di
approccio, per quanto soggettivo. Con ciò
il giudizio estetico avrà un «qualche
suo territorio » nell’ambito del quale sarà
operante. In realtà, prima dei due
tedeschi, già Gian Battista Vico aveva tentato
un’analisi (in senso
storicistico) del fatto estetico, cogliendo
nella poesia il tentativo aurorale
e primitivo per un approccio alla conoscenza.
L’atteggiamento poetico era per
il Vico un “fatto” antropologico definito,
il quale, come fase primitiva dell’evoluzione
antropica era una prima forma di conoscenza
del mondo materiale e di quello
divino:
375. Adunque la
sapienza poetica, che fu la prima sapienza
della gentilità [del mondo pagano],
dovette incominciare da una metafisica, non
ragionata ed astratta qual è questa
or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata
quale dovett’essere di tali
primi uomini, siccome quelli ch’erano di
niuno raziocinio e tutti robusti sensi
e vigorosissime fantasie. [27]
Quest’affermazione, la cui premessa era già
nella
definizione: «Gli uomini prima sentono senz’avvertire,
dappoi avvertiscono con
animo perturbato e commosso, finalmente riflettono
con mente pura. » [28] ci
dice che la capacità poetica rappresenta
una fase pre-razionale della
sensibilità coniugata la fantasia, tipica
dell’infanzia. Il momento poetico si
manifesta così come testimone primario della
“infanzia dell’umanità”, e quindi,
per lo storico, potente strumento d’indagine
sul mondo antico. In quella
temperie poetica “si inventano gli dèi” e
quelle favole (in contrapposizione
alla posteriore rivelazione del “vero Dio”
nella Sacra Scrittura), trovano in Omero
la forma più pura ed autentica di poesia.
Il
problema del “giudizio sull’arte poetica”
era già stato presente alla fine del
Seicento con la celebre querelle tra antichisti e modernisti che Charles
Perrault aveva avviato con i Parallèles des Anciens e des Modernes
(1688-1697), schierandosi a favore dei secondi.
Ma Fontenelle, che pure era modernista,
riteneva che Omero parlasse una “lingua divina”
che non doveva essere confusa
con l’”umano” linguaggio moderno, poiché
questo è troppo vincolato dalla
razionalità. E con un po’ di ironia intravedeva
in Digressione sugli antichi
e sui moderni (1688) la difficoltà di “razionalizzare”
il giudizio
artistico come qualcuno avrebbe preteso:
Rappresenterei
volentieri la natura con la bilancia in mano,
come la giustizia, per mettere in
evidenza la sua cura nel pesare con equità
e nell’equilibrare, per quanto è
possibile, tutto quello che distribuisce
agli uomini, la fortuna, il talento, i
vantaggi e gli svantaggi delle diverse condizioni,
la facilità e la difficoltà
relativa alle cose dell’ingegno. [29]
L’impossibilità di pesare la poesia e la
bellezza era ciò che aveva già intuito Graciàn
col termine abbastanza vago di agudeza,
ed anche Locke, nel porre la differenza tra
il wit (ingegno ed arguzia
intellettuale) e il wisdom (il giudizio razionale e saggio). aveva
già
un’idea molto chiara della differenza tra
un conoscere basato sulla ragione ed
uno basato sull’intuizione sensibile. Nel
contempo Locke aveva anche compreso
quanto poco realistica potesse essere la
contrapposizione tra arte moderna ed antica,
e quanto di troppo filosofico (in riferimento
ai cartesiani) entrasse in un
campo in cui la filosofia aveva poco da dire.
Ed era stato ancora il Vico, in De
nostri temporis studiorum ratione (§ 5), ad opporre l’ingenium alla ratio
cartesiana. Ora, ciò che emerge chiaramente
in riferimento alla sfera dell’arte
è quanto poco realistico ed inadeguato fosse
quel razionalismo di marca
cartesiana, ancora presente all’inizio del
Settecento soprattutto in Francia. che
pretendeva occuparsi dell’arte e della poesia
classificandone e gerarchizzazione
la fenomenologia e gli oggetti. Un razionalismo
astratto che, peraltro, non ha
neppure capito che ciò che può valere sul
piano di una logica formale è privo
di rapporti con la realtà concreta.
Era stato proprio Baltasar Graciàn
(1601-1658) a cogliere in modo chiaro già
all’inizio del Seicento che
l’approccio alla sfera dell’arte deve connotarsi
come “particolare”. In verità
il problema del senso estetico (anche in
rapporto al piacere della fruizione) è
per Graciàn una ri-creazione analogica del
bello naturale; non fantasia pura,
quindi, ma ancor meno imitazione. È l’agudeza del soggetto, l’acutezza
della sensibilità individuale, a cogliere
il rapporto tra le cose reali e le
loro rappresentazioni, sì da permettere di
coglierne sia le armonie e sia le
disarmonie in una dialettica estetica che
sfugge ad ogni schematismo. La grande
novità gracianiana è che proprio questi elementi
contraddittori, cioè le
dissonanze, i paradossi, gli eccessi, gli
enigmi, ecc. sono gli elementi
principali della creazione artistica; e ciò
con cui il fruitore si sintonizza
nella prensione di un bello artistico
non è mai canonizzabile. In ambito francese
una posizione degna di nota era
stata assunta un poco più tardi da Nicolas
Boileau (1636-1711), poeta e critico
modesto, ma autore di un’Art poëtique (1674) nella quale si tenta di
definire indirizzi operativi ancora tipicamente
barocchi, basati
sull’”effetto”, dove non manca il riferimento
alla pietà e al terrore della catarsi
aristotelica nei termini seguenti:
In tutti i nostri
discorsi la passione commuova, vada a cercare
il cuore, lo ecciti. Se il
gradevole furore di un bel movimento, talora
non riesce a riempirci di un dolce
terrore, o non suscita nel nostro animo una
pietà incantevole, è inutile che
facciate sfoggio di una scena sapiente […]
Il segreto è, innanzi tutto, quello
di piacere e commuovere. [30]
Per quanto venga naturale ricordarsi del
Giovan
Battista Marino della Murtoleide (1619), quando faceva dire al Murtola:
«È del poeta il fin la meraviglia / (Parlo
dell’eccellente e non del goffo) /
Chi non sa far stupir, vada alla striglia!»,
siamo ormai lontani da quella
linea, ma quelle motivazioni non paiono ancora
del tutto abbandonate. Sarà poi Du
Bos a riprendere la posizione di Boileau
in termini illuministici e nuovi.
L’estetica,
nominalmente, si presenta come disciplina
unitaria, in realtà essa si
differenzia a ventaglio appena sia preso
in considerazione l’”oggetto” del suo
teorizzare. È infatti l’oggetto, e con esso
il mezzo d’opera per realizzarlo,
che impone il tipo di approccio teorico i
tipi di criterio che lo governano.
Gli oggetti che nascono attraverso le parole,
attraverso i suoni, o per mezzo
di supporti e materie colorate di natura
diversa, sono tutti profondamente
differenti, sia nella progettualità, sia
nella genesi, sia nel contesto di
utilizzazione, sia nelle modalità di utilizzazione.
Da ciò l’esistenza di
differenti indirizzi estetici: letterario,
musicale, teatrale, artistico; anche
se ciò non esclude accostamenti, convergenze,
simbiosi, sintesi, e vere e
proprie coniugazioni, come avviene nel teatro
e nella lirica. Ma sono le
cosiddette belle arti (quelle
“figurative”) ad interessare maggiormente
i teorici dell’estetica, per quanto
in notevole misura nei loro studi fossero
incluse le espressioni letterarie in
genere e quelle poetiche in particolare,
con riferimento (e parziale
assunzione) della nota identità esposta da
Orazio nell’Ars poetica, espressa con l’aforisma ut pictura poësis. Accade infatti che sia con la pittura e
sia con
la poesia si diano descrizioni, rappresentazioni,
evocazioni, simbologie, ecc.
sì da rendere possibile un relativo loro
apparentamento dal punto di vista
dell’analisi estetica.
Discorso
differente vale invece per la musica, e per
tale ragione, data la sua
specificità, dovremmo trattarne a parte;
anche perché il Settecento è il secolo
in cui la musica ha raggiunto le sue più
alte vette estetiche, espresse nelle
opere di Corelli, Scarlatti, Vivaldi, Bach,
Telemann, Haydn, Mozart, e del
primo Beethoven, per citare solo alcuni maggiori.
Ciò ci impone anche una breve
riconsiderazione degli elementi teorici che
precedono tale straordinaria
fioritura artistica, trovando una base espressiva
determinante nell’adozione della
“scala temperata” e delle tonalità maggiori
e minori, il che ha reso possibili
gli straordinari e tumultuosi sviluppi del
“far musica”. È infatti a fine
Seicento, nel 1691, che il temperamento equabile trova una sua
definizione con Andreas Werckmeister (Musikalische Temperatur), seguito
da Johann Georg Neidhart nel 1706 e poi da
Bach nei due libri del Clavicembalo
ben temperato. Ma vi sono anche ragioni culturali e sociologiche
alla base
dell’enorme produzione musicale settecentesca
e degli scritti teorici che la
concernono. Enrico Fubini apre così il suo
Musica e cultura nel Settecento
europeo:
In effetti è la
quantità la più vistosa novità che presenta,
anche per l’osservatore più
distratto il panorama sterminato degli scritti
sulla musica del Settecento;
forse per la prima volta nella storia dell’Occidente
la musica entra a far
parte a pieno diritto del mondo della cultura
nel senso più ampio del termine. [31]
Era
stato verso la metà del ‘500 che lo svizzero
Henricus Glarenius (1488-1563), con
il suo trattato Dodekachordon (1547),
aveva posto alcuni fondamenti del far musica,
distinguendo i musicisti in Symphonetae e in Phonasci. Tali curiose denominazioni indicano i compositori
che
operavano in maniera molto tecnica ma poco
creativa i complessi intrecci della
polifonia, contrapposti agli inventori di
melodie, che il Nostro considera i soli
autentici musicisti. Posizione che ritroviamo
in parte anche in Gioseffo
Zarlino (1517-1590), il primo grande teorico
della musica, colui che opera una
prima indagine sistematica e razionale sugli
intervalli musicali e sui loro
rapporti matematici. In tre famosi trattati
(Institutioni harmoniche, 1558; Dimonstrationi
harmoniche, 1571; e Sopplimenti
musicali, 1588), Zarlino poneva le basi di un’interpretazione
della musica
come strettamente legata alla “natura sonora”.
La scoperta dei suoni armonici
gli permise di individuare anche in modo
chiaro la possibilità di utilizzare i
due modi, il maggiore e il minore, e di poterli alternare e coniugare (per
quanto il primo considerato più naturale)
ricercando una
matematizzazione/razionalizzazione del suono
ed insieme una rapporto
parola/suono. Ciò per un verso richiamava
la musica della Grecia antica e per
altro si accordava col voler portare in primo
piano il versetto liturgico
rispetto alla musica, che doveva solo accompagnarlo.
Questa sorta di “purismo”
trova in un allievo di Zarlino, Vincenzo
Galilei (1520-1591), padre di Galileo
e buon liutista oltre che teorico, un’espressione
più rigorosa ed anche un poco
pedantesca. L’operazione trova luogo e fasti
nella fiorentina Camerata dei
Bardi, fautrice della monodia contro la polifonia,
in quanto ritenuta
edonistica, con una ripresa tutta religiosa
del sospetto nei confronti delle
“lusinghe dei suoni” (secondo il parere già
di Sant’Agostino). Atteggiamento
opposto quello assunto dal mondo protestante,
che faceva invece della
musicalità un elemento primario di elevazione
a Dio. Saranno infatti le fastose
e complesse “cantate” bachiane, insieme con
il suo articolato e complesso
contrappunto per clavicembalo e per organo,
a toccare vette insuperate di
brillantezza e profondità, nel massimo di
autonomia e sufficienza sia della
voce e sia della strumentalità pura.
Un
ruolo importante assume in epoca barocca
la “teoria degli affetti”, peraltro
già presente anche in Zarlino e Galilei,
che è sviluppata dal padre gesuita
Athanasius Kirker nel suo Musurgia
universalis sive arsa magna consoni et dissoni (1650) dove il pathos musicale è posto in stretta
connessione con la differente sensibilità
dell’animo umano, sostenendo:
«L’animo presenta un certo carattere che
dipende dal temperamento innato in
ogni individuo e perciò il musicista è portato
a un tipo di composizione
piuttosto che un altro. Quindi vi è una varietà
di composizioni quasi
altrettanto grande che la varietà dei temperamento
riscontrabile negli
individui.» [32] Il riferimento del
carattere musicale all’estrema varietà individuale,
sposta i termini del
problema dalla generalità astratta alla specificità
concreta del sentire
emozionale di ogni persona. All’inizio del
Settecento Johann Mattheson applica
la teoria degli affetti alla pluralità strumentale,
attribuendo un particolare
“colore emotivo” al suono di ogni strumento.
Egli dà alle stampe nel 1713 il Das Neu-Eröffnete Orchestre che teorizza
tali importanti intuizioni, promuovendo anche
la critica musicale col primo
periodico ad essa dedicato, il Critica
Musica che inizia ad uscire dal 1722. Gli fa seguito
Adolph Scheibe col suo
Der critiche Musikus (pubblicato dal
1737 al 1740), sul quale vengono dibattuti
problemi sia storici che estetici.
Anche questi elabora una propria teoria degli
affetti definita Figurenlehre (dottrina delle
figurazioni), dove le figure musicali
(i vari gruppi di note) vengono codificate
in funzione di intervalli, accordi e
figure melodiche dinamiche che trovano corrispondenze
in determinati affetti o
stati d’animo. Questo tipo di indirizzo a
favore della musica “che tocca il
cuore” intendeva contrapporsi ad un bachianismo
ritenuto troppo tecnico e
contrappuntistico.
Ma se
nel mondo germanico vi è grande maggior attenzione
ai problemi teorici ed
espressivi è in Francia dove si sviluppa
la più lunga e accesa polemica sul tipo
di espressione musicale. A darne inizio è
François Raguenet che, in seguito ad
un viaggio in Italia per meglio conoscere
il melodramma italiano,pubblica nel
1702 un Parallèle des italiens e des
Français en ce que regard la musique et les
opéras, ponendo la prima pietra
di un movimento filo-italiano nella concezione
della musica. Nel contempo egli
è assai critico nei confronti della “francesità”
di Jean-Baptiste Lully
(peraltro italiano di nascita) e dei suoi
seguaci, fautori di un maggior rigore
stilistico compositivo ed espressivo, ma
che si sarebbe tradotto in un classicismo
razionalistico troppo freddo e controllato.
Non tarda la risposta del lulliano
Jean Laurent Le Cerf de la Viéville, che
nel 1704 dà alle stampe la Comparaison de la musique italienne et de
la
musique française dove si difende la tradizione francese contro
il “bel
canto” italiano, ridondante ed eccessivo.
Ne nascono due partiti contrapposti
di musicofili, le cui polemiche dovevano
continuare per decenni, animare il
mondo intellettuale e coinvolgere anche numerosi
philosophes, tra cui Helvétius (a favore degli Italiens). In questo clima si inserisce l’opera del
grande teorico
Jean-Philippe Rameau, che col suo Traité
de l’Harmonie reduite a son principe naturel del 1722 rende una prima
grande esposizione teorica della natura del
suono e del suo utilizzo. Rameau, sul
piano del gusto, si pone sostanzialmente
a mezza strada tra filo-italiani e
filo-francesi, ma li supera nel concepire
la musica come “scienza” dei suoni,
degli intervalli e degli accordi, con l’ambizione
di porsi quale teorico sullo
stesso piano di quei “dotti” dominanti l’ambito
accademico dal quale i
musicisti erano rimasti sempre “istituzionalmente”
esclusi. Esclusione che
durerà, peraltro, ancora molto a lungo e
che nel 1777 vedrà Mozart cacciato a
pedate dallo studio di Hieronimus von Colloredo,
principe-arcivescovo di
Salisburgo, per aver “preteso” maggior libertà
di movimento e d’azione. Una
ribellione al potere costituito di un “domestico”
che deve così diventare, suo
malgrado, un “libero professionista”, e da
quel momento proporsi sul mercato alla ricerca del miglior offerente.
Una ribellione, quella del grande Wolfgang
Amadeus che, come sostiene Giorgio
Pestelli, assume «il significato di una dichiarazione
di guerra fra il nuovo
mondo borghese e l’antico regime della produzione
artistica.» [33]
Torniamo
a Rameau, che tenta di trasformare un’attività
ritenuta prima artigianale in
un’“arte liberale” di carattere filosofico-scientifico,
legandola strettamente
alla matematica. Egli scrive nell’ introduzione
al Traité: «La musica è una scienza che deve avere
delle regole
stabilite; queste regole devono derivare
da un principio evidente, e questo
principio non può rivelarsi senza l’aiuto
della matematica.» [34] Ma questo fondamento razionalistico non deve
tradursi in un inaridimento dell’ispirazione,
della varietà e del suo elemento
edonistico, poiché il piacere che deriva
dall’ascolto ci fa sentire il “divino
ordine universale”. L’armonia è l’unico elemento
musicale di cui si possano
dare «regole certe » ed è quindi la matrice
da cui far derivare gli altri
elementi: quello melodico e quello ritmico.
Questo punto di vista non
riscuoterà molti consensi e farà del Nostro
un isolato rispetto alla tendenza a
preferire una musica “linguaggio dei sentimenti”
e “piacere uditivo”. Ma
Rameau, che verso la fine della sua vita
accentuerà la tematica dell”armonia
universale e divina” in senso nettamente
mistico, diventerà un padre nobile
della sensibilità romantica che si proietta
in una divina “unità-totalità”
trascendente. Ma intanto il Settecento, insieme
col nascere della teoria
musicale e della critica, ha visto con lui
l’uscita della musica dal mero
ambito dell’intrattenimento e della piacevolezza.
La qualità
dell’interpretazione diventa oggetto di didattica,
con l’istituzione di
conservatori di musica aperti anche ai non
abbienti e quindi con maggior
possibilità di emersione del talento. Ma
si moltiplicano anche i trattati che
sulle orme di quelli di Rameau ampliano la
gamma dei punti di vista teorici,
così come migliorano le tecniche di produzione
degli strumenti, l’ampliamento
degli organici orchestrali e nuovi ambienti
con criteri costruttivi legati
all’acustica scientifica.
Prima
di lasciare la musica dobbiamo ancora soffermarci
brevemente su tre personaggi
“quali interpreti del fatto musicale” che
sono accomunati dalla partecipazione
all’Encyclopédie: D’Alembert, Rousseau e Diderot. Dedicheremo
loro soltanto un cenno nell’economia di questo
lavoro e utilizzando l’ottimo
saggio di Enrico Fubini Gli
enciclopedisti e la musica come traccia. D’Alembert nel suo Eléments de musique théorique et pratiques
del 1752 fa riferimento a Rameau, ma per
esporre anche idee più empiristiche;
egli pensa infatti che solo in senso metaforico
la musica sia una scienza,
precisando nell’Introduzione che i fenomeni
musicali implicano e presuppongono
una propria specifica «oscurità», sicché:
«in questo campo non dobbiamo certo
attenderci quella che si chiama una dimostrazione.»
[35] Il matematico, quindi, rifiuta la
matematizzazione della musica i senso rigoroso,
vedendo piuttosto
nell’esperienza e nella sensibilità la sua
vera base creativa. In arte non
esistono “regole” e perciò: «Nella musica,
come in tutte le arti, è compito
dell’artista dare le regole e seguirle, ma
spetta all’uomo di genio trovare le
eccezioni.» [36]. Siccome poi è proprio la
genialità a fare un vero artista, questi
“si farà” le proprie regole in
funzione di ciò “che vuole esprimere”. Per
quanto riguarda Rousseau va detto
che egli, in quanto anche musicista e compositore,
è certamente tra gli
enciclopedisti colui che ha dato maggiori
contributi, godendo anche di
un’indiscussa fortuna come teorico. La sua
Lettre
sur la musique française, del 1752, in un stile diretto e aggressivo,
suscita entusiasmi quanto critiche, destando
anche un certo scandalo nel ribadire
la ben nota tesi “arcaistica”. Ma vi pone
anche la domanda polemica: «È ancora
possibile oggi un’arte che sia autenticamente
espressiva, e cioè che non sia
puro arabesco sonoro come la musica strumentale,
puro divertimento e lusinga
dell’orecchio, e d’altra parte non sia freddo
discorso razionale,
significativo, ma solo per la nostra ragione?»
[37] L’auto-risposta, quasi scontata, indica come
unica
soluzione il recupero di un «originario accento
musicale » e di una «originaria
metodicità.» A Rousseau non interessa la
strumentalità ma unicamente la
vocalità (l’”originario accento musicale”),
che sarebbe ancora presente nella
lingua italiana (dolce ed armonica) e
non più in quella francese, che avrebbe assunto
un’“articolazione fredda e
dura”. Tesi già di per se stessa piuttosto
discutibile, ma che trova espressione
nella ricerca tutta rousseauana di una ”unità
della melodia” realizzabile col canto,
poiché è in esso che l’unità oggettiva del
suono e quella soggettiva
dell’artista “si fondono”, in una superiore
unità che le trascende. In quanto a
Diderot (di cui ci occuperemo diffusamente
più oltre) diremo qui soltanto che
egli condivide in buona parte l’opinione
rousseauana relativamente alla
priorità della musica vocale, in quanto “più
originaria”, pur vedendo nell’armoniosità qualcosa di assai più
complesso della mera melodiosità tale
da assumere caratteri di ricerca e
sviluppo maggiori. Ma egli ha anche una concezione
evolutiva della musica, che
deve svilupparsi nel tempo come ogni altra
attività legata all’intelletto e alla
sensibilità.
Tornando all’estetica più in generale, e
facendo un passo indietro, va
ricordato che nel processo di formazione
del senso estetico ha avuto notevole
peso André Félibien des Avaux (1619-1695),
un critico e scrittore d’arte,
autore del famoso Entretiens sur les vies et les ouvrages des
plus
excellents peintres, diventato una vera potenza culturale nella
Francia
della seconda metà del Seicento. La tesi
del Félibien, sull’esempio del Bellori
[38] e
sotto l’influenza di Le Brun [39], tendono a costituire un canone artistico
basato sulla composizione, dove è sì riconosciuto
il ruolo dell’immaginazione,
ma dove prevalgono regole rigoristiche ispirate
agli antichi. Con Roger de
Piles (1635-1709) si pone per la prima volta
in modo chiaro il concetto di
“genio” (ed anche il superamento della canonica
classicista posta da Félibien) ne
l’Abregé de la vie des peintres (1699). Il suo pensiero anti-accademico
ed a-sistematico apre così la strada verso
una maggior libertà del fare arte,
in senso più realistico e imaginifico, costituendo
un importante precedente per
la critica d’arte propriamente illuministica.
A
questo punto, all’inizio del ‘700, si possono
cogliere tre elementi che entrano
prepotentemente nelle considerazioni estetiche:
il sentimento, la ragione e
il piacere. La concezione
soggettivistica dell’arte, in contrasto con
una prevalente concezione
celebrativo-sociale e moralistica, trova
in Gran Bretagna terreno fertile. In
questo contesto emergono due personalità
di spicco: Antony Ashley Shaftesbury
(1671-1713) e Joseph Addison (1672-1719),
il primo molto legato alla tradizione
platonica e sostenitore del “sentimento morale”,
il secondo più propenso al
piacere. Shaftesbury, che godrà di un grande
successo anche nel resto d’Europa,
è autore di numerose opere che mettono in
evidenza come la valutazione etica ed
estetica non possano essere razionalistiche,
ma piuttosto basate su di una
sensibilità positiva, fondata sul senso della
convenienza e dell’ordine
armonico che lega l’individuo alla collettività
come unità-totalità. Scrive in Inquiry Concerning Virtue and Merit (II, 4) del 1699:
Quale differenza fra la concordia e la
discordia, fra le cadenze regolari e le convulsioni!
Quale differenza tra i
moti composti e ordinati,e moti accidentali
senza regola; fra l’edificio
regolare e simmetrico di qualche nobile architettura
e un mucchio di sabbia o
di sassi; fra un corpo organico e la nebbia
o le nuvole spinte dai venti! [40]
L’ordine contro il disordine quindi, e con
esso
un arte d’impronta classicista, in cui le
forme (secondo la lezione platonica)
dovrebbero tendere all’ideale. Un ideale che era stato rifiutato da
Locke e che per questa ragione era considerato
da Shaftesbury un
“barbaro”.
Il
secolo XVIII, in realtà, vede il concretizzarsi
di un processo di evoluzione
intellettuale iniziato sin dal ‘400, col
superamento della forma mentis
medioevale, e cresciuto poi irresistibilmente
in connessione con due fattori
principali: A. una nuova riconsiderazione
del valore dell’individualità e
dell’originalità; B. il porsi della libertà
di rappresentazione e la nascita
del problema del “gusto”. Così il Settecento
vede la tematizzazione della
dialettica bello/brutto in rapporto al piacevole/spiacevole,
e poi lo sviluppo
dei concetti di regola, originalità, libertà,
genialità, sensibilità, gusto, piacere,
scelta, ecc. L’artista medievale era un artigiano
che operava o per il
prestigio della municipalità o per la maggior
gloria di Dio, il valore della cui
opera si inseriva in una globalità sociale
che poteva riservagli onore,
prestigio e prebende, ma non il riconoscimento
della sua originalità creativa. Non
per nulla migliaia di gradi artisti medievali
ci sono ignoti o conosciuti solo
in modo approssimativo; ma dal Quattrocento
in poi sempre più spesso gli
artisti firmano le loro opere e vedono il
loro lavoro come un frutto “proprio”
di bravura e di invenzione. Taluni artisti
rinascimentali, come Michelangelo,
assumono connotazioni da semi-dei e sono
mitizzati da Giorgio Vasari nel Le Vite dé più eccellenti Architetti,
Pittori et Scultori italiani del 1550.
Ciò
che però avviene invece nel Settecento è
la tematizzazione e la problematizzazione
del concetto di “genio”, come evento individualistico
e come unicità irripetibile; considerazione
per molti versi positiva i quanto riconosce
l’originalità e l’unicità del prodotto artistico,
ma anche con eccessi di
mitizzazione ed esaltazione del soggetto
artefice decisamente negativi. Il tema
del genio (che si oppone ma
anche si intreccia con quello del gusto) fa del produttore dell’opera d’arte un soggetto
“assoluto”
dalle connotazioni estremamente ambigue,
poiché, alla sua capacità immaginativa
e creativa, si tende ad associare una “ispirazione”
trascendente sovra-umana o extra-umana di cui beneficierebbe,
facendone o un semi-dio o un eletto-da-Dio.
Nel concetto di genio è
pertanto implicita un’assolutizzazione del
produttore che conduce
l’analisi estetica su un terreno spesso teologico
opposto a quello del gusto. Questo, infatti, relativizza il fatto
estetico esclusivamente i funzione del tempo
e del contesto, e soprattutto
privilegia il punto di vista del fruitore rispetto alla volontà, alla sensibilità
e all’ispirazione del creatore.
Nel
relativizzare la “qualità del bello” in funzione
della fruizione, il
soggetto di essa diventa l’elemento dirimente
del gusto, diventando unico
giudice del valore dell’opera d’arte, e ciò
sia che si ponga come soggetto
strettamente individuale (un io) sia come sovra-individuale, ovvero come
collettivo (un noi). Il gusto,
in realtà, ponendosi proprio nel Settecento
come criterio innovatore di
approccio al bello, assume un significato assai particolare,
e
specificamente illuministico, in quanto ”relativizzante”
in antitesi a tutto
ciò che, quasi sempre su base metafisica,
si pone come “assolutizzante” in base
a canoni fissi. Ovviamente esso, in quanto
relativizzante, non può che
presentarsi come oppositivo rispetto a una
forte e tenace tradizione platonica
che nel Settecento vede un forte rilancio
con esiti restaurativi del concetto
di bello connesso a buono.
Hume segna una tappa importante col suo La regola del gusto del 1757,
poiché, in un momento in cui la linea platonico-cartesiana
cerca di imporsi
attraverso Hutcheson, Croizat e André, egli
introduce il dubbio scettico
sull’oggettività dell’arte e sulla bellezza,
in quanto scelte e preferenze
estetiche trovano il loro movente principale
proprio nel gusto, il quale, di
per se stesso, è quanto di più fluttuante
possa esistere. Scrive infatti Hume:
«La bellezza non è una qualità delle cose
stesse: essa esiste soltanto nella
mente che le contempla, ed ogni mente percepisce
una diversa bellezza.» [41] Il
problema è posto dallo scozzese da un punto
di vista scettico-empiristico (ma,
come vedremo, pervaso di cultura teologica)
che riconosce alla generalità e
all’incostanza della fruizione la guida del
senso estetico. Con tale criterio convergono
anche pre-romantici come il suo compatriota
Alexandre Gérard (1728-1795) e come
l’inglese Edmund Burke (1729-1797), che invece
operano da posizioni
filo-individualistiche nonché teologiche
in senso panteistico. A
quest’atteggiamento scettico-relativistico
si oppongono subito opere come l’Elements
of criticism di Henry Home, del 1762, nel quale, in chiave
etico-religiosa,
vengono evidenziati i rischi di un’eccessiva
”laicizzazione” e
“relativizzazione” del concetto di bello in senso restaturativo di un suo valore
sacrale e fuori del tempo.
Home ritiene infatti che sia possibile una
“scienza del bello” e che il senso
del bello sia radicato nella natura umana,
la quale «sarà sempre quella che è
ora e che fu in passato […] uguale in tutti
i popoli e in ogni angolo della
terra.» [42]
Se la
definizione del “genio” si riferisce al creatore
come un’individualità, molto
spesso (e qui sta la sua forte ambiguità)
egli è visto come colui che opera a
favore e in funzione della creazione di una
supposta totalità
sovraindividuale. È tendenzialmente in questo
senso che lo concepiscono sia
platonici come Shaftesbury e sia cartesiani
come Jean-Pierre Crousaz
(1663-1749) e Yves-Marie André (1675-1764).
Essi vedono l’opera arte, e
soprattutto quella del genio, come
frutto sì della spontaneità, dell’intuito
e della creatività personale, ma
ritengono che il suo “risultato” sia sempre
riferito ad un “oltre”. In questo
clima è interessante l’approccio differente
del già citato Joseph Addison (che
fu anche poeta), assai poco intellettualistico
e molto concreto. Egli non
scrive libri, ma articoli sul giornale da
lui fondato, lo Spectator,
dedicando al tema dei Piaceri dell’immaginazione ben undici fascicoli
tra il 1711 e il 1712. Se l’approccio di
Shaftesbury, coerentemente col suo
platonismo, si fonda sulla creatività umana
attraverso il pensiero, e quindi
sull’artificialità intellettuale, quello
di Addison, che segue le tendenze
naturalistiche, vede nelle cose della natura
la massima fonte di piacere
estetico attraverso un processo immaginativo
e intimistico. Quindi un
“compiacimento segreto” ed individuale lontano
da ogni modello intellettuale
precostituito. Egli opera poi una distinzione
tra il bello, il grande
e l’insolito come forieri di piacere estetico; il bello
perlopiù provoca un piacere di carattere
sensibile, il grande ci rapporta al divino (anticipando il concetto
di sublime), l’insolito può generare il piacere della
sorpresa. Se ne può concludere che Shaftesbury prelude
all’avvento del
gusto neoclassico e lo Addison a quello romantico,
ma fu l’opera del primo a
ricevere grande attenzione ed avere vasta
risonanza, influenzando in modo
determinante Winckelmann (autore della famosa
Storia dell’arte antica
del 1763, la “bibbia” del Neoclassicismo),
ma non meno Lessing, Goethe e
Herder.
I due
cartesiani che all’inizio del Settecento
tentano di ridefinire la sfera del
“bello” in termini razionalistici, il ginevrino
Jean-Pierre Crousaz col suo Traité
du Beau (1714) e il gesuita francese Yves-Marie
André con l’Essai sur le
beau (1715), appaiono un poco ritardatari (specialmente
il secondo)
rispetto a una sensibilità illuministica
che tende a razionalizzare l’arte in
senso individualistico e con una forte componente
sentimentale. È infatti
questa nuova sensibilità, conciliativa di
ragione e sentimento, che
caratterizza gran parte dell’estetica illuminista.
Il tentativo di razionalizzazione
del senso estetico mette infatti in ombra
il fondamentale elemento sensibile
per privilegiare quello intellettuale, conferendo
rigore razionale a ciò che,
per sua natura, tende a sfuggire alla razionalità.
Crousaz, non a caso
apprezzato anche da Leibniz, compie un tentativo
serio di porre una teoria
generale dell’arte tendente all’assolutizzazione
del concetto di bello.
Su questa linea lo svizzero si avvicina molto
a Shaftesbury, rendendo evidente quanto il
cartesianesimo sia tangente al platonismo
nel perseguimento costante di un ideale.
La base resta, naturalmente, teologica, e
Crousaz ribadisce che: «Tutte le
bellezze di per sé degne di attenzione »
non lo sono per caso, ma sono un segno
sensibile del loro autore: Dio. Ciò poiché:
«Le opere di Dio offrono agli occhi
i caratteri di una causa che agisce con scelta
e con saggezza, che ama ciò che
è bello, e fa in seguito ciò che ama.» [43]
Wladyslav Tatarkiewicz vede invece nella
teorizzazione crousaziana una
“estetica del compromesso”, che vorrebbe
perseguire «regole generali, forme
perfette e regolarità» ma che lascia indeterminato
il canone stesso nell’asserto
che: «La regolarità è bella, ma anche
l’irregolarità è necessaria […] Noi ammiriamo
il bello razionale, ma la
bellezza della musica e della poesia consiste
in gran parte in una sorta di
irrazionale je ne sais quoi […]
Le cose possono essere belle e al tempo stesso
non belle […] Dal fatto
che certe proporzioni sono belle non consegue
necessariamente che altre, del
tutto diverse, siano brutte.» [44]
Jean-Baptiste Du Bos (1670-1742) pochi anni
dopo Crousaz, con il suo Réflexions
critiques sur la poésie et la peinture (1719), si proietta in un nuovo
orizzonte, più aperto e realistico, introducendo
il sentimento quale motore
della sfera del bello. Le sue Réflexions sono così prodromiche per
un’estetica illuminista quale sarà, dal più
al meno, espressa più tardi in
alcune voci dell’Encyclopédie. Du Bos rigetta ogni freddezza
razionalistica in arte e letteratura, rifiutando
ogni dogmatismo formale e
precisando che il concetto di bellezza non è assolutizzabile né
canonizzabile. Essa è del tutto “relativa”,
poiché solo la sensibilità
individuale ne è giudice, in un orizzonte
di pluralismo sentimentale e di gusto
che si sottrae ad ogni categorizzazione.
Scrive ne le Réflexions:
Il primo scopo della
pittura è di emozionare. Un’opera che ci
emoziona molto può essere considerata
eccellente. Per lo stesso motivo l’opera
che non emoziona e non fa presa non
vale nulla, e, se la critica non ha motivo
di esser contro le regole, rimane il
fatto che un’opera può esser cattiva senza
essere contraria alle regole, mentre
un’opera piena di elementi contro le regole
può essere eccellente. [45]
Un criterio al quale fa eco l’atteggiamento
diderotiano che vede nella libera “passionalità”
un elemento importante della
creazione artistica. Anche il già citato
Alexandre Gérard (docente di filosofia
al Marischal College di Aberdeen) è contro
le regole fisse, e scrive nel suo Saggio
sul gusto del 1759:
Le operazioni
dell’immaginazione sono i princìpi da cui
nascono i sentimenti del gusto. Per
il fatto che essi nascano dall’immaginazione
non significa che essi siano
fantastici, immaginari o ideali. Essi sono
universalmente prodotti dalla forza
dell’immaginazione, che è estremamente importante,
visto che essa influisce
sulle operazioni dell’anima. Le operazioni
che dipendono dall’immaginazione
possono esser assai forti per formare del
gusto, ma mancare nello stesso tempo
della vivacità e dell’estensione che fanno
il genio. [46]
Nel
1725 Francis Hutcheson (1694-1746), discepolo
di Shaftesbury, tenta una
sistematizzazione del rapporto tra bellezza
e virtù morale; il che si può già
cogliere nel lungo titolo, di cui solitamente
si dà solo la prima frase An
Inquiry into the Original of Our Ideas of
Beaty and Virtue…Esso recita per
esteso:
Una ricerca sulle
origini delle nostre idee di bellezza e virtù;
in due trattati in cui sono
spiegati e difesi i principi del defunto
conte di Shaftesbury, contro l’autore
della Favola delle api [Mandeville] e sono stabilite le idee del
bene e
del male morale, in accordo ai sentimenti
degli antichi moralisti. Con un
tentativo di introdurre un calcolo matematico
in materia di moralità. [47]
Hutcheson sembra pensare ad un sistema
matematico rigoroso capace di valutare il
bello in relazione al buono in quella
simbiosi virtuosa che Platone aveva già posto.
Il piacere dei sensi che si può
ricavare da forme imperfette è solo una sensazione
precaria, il piacere del
“vero bello” è altra cosa, poiché: «Vi sono
piaceri immensamente più grandi in
quelle idee complesse di oggetti che vengono
chiamati belli, regolari,
armoniosi.» [48] In
Francia è Yves-Marie André che con l’Essai
sur le beau (1715) si mette su una via di canonizzazione
dell’arte, ma in
maniera più laica. Egli tenta una gerarchizzazione
classificatoria del più o
meno bello in questi termini:
Chiamo bello in
un’opera dell’esprit non quel che piace al primo sguardo
dell’immaginazione in certe disposizioni
dell’anima, o degli organi del corpo,
ma ciò che ha diritto di piacere alla ragione
e alla riflessione per sua
propria eccellenza, per la sua luce o per
la sua justesse e, se mi si
permette questo termine, per il suo intrinseco
agrément. [49]
Il traduttore ha lasciato in lingua originale
la
triade spirito-giustezza-piacere per sottolineare
il criterio che guida la
teoria dello scrivente, ma sarebbe opportuno
che avesse fatto altrettanto per excellence,
che è l’elemento valutativo. Ed è proprio
a questo tipo di assolutizzazione
valutativa che intenderà opporsi Diderot
con le sue opinioni espresse nella Lettera sui sordi e i muti (1751) e
nelle voci de l’Encyclopedie. Ciò che Diderot, da illuminista, contesta
ai platonici Hutcheson e André è di non aver
compreso come la sfera estetica è
intrinsecamente costituita da una sostanziale
articolazione pluralistica che
sfugge ad ogni unificazione e definizione,
pena la suo irrimediabile negazione.
D’altra parte, tutti i regimi culturali
che hanno inteso porre la canonizzazione
di un arte “virtuosa” hanno
irrimediabilmente decretato la morte dell’arte
stessa, come quei sostenitori di
una nuova “musica rivoluzionaria” che nel
1793, dopo aver ignorato le
mozartiane Nozze di Figaro, si
entusiasmano nell’ascolto dell’Inno per
la festa degli sposi di Méhul, così come sarà del pompierismo
napoleonico ottocentesco e della più recente
condanna nazista di ogni “arte
degenerata” in omaggio a quella nobile e
virtuosa quanto, perlopiù, non-arte.
Il
1757 è l’anno in cui è pubblicato A philosophical Inquiry into the Origin
of Our ideas of the Sublime and the Beatiful di Edmund Burke (1729-1797),
un’opera fondamentale per l’avvio dell’estetica
romantica, in cui era
rivendicata la spontaneità e l’originalità
dell’esperienza estetica contro
l’osservanza delle fredde regole dell’estetica
classicista. Nello stesso tempo l’inglese
poneva con forza quel concetto di sublime [50] che anche
Kant svilupperà poi nella Critica del giudizio. Questa prima definizione
settecentesca del sublime lo vede
come causa di un “effetto emozionale” vago,
oscuro, coinvolgente e
sconvolgente, inquietante e doloroso. Un
qualcosa che possiamo avvertire come un
a “nostra” inadeguatezza o disarmonia rispetto
ad uno spettacolo che suggerisce
l’esistenza di un’armonia “più alta”, che
ci annichila e ci fa sentire piccoli
in quanto incapaci di sintonizzarsi con essa.
Ed è proprio questa sensazione
che rende il sublime “doloroso”. Afferma
infatti Burke:
Il bello
e il sublime sono idee di differente
natura, essendo uno fondato sul piacere e
l’altro sul dolore; e per quanto
possano essere accostati in relazione alla
natura delle loro cause, tali cause
sono sempre ben distinte, distinzione che
non deve mai dimenticare chi si
proponga [per mezzo dell’arte] di suscitare
delle passioni. [51]
Come si vede il dolore si lega qui strettamente
al
terrore che suscita l’orrifico, ovvero «tutto
ciò che è terribile o riguarda
cose terribili », il che può essere gigantesco
od essere estremamente
fragoroso, ma anche legarsi al vuoto, al
buio, al silenzio.
Il
francese Charles Batteux (1713-1780) si muove
in direzione molto differente,
ciò che gli preme è definire “che cosa sia
arte”, da ciò il titolo Le belle
arti ricondotte a un unico principio di un suo saggio apparso nel 1746.
L’opera in realtà ha carattere descrittivo
più che analitico, ma ha la
caratteristica di ricercare un criterio unificante
per tutte le branche
dell’attività artistica mettendo insieme
la musica, la poesia, la pittura, la
scultura, la danza. In essa è posto un rapporto
tra natura e arte interessante
e piuttosto acuto, poiché la natura che è
di modello all’artista non è più
quella reale, ma quella bella; una natura che il genio artistico
“scopre-inventa” come possibilità virtuale
della natura stessa “fatta realtà”
nell’opera d’arte. Sostiene Batteux: «L’artista
non deve semplicemente imitare
la natura, bensì la “bella natura”, che non
è il vero che è, ma il vero che
potrebbe essere, il bel vero, che è rappresentato
come se esistesse realmente
con tutte le perfezioni che può ricevere.»
[52].
Queste perfezioni però non sono solo di carattere
formale, poiché si sostiene
che: «Il cuore ha la sua intelligenza, indipendentemente
dalle parole, e quando
è commosso ha compreso tutto.» [53]
Una
sorta di esprit de finesse che ci ricorda Pascal e dove sensibilità,
intelligenza, invenzione e strumento artistico
trovano una loro sintesi espressiva.
In tal senso l’opera d’arte diventa un oggetto
significante-espressivo che
mette in “rapporto comunicativo” il produttore
e il fruitore in termini che noi
oggi riconosciamo come tipici della sfera
dell’arte. È questa la ragione per
cui Elio Franzini ritiene un «passo decisivo
» quello compiuto dal francese
«verso un nuovo modo teorico di cogliere
l’arte.» [54]. Diderot
assume una posizione analoga, dove le cose
della natura e la coscienza di chi
le coglie generano quella sintesi che è l’essenza
dell’arte, aggiungendo però (da
filosofo) che la complessità e la profondità
della sfera estetica vanno ben oltre
l’instaurazione di un mero criterio di classificazione
e valutazione. Ma a
proposito di “definizione” di che cosa sia
l’arte dobbiamo anche ricordare il
notevole Principi fondamentali delle Belle Arti, un lavoro che il
tedesco Moses Mendelssohn pubblica nel 1757,
contenente un’interessante analisi
dei concetti di imitazione, espressione,
immaginazione, gusto e genio. Anche
Kant, nella Critica del giudizio (§ 50 e 51), presterà molta attenzione
alle tesi di Batteux e ne farà oggetto di
riflessione e giudizio.
Ci occuperemo
ora di Johan Joachim Winckelmann, poiché,
qualsiasi possa essere il giudizio
sulla sua opera di teorico dell’arte, il
suo influsso per la nascita dell’arte
figurativa neoclassica (e nello specifico
per la scultura) è stato decisivo.
Allievo di Baumgarten a Halle, egli conosce
molto bene Shaftesbury, ma anche
Addison e Du Bos. Ha dell’arte un concezione
quasi sacrale e per lui l’oggetto
primario della creazione estetica (in linea
con tutta la tradizione platonica)
è la figura, umana. Nel saggio Istruzioni per il conoscitore egli
scrive: «Il più alto soggetto di meditazione
per l’uomo è l’uomo, e per
l’artista non ce n’è un altro oltre la sua
costituzione fisica.» [55] Il nudo umano, quindi, ma un nudo ideale,
che
deve essere anche relativamente “aggraziato”;
perciò Winckelmann non apprezza
Michelangelo perché è «cieco alla grazia»,
ma ancor meno gli piace Bernini, di
cui dice: «La grazia non gli era mai apparsa
neppure in sogno.» [56] Ciò
che egli apprezza è la statuaria greca, priva
di passione evidente e tutta
contenuta in forme perfette quasi meta-umane.
Già nei Pensieri sull’imitazione
dell’arte greca nella pittura e nella scultura (1755) nota: «Il gusto che
questo popolo [il greco] ha manifestato nelle
sue opere è rimasto un suo
privilegio; raramente si è allontanato dalla
Grecia senza perdere qualche
cosa.» [57]
Abbiamo già messo in rilievo il fondamentale
equivoco per cui nel Settecento si
riteneva che la statuaria greca fosse nata
col marmo a vista, scoprendo poi nel
Novecento ciò essere falso; essa infatti
era dipinta in maggiore o minore
misura (sempre, comunque, occhi e capelli),
essendo semmai quella romana (che
ne era imitazione) a nascere incolore.
Ma
Winckelmann era vittima anche di un altro
equivoco, quello di ritenere che
quella bellezza “ideale” corrispondesse in
qualche modo al corpo “reale” dei
modelli utilizzati: atleti la cui bellezza
sarebbe stata frutto di esercizio
ginnico. Lo testimoniano lunghi passaggi
dei Pensieri sull’imitazione,
dove non manca il mito dell’antico Spartano
«che mai nella sua infanzia era
stato imprigionato nelle fasce e che fin
dal suo settimo anno abbia dormito
sulla nuda terra e sia stato educato alla
lotta e al nuoto.» contrapposto «al giovane Sibarita dei nostri
tempi.» [58] In virtù dell’austerità e
dell’esercizio:
I corpi acquistavano con questi esercizi
quel
grande e maschio contorno che i maestri greci
avevano dato alle loro statue,
senza mollezze e pinguedine. Ogni dieci giorni
i giovani spartani dovevano
mostrarsi nudi agli Efori, e questi infliggevano
una più rigorosa dieta a
quelli di essi che incominciavano ad ingrassare.
[59]
E naturalmente non può mancare il riferimento
a
Platone:
Nell’introduzione a molti dei suoi dialoghi
che
fa cominciare nei ginnasi di Atene, Platone
ci mostra la nobiltà d’animo della
gioventù e ci fa supporre che, in questi
luoghi, movimenti, posizioni ed esercizi
fossero di una nobiltà analoga.[60]
Ancora sempre il concetto di Buono-Bello,
dunque, seppure qui laicizzato in funzione
dell’arte, poiché in tali luoghi «la
gioventù senza offendere la pubblica verecondia,
faceva completamente nuda la
ginnastica » [61], così come «le fanciulle
di Sparta ballavano nude dinanzi agli occhi
dei giovani.» [62]
. Ma,
a livello teorico, è l’apertura della Dissertazione sulla capacità
del sentimento del bello nell’arte e sull’insegnamento
della capacità stessa
(1763) che ci fa conoscere meglio il punto
di vista winckelmanniano:
La capacità di sentire il bello nell’arte
è un
concetto che riunisce in sé nello stesso
tempo la persona e la cosa, ossia il
contenente e il contenuto, che però considero
inseparabili l’uno dall’altro, ed
è per questo che qui potrò trattare principalmente
del primo, solo osservando
per ora sul secondo che il bello ha un significato
più vasto della bellezza: la
quale non si riferisce se non alla forma
ed è l’ultimo fine dell’arte; il bello
invece si estende a tutto quello che si pensa,
si elabora e si conduce a
compimento. [63]
Per quanto il Nostro si occupi della forma
(il
contenente) rimane sempre presupposto l’ideale
della “unità” del « tutto quello
che » come obiettivo primario dell’uomo.
E l’unità, è la “sostanza-essenza”
dell’essere, che si staglia sullo sfondo
e
che va scoperta e perseguita nelle forme,
che possono essere portatrici
di “bellezza” ma che non esauriscono affatto
l’unità-totalità del “bello”.
Dobbiamo ora considerare la Storia dell’arte dell’antichità,
pubblicata nel 1764, un’opera che non solo
ha goduto di grande successo ma è
stata anche una sorta di “bibbia” del Neoclassicismo
per la fondazione di una
teoria del bello in arte. Opera
complessa e corposa, che inizia occupandosi
delle «diversità presso i vari
popoli» nel concepire la bellezza e dei materiali
impiegati per conseguirla, ma
anche delle cause di tali differenze, che
il Nostro individua nel clima,
sviluppando la sua tesi con ampiezza [64].
Segue l’analisi dell’arte egizia, fenicia,
persiana ed etrusca per approdare
finalmente a quella greca e finire con quella
romana. Senza entrare nel
dettaglio di un’analisi contenutistica, ci
soffermeremo su un passaggio finale
della Premessa che ci pare importante, la
dove Winckelmann afferma:
Ho osato esporre alcune idee che potranno
sembrare non sufficientemente provate, ma
forse saranno un aiuto a procedere
oltre […] Anche le supposizioni, a patto
che si attengano almeno con un filo a
qualcosa di sicuro non devono esse bandite
[…] esse sono come l’impalcatura per
un edificio, e diventano persino indispensabili
quando, ove manchi la
conoscenza dell’arte antica, non si vogliano
lasciare molte lacune […] queste
ipotesi prese singolarmente sono solo una
probabilità ma, riunite e messe in relazione,
formano una prova. [65]
L’intento non è dunque quello di produrre
solo
un’interpretazione dell’arte antica attraverso
l’analisi estetica dei singoli
pezzi, ma di “provare”, attraverso una serie
notevole di esempi, che molti tasselli
teorici costituiti da ipotesi fanno sì che
esse « prese singolarmente sono solo
una probabilità ma, riunite e messe in relazione,
formano una prova [della
validità dell’impianto teorico].»
Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), prendendo
spunto dall’analisi
winckelmanniana del gruppo marmoreo del Laocoonte, conduce la sua
critica al concetto di “unità” tra le diverse
arti per sostenere la tesi
opposta, quella della loro sostanziale ”diversità”.
Per Lessing la poesia non è
unificabile con le arti figurative perché
opera “nel tempo” mentre queste
operano “nello spazio” e con “i corpi”:
Gli oggetti che esistono l’uno accanto
all’altro, o le cui parti esistono l’una
accanto all’altra, si chiamano corpi.
Di conseguenza i corpi, con le loro proprietà
visibili, sono gli oggetti propri
della pittura. Gli oggetti che si seguono
l’uno dopo l’altro, o le cui parti si
seguono, si chiamano generalmente azioni.
Di conseguenza le azioni sono
l’oggetto proprio della poesia. [66]
Si vede bene come Lessing consideri la
rappresentazione dei corpi e dello spazio
che li include come “statica”, mentre
il discorso poetico, operando in una successione
di parole “fatte azione”, è
“dinamico”. Ovviamente la musica è arte temporale
anche in maggior misura, così
come l’architettura è spaziale in sommo grado;
da ciò l’impossibilità della
pretesa di teorizzare un’unità delle arti.
In realtà Lessing non fa altro che
introdurre una considerazione filosofica
nell’ambito di un contesto
precedentemente trattato in modo insufficiente.
Se sotto un profilo estetico
astratto nulla osta all’unificazione delle
arti, appena si scende al livello
della “materia” dell’espressione artistico-poetica,
ci si accorge della loro
irrimediabile differenza e operatività su
piani diversi dell’essere. Ne
consegue che la pittura, per non suscitare
ripugnanza, deve limitare il ricorso
al brutto, mentre nella poesia la successione
temporale delle parti ne permette
un uso artistico. Inoltre la pittura non
conosce l’allegoria né applica la
narrazione ai suoi segni; al contrario il
poeta vivrà nel movimento, proprio
perché la sua arte è temporale.» [67] È evidente una certa capziosità
dell’argomentazione nel negare alla pittura
l’utilizzo del brutto e
dell’allegoria, ma ciò che importa è la fondamentale
distinzione tra arti
operanti “nel tempo” ed arti espresse ”nello
spazio”. In altre parole, Lessing
ha messo definitivamente in crisi il classico
e retorico principio dell’ut
pictura poësis quale assunto astratto dei platonici. Il
punto di vista di
Lessing è per molti versi la voce
conclusiva dell’estetica illuministica tedesca
in favore del pluralismo
delle arti, e nello stesso tempo la base
su cui si sviluppa parte del
Romanticismo.
In
Francia sono i philosophes che
operano nell’ambito dell’Encyclopédie a fornirci gli elementi più importanti
e innovativi sui problemi estetici, ed in
particolare Diderot. Anche lui si
pronuncia decisamente a sostegno del pluralismo
estetico, per quanto la sua
posizione assuma una connotazione meno teorica
e più pragmatica. Incominciamo
col vedere la voce Arte; una
voce estremamente discussa, da alcuni considerata
“tecnica” e non estetica, di
cui considereremo alcuni passaggi:
ARTE. Termine astratto e metafisico. […]
Ogni
arte ha la sua teoria e la sua pratica: la
teoria non è altro che la conoscenza
non operativa delle regole dell’arte; la
pratica, l’uso abituale e irriflesso
di tali regole. È difficile, per non dire
impossibile, approfondire la pratica
senza la teoria e, viceversa, possedere bene
la teoria senza la pratica. In
ogni arte c’è un gran numero di circostanze
relative alla materia, agli
strumenti e alla tecnica manuale, che solo
l’uso insegna. Spetta alla pratica
presentare le difficoltà e proporre i fenomeni,
e spetta alla teoria spiegare i
fenomeni ed eliminare le difficoltà; ne consegue
che solo un artista che sappia
ragionare può ben parlare della propria arte.
[68]
C’è da rimanere quasi sconcertati di fronte
a una
certa freddezza esplicativa su base razionalistica,
priva di qualsiasi accenno
al sentimento, il che ha fatto dire a qualcuno
che ciò di cui parla qui Diderot
non sarebbero le belle arti bensì i
mestieri [69]. Ma, se si pone
attenzione all’importante incipit, dove
si pone il termine «astratto e metafisico»,
ci si rende conto con l’intento
dello scrivente sia di sottrarre alla sfera
astratto-metafisicoa la definizione
di arte riportandola ad un più generale e concreto
“fabbricar cose belle”. Al Nostro preme qui
sottolineare lo stretto legame tra
la teoria e la pratica di un “fare arte”,
che prescinde dal tipo di oggetto
prodotto, poiché la cosa importante è che
il produrlo non si sottragga al
controllo della ragione. E tuttavia si ponga
attenzione a quell’«uso irriflesso
di tali regole», che sottolinea il fatto
che, per quanto a monte del fare vi debba essere la consapevolezza
di ciò che si vuole e si può fare, nondimeno
la fase creativa si sviluppa in
una condizione mentale in parte inconscia
ed irrazionale, ferma restando
l’impostazione razionale del fare
stesso. Diderot, inoltre, opponendosi alla
suddivisione tradizionale delle arti
in liberali e meccaniche, le accorpa tutte in questa seconda categoria.
Ed è la
prima volta che è posto con forza tale nuovo
criterio estetico:
Esaminando i prodotti delle arti, ci si è
accorti che alcuni erano frutto più dell’attività
intellettuale che di quella
manuale, e altri, invece, più dell’attività
manuale che di quella
intellettuale. Questa è, in parte, l’origine
della preminenza che è stata
accordata ad alcune arti rispetto ad altre
e della loro distinzione in arti liberali e arti meccaniche. Questa distinzione, pur avendo una suo
fondamento
reale, ha prodotto pessimi effetti […] che
praticare o anche solo studiare le arti meccaniche significasse abbassarsi
a cose la cui ricerca è faticosa, la meditazione
ignobile, l’esposizione
difficile, il commercio disonorevole, il
numero inesauribile e il valore
minimo. [70]
Per quanto il Nostro calchi un po’ la mano
(in
realtà gli artisti meccanici, se
erano bravi, almeno dal Rinascimento in poi,
godevano di buona stima) il
richiamo è efficace:
Agli occhi del filosofo, c’è forse maggior
merito nell’aver fatto nascere Le Brun, Le
Sueur e gli Audran [pittori
francesi], nell’aver fatto dipingere e scolpire
le battaglie di Alessandro, e
rappresentare sugli arazzi le vittorie dei
nostri generali, che nell’aver
riportato quelle stesse vittorie. Mettete
su un piatto della bilancia i
vantaggi reali delle scienze più sublimi
e delle arti più onorate, e sull’altro
quelli delle arti meccaniche, e constaterete
che la valutazione degli uni e
degli altri non è fatta in base a criteri
che tenessero conto dei rispettivi
merito; e gli uomini, intenti a farci credere
che siamo felici, hanno sempre
ottenuto molte più lodi di coloro che si
sono dati da fare per far sì che lo
fossimo davvero. Stranezze dei nostri pregiudizi!
Esigiamo che ci si dedichi a
occupazioni utili, e disprezziamo gli uomini
utili. [71]
Abbiamo qui un gioco dirompente di
contrapposizioni e di implicita e forte critica
sociale, come si comprende bene
dalla designazione sottilmente ironica delle
«scienze più sublimi e arti più
onorate » come quelle di coloro che producono
morti (i guerrieri) e di coloro
che gli ingenui (i preti). Se si pensa che
siamo a metà del XVIII secolo, già
il solo mettere sullo stesso piano un plebeo
che usa il pennello e un nobile
che usa la spada è intollerabile bestemmia,
essendo la classe militare
costituita esclusivamente di aristocratici
nei gradi alti della gerarchia. I
preti, «intenti a farci credere che siamo
felici» (o che possiamo accedere alla
beatitudine celeste) sono messi in ridicolo
rispetto a chi “si dà da fare” per
produrre cose belle, foriere di piacere alla
vista o all’orecchio. Da un punto
di vista più teorico:
Gli strumenti e le regole sono come muscoli
aggiunti a quelli del braccio, e congegni
accessori per l’intelletto. Scopo di
ogni arte in generale, o di ogni sistema
di regole e strumenti tendenti a uno
stesso fine, è imprimere determinate forme
a elementi dati dalla natura; e tali
elementi sono la materia, o lo spirito, o
qualche funzione dell’animo o qualche
prodotto naturale. [72]
La gerarchizzazione delle cause è cassata.
Dato
il fine dell’arte: produrre “forme” percepibili
e fruibili a partire dagli
stimoli che la natura ci dà, tali stimoli
possono provenire indifferentemente
dalla materia, dallo spirito, dalle funzioni
mentali o da qualsiasi altra cosa.
Per questa ragione un definito “codice delle
arti” è fuori luogo, poiché la
natura ci offre stimoli inesauribili.
Quanto all’ordine da seguire in un trattato
del
genere [implicante la molteplicità e varietà
delle arti] credo che il più utile
sia quello di riferire le arti ai prodotti
della natura .Un’esatta enumerazione
di questi prodotti farebbe nascere una quantità
di arti sconosciute. Molte altre potrebbero nascere
da un’analisi
circostanziata dei diversi punti di vista
da cui può esser considerata la
medesima produzione. [73]
Apertura assoluta, quindi, all’invenzione
di chi
sappia, a partire dai prodotti della materia
disponibili [marmo, legno,
supporti vari, colori, suoni, parole, ecc.],
fare arte come coniugazione dell’abilità
e dell’intelligenza in funzione della bellezza,
poiché: «La storia della natura
è incompleta senza quella delle arti
». Diderot ritiene inoltre che se la causalità
ci ha regalato conoscenze e modi
di operare notevoli pur applicando all’arte
(«con ordine e metodo ») i criteri
della razionalità. Infatti: «perché l’avvenire
non potrebbe riservarci
ricchezze su cui oggi non facciamo alcun
conto?» [74]
L’immaginazione, il caso e la ragione potrebbero,
debitamente coniugati,
arricchire di cose belle il nostro futuro
in maniera inaspettata.
Anche
le voci Bellezza e Bello sono di Diderot; la prima,
piuttosto breve, introduce la seconda, molto
estesa. Vediamone l’inizio:
BELLEZZA. È la capacità o la facoltà di
suscitare in noi la percezione di rapporti
piacevoli. Ho detto piacevoli per conformarmi all’accezione
generale e comune del termine bellezza; ma
parlando da un punto di vista
filosofico, credo che il bello è tutto ciò
che può suscitare in noi la
percezione di rapporti. [75]
Per comprendere il significato di tale
«percezione di rapporti» dobbiamo passare
alla voce “BELLO”, che si apre
rilevando che l’idea del bello è
universale, ma tutt’altro che univoca. Ne
segue una sintetica analisi storica
del concetto, da Platone a Sant’Agostino,
da Wolff a Crousaz, da Hutcheson ad
André (gli autori cui è prestata maggiore
attenzione). La conclusione:
Essi riescono a dimostrare soltanto che c’è
qualcosa di oscuro e impenetrabile nel piacere
che il bello ci dà; che tale
piacere sembra indipendente della conoscenza
dei rapporti e delle percezioni,
che la considerazione dell’utile non vi entra
affatto, e che esso crea
entusiasti che minacce e ricompense non possono
scuotere. [76]
Il bello,
quindi, come frutto misterioso (perciò quasi-divino)
e come un-non-so-che quasi indefinibile, privo
di riferimenti alla razionalità e all’utilità.
Da ciò l’ambigua distinzione tra
un bello assoluto e un bello relativo da parte di Hutcheson e
seguaci. In quanto ad André («Il suo Essai
sur le beau è il sistema più seguito, più ampio e ben
congegnato che io
conosca.» [77]) le distinzioni aumentano
ulteriormente (bello visibile, nei
costumi, nelle opere d’ingegno, essenziale,
naturale, artificiale, ecc.) senza
pervenire a una concettualizzazione soddisfacente.
Da ciò un nuovo orientamento
teorico:
Veniamo al mondo con la facoltà di sentire
e di
pensare, il primo passo della facoltà di
pensare è l’esame delle nostre
percezioni, l’atto di unirle, confrontarle
,combinarle, osservare tra loro
rapporti di convenienza e sconvenienza, etc.
Nasciamo con bisogni […] ecco
dunque che i nostri bisogni, e l’esercizio
più immediato delle nostre facoltà,
concorrono a darci, fin dalla nascita, le
idee di ordine, connessione
simmetria, meccanismo, proporzione, unità;
tutte queste idee provengono dai
sensi e sono fattizie [non innate]. [78]
Inequivocabile il riferimento al Locke del
Saggio sull’intelligenza umana in questa
sorta di premessa, ma impropria l’espressione
«dalla nascita» col chiaro
significato «dall’infanzia» (improprietà
discorsive a cui il Nostro non va
esente) confermato poco dopo:
Queste nozioni sono sperimentali come tutte
le
altre; anch’esse ci sono giunte attraverso
i sensi e le possederemmo
ugualmente, anche se non vi fosse un Dio:
hanno preceduto di molto in noi la
nozione della sua esistenza; sono tanto positive,
distinte, nette, reali,
quanto quelle di lunghezza, larghezza, profondità,
quantità, numero. [79]
La teologizzazione dell’estetica era fenomeno
intellettuale così diffuso all’epoca che
Diderot non poteva esimersi dal
prendere posizione. Ciò che gli preme è evidenziare
che la distinzione tra
concetti particolari (sperimentali) e concetti
universali (intellettuali) è
fittizia e che tutte le nostre idee sono
in qualche modo dovute all’esperienza
dei sensi e alle successive elaborazioni
del nostro cervello. I concetti
universali, quindi, non sono altro che
«astrazioni della nostra mente.» [80] La
problematicità del concetto di bello
si pone a cavallo di esigenze naturali e
di immaginazione intellettuale, ma
come definirlo? Diderot ci prova:
Ma tra le qualità comuni a tutti gli esseri
che
chiamiamo belli, quale sceglieremo
come quella che è designata dal termine bello?
[…] la qualità, in una parola, grazie alla
quale la bellezza inizia, aumenta,
varia all’infinito, declina e compare. Ora,
solo la nozione di rapporti è
capace di tali effetti. Chiamo dunque bello
fuori di me, tutto ciò che contiene in sé
di che risvegliare nel mio intelletto
l’idea di rapporti, e bello in relazione
a me, tutto ciò che suscita
quest’idea. [81]
Il bello
oggettivato è un “fuori di me”, e, in quanto
crea “rapporti” con la mia
sensibilità, realizza una sensazione (piacevole)
di bello in me che si soggettivizza. Ma il bello è polimorfo e polisemantico, varia «a seconda
dei rapporti
che suscita, esso è grazioso, brutto, basso,
piccolo, grande, alto, sublime,
eccessivo, burlesco, divertente.» [82],
come dire: relativo. Diderot fa un esempio: il verso «Qu’il mourût.» (Che
morisse) dall’atto III, scena VI, dell’Horace
di Corneille. L’espressione “in sé”, sostiene
Diderot, non pare «né bella né brutta.». È la contestualizzazione (un uomo che
dovendo
confrontarsi con un nemico si gioca la vita)
a dar senso (e bellezza) alla
frase. Egli aggiunge:
Ma cambiate le circostanze e i rapporti,
fate
passare il «Qu’il mourût.» dal teatro francese
[drammatico] alla scena italiana, e dalla
bocca del vecchio Orazio a quella di
Scapino, ed ecco che il «Qu’il mourût.» diventa
burlesco. Cambiate ancora le circostanze e immaginate
che Scapino
[…] e questo «che morisse» diventerà comico.
[83]
Dunque, il “rapporto” è la contestualizzazione”
attraverso la quale una forma definita si
plasma in sua funzione e si definisce
esteticamente. Ed immaginando le possibili
obiezioni Diderot precisa:
Il
rapporto in generale è un’operazione dell’intelletto,
che considera sia un
essere, sia una qualità, in quanto questo
essere, o questa qualità, presuppone
l’esistenza di un altro essere o di un’altra
qualità. Esempio: quando dico che
Pietro è un buon padre, considero in lui
una qualità che presuppone l’esistenza
di un altro, quella del figlio, e così per
altri rapporti, quali che siano. Ne
risulta che, benché il rapporto sia solo
nella nostra mente, quanto alla
percezione, esso ha tuttavia un fondamento
nelle cose; e dirò che una cosa contiene in sé rapporti
reali ogni qual volta sarà rivestita di qualità
che un essere, formato di corpo
e spirito come me, non potrebbe considerare
senza supporre l’esistenza di altri
esseri, o di altre qualità, sia nella cosa
stessa, sia fuori di essa, e
suddividerei i rapporti in reali e percepiti. [84]
Ne consegue che il concetto di bello si pone
come complesso e come frutto di una rete
di connessioni (rapporti) tra concrete cose percepibili ed attivi soggetti percipienti. A questi due tipi di rapporti (i reali e i percepiti) se ne affianca un terzo,
quello dei « rapporti intellettuali o
fittizi » dove è il soggetto che con
la propria fantasia riveste determinate cose
di connotazioni fittizie e quindi non-reali, o meglio
“inventa”:
Che si vuol dire? Semplicemente questo, e
cioè
che, sebbene la mano dell’artista possa tracciate
un disegno solo su una
superficie resistente, ne può trasporre l’immagine,
con il pensiero, su
qualsiasi corpo; che dico, su qualsiasi corpo
nello spazio e nel vuoto.
L’immagine, sia essa librata in aria dal
pensiero o ricavata con
l’immaginazione dai corpi più informi, può
essere bella o brutta, ma non
così la tela ideale su cui è stata impressa,
o il corpo informe da cui la si è
fatta venir fuori. [85]
I concetti di bello e di brutto nel
rapporto intellettuale-fittizio sono
autoreferenziali al soggetto che li “fabbrica”,
dando luogo a un’immagine
puramente mentale che lascia fuori il “concreto-reale”
dal processo creativo.
Ci si aspetterebbe che Diderot, sulla base
di tre tipologie estetiche
differenti, operi una gerarchizzazione della
bellezza in base a dei “gradi”.
Non è così, egli li lascia sussistere uno
accanto all’altro nella loro
differenza estetica, ma potremmo aggiungere
anche ontologica e gnoseologica nel
loro “farsi” ed “essere”:
Dunque, quando sostengo che un essere è bello
per i rapporti che vi notiamo, non parlo
affatto dei rapporti
intellettuali o fittizi che vi aggiunge la
nostra immaginazione, ma dei
rapporti reali che vi sono, e che il nostro
intelletto vi riscontra con l’aiuti
di sensi. Affermo però, quali che siano i
rapporti, che proprio essi
costituiranno la bellezza, non nel
senso ristretto per cui il grazioso [86]è
l’opposto del bello, ma in un senso,
oso dire, più filosofico e più conforme alla
nozione del bello in generale, e alla natura delle lingue
e delle cose. [87]
Per Diderot, quindi, non sono le “cose”
artistiche in quanto tali a possedere valore
estetico, ma la rete di rapporti in cui esse nascono e si
inseriscono, la cui tipologia è di volta
in volta variabile. Solo i rapporti fondano il bello “in generale”,
mentre ogni singolo bello “particolare” (di
ogni oggetto artistico) non è
riferibile ad alcun schema-codice di bellezza
precostituito e fisso. Quest’argomentazione
teorica di Diderot anche ha dato luogo a
interpretazioni critiche, alimentando
la tesi che lo vede come pensatore contraddittorio
ed incoerente in relazione a
mutamenti di punti di vista nel tempo. È
un tema che vedremo meglio quando, nel
Capitolo XVI, tratteremo della gnoseologia
e dell’ontologia diderotiane. Per
ora basti dire che, effettivamente, le tesi
estetiche di Denis mutano nel tempo
e che ciò che compare nell’Encyclopédie (che
è poi il Traité du Beau) è già leggermente differente da quanto
esposto
nella Lettre sur les sourds et muets,
e muta ulteriormente ulteriormente nella
maturità, quando la teoria dei rapporti pare messa da parte.
Una visione corretta del carattere speculativo
di Diderot quella esposta da Enrico Fubini, che ha ben
compreso come egli operi: «rifuggendo sempre
dalla forma sistematica, concependo
l’attività del filosofo come una perenne
avventura, un continuo approfondimento
di temi già affrontati ma mai esauriti »
[88]
Questo
principio estetico di pluralizzazione e relativizzazione
del bello, oltre che
confliggere con la maggior parte delle teorizzazioni
precedenti, è anche il
tentativo di conferire una base filosofica
a ciò che o è lasciato ai meri
sensi, o al gusto o all’astrazione intellettualistica
pura. Da ciò anche una
certa casualità nel sorgere-apparire della
bellezza, poiché:
Il bello
non sempre è opera di una causa intelligente:
il movimento dà spesso luogo, sia
in un essere considerato isolatamente, sia
in svariati esseri messi a confronto
tra loro, a una prodigiosa molteplicità di
rapporti sorprendenti. I gabinetti
di storia naturale ne offrono un gran numero
di esempi. I rapporti sono allora
il risultato di combinazioni fortuite, almeno
riguardo a noi […] e se, con
l’eccezione delle opere dell’Onnipotente,
vi siano casi in cui il numero dei
rapporti possa essere compensato da quello
delle probabilità. [89]
Nel chiudere la voce Diderot allude qui ad
un
argomento affrontato nel § XXI dei Pensées
philosophiques, allorché, domandandosi se l’universo potesse
essere frutto
del caso, rilevava «la possibilità di generare
fortuitamente l’universo è
estremamente piccola », ma che, in compenso,
« il numero delle probabilità è
infinito ». Quindi: «la difficoltà dell’avvenimento
è più che sufficientemente
compensata dalla moltitudine delle probabilità.»
[90]
Concetto straordinariamente moderno (e ne
l’Encyclopédie
sottinteso) che confligge apertamente col
richiamo all’Onnipotente, che qui ha
l’unico scopo di attenuare la forte portata
anti-teologica di tale conclusione.
Tanto più se si pensa che in tutto il Seicento
e in gran parte del Settecento
(ma non meno nell’Ottocento) la coincidenza
della bellezza con l’ispirazione
divina è quasi assoluta. Il sottrarre alla
sfera del divino quella del bello (nella tradizione platonica e
cristiana congiunto al buono),
inserendola nell’ambito di una natura
caotica, casuale, indeterminata e polimorfa,
rappresenta un punto cruciale per
il filosofo ed esteta Diderot, quello in
cui filosofia, scienza ed arte si
incontrano nella definizione della bellezza
ed aprono un orizzonte del tutto
nuovo.
In
questa “apertura” estetica possiamo collocare
un artista tanto singolare quanto
interessante come William Hogart (1697-1764),
forse il pittore che meglio di
ogni altro interpreta lo spirito giocoso
e popolaresco dell’Illuminismo. anticonvenzionale,
ironico, dissacratorio, grottesco e spiritoso,
interessato alle piccole vicende
della vita quotidiana, con riferimenti alla
commedia borghese dell’epoca
(famoso il suo ciclo di quadri sulla Carriera del libertino). Egli
pubblica nel 1753 un’Analysis of Beauty che non può esser considerato un
trattato di estetica ma piuttosto un
repertorio di indicazioni sul modo di fare
pittura. Così egli, sul piano
disegnativo, ritiene che la linea serpentina
sia quella più adatta conferire
piacevolezza e vivacità al dipinto. E tuttavia
scrive anche considerazioni assai
interessanti come la seguente: «In questo
modo, dunque, vorrei che il lettore
aiutasse la propria immaginazione quanto
più gli è possibile, considerando
ciascun oggetto come se il suo occhio fosse
collocato all’interno.» [91] Solo
quest’occhio collocato “dentro” il quadro,
secondo Hogart, è in grado di
cogliere le complessità formali che sfuggono
a una visione superficiale dal “di
fuori”. Un ammonimento forse poco significativo
per il profano, ma molto per
chi si occupa di pittura e più ancora per
chi la fa.
Diderot era morto da sei anni quando vedeva
la luce, nel 1790, la Critica del giudizio di Kant, un testo
che avrebbe a lungo dominato lo scenario
estetico e che sarebbe diventato
l’ineludibile punto di riferimento di ogni
criterio posteriore concernente il
bello e le arti. Posizione, quella del tedesco,
totalmente differente da quella
del francese e per molti aspetti antitetica,
a partire dalla stessa
impostazione del problema. Non a caso, infatti,
Kant connette il giudizio
estetico e quello finalistico, confermandosi
nell’alveo di un importazione
idealistica che configge col più autentico
illuminismo, confermando il fatto
che Kant si pone non già come un illuminista,
bensì come un post-illuminista e
padre-precursore dell’Idealismo tedesco dell’800
(come avremo modo di vedere al
§ 8.3). Secondo kant, che riprende posizioni
di Shaftesbury e di Rousseau, la
percezione estetica è dominata dal sentimento
e dalla soggettività. Ciò è
quanto sosteneva anche Diderot, ma egli teorizza
anche un giudizio riflettente, concernente la soggettività
e la sfera estetica, nettamente distinto
da quello determinante, proprio della conoscenza oggettiva già
analizzata nella
Critica della ragion pura. Questo il
presupposto: « Il Giudizio in genere è la
facoltà di pensare il particolare
come contenuto nell’universale.» [92]
Occorre
partire da tale asserzione per entrare in
sintonia col pensiero kantiano, che è
poi quello dell’intramontabile idealismo
platonico aristotelico e poi
cristiano, in base al quale il particolare,
ovvero l’accidente, acquista un suo
senso esclusivamente se riferito all’universale,
ovvero alla sostanza divina. Viene infatti aggiunto
poco oltre che il Giudizio riflettente: «è
obbligato a risalire dal particolare
della natura all’universale » [93]. Si
noti bene questo «obbligato», cioè “necessitato”
a riferirsi all’universale,
perché ciò permette di comprendere il nesso
tra l’estetico e il teleologico.
A partire da questa posizione è quasi scontato
lo sviluppo dell’analisi kantiana
sull’estetico, così nota che non vale
qui la pena di esaminarla. La natura, quella
che si esprime nel particolare e
nella pluralità, si subordina nel giudizio
all’unità del divino, all’universale. La
soggettività del sentimento cerca così
un’”unità” che la trascenda, “elevandosi”
al di sopra della pura sensibilità
percettiva e proiettandosi in una sfera meta-percettiva.
Questa si sottrae alla
contingenza e alla casualità della percezione
per proiettarsi nella sfera superiore dell’appercezione
quale “unità trascendentale” dell’ «Io penso»
[94] e
verso un orizzonte divino di pura idealità.
Il
concetto di bellezza va perciò riferito
a un “ideale” codificabile, ma a condizione
che il sentimento venga in qualche
modo “pilotato” dall’intelletto:
In primo luogo si deve considerare che la
bellezza per la quale si deve cercare un’ideale
non può essere una bellezza
“vaga”, ma una bellezza “fissata” mediante
un concetto di finalità oggettiva, e
per conseguenza non può appartenere all’oggetto
di un giudizio di gusto
interamente puro, ma all’oggetto di un giudizio
di gusto in parte
intellettuale. In altri termini, quella specie
di princìpii del giudizio, in
cui deve sussistere un ideale, deve avere
a fondamento un’idea della ragione
secondo concetti determinati, che determini
a
priori lo scopo su cui riposa la possibilità interna
dell’oggetto. [95]
Non è difficile cogliere qui un’allusione
al noumeno, poiché se « la possibilità
interna dell’oggetto » non si identifica
con esso, certamente lo presuppone in
quanto è teleologicamente posta come un a
priori. Ed allora: « La bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa
vi è percepita senza la rappresentazione
di uno scopo.» [96] L’assenza di uno scopo pratico, ovvero di
un interesse, è il presupposto di un
sentimento estetico che per un verso è fondato
sulla libertà del soggetto
percipiente, ma che è tematizzabile (e quindi
“comprensibile”) unicamente se lo
si riferisce alla “necessità” di una sfera
dell’universale che lo sottragga
alla mera particolarità.
Nel
Libro Secondo della Parte Prima della Critica
del giudizio il tema è l’Analitica
del sublime. Anche gli esiti di tale analitica sono
così noti che non è il
caso di soffermarcisi, ma è il caso di rilevare
che, per quanto Kant riprenda
sostanzialmente precedenti interpretazioni
del sublime, vi apporta una nuova razionalizzazione
a cominciare dalla
distinzione tra il s. matematico
(sensazione di sintonizzazione con l’infinitezza
spaziale/temporale e della sua “potenza”
) e il s. dinamico (sensazione di piccolezza, finitudine e
fragilità nei suoi
confronti). Il sentimento del sublime
(di ciò che è «assolutamente grande» e «al
di là di ogni comparazione»: quindi
“assoluto” [97]) implica un «movimento
dell’animo», mentre quello del bello
«mantiene l’animo in una contemplazione statica»
[98]. Entrambi
sono “finalizzati” ad un ottenimento di piacere,
seppure di diverso genere come
di intensità e complessità emozionali. Il
sublime,
assai più del bello, trova il suo
esito teleologico-teologico in un “oltre”
la natura, che si offre soltanto come
“apparenza fenomenica” di esso: «La natura
qui non è dunque chiamata sublime se
non perché eleva l’immaginazione a rappresentare
quei casi in cui l’animo può
sentire la sublimità della propria destinazione,
anche al disopra della
natura.» [99] In una scala di valutazione del sublime
riferito alla persona umana il più alto grado
di esso sta nella coniugazione
del “non temere nulla e saper affrontare
il pericolo energicamente e
consapevolmente” con «tutte le virtù della
pace, la dolcezza, la pietà e
persino una certa cura della persona», ovvero
nel mitico “guerriero nobile” che
si caratterizza come “senza macchia e senza
paura”. E da ciò:
Persino la guerra, quando è condotta con
ordine
e col sacro rispetto dei diritti civili,
ha in sé qualcosa di sublime, e rende
il carattere del popolo, che la fa in tal
modo, tanto più sublime quanto più
numerosi sono stati i pericoli a cui si è
esposto e più coraggiosamente vi si è
affermato; mentre invece una lunga pace di
solito dà il predominio al semplice
spirito mercantile, e quindi al basso interesse
personale, alla viltà, alla
mollezza, abbassando il carattere e la mentalità
del popolo. [100]
Fatta «in tal modo» la guerra può essere
sublime
anche se produce morte, poiché c’è differenza
tra una morte insignificante e la
“bella morte” del virtuoso. Comprendiamo
così perché Kant trovasse tanta
congenialità con lo “spartano” Rousseau.
La perorazione della non-violenza da
parte di illuministi come Voltaire e Diderot
trova qui la sua più compiuta
risposta negativa, post-illuminista e pre-romantica.
La violenza guerresca può
essere “bella e buona” se esteticamente ed
eticamente giustificabile. Un degno
preludio alla stagione della “gloria” del
tipico eroe del Romanticismo, sempre
guerriero, che caratterizzerà tutto l’Ottocento,
buona parte del Novecento e
(purtroppo, se pure in modo residuale) anche
la contemporaneità.
A
chiudere la stagione dell’estetica classicista
tronfia e formale, ma anche il
razionalismo illuministico in arte, possiamo
assumere quale figura emblematica
Wilhelm Heinrich Wackenroder (1773-1798),
un letterato berlinese, morto
giovanissimo appena dopo aver scritto un’opera
assai importante per la
sensibilità romantica, il saggio Effusioni del cuore di un monaco amante dell’arte.
In esso si sente tutta la ribellione di un
sentire sentimentale e teologico al
razionalismo. Gli “artifici dell’intelletto”
e qualsiasi “sistema severo di
idee” vengono stigmatizzati come contrari
all’arte, che è fondamentalmente una
“strada a Dio”. Un modo di accedere al divino
ed un linguaggio
trascendentalistico che «fonde ciò che è
spirituale e sovrasensibile in forme
sensibili », sì che i materiali dell’arte
ricevono e incorporano lo spirito di
Dio attraverso il lavoro dell’artista. Un
«miracolo» dell’attività umana
dunque, un evento trascendente per realizzare
il quale la razionalità e la
tecnica non servono a un bel nulla, poiché
solo la sensibilità intuitiva
dell’artista e soprattutto l’ispirazione
divina ne permettono la realizzazione.
Per fare vera arte non servono i tecnici
«segreti degli artisti» ma l’abbandono
all’emozione e alla contemplazione. Nell’arte
non esiste alcuna oggettività,
essendo il soggetto che emerge come protagonista
unico nel suo rapporto col
trascendente. Contro il classicismo “studiato”
del Mengs, fatto di
apprendimento scrupoloso e di paziente esercizio
avendo come riferimento la
bellezza dell’insieme delle opere degli antichi,
Wackenroder prende posizione
netta:
Oh triste saggezza! Oh
cieca fede! Come si può credere di poter
riunire in sé ogni specie di bellezza
e ogni eccellenza di tutti i grandi artisti
della terra, potersi impossessare
del loro spirito e vincerli tutti solo contemplando
ed elemosinando i loro
diversissimi doni? La perfetta bellezza dell’arte
si manifesta a noi, nella sua
pienezza, solo quando i nostri occhi non
si voltano a guardare nello stesso
tempo un’altra bellezza. [101]
La bellezza si offre come un “immediato”,
un
non-mediato da nessuna capacità di approccio
al
bello che non sia l’assoluta spontaneità
individuale. In arte,
l’individualità è tutto. Contro l’idea di
bellezza di Winckelmann, riposta
nella fascinosa freddezza delle statue greche
Wackenroder rileva che «sta nella
nostra anima un magico specchio che talvolta
ci mostra le cose in una più
potente rappresentazione.» [102] E
quindi:
Bellezza: una parola
meravigliosamente strana! Immaginate una
nuova parola per ogni singola opera
d’arte! In ognuna di queste appare un altro
colore, e per ognuna altri nervi
sono stati creati nel meccanismo dell’uomo.
Ma voi ricavate da questa parola,
con le arti della ragione un rigoroso sistema
e volete costringere tutti gli
uomini a sentire secondo i vostri precetti
e le vostre regole, e voi stessi non
sentite nulla. [103]
È con queste premesse che il giovane e
sfortunato ragazzo berlinese è diventato
il padre di un’estetica romantica
individualista, spontaneista e irrazionalista.
Toccherà a Friederich Schlegel
(1772-1829) prendere la sua testimonianza
e dargli adeguati sviluppi teorici.
Dopo
aver sviluppato le categorie del bello e quella del sublime ci
resta da considerare quella del brutto, oppositiva rispetto alla prima
ma ambiguamente evocata dalla seconda. Se
per Platone e per Plotino il brutto
era semplicemente il “non-essere” e per Sant’Agostino
“privazione” )posizioni
che in vario modo erano state rispettate
molto a lungo) nel Seicento la
categoria del brutto incomincia a ricevere
qualche attenzione. Al pessimo
ontologo Cartesio va il merito di averci
dato con Le passioni dell’anima,
del 1649, alcune interessanti analisi di
tipo psicologico, e tra queste anche
di aver precisato che i concetti del piacevole
e del bello sono solo soggettivi
(quindi anche quello dei loro contrari) dipendendo
da un’immagine mentale
fissata nella memoria. Ed anche un altro
pessimo ontologo, Spinoza, era
convinto di ciò scrivendo in una lettera:
«La bellezza non è una qualità
dell’oggetto considerato, ma un effetto che
ha origine nell’uomo che lo
considera.» [104] Ma è Crousaz nel citato Traité
du Beau, del 1714, a sostenere che: a) l’irregolarità
permette di
apprezzare la regolarità quale presupposto
del bello; b) soprattutto
nella musica e nella poesia il bello è un
indefinibile je ne sais quoi;
c) è un punto di vista soggettivo che stabilisce
ciò che è bello e ciò che non
lo è; d) se certe proporzioni sono belle,
ciò non significa che altre, del
tutto differenti, siano brutte; e) si coglie
la bellezza o in ciò che appaga
l’occhio e l’orecchio, o in ciò che commuove
o in ciò che risulta razionale; f)
cose brutte, in base ai nostri stati d’animo,
possono suscitare le stesse
reazioni di quelle belle; [105]. Il
senso di quest’ultima affermazione è che
se in generale il bello suscita
piacere e il brutto disagio ciò nel
particolare non è sempre vero. Con ciò lo
svizzero conferisce alla categoria
del brutto uno status estetico sostanzialmente simile a quello
del
bello.
Ma a
nostro parere è nel Laoocoonte di Lessing che si ha una vera
legittimazione estetica del brutto, laddove
si afferma che il bello è solo una
“piccola parte della natura visibile” [106], poiché
la più importante in arte è « la verità e
l’espressione ». Ed inoltre: «È
sufficiente che, grazie alla verità e all’espressione,
la cosa più brutta della
natura venga trasformata in bellezza artistica.»
[107] Ma
è nella poesia (come arte “nel tempo”) che
il brutto risulta più utile, e ciò
in virtù del “movimento” discorsivo, sicché:
«la bruttezza delle forme perde
quasi completamente il suo effetto spiacevole
grazie alla trasformazione delle
sue parti coesistenti in successive.» [108] È quindi
con Lessing che il brutto diviene un elemento dell’arte, ed è
partendo da ciò che Friederich Schlegel ne
tenterà una teorizzazione estetica.
Per Kant il brutto in arte è solo il frutto
di una mancanza di buon gusto, per
Hegel invece una fase dell’Aufhebung come “superamento conservativo”. I
temi dell’estetica avevano interessato Hegel
sin dalla giovinezza e i testi
delle sue lezioni (raccolte a posteriori)
formano quella che si pubblica sotto
il titolo di Estetica. Secondo un tipico schema hegeliano il brutto,
comunque, “si risolve” nel bello, e quindi:
«Sarebbe uno sbaglio fissare per sé
il brutto, se esso non trova scioglimento.»
[109]; e
da ciò partirà Karl Rosenkranz per il suo
famoso saggio l’Estetica del
Brutto del 1853.
3.4 Sensismo, empirismo e praticismo
Dei tre termini posti nel
titolo solamente i primi due hanno un significato
filosofico definito e
qualificante, il terzo essendo stato usato
perlopiù in senso negativo.
Lasceremo per un momento da parte la terminologia
filosofica ufficiale, o
meglio usuale, per affermare che essi,
coniugati insieme, costituiscono un blocco
indicativo di ciò che può
significare la parola materialismo
visto come l’insieme degli atteggiamenti
che lo caratterizzano. Possiamo infatti
dire che il sensismo ne rappresenti l’atteggiamento gnoseologico, l’empirismo quello operativo, il praticismo quello etico. Gli ultimi due costituendo
anche i due
lati di una “metodica” materialista o “di
un fare” rigorosamente pragmatico, precisando
che qui l’aggettivo non ha alcun rapporto
col pragmatismo novecentesco, così come non ne ha il praticismo col concetto di praxis del materialismo storico marxiano
(Ideologia tedesca, 2) né di quello
engelsiano (Antidühring). In altre
parole, per seguirci in questo breve paragrafo,
e comprendere il senso del discorso,
può essere addirittura opportuno dimenticare
gli schemi semantici tipici del
gergo filosofico, perché ciò che qui ci interessa
è di considerare un atteggiamento
settecentesco pragmatico e anti-teorico che
è del tutto nuovo.
Il sensismo e l’empirismo (ai
quali, a rigore, dovremmo aggiungere il sensualismo quale teorizzazione
dell’eticità degli istinti) trovano nel Settecento
numerosi teorizzatori e
sostenitori. Si tratta, in entrambi i casi,
di forme filosofiche assai antiche,
ma che sin dal Cinquecento (sia con la riscoperta
di Epicuro e sia con
gnoseologie come quella di Campanella) e
poi nel Seicento (con Hobbes e
Gassendi) trovano un rilancio che si rinsalderà
nel secolo successivo. Per
quanto l’empirismo sia uno stretto correlato
del sensismo segue tuttavia linee
teoriche differenti, trovando il metodologo
teorizzatore in un Bacone che è peraltro
poco interessato a sviluppare una teoria
gnoseologica sensistica. Venendo al
secolo XVIII va notato che sia Locke che
Berkeley passano per degli empiristi, sebbene
il primo fondi su un realtà empiricamente
percepibile attraverso i sensi un vera
teoria della conoscenza, mentre il secondo
ne faccia un uso pretestuoso per
concludere che ogni conoscenza nell’ambito
della materia è “falsa”,
poiché solo nello spirito vi è realtà e verità. Solo in Locke, quindi,
si può riconoscere un autentico empirismo
gnoseologico (del quale ci siamo
occupati al § 2.5) e non certo nel pirotecnico
teologo irlandese dell’esse est percipi.
Il sensismo è elemento interessante della
cultura settecentesca, per quanto, come si
è detto, trovi compiute enunciazioni
molto tempo prima, e nel ‘600 in Hobbes,
relativamente al quale rinviamo al §
2.3. Ricordiamo la frase significativa all’’inizio
del Leviatano nella quale, dopo aver precisato che
ogni pensiero è l’apparire di qualcosa che
impatta sui nostri sensi, si dice:
L’origine di tutte le apparenze è ciò che
chiamiamo
senso, perché non c’è concezione nella mente di
un uomo che non sia
stata dapprima acquista, del tutto o in parte,
attraverso gli organi di senso.
Il resto è derivato da quell’origine. [110]
Abbiamo
anche visto che Hobbes è in buona compagnia
nel perorare un atteggiamento di
questo tipo tra i pensatori del Seicento,
e che anche il sensismo empiristico
di Gassendi va in tale direzione (§ 2.4.)
per quanto tali prodromi si sviluppino
solo nel pensiero settecentesco.
È sicuramente Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780)
colui che meglio di ogni altro enuclea una
dottrina sensistica di grande peso,
per quanto in lui non vi sia nessuna traccia
di materialismo. E tuttavia essa è
ripresa proprio da materialisti atei come
Helvétius ed in parte anche da
d’Holbach. Il punto di partenza per il Nostro
è il Saggio sull’intelligenza
umana di Locke, sulla base delle cui enunciazioni
egli sviluppa e formula
una vera teoria del conoscere su base sensistica,
ma niente affatto materialistica,
poiché è l’anima spirituale (struttura di
origine divina calata nell’uomo) a
produrre la conoscenza. Nel 1746 Condillac
pubblica l’Essai sur l’origine
des connaissances humaine, che può essere considerato come lo studio
preliminare che mette ordine nei concetti
teorici che rifluiranno nel Traité
des sensations. Nell’Essai si afferma in prefazione: «Le idee sono
connesse con i segni, e soltanto per questo
mezzo, come sarà dimostrato, si
connettono tra loro.» [111]
Va aggiunto che per quanto egli rifiuti l’innatismo
cartesiano ne utilizza però
il dualismo antropico, considerando separatamente
l’anima e il corpo. È infatti
l’anima la sede in cui nasce e si dà il pensare
e quindi il conoscere, e
l’operatività di essa è ciò che produce i
pensieri; quest’operatività assume in
Condillac il nome di “intelletto”.
I “segni” sono quelli del linguaggio umano
codificati
perlopiù sugli oggetti del mondo che ci vengono
incontro dall’esterno; essi
colpiscono l’anima e ne mettono in moto l’operatività.
Tale operatività, l’intelletto”,
elabora pensieri e li immagazzina. La percezione
del mondo esterno e dei suoi
oggetti si offre all’anima con “segni” che
l’intelletto elabora, per cui (I,
II, viii):
L’intelletto non è altro che il complesso
o la
combinazione delle operazioni dell’anima.
Percepire o aver coscienza, prestare
attenzione, riconoscere, immaginare, ricordarsi,
riflettere, distinguere le
idee, astrarre, comparare, comporre, scomporre,
analizzare, affermare, negare,
giudicare, ragionare, concepire, tutte queste
operazioni costituiscono l’intelletto. [112]
L’intelletto è
dunque operatore dell’anima ed estrinsecazione
della sua potenza. Vediamo ora la
fenomenologia del processo conoscitivo:
Noi cominciamo con percezioni di cui abbiamo
coscienza; ed in seguito, quando ci formiamo
una coscienza più viva di qualche
percezione, essa si trasforma in attenzione.
Quando le idee si connettono,
riconosciamo di conseguenza le percezioni
che abbiamo avuto, e ci riconosciamo
come l’essere che le ha avute: ciò costituisce
la reminiscenza. Quando l’anima risveglia le sue percezioni
o
le conserva oppure ne ricorda soltanto i
segni, allora abbiamo l’immaginazione,
la contemplazione e la memoria; quando essa
stessa dirige la propria
attenzione, abbiamo la riflessione. Da questa
derivano tutte le altre operazioni.
[113]
La riflessione
è la più alta delle operazioni intellettuali,
poiché consente l’analisi, la
comparazione, l’antitesi, la distinzione
ed infine la sintesi.
Il Saggio sull’origine della conoscenza
umana non è solo l’abbozzo di una teoria della
conoscenza, ma anche dei
bisogni interiori e dai desideri che ci spingono
a prestare attenzione a
determinati oggetti e non ad altri. Ciò significa
che non vi è mai oggettività
assoluta nel percepire e nel conoscere, poiché
prevalgono la soggettività del
linguaggio intimo e la convenzionalità del
discorrere sociale. Per Condillac è
infatti il rapporto umano, affettivo o convenzionale,
a determinare il
significato delle parole e il senso del discorso.
Il linguaggio è quindi fortemente
arbitrario e distaccato dall’oggettività
delle cose e dei fatti reali che solo “traduce”.
Rispetto a Locke il francese opera anche
una semplificazione teorica, nel
ritenere che la riflessione non sia altro
che una sensazione ripetuta che la
memoria restituisce. Del Trattato sulle sensazioni è divenuta famosa la
metafora della statua di marmo che “si anima”
attraverso la percezione.
Molti anni prima di Condillac il tedesco
Christian
Thomas (1655-1728), noto come Thomasius,
aveva già cominciato a delineare una
linea sensista che coniugava con l’empirismo.
Una posizione ben espressa dall’Introduzione alla dottrina della ragione
(nota anche come Introduzione alla logica)
pubblicata a Halle nel 1691. In essa Thomasius
mette in dubbio il valore
gnoseologico della metafisica a favore di
un metodo conoscitivo di tipo
lockiano; sono infatti i sensi che producono
le idee, e sono ancora i sensi che
devono confermarne la giustezza. Da ciò la
lapidaria asserzione: «Ciò che
l’intelletto umano conosce con i sensi è
vero; ciò che è contrario ai sensi è
falso.» [114] Egli è un luterano pragmatico, che vede nel
vivere umano quattro istinti inderogabili:
vivere il più possibile, essere
felici quanto possibile, possedere il massimo
dei beni, avere potere e
influenza sui propri simili. Su questi principi
antropologici si fonda un’etica
in tre punti, semplici e chiari, indicati
dalle parole honestus, justum e decorum. Il primo significa: «fai a te
stesso ciò che vorresti che gli altri facessero
per se stessi », il secondo:
«non fare ad altri ciò che non vuoi sia fatto
a te » e il terzo: «fa agli altri
ciò che vuoi che essi facciano a te ». A
dispetto dell’apparente rozzezza di
queste enunciazioni Thomasius fu un dispensatore
non solo di tesi efficaci, ma
anche di raffinate interpretazioni filosofico-giuridiche,
tutte in senso
rigorosamente razionalista ed a favore della
tolleranza, contro l’oscurantismo
religioso, contro le persecuzioni e i processi
per stregoneria e contro le
chiusure dogmatiche delle sclerotizzate strutture
accademiche. Sono queste le
ragioni per cui vediamo in lui un interessante
“praticista” pre-illuminista, nel senso che
egli mette in atto il
tentativo filosofico di liberare l’umanità
da tutte le posizioni preconcette ed
ideologiche, in favore di un utilitarismo
praticistico che vada a favore di
tutti.
3.5 Matematizzazione e meccanicismo
La matematica è una scienza
del tutto particolare. Forse neppure una
scienza, ma piuttosto un’arte, la
quale però, e questo è un grande problema
per l’ontologia, si accorda così bene
con le leggi fisiche da venir riconosciuta
come la meravigliosa chiave che
inserita nella più intima serratura del cosmo
se non ne svela l’”essere”
certamente ne svela i meccanismi del “funzionare”.
Da ciò la tentazione, fin da
Pitagora di farne, il fondamento mistico
e ontologico dell’essere,
tentazione peraltro presente più che mai
anche ai giorni nostri, caratterizzati
da un riflusso mistico e spiritualistico
imponente e diffuso. Il problema non è
di poco conto, ma anzi è fondamentale per
un corretto approccio ontologico alla
sfera del “fisico”, anzi della materia. Essa si lascia leggere da noi in
linguaggio matematico e con questo linguaggio
noi possiamo capire come
funzionano il cosmo e le nostre macchine,
ma se estendiamo la matematizzazione
alla “struttura” commettiamo un grave arbitrio
ontologico. L’universo si lascia
sì leggere in lingua matematica, ma ciò non
significa che esso sia matematico.
Se il linguaggio matematico è “per noi” l’unico
linguaggio corretto di
approccio, ciò non significa affatto che
la struttura dell’universo sia
leggibile “solo così” perché noi siamo capaci
di leggerla “solo così”.
Per avere contezza di quanto
spesso si equivochi su questo fatto basta
ricordare la celeberrima frase del Saggiatore
in cui Galileo afferma:
La filosofia è scritta in questo grandissimo
libro che continuamente ci sta aperto innanzi
a gli occhi (io dico l’universo),
ma non si può intendere se prima non s’impara
a intender la lingua, e conoscere
i caratteri, né quali è scritto. Egli è scritto
in lingua matematica, e i
caratteri son triangoli, cerchi e altre figure
geometriche, senza i quali mezi
è impossibile intenderne umanamente parola;
senza questi è un aggirarsi
vanamente per un oscuro laberinto. [115]
È esattamente ciò che noi pensiamo dell’universo
e che abbiamo poc’anzi
sostenuto; mentre altro conto è dire (cosa
che Galileo qui non fa) che la
“struttura” dell’universo sia matematica
per il fatto che è “matematizzabile”,
cioè accessibile alla nostra ragione. D’altra
parte la matematica è anche
un’arte e centinaia di splendidi modelli
matematici (non se ne dimentichi
l’elemento “estetico”) inventati per render
ragione dell’essere cosmico sono
caduti nell’oblio più totale in assenza in
verifiche sperimentali, negati dalla
datità reale, rimanendo tuttavia pregevoli monumenti
della creatività
umana, così come lo sono le opere dell’arte
e della letteratura.
In realtà la matematizzazione
dell’essere nasce con Cartesio e con le sue fantasie
platonizzanti,
quelle che un grande matematico, fisico e
astronomo come Christiaan Huygens
(1629-1695) chiamava «romanzi piacevoli»,
pur essendone egli stesso stato
affascinato al punto da aver creduto nella
“teoria dei vortici” anziché nella
fisica newtoniana. Scrive l’olandese:
Il Signor Descartes aveva trovato la maniera
di far accettare per vere le sue congetture
e le sue finzioni. E a coloro che
leggevano i suoi Principi di filosofia capitava qualcosa di simile a
quello che capita a coloro che leggono romanzi
piacevoli che diano la stessa
impressione delle storie vere. La novità
delle figure delle sue particelle e
dei vortici piace molto. [116]
Quando Huygens scrive queste parole si è
ormai “liberato” da Cartesio
(ma persiste nell’idea di gravità come “tendenza centrifuga della materia
sottile”!), e se calca la mano è per far dimenticare
di essere stato un
cartesiano e di aver costruito anche lui
qualche “romanzo” che forniva « la
stessa impressione delle storie vere » (quelle
che erano raccontate da Newton).
Huygens, per cercare di farsi perdonare la
sua credenza nei «romanzi piacevoli»,
non trova allora maniera migliore che antidatarla
all’adolescenza, ma resta in
ogni caso la significativa testimonianza
di un
“fulminato” dall’eterno fascino della metafisica:
Allorché lessi questo libro dei principi
per
la prima volta mi sembrò che tutto andasse
molto bene, e credevo, quando
incontravo qualche difficoltà che fosse colpa
mia se non capivo bene il suo
pensiero. Avevo soltanto 15 o 16 anni. Ma,
in seguito, avendovi scoperto di
tanto in tanto cose visibilmente false, ed
altre molto poco verosimili,
abbandonai completamente le preoccupazioni
che avevo nutrito, e ora non trovo
quasi nulla che possa approvare per vero
in tutta la sua fisica, né alla sua
metafisica, né nelle sue meteore. [117]
Il problema dell’inconsistenza di tesi pseudo-fisiche
non è pericoloso
per la scienza, poiché essa possiede “fisiologicamente”
i correttivi necessari
ed inoltre, evolvendo, produce validi anticorpi.
I danni sono per la filosofia
e i danni del cartesianesimo su di essa sono
stati enormi, poiché coi suoi
«romanzi piacevoli» ha contribuito alla “teologizzazione”
della filosofia. Con
“matematizzazione e meccanicismo” ci riferiamo
quindi a quel colossale equivoco
che ha coinvolto, purtroppo, non tanto i
teologi (che anzi vi si sono in larga
parte opposti) quanto i sedicenti atei del
Settecento. E se diciamo “sedicenti”
non ci riferiamo alla loro intima convinzione
della non-esistenza di Dio, ma su
quella di teorizzare (come vedremo in Helvétius
e d’Holbach) un mondo ritenuto
senza-Dio per il solo fatto di negare il
Dio-Volontà, ma presupponendo e
proponendo un criptato Dio-Necessità che
ri-teologizza la filosofia. In altre
parole: si pretende di buttare Dio fuori
dalla porta, ma lo si fa subito rientrare
dalla finestra col determinismo.
Il grosso danno che consegue
al successo del cartesianesimo sta nel fatto
che, almeno per alcuni decenni, la
scienza soffrirà di pericolosi sbandamenti
metafisici cui solo il newtonianismo
porrà argine. Ma Newton, da scienziato, lo
farà in maniera troppo discreta, sicché
solo lentamente la sua fisica si imporrà
come l’unica prospettiva fondata.
L’errore esiziale di Descartes è quello di
avere identificato la matematica con
la scienza, cioè di aver confuso un’essenza
metafisica con una realtà fisica. D’altra
parte la sua algebra non altro è che una
ripresa di ciò già François Viète
(Franciscus Vieta), un geniale matematico
dilettante (1540-1603), aveva posto
nel suo Canon mathematicus (1579) dedicato alla trigonometria, e
specialmente in Isagoge in artem analyticam (1591), dove già aveva
eliminato i numeri sostituendoli con lettere:
la logistica speciosa (l’algebra) prendeva il posto della logistica
numerosa. Come ha ben visto Dijksterhuis nel suo
Il meccanicismo e
l’immagine del mondo Cartesio non fa altro che tradurre la logistica
speciosa in una teologica Mathesis Universalis [118]. In
realtà la matematizzazione, ovvero il “tutto-numero” di Cartesio, è
solo
l’altra faccia del cosmico “tutto-materia”,
dove materialità e spazialità
vengono a coincidere. È altresì evidente
che nel tutto-pieno cartesiano non può
esserci posto per il vuoto, che è metafisicamente espunto come
“impossibile”. Rileva Dijksterhuis:
L’identità di materia e spazio, che
costituisce il fondamento metafisico del
sistema cartesiano, porta
immediatamente a una serie di conseguenze:
a) il mondo ha un’estensione
infinita; b) esso è costituito dappertutto
dalla stessa materia; 3) la materia
è infinitamente divisibile; 4) il vuoto,
ossia uno spazio non contenente alcuna
materia, è un concetto contraddittorio e
conseguentemente è impossibile. [119]
Di fronte a queste sciocchezze sono numerosi
i metafisici che accampano
la necessità di ”storicizzare” il cartesianesimo
per giustificarne gli arbitri
teorici. Se non che, all’inizio del Settecento,
esistevano già tutte le
evidenze scientifiche dell’inconsistenza
delle tesi cartesiane. Esse erano però
così metafisicamente “allettanti” che furono
moltissimi a non volerci
assolutamente rinunciare, continuando a rilanciare
in vari modi e forme l’opera
di quella figura leggendaria che era il grande
teologo filosofale di La
Haye.
Il meccanicismo ha trovato
anche una sua affermazione a livello più
specificamente religioso, ed un
esempio lo troviamo in Nehemia Grew (1641-1712),
che tenta di conciliare il
meccanicismo con la Provvidenza quale disegno intelligente, scrivendo:
[Non è necessario pensare] che esista una
contraddizione quando la filosofia insegna che siamo fatti dalla natura,
mentre la religione e la Sacra Scrittura insegna che siamo fatti
da Dio: come quando diciamo che il bilanciere
di un orologio è mosso
dalla ruota più prossima ciò non equivale a negare che
la ruota e
il resto siano mossi da una molla; e che tanto la molla quanto le
altre parti siano spinte l’una a muovere l’altra dal
loro costruttore.
Così Dio può essere veramente la causa di quest’effetto, benché
si possa immaginare che intervengano un migliaio
di altre cause; tutta
la natura è infatti come una grande macchina, costruita e retta dalle
Sue mani. [120]
Si
tratta della più chiara enunciazione dell’esito
potremmo dire “sacrale” del
meccanicismo, che sicuramente prevale nel
Sei-Settecento; per quanto non vada
dimenticato che esso sarà anche alla base
dell’ateismo, che non a caso si
esprimerà, almeno prevalentemente, come un
rigoroso determinismo. E va ancora
ricordato è che la matematizzazione del cosmo,
si ritrova anche in altri
teologi come Mersenne e Pascal, tendenzialmente
disposti a fare della
matematica e della geometria una sorta di
“scienza divina”, che per un verso
rivivifica la teologia platonica e per un
altro anticipa tutta la metafisica
matematicistica sino ai nostri giorni. Ciò
che va comunque rilevato è che
Cartesio ha fatto scarsissimo uso della matematica
nei suoi libri, e che la
maggior parte delle sue descrizioni fisiche
sono prive di formule matematiche,
sì da far dire a Paolo Rossi che la sua è
una “fisica-matematica senza
matematica” e che il “matematismo” si manifesta
solo quale carattere
assiomatico e deduttivo delle sue “costruzioni”
metafisiche [121].
Sia chiaro, non intendiamo affatto
minimizzare l’importanza della matematizzazione delle scienze nella
forma definita da Galileo e Newton, poiché
essa è tanto importante quanto lo è
il metodo sperimentale per il progresso della conoscenza. Ciò che
vogliamo evidenziare è l’impropria estensione
metafisica, poiché è stata
proprio questa a prevalere sul piano teorico,
storiografico e mediatico. Una
prevalenza indubbiamente dovuta alle connessioni
esistenti tra i numeri, la
mistica e la teologia filosofale. Ma è anche
l’astrazione di cui la matematica
è latrice, specialmente quanto il numero
è sostituito dal simbolo alfabetico, a
far sì che essa assuma una valenza “quasi
magica” di grande fascino, la quale,
talvolta, ha proiettato la matematica in
una sorta di empireo intellettivo
dalla valenza esoterica. D’altra parte non
è un caso se matematica è stata, fin
dalle sue origini, oltre che strumento della
computazione anche materia sacra e
mistica, come fu per Pitagora, per l’autore
del biblico Numeri e per
Platone.
Il
meccanicismo è un importante correlato della
matematizzazione, ma il
“macchinismo”, come atteggiamento mentale,
ha confini assai più vasti. Anche
Hobbes nel De corpore (1655) si domandava perché mai si dovesse
fare una
distinzione tra gli orologi, gli automi meccanici
e la macchina umana, visto
che anche il motore principale di essa, il
cuore, non è altro che una molla, i
nervi corde e le articolazioni ruote. Ed
anche Marcello Malpighi nel De
pulmonibus (1689) scriveva che «Le macchine del nostro
corpo sono le basi
della medicina: esse si identificano con
“corde, filamenti, travi, fluidi
scorrenti, cisterne, canali, feltre, crivelli
e somiglianti macchine” [122].
Correlato del matematismo è anche il geometrismo;
il fisiologo Giovanni Alfonso
Borelli nel suo De motu animalium del 1680 scriveva che «la lingua e i
caratteri con i quali il Creatore delle cose
parla nelle sue opere sono
configurazioni e dimostrazioni geometriche»
infatti «Le operazioni della natura
sono facili, semplici e seguono le leggi
della meccanica, che sono leggi necessarie.» [123] Nella misura in cui la meccanizzazione del
mondo ne sancisce l’autonomia dal Dio biblico
e cristiano, questi abbandona
l’immanenza nel mondo per ritrarsi nella
sua assoluta trascendenza,ciò almeno
finché non apparirà il Dio “tutto immanenza”
di Spinoza.
Con la
metafisica cartesiana si profila una dicotomia
immanenza/trascendenza, ovvero
Mondo/Dio, gravida di conseguenze e riportante
in auge il dualismo ontologico
platonico che Descartes riprende molto più
di quanto correntemente con si
colga. Già nel Seicento, ma soprattutto nel
Settecento, si evidenzia come due
strade gnoseologiche oppositive si pongano,
dando luogo a una contrapposizione
tra gli esperienzialisti e gli astraenti,
che rimane inconciliata e generata
dalla dicotomia sperimentazione/astrazione
che divide ancor oggi il pensiero
filosofico da quello filosofale. Ma a latere di tale problema deriva anche
un elemento logico non trascurabile, che
si può estrinsecare nella coppia
induzione/deduzione, traducibile in quella
empirismo/astrazione. In realtà, la
conoscenza vera implica sempre la connessione
di entrambi, poiché quasi mai si
dà conoscenza vera con uno solo di essi.
Questo è sicuramente l’atteggiamento
degli scienziati, che si preoccupano pragmaticamente
dei “risultati” quanto dei
“principi”, se validi.
Matematizzazione e meccanicismo, nel senso
da noi posto, devono essere
considerati l’espressione di una maniera
astratta di intendere la conoscenza
della realtà. Quel matematico-logico-metafisico
che era Cartesio è
l’espressione più compiuta di entrambi. All’inizio
del ‘700, tra la scuola
induttiva britannica espressa nella linea
Bacone-Locke-Newton, fondata
sull’esperienza diretta, e quella che era
stata espressa come caposcuola da
Cartesio e seguaci, basata sulla deduzione
astratta, si consuma una
contrapposizione metodologica carica di conseguenze
negative. Si tratta di una
contrapposizione che i materialisti del Settecento
poco si curano di indagare,
assumendone una sintesi, perlopiù riduttiva
e confusa, che rende il
meccanicismo utilizzabile tout court senza entrare troppo nei dettagli
euristici delle sue origine e delle sue connotazioni.
E tuttavia è opportuno
soffermarsi adeguatamente sul problema posto
per cercare di comprendere meglio
se sia stato il meccanicismo degli scienziati
come Newton o piuttosto quello
dei metafisici come Cartesio ad influenzare
maggiormente il materialismo ateo
del ‘700. Senza nemmeno trascurare la “storica”
componente atomistica, ripresa
specialmente dai Libertini e da Gassendi,
che vedevano nell’atomismo antico una
fonte probante per una visione
meccanicistica del mondo.
Anche
la storiografia moderna riflette la diversificazione
sopra accennata,
emergendone due indirizzi rappresentati da
coloro che ritengono determinante
nella nascita del materialismo ateo del Settecento
l’influenza dell’atomismo
antico, ed altri che ritengono invece assai
più importante l’influenza del
cartesianesimo attraverso un’incomprensione
ateizzante. Si arriva addirittura
ad ipotizzare che Descartes stesso potesse
propendere verso un ateismo non
dichiarato e sottaciuto per questioni opportunistiche;
tesi fantasiosa e priva
di fondamento. Se dovessero valere tali ipotesi
gratuite varrebbe anche la
contraria: cioè che Cartesio abbia omesso
di fare riferimento a Dio per darsi
l’aria di fare scienza laica (ma con la sottintesa
esistenza di una suprema Res
Cogitans a fondarla). Ci pare allora che un’accettabile
sintesi di ciò che
fu la metafisica di Cartesio ce la offre
lo storico della scienza Herbert
Butterfield, che scrive:
Nella concezione cartesiana Dio apparteneva
al novero
delle idee chiare e distinte e più nitide
della mente che non qualsiasi altra
realtà vista effettivamente con gli occhi.
Inoltre, a suo parere tutto dipendeva
dall’esistenza di un Dio perfetto e giusto.
Senza di lui l’uomo non avrebbe
potuto aver fiducia in nulla, non avrebbe
potuto credere nemmeno in una
proposizione geometrica, poiché Egli era
la garanzia che la realtà non era
tutta un’illusione, che i sensi non erano
un totale inganno, né la vita un
semplice incubo. Cominciando da questo principio,
Cartesio si proponeva di
dedurre tutto l’universo da Dio, attraverso
un processo chiaro e certo in ogni
suo tratto come una dimostrazione geometrica.
[…] Egli voleva possedere una
scienza stabilita con la stessa esattezza
e lo stesso perfetto ordine di ogni
principio matematico, una scienza che, per
quanto riguardava l’universo fisico
(escludendo cioè l’anima e il lato spirituale)
si presentasse come un meccanismo
perfetto. La sua concezione di un’unica scienza
universale così riunita,
precisa e coordinata, fu forse uno dei contributi
più notevoli alla rivoluzione
scientifica. Egli portò in realtà l’unificazione
tanto avanti da affermare che
una singola mente avrebbe potuto elaborare
l’intero sistema, e indulse per
qualche tempo alla speranza di poter egli
stesso portare a termine l’intera
rivoluzione scientifica. Quando gli altri
si offrivano di aiutarlo con qualche
esperimento egli aveva la tentazione di rispondere
che sarebbe stato meglio se
gli avessero dato il denaro perché lo potesse
eseguire egli stesso. […] La fisica cartesiana dipende pertanto in
modo
particolare dalla sua metafisica, essa riguarda
solo i gradi più bassi di un
sistema gerarchico che risale sino a Dio.
Il fine di Cartesio è quello di
escogitare un sistema totale dell’universo
cominciando dalla materia (o da
quella che i filosofi chiamano estensione)
da un lato, e dal movimento (il solo
moto locale) dall’altro. Ogni aspetto della
realtà doveva essere spiegato
matematicamente, o attraverso le forme esteriori
o attraverso i numeri. [124]
Per
quanto nell’insieme Butterfield descriva
correttamente la posizione di
Descartes, ci pare sbagli grossolanamente
nel ritenere che il suo «fu forse uno
dei contributi più notevoli alla rivoluzione
scientifica ». Fu solo la
specializzazione e la settorializzazione
delle scienze, con la nascita di
discipline specifiche “separate” da una fisica
meccanicistica onnicomprensiva,
che permetterà una vera “ricerca” scientifica
in termini moderni. Una ricerca
dove la tecnologia delle apparecchiature
scientifiche si affianca
all’osservazione e alla sperimentazione per
ottenere risultati certi,
ripetibili e confermabili; non già attraverso
la creazione di teorie pseudo-scientifiche
su base metafisica ed ancora meno assumendo
quell’ambiguo dubbio metodico
per cui “di tutto si deve dubitare fuorché
di Dio”. Ma Butterfield, nel
sottolineare l’intento cartesiano (e dei
metafisici di ogni tempo) di una
sapienza “unica”, mette anche in evidenza
come Cartesio perseguisse
quell’”unificazione” sapienziale che è il
sogno riposto di tutte le teologie
filosofali. La filosofalità, infatti, ha
talmente permeato la nostra cultura e
condizionato i nostri meccanismi mentali
che finiamo per non percepirne più gli
effetti nefasti.
In ambito britannico, prima dell’irrompere
della fisica newtoniana è il cosiddetto “Circolo
di Newcastle” a mostrarsi
sensibile all’impostazione meccanicistica
di Cartesio e nel contempo
all’atomismo di Gassendi. Ne esce un ibrido
atomistico-meccanicistico-magnetico
di notevole interesse, di cui è interprete
William Petty, il quale, secondo
Robert H.Kargon, realizza «una sintesi delle
idee di Gassendi, Cartesio, Hobbes
e Gilbert.» [125] Vediamo qualche passo del suo Discourse
[…] with a New Hypotesis of Spribgy or Elastique
Motion del 1674:
Ogni atomo è simile al Globo terrestre o
Magnete, in cui vi sono tre punti considerevoli,
due in superficie chiamati
Poli ed uno nella sostanza chiamato Centro
[…] Suppongo che il centro di un
atomo possa avere una tendenza verso il centro
di un altro ad esso vicino […]
Suppongo che ogni atomo abbia, come un magnete,
due movimenti; uno di gravità,
per cui tende verso il centro della terra,
e l’altro di verticità, per cui esso
tende verso i poli terrestri. [126]
Per
Petty gli atomi sono “microcosmi” che replicano
il macrocosmo come suoi
elementi-base, mentre l’universo non è altro
che un macro-atomo complesso da
essi formato. Gli atomi costituiscono quindi
una proto-materia immutabile
e magnetica “in movimento”; essi, muovendosi
ed unendosi, producono
“corpuscoli” in possesso delle qualità secondarie. I movimenti che Copernico attribuiva alla
Terra si ritrovano nei corpuscoli, i quali, assemblandosi a loro volta,
danno luogo a corpi più grandi in possesso
di qualità fisiche primarie. I “movimenti planetari” fanno
si che gli atomi si comportino «come fa la
Luna intorno alla Terra, Venere e
Mercurio intorno al Sole, ecc. » e nel contempo
«si attraggano reciprocamente
». Quest’interessante ipotesi cosmologica
si presenta quindi come un “atomismo
meccanicistico” che nel suo sincretismo è
abbastanza vicino al comportamento
reale della materia elementare, poiché l’atomo
è costituito da particelle
elementari che sono, attraverso il loro spin, dei “piccoli magneti in rotazione”.
La
teoria di Petty è però troppo complessa e
raffinata per trovare l’attenzione
dovuta, per cui sarà invece il grossolano
meccanicismo cartesiano a trovare
maggior credito in tutta la seconda metà
del Seicento prima di venire affossato
da quello newtoniano. E tuttavia, per quanto
sia errato enfatizzare l’apporto
del meccanicismo cartesiano nel Settecento
ci corre l’obbligo di dare qui conto
dell’opinione di Aram Vartanian, autore di
un Diderot e Descartes, pubblicato
nel 1953, che proprio questo fa minimizzando
l’influenza newtoniana. Questa è sostenuta
invece da Friederich Lange a fine Ottocento,
col suo Storia del Materialismo, e relativamente riaffermata intorno
al 1930 dall’eminente storico della filosofia
Emile Bréhier nel suo analitico Le
18me siècle. L’analisi del Vartanian, convinto cartesiano,
è interessante ma inconsistente nel vedere
la
linea continua di un cartesianesimo potenzialmente
ateo e materialistico espresso
da Fontanelle e ripreso da Diderot per finire
nel materialismo ateo di La
Mettrie e di D’Holbach.
Vediamo
alcune asserzioni di Vartanian che basate
sull’assunto che Descartes abbia
separato nettamente la fisica dalla teologia
attraverso il rifiuto del
finalismo. Gli sfugge il fatto che questo
è strettamente legato al
determinismo, che non solo gli è premessa
ineludibile, ma vero fondamento
teologico. Egli compie lo stesso gravissimo
errore storiografico di coloro che
hanno assunto il parere dei teologi cristiani
ed ebraici secenteschi circa il
presunto ateismo di Spinosa; infatti cita,
, a sostegno della sua tesi,
l’inattendibile parere di un religioso come
Pluche, nemico di Descartes, che
aveva scritto ne Il mondo di Descartes:
Per fortuna che Pluche ci precisa che Cartesio
«non giunse all’ateismo», perché sarà solo
il caso di ricordare che quando
Cartesio riuscì a formulare il principio
di inerzia (ma Galileo lo aveva
preceduto di una trentina d’anni) era così
convinto di essere un “prediletto
del Cielo” che compirà un pellegrinaggio
alla Madonna di Loreto per
ringraziarla di tale illuminazione [128].
Va
rilevato peraltro che i teologi puri e gli
scienziati teologizzanti erano tutti
preoccupatissimi (ed a ragione!) delle possibili
devastazioni dottrinarie
sottese alle tesi cartesiane, ed erano ben
consapevoli che il pensiero di
Cartesio avrebbe potuto alimentare religioni
“concorrenti”. Ma non certamente
un vero ateismo, che essendo del tutto fuori
dell’orizzonte cartesiano avrebbe dovuto
rifarsi a ben altre fonti. Se, come vedremo,
La Mettrie riconosce a Cartesio il
grande merito di aver dimostrare che gli
animali sono delle pure macchine,
traendone spunto per la sua tesi, significa
solo che egli riconosceva a
Cartesio un’intuizione e una conferma di
ciò che era già implicito in Epicuro.
In ogni caso anche il buon Julien Offroy,
semmai, avrebbe dato retta a quei
teologi più intransigenti (che avevano tutto
l’interesse a far passare Cartesio
per un ateo) lieto di darsi un padre nobile
di quella caratura e di quella
fama. Vartanian, arrivando quasi a negare
una presenza autonoma
dell’epicureismo nella cultura settecentesca,
giunge ad affermare: «Nella
particolare evoluzione delle idee che qui
studiamo, si deve notare che la vasta
e potente diffusione del cartesianesimo in
una fase più avanzata assorbì in sé
e quindi rivitalizzò la dottrina dell’epicureismo
classico.» [129]
Una tesi
manifestamente inconsistente, tanto più che
porta lo scrivente ad appiattire
persino la figura di Gassendi su quella di
Cartesio, riducendo al nulla
l’opposizione tra i due e sostenendo che
il pensiero del riscopritore
dell’atomismo antico sarebbe stato praticamente
assorbito nel cartesianesimo,
quando invece ne fu acceso oppositore come
appare chiaro dalla sua Disquisitio
metaphysica seu dubitationes et instantiae
adversus Renati Cartesii
metaphysicam del 1644. Ma Vartanian insiste:
Nonostante la famosa
polemica di Descartes con Gassendi, riguardante
in massima parte la teoria
della conoscenza e il problema del dualismo
metafisico, nel campo specifico
della filosofia naturale vi era forse, o
così almeno la storia delle idee
doveva mostrare, tra i due pensatori molto
di più in comune di quello che
ambedue si fossero curati di ammettere. [130]
Sarà solo in caso di notare che Gassendì
fu un vero naturalista,
ricercatore e sperimentatore, cosa che non
fu affatto Cartesio, le cui ricerche
erano tutte volte unicamente a trovare plausibilità
per le sue elucubrazioni
metafisiche. Basta ricordare le parole di
Gassendi che ci fanno capire quanto
egli, vessillifero della sperimentazione
e dell’induzione, la pensasse in
maniera totalmente differente dall’astratto
deduttivista Cartesio, rimasto fedele
all’ideale platonico-aristotelico:
Se affermo che la neve è bianca è perché
la
vedo bianca, ecco tutto. Ma non potrò fornire
una sola ragione che dica perché
è bianca e non invece gialla o blu. Tutto
dipende da come è costituito il mio
occhio e da come è illuminata la neve. Termini
come «neve» o «bianchezza» non
esprimono essenze, bensì, diremo noi modernizzando
il suo vocabolario [di
Aristotele], un certo temporaneo equilibrio
delle molecole d’acqua e una certa
reazione contingente del mio organo visivo.
Dietro le parole si manipola sempre
e soltanto il sensibile. Aristotele si illuse
di credere che la parola,
necessità sociale e pratica, corrispondesse
inevitabilmente a una suddivisione
della natura, e il suo intelligibile non
altro che linguaggio trasposto. Per
quanto con lui non raggiungiamo le essenze,
e se deve esistere soltanto scienza
del necessario «non esiste scienza, soprattutto
come la intende Aristotele.» [131]
Se si pensa che queste considerazioni vengono
fatte dal grande filosofo
neo-epicureo intorno al 1625, risulta difficile
trovare enunciazione più chiara
di ciò che possa significare “fare scienza”,
e, all’opposto, dell’equivoca
strada metafisica nella quale pervicacemente
i platonico-aristotelici come
Cartesio continuano a permanere.
Bisogna tuttavia riconoscere
a Vartanian di essere capace di fornire utili
citazioni a favore della sua tesi
e di riuscire a darle persino una certa coerenza
attraverso una palese
forzatura storicistica strumentale. Egli
giunge addirittura ad affermare come
«la dottrina di Descartes prenda il posto
di quella di Gassendi come
precorritore del naturalismo francese.»,
nonché cogliere in Cyrano di Bergerac
il paradigma del passaggio dall’influenza
prevalente di Gassendi a quella di
Descartes [132], equivocando così sul libertinismo epicureo
sostanzialmente ateo dell’autore di L’autre monde, ou les états et empires
de la lune. Vartanian sostiene anche che il fondo epicureo
del naturalismo
scientifico sarebbe sì partito da una rilettura
diretta dei testi di Epicuro,
ma avrebbe poi finito presto per rifluire
nel meccanicismo cartesiano quale suo
“inclusore”, in quanto più “forte” dal punto
di vista teorico. Tesi
inconsistente quantunque l’abilità di quest’autore
vada riconosciuta, poiché
riesce a pescare di volta in volta affermazioni
utili a sostegno della sua tesi,
come si vede bene nell’utilizzo del Recherches philosophiques del
libertino Thémiseul di Saint-Hyacinthe, dove
si ipotizza addirittura che
Descartes si sia astenuto dal qualificare
res extensa l’anima umana
soltanto per timore della religione [133]. Ma Vartanian, che non può negare
l’inconsistenza della cartesiana “teoria
dei vortici”, insiste caparbiamente nel
ritenere che la metodologia di Descartes
«fu una cosa in cui i philosophes
continuarono a credere quasi ciecamente.»
[134].
Una
posizione, quella del francese, che trova
eco in un saggio di un decennio
posteriore del teologo italiano Cornelio
Fabro, che nel suo vasto Introduzione
all’ateismo moderno del 1964 attribuisce a Descartes una grande responsabilità nella
nascita dell’ateismo
settecentesco. Per quanto egli assuma come
causa principale dell’ateismo il
“principio d’immanenza”, concetto che desume
da Maritain, nel dettaglio
anch’egli vede nel meccanicismo cartesiano
un prodromo inequivocabile degli
sviluppi ateistici del pensiero settecentesco.
A differenza di Vartanian,
infatti, egli ritiene che il meccanicismo
cartesiano si sia coniugato col
sensismo inglese, determinando un perverso
asse Cartesio-Locke [135].
Più che il meccanicismo sarebbe stato però,
secondo Fabro, il dualismo
cartesiano, ovvero la separazione della fisica
dalla metafisica, a determinare
il progredire dell’ateismo (idea che era
già stata di Pascal). E rileva:
Cartesio come aveva ridotto l’essere della
sostanza spirituale a puro pensiero (res cogitans), così aveva concepito
la sostanza materiale come estensione pura
(res extensa); e come l’atto
proprio della sostanza spirituale per il
pensiero, così anche la res extensa
aveva un’operazione propria ed essenziale
ch’è il movimento ed al movimento si
devono ridurre tutte le attività e proprietà
dei corpi Questo meccanicismo era quindi in radice
ad
un tempo materialismo e ateismo non meno
e forse assai più del Deus sive
natura di Spinoza: esso, attribuendo alla materia
una forza primigenia,
escludeva infatti ogni intervento di Dio
nel mondo concepiva la natura secondo
la più rigida necessità con esclusione assoluta
di ogni riferimento
finalistico. [136]
Sarebbe soltanto il caso di notare che non
c’era affatto bisogno di
Cartesio per attribuire al movimento la denotazione
primaria dell’essere della
materia, poiché, già duemila anni prima,
gli Atomisti lo avevano posto
chiaramente. Ma questa asserzione evidenzia
come il teologo si muova non tanto
sul terreno della storia della filosofia
quanto su quello della tattica
teologica di colpire la “libertà dottrinaria”
di cui Spinoza era stato il
campione, ritenuta assai più pericolosa dell’ateismo
stesso. Non a caso
Cartesio è qui associato a Spinoza, di cui
tutto si può dire sulla sua devianza
teologica, ma per nulla che potesse nascondere
tendenze filo-ateistiche, per
quanto anche queste siano state vanamente
supposte. Rimane il fatto che la
matematizzazione-meccanizzazione del cosmo
è l’esito più rilevante ed
accattivante della speculazione cartesiana,
con un’enorme riscontro a tutti i
livelli nella cultura sei-secentesca. Ad
essa si oppone agli inizi del
Settecento quella di Newton, nata da premesse
totalmente differenti, baconiane
per intenderci e meramente scientifiche,
quantunque l’inglese abbia sempre
connesso scienza e fede. E siccome la fede
cristiana di Newton è assai più
profonda di quella di Descartes, da ciò è
nata la discutibile tesi che il
meccanicismo materialistico settecentesco
sia più di matrice cartesiana che
newtoniana. La corretta distinzione storiografica
non va fatta tra i pensatori
settecenteschi credenti e quelli atei, bensì
tra i dogmatici e i problematici.
Facendo ciò non sarà difficile accorgersi
che dove c’è dogmatismo prevale
l’influenza cartesiana e dove c’è problematicismo
prevale quella
newtoniana.
NOTE
[1] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, il Mulino 1987, p.111-112.
[2] R.Chartier, cit., p.70.
[3] AaVv, Storia della scienza, a cura di M.Dumas, tomo I, Bari, Laterza 1969, p.107.
[4] C.Wilson, Il cammino verso l’industrializzazione, Bologna, Il Mulino 1979, p.511.
[5] L’abate Jean Gallois (1632-1707) era un grecista, ma anche matematico e geometra, che nel 1668 entrò a far parte dell’Académie des Sciences e sostituì ad interim il segretario Jean-Baptiste Duhamel.
[6] D.Mornet, cit., pp.182-183..
[7] Ivi, p.188.
[8] D.Mornet, op.cit., p.190.
[9]
D.Mornet, cit., pp.326-327.
[10] Ivi, pp.327-328.
[11] A.Forrest, op.cit., Bologna, Il Mulino 1999, p.108.
[12] D.Mornet, op.cit., pp.328-329.
[13] J.-J.Rousseau, Emilio, o dell’educazione, Milano, Mondadori 2003, p.636.
[14] Si veda l’ottima sintesi sull’argomento di E.Tortarolo (Opinione pubblica, in Illuminismo, Dizionario storico, a cura di V.Ferrone e D.Roche, Roma-Bari, Laterza 1997, pp.283-291).
[15] R.Koselleck, cit., p.78.
[16] E.Tortarolo, cit., p.288
[17] Ivi, p.288.
[18] Ivi,
p.290.
[19] D.Mornet, op.cit., p.230.
[20] L.Venturi, Storia della critica d’arte, Torino, Einaudi 1964, pp.156-157.
[21] M.Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Roma-Bari, Laterza 1987, p.10.
[22] G.A.Baumgarten, Estetica, a cura di F.Piselli, Milano, Vita e Pensiero 1992, p.17.
[23] E.Kant, Critica della ragion pura, a cura di G.Gentile e G.Lombardo-Radice, Bari, Laterza 1965,pp.66-67.
[24] I.Kant, Critica del giudizio, a cura di A.Gargiulo e V.Verra, Bari, Laterza 1972, p.15.
[25] Ivi, p.16.
[26] Ibidem.
[27] G.B.Vico, La scienza nuova, a cura di F.Nicolini, Roma- Bari, Laterza 1974, (Libro I, Sezione II, 218),pp.171-172
[28] Ivi, p.114.
[29] Cit. in: E.Franzini, L’estetica del Settecento, Bologna, Il Mulino 2002, pp.25-26.
[30] E.Migliorini, L’estetica tra Seicento e Settecento, in: Trattato di estetica, a cura di M.Dufrenne-D.Formaggio, Milano, Mondatori 1981, p.171.
[31] E.Fubini, Musica e cultura nel Settecento europeo, Torino, EDT 1986, p.1.
[32] Dizionario della musica, diretto da A.Basso, Il lessico, vol.II, Torino, UTET 1983, p.161.
[33] G.Pestelli, L’età di Mozart e di Beethoven, Torino, EDT 1991, p.153.
[34] Dizionario della musica, cit., p.165.
[35] E.Fubini, Gli enciclopedisti e la musica, Torino, Einaudi 1991, pp.78-79.
[36] Ivi, pp.80-81.
[37] Ivi, p.106
[38] Gian Francesco Bellori (1615-1696) autore delle Vite dé pittori scultori ed architetti moderni (1672).
[39] Charles Le Brun (1619-1690), pittore classicista e accademico, autore di grandi cicli pittorici e disegni per arazzi.
[40] E.Migliorini, L’estetica tra Seicento e Settecento, cit., p.177.
[41] D.Hume, La regola del gusto, cit. in: E.Franzini, L’estetica del Settecento, Bologna, Il Mulino 2002, p.111.
[42] E.Home, Elements of criticism, in: E.Franzini, L’estetica del Settecento, cit., pp.115-116.
[43] J.-P. Crousaz, Traité du Beau,
cit. in : E.Franzini, cit., p.73.
[44] W.Tatarkiewicz, L’estetica moderna, in: Storia dell’estetica, vol.III, Torino, Einaudi 1980, pp.532-533.
[45] Citato in. L.Venturi, Storia della critica d’arte, Torino, Einaudi 1964, p.150.
[46] Ivi, p.151.
[47] Cit in: E.Franzini, L’estetica del Settecento, Bologna, Il Mulino, p.82.
[48] Ivi, pp.82-83.
[49] Ivi, p.85.
[50] La nascita dell’interesse
al tema del sublime in Inghilterra ha
come data di inizio il 1625, allorché John
Hall traduce il breve trattato Del sublime dello Pseudo Longino, un
anonimo autore neoplatonico del III secolo.
[51] E.Burke, Inquiry into the Origin of our Ideas of the
Sublime and Beatiful,
III, 27.
[52] E.Franzini, L’estetica del Settecento, Bologna, Il Mulino, p.132.
[53] Ivi, p.133.
[54] Ivi, p.134.
[55] J.J.Winckelmann, Il bello nell’arte, a cura di F.Pfister, Introduzione di D.Irwin, Torino, Einaudi 1983, p.LVII.
[56] Ivi, p.LIX.
[57] Ivi, p.11.
[58] Ivi, p.13.
[59] Ivi, p.14.
[60] Ivi, p.17.
[61] Ivi, p.16.
[62] Ivi. p.17
[63] Ivi, p.83.
[64] J.J.Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, a cura di M.L.Pampaloni, Milano, SE 1990, pp.38-44.
[65] Ivi, p.25.
[66] G.E.Lessing, Laocoonte, a cura di M.Carpitella, Milano, Paoline, pp.175-176.
[67] E.Franzini, L’estetica del Settecento, Bologna, Il Mulino, p.149.
[68] L’estetica dell’Encyclopédie, a cura di M.Modica, Roma, Editori Riuniti 1995, pp.87-88.
[69] È l’opinione del Kristeller (Il sistema moderno delle arti, in: Concetti rinascimentali dell’uomo e altri saggi, Firenze, La Nuova Italia 1978, pp.227-314)
[70] L’estetica dell’Encyclopédie, cit., p.88.
[71] Ivi, p.89.
[72] Ibidem.
[73] Ivi, p.90.
[74] Ivi, p.91.
[75] Ivi, p.100.
[76] Ivi, p.106.
[77] Ivi, p.110.
[78] Ivi, p.116.
[79] Ibidem.
[80] Ibidem.
[81] Ivi, p.117.
[82] Ivi, p.120.
[83] Ivi, p.121.
[84] Ivi, pp.121-122.
[85] Ivi, p.122.
[86] Lessing nel Laocoonte (cit., pp.234-235) sostiene che: «La grazia è bellezza in movimento.»; che essa è più confacente alla poesia che alla pittura; che «la grazia deve operare su di noi più fortemente che la bellezza.».
[87] L’estetica dell’Encyclopédie, cit., p.122.
[88] E.Fubini, Gli enciclopedisti e la musica, cit, p.138.
[89] L’estetica dell’Encyclopédie, cit., p.128.
[90] D.Diderot, Pensieri filosofici, in: Opere filosofiche, Milano, Feltrinelli 1963, p.28.
[91] W.Hogart, L’analisi della bellezza, a cura di M.Laudando. Palermo, Aesthetica 1999, p.50.
[92] I.Kant, Critica del giudizio, Bari, Laterza 1972, p.18.
[93] Ivi, p.19.
[94] Cfr. Critica della ragion pura, Bari, Laterza 1965, § 18, pp.142-143.
[95] Critica del giudizio, cit.pp.77-78.
[96] Ivi, p.81.
[97] Ivi, p.96.
[98] Ivi, p.95.
[99] Ivi, p.113.
[100] Ivi, p.114.
[101] L.Venturi, Storia della critica d’arte, Torino, Einaudi 1964, p.185.
[102] L.Venturi, Storia della critica d’arte, p.185.
[103] Ibidem.
[104] Lettera a Boxel del settembre 1674. Cit. in: W.Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, vol.III, Torino, Einaudi, p.473.
[105] W.Tatarkiewicz, cit, p.533.
[106] G.E.Lessing, Laocoonte, cit., p.49.
[107] Ibidem.
[108] Ivi, p.263.
[109] G.W.F. Hegel, Estetica, Torino, Einaudi 1972, p.232.
[110] Th.Hobbes, Leviatano, a cura di R.Santi, Milano, Bompiani 2001, p.3.
[111] Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, in: Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, p.243.
[112] Ivi, p.244.
[113] Ivi, pp.244-245
[114] Cit. da R.Ciafardone-P.Rossi, La volontà e la perfezione, in: Storia della filosofia, a cura di P.Rossi e C.A.Viano, vol. IV, Roma-Bari, Laterza 1996, pp.135-136.
[115] G.Galilei, Il Saggiatore, in: Opere, a cura di F.Flora, Napoli, Ricciardi 1953, p.121.
[116] Cit.in: E.J.Dijksterhuis, Il meccanicismo e l’immagine del mondo, Milano, Feltrinelli 1971, p.203.
[117] Ibidem.
[118] Ivi, p.196
[119] Ivi, p.204.
[120] A.Rupert Hall, La rivoluzione scientifica 1500/1800, Milano, Feltrinelli 1976, p.269.
[121] P.Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari, Laterza 1997, pp.162-163.
[122] Cit. in: P.Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari, Laterza 1997, pp.193-194.
[123] Ivi, p.202
[124] H.Butterfield, Le origini della scienza moderna, Bologna, Il Mulino 1998, pp.134-135.
[125] Robert H.Kargon, L’atomismo in Inghilterra da Hariot a Newton, Bologna, Il Mulino 1983, 97.
[126] Ivi, pp.97-98.
[127] A.Vartanian, Diderot e Descartes, Milano, Feltrinelli 1956, p.89.
[128] AaVv, Storia della scienza, a cura di M. Daumas, tomo I, Bari, Laterza 1969, p.377.
[129] A.Vartanian, cit., p.57.
[130] Ibidem.
[131] AaVv, Storia della scienza, cit., p.384.
[132] Ivi, pp.58-59.
[133] Ivi, pp.214-215
[134] Ivi, p.131.
[135] C.Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, vol.I, Roma, Studium 1969, nota p.399.
[136] Ivi, p.393.