XVI. Denis Diderot
16.1
Un intelletto problematico e poliedrico
Denis Diderot è sicuramente il pensatore
settecentesco che più di ogni altro pone
difficoltà esegetiche; ma è un grave
errore interpretativo, e lo si commette spesso,
quello di pensarlo come un
filosofo ambiguo o incoerente in relazione
alla multiformità dei temi da lui
affrontati, del modo di porli e di risolverli,
delle opinioni sostenute. Tutti
coloro che accusano di incoerenza o di trasformismo
il pensiero diderotiano non
hanno colto la sua essenza, esprimibile nei
termini di problematicità, di
complessità e di libertà persino da se stesso
[1].
Diderot è un filosofo problematico perché
pone problemi piuttosto che fornire
risposte. È complesso, estremamente complesso,
perché pieno di allusioni, di
sottintendimenti e di aperture interpretative
celate. Ma è soprattutto libero
da preconcetti e pregiudizi nel suo assoluto
antidogmatismo, differenza di
Helvétius e di d’Holbach è raramente assertivo
e non costruisce sistemi né
modelli. Egli propone linee di studio e di
approfondimento su una rigorosa base
metodologica che aggiorna quella baconiana,
sia in termini di maggior realismo
operativo e sia in rapporto ad un criterio
euristico più rigoroso, ma senza la
pretesa di “insegnare”. In questo senso egli
non solo interpreta al meglio il
carattere sistematico ed anti-sistemico del
migliore Illuminismo ma vi
introduce una poliedricità e una profondità
di vedute nei più vari campi
(dall’arte alla musica, dalla fisica alla
chimica, dall’artigianato alla
tecnologia) sì da presentarsi come un uomo
così colto e complesso dal quale è
assurdo pretendere un’univocità che egli
per primo intende sfuggire. Due parole,
infine, sul suo coraggio e sulla sua tenacia
relativamente all’impresa de l’Encyclopedie,
che lo impegna per vent’anni, tra cento difficoltà,
censura, delusioni, defezioni,
tradimenti. La reca in porto solo grazie
a un’indefessa dedizione, al
sacrificio, alla caparbia, alla combattività
contro tutto e contro tutti.
Le difficoltà nell’interpretazione del
pensiero di Diderot sicuramente ci sono e
per rendersene conto basta leggere
con attenzione i suoi saggi dalla gioventù
alla vecchiaia, e concludere che
egli si presti effettivamente ad esse letto
sotto punti di vista differenti.
Come quello di Aram Vartanian, certamente
non un sprovveduto, che riesce
persino a vedere un Diderot “cartesiano”,
quando egli è uno dei pensatori più anti-cartesiani del
Settecento. D’altra parte, occorre ammettere,
che è la stessa problematicità e
complessità del pensiero diderotiano a confondere
le idee, al punto da far pensare
che l’autore in molti punti della sua opera
giochi col lettore e con
l’interprete, in quel modo ludico e scanzonato
di numerosi dialoghi filosofici.
La sua spregiudicatezza nel trattare i più
vari temi, presentando spesso punti
di vista oppositivi nei confronti dei quali
a volte mostra uguale condivisione neutrale,
e uno spirito ludico che non esita a giocare
con concetti ed argomenti per rivoltarli
da ogni parte e vedere che cosa ne può saltar
fuori. Una curiosità nella
ricerca intellettuale rara e forse il più
fedele interprete dello spirito
critico di Bayle, che aveva spalancato le
porte dell’Illuminismo, mentre dopo
Diderot esse si avviano già a chiudersi.
Da tali premesse non ci si deve sorprendere
se lo stesso ateismo di Diderot possa da
qualcuno venir messo in dubbio, né
mancano le occasioni, attraverso non infrequenti
richiami a Dio, all’Eterno,
all’Onnipotente o al Creatore (Interpretazione della natura, § 6, 50,
51, 56 e 58), di potervi cogliere un riconoscimento
del divino. D’altra parte è
nota sia la sua adesione giovanile al deismo
e sia, dal 1770 in poi, una sempre
meno frequente professione esplicita di ateismo
(che avevamo rilevato peraltro
anche nel tardo d’Holbach) sì da far pensare
ad un suo ripensamento. Si è anche
vista la posizione di Diderot come una sorta
di neo-spinozismo, il che è vero
relativamente alla supposizione di un “tutto”
cosmico, ma in lui non vi è nulla
del more geometrico, anzi, egli è decisamene scettico sul valore
gnoseologico della matematica e della geometria.
Noi pensiamo allora che la
strada da percorrere per riconoscere il radicale
ateismo di Diderot sia quello
di guardare alla radice e al tronco del suo
pensiero piuttosto che ai rami e
alle foglie. Cogliere la specifica plasticità
mentale di un antidogmatico che
ama indifferentemente il vero, il reale e
il bello, ma che soprattutto è un aspirante
alla libertà globale e specialmente dalla
metafisica. Diderot è fondamentalmente
perché è totalmente liberato dalle scorie
metafisiche, perché si muove col suo
passo leggero tra la paccottiglia religiosa
e il ciarpame dell’onnipresente filosofalità
teologica senza farsi sporcare.
Lo scheletro della struttura del pensiero
del Nostro, e il suo ateismo, poco sbandierato
ma sostanziale, lo si può anche coglier
ponendolo a confronto con altri due atei
suoi contemporanei: Helvétius e
d’Holbach, che il passo leggero tra il ciarpame
della metafisica non l’hanno
avuto. Ed è proprio dal confronto con questi,
e dalla critica ad essi, che è
possibile cogliere il più autentico ateismo
di Diderot, che è molto differente:
mai assertivo, mai ideologico, mai dogmatico,
mai sistemico. Egli crede nella
facoltà dell’uomo di autodeterminarsi e di
poter andare “oltre” la sua
coscienza e penetrare nel “dentro” del reale
attraverso un’attività scientifica
che indaga l’ignoto e ne porta alla luce
i segreti. Ma tutto ciò è possibile
perché l’uomo è un essere “libero”, mentre
i religiosi lo vogliono dipendente
dal Dio-Volontà e i metafisici dal Dio-Necessità.
Ed è su questa libertà dell’uomo (anche sostenuta
dal Cristianesimo) e il vincolo necessitaristico
(sostenuto invece dall’ateismo
deterministico) che l’analisi superficiale
di taluni ermeneuti ha potuto
dedurre in modo semplicistico che la difesa
del libero arbitrio da parte del
Nostro e la sua negazione da parte di Helvétius
e d’Holbach li contrapponga,
facendo di lui un anti-ateo. Di fatto, il
maggiore equivoco in cui cadono
codesti ermeneuti nasce proprio dal fatto
che Diderot si dichiara “contro” il
materialismo rozzo, contro il sensismo semplicistico
e contro il determinismo
totalizzante. Essi non riescono a vedere
che è proprio in virtù di questa
opposizione, al fine di spogliare l’ateismo
da tutti quegli elementi impropri
che ne fanno una para-metafisica, che sta
il nocciolo dell’ateismo diderotiano.
Anche il vedere Diderot come un “vitalista”
è abbastanza scorretto, perché egli è stato
sintonico con la biologia
materialistica di Theophile Bordeu, prestigioso
esponente della Scuola medica
di Montpellier (culla del vitalismo) che
è un vitalista molto sui generis,
e che in ogni caso Diderot sceglie una linea
interpretativa del pensiero
vitalistico che è già quasi “evoluzionistica”.
Va sottolineato che, come ha
messo in evidenza Sergio Moravia, in realtà
anche Bordeu non è un vitalista classico
non avendo una visione monistica della “forza
vitale” bensì pluralistica. Egli
pensa che, al di là dell’unità dell’organismo
animale, ogni tessuto ed ogni
organo la esprimano in maniera differente,
propria ed autonoma. L’organismo
animale in Bordeu consta del “concorso” dei
“molti” ad una funzionalità
unitaria, ma non in un “centro” che dia comandi
e dispensi vitalità. Il
concetto che sta alla base della teoria biologica
bordeuiana è la
“sensibilità”, una forza-impulso puramente
materiale che non è un a priori strutturale,
ma si manifesta “funzionalmente” e dinamicamente
nei comportamenti di nervi,
muscoli, ghiandole, ecc. Ciò che quindi è
importante rilevare è che Bordeu non
solo nega categoricamente leggi meccanicistiche,
ma non vede alcun tipo di
legge biologica alla base del vivente, bensì
una vasta serie di “elementi”
organici, ognuno con la propria legge per
esistere ed agire, la collaborazione
dei quali “fa” l’organismo.
È quindi la pluralità che fonda un insieme
funzionalmente univoco e non un’unità-totalità
che si differenzia in parti, ed
essendo questa la tesi dell’anatomo-fisiologo,
per farne un vitalista in senso
stretto occorrerebbe che si sovrapponesse
un metafisico che ponesse una “testa”
del tutto, che non è certo il metaforico
“alveare” bordeauiano da cui le
singole api, dipartite temporaneamente o
allontanate artificialmente, ritornano
sempre per ri-costituirlo. Bisognerebbe centralizzazione
la forza vitale
in un’unità “originaria” (che Bordeau non
pone) per cogliere un vitalismo vero,
che è sempre spiritualistico. Non è certo
negli impulsi delle parti a vivere,
evolvere e contribuire all’esistenza dell’organismo
che vi è vitalismo, e il
senso della metafora bordeuiana, ad un’interpretazione
corretta, è chiaro. L’alveare
è, ontologicamente, un nulla ontico, un puro
contenitore vuoto che le api
riempiono in quanto entità vitali e al quale
danno senso nel costituirlo; migliaia
di esseri viventi “reali” che lo fanno essere,
senza che esso, in quanto
dimora–officina, goda di alcuna esistenza
propria. Quando una gelata improvvisa
facesse morire tutte le api l’alveare non
esisterebbe più, se non come materia
prima “a disposizione” di altre forme viventi.
Per comprendere il carattere battagliero e anticonvenzionale
di Diderot sin dalla giovinezza sono interessanti
alcuni dei Pensieri
filosofici del 1746, in cui il poco più che trentenne
Denis scrive nel V: «Proporsi di sopprimere le
passioni è il colmo della pazzia. È il
progetto del devoto il quale si tormenta
come un forsennato per non
desiderare, non amare, non sentire nulla,
e che diventerebbe un autentico
mostro se i suoi propositi si realizzassero.» [2] Egli è invece l’esploratore che viaggia
seguendo i suoi impulsi e le sue passioni,
che elabora di continuo i suoi
pensieri in tutte le direzioni, perché il
pensare lo affascina e lo tormenta,
lo seduce e lo disgusta, sì da fargli
dire, all’inizio del Nipote di Rameau: «I miei
pensieri sono le mie puttane.» [3]
Il suo pensiero è così libero da schematismi
concettuali che proprio nel
momento in cui il suo ateismo si manifesta
in modo più netto può scrivere all’adorata e colta Sophie Volland (Le
Grandval, 15 ottobre 1759):
Coloro che si sono amati in vita e che si
fanno
inumare uno accanto all’altro probabilmente
non sono così folli come si pensa.
Forse le loro ceneri si stringono tra loro,
si mischiano, si uniscono! Che
dire? Forse esse non hanno perso ogni sentimento,
ogni memoria del loro stato primitivo. […] Noi giudichiamo
la vita degli elementi dalla vita di masse
grossolane! Forse si tratta di cose
affatto diverse. [4]
Qui non vi è solo la
contrapposizione delle “masse grossolane”
(inorganiche) agli elementi “fini”
della vita (organico-vitali), il che rinvia
a Maupertuis, Buffon e Bordeu, e
che intende contrapporre al materialismo
riduzionistico, qui vi sono aperture a
possibilità extra-fisiche abbastanza sorprendenti.
È vero che il contesto di
una lettera sentimentale potrebbe giustificare
l’accenno come mero “volo
poetico”, ma va notato, primo, che Diderot,
qualunque cosa dica, non perde mai
il controllo delle proprie idee, secondo,
che Sophie non è certo persona con
cui Denis possa lasciarsi andare né a banalità
né a menzogne. Si tratta quindi
di una riflessione contingente sul senso
della vita e degli affetti, che il
Nostro confida all’unica persona con cui
ha un rapporto mentale molto intimo sì
da sperare venir capito. Ma testimonia anche
il suo radicale distacco da un materialismo
riduzionistico e deterministico da cui prende
le distanze, e che risulterà
chiaro nella Confutazione di Helvétius
del 1773, nella quale attacca decisamente
il meccanicismo deterministico
dell’autore di De l’esprit.
Per Diderot la dimensione della socialità
è
fondamentale, e il suo stesso filosofare
si manifesta come una conversazione
assai più che come un dialogo interiore.
È confrontandosi con un ”altro”, reale
o immaginario, e molto spesso semplicemente
con un altro-se-stesso, che il Nostro
trova le risorse inventive e interpretative
per dare il meglio di sé; e ciò in
un modo originalissimo che non viene sempre
ben colto, e che, come abbiamo
visto, lo fa considerare da ermeneuti superficiali
un pensatore incerto ed
equivoco. In un’annotazione del 1760 Diderot
scrive: «Nella conversazione tutto
si collega insieme. Ma sarebbe qualche volta
ben difficile trovare gli anelli
impercettibili che hanno messo insieme tante
idee differenti» [5] Mirella Brini Savorelli osserva
opportunamente: « se i suoi personaggi sono
spesso le facce sdoppiate,
materializzate della sua propria personalità,
di un pensiero che conosce l’inconséquence,
e la coerenza (conséquence logica, ma anche obiettivo morale) solo
come
il fine della filosofia; è anche certo che
Diderot ha lungamente elaborato il
tema dell’”altro”, dell’incomunicabilità
fra individui, fondata
materialisticamente sulla diversità diremmo
oggi genetica» [6]
Come si sa Diderot, nato in una famiglia
cattolica, viene avviato dai genitori alla
carriera ecclesiastica (ed in
subordine a quella giuridica). D’altra parte,
prima di recarsi a Parigi e
conseguirvi nel 1732 la maîtrise, egli studia nella sua città presso i
Gesuiti. Ora, per quanto il giovane Denis
non desideri diventare un religioso [7],
ciò non significa che non si interessi della
religione, o perlomeno ai problemi
che ad essa si collegano, e conseguentemente
al loro impatto sulla cultura. A
dispetto di qualche intemperanza è un ragazzo
riflessivo, interessato ai problemi fondamentali dell’esistere, del
sentire, del pensare e del convivere. Se
pure in questo saggio noi non ci
occuperemo espressamente del rapporto di
Diderot con la religione e con la
politica, è interessante citare, dal Saggio sulla vita di Seneca (1778),
la seguente dichiarazione: «Si tratta di
sapere se sia lecito o no discutere
liberamente su religione, governo e costumi
[…] Proibire queste discussioni, le
sole che siano degne di occupare una buona
mente, è eternare il regno
dell’ignoranza e della barbarie.» [8] Va anche sottolineato che, per quanto il
Nostro si presenti come un libertino, egli
ha sempre un atteggiamento morale e
rigoroso, sì da fargli sentire decisa antipatia
per La Mettrie, e non soltanto
per le sue tesi meccanicistiche ma anche
per il suo esplicito immoralismo. Nondimeno,
che Diderot si considerasse avversario della
religione e della morale teologica
si evince da La passeggiata dello scettico, quando mette in bocca
all’anziano e saggio Cleobulo l’affermazione:
L’interesse ha
generato i preti, i preti hanno generato
i pregiudizi, i pregiudizi hanno
generato le guerre, e le guerre dureranno
finché ci saranno pregiudizi, i
pregiudizi finché ci saranno i preti, e i
preti finché ci sarà interesse a
essere tali. [9]
Poco da aggiungere a
questa sorta di sillogismo circolare, se
non che, in realtà, la posizione
diderotiana dal 1747 in poi non è solo contro
la religione ufficiale, bensì
contro tutto ciò che è metafisica, e ciò
a dispetto del fatto di possedere,
come ha ben visto Paul Vernière, un’ottima
“testa metafisica”. Egli è anche
affascinato (ma niente affatto convinto)
dall’idea di una possibile unità
dell’essere al di là dell’evidente pluralità
degli elementi che lo fondano e lo
costituiscono [10].
16.2
Il problema gnoseologico
Il problema della conoscenza in Diderot
assume un ruolo fondamentale, dando luogo
a un “metodo” che ha le sue radici in
Bacone e che si sviluppa sì con un’accentuazione
dell’aspetto
sperimentalistico, ma nel contempo con un’evidenziazione
dell’importanza della
riflessione sul dato sperimentale per sottrarlo
ad un empirismo grossolano. Il
suo atteggiamento gnoseologico, sin da giovane,
è quello di colui che crede
nell’esistenza delle verità, ma dubita di
poterle raggiungere facilmente; nel
XXX dei Pensieri filosofici afferma: «Si deve esigere da me che io
cerchi la verità, non pretendere che la trovi.»
[11]
Il suo atteggiamento all’epoca è incline
allo scetticismo e pur non nascondendo
tendenze deiste nel XXIV rileva: «Lo scetticismo
non è da tutti, poiché implica
un esame profondo e disinteressato: chi dubita
perché non conosce le ragioni
della credibilità è soltanto un ignorante.»
[12]
E nel LXI: «Cercando le prove ho trovato
le difficoltà. Gli stessi libri che
contengono le ragioni della mia fede mi offrono
contemporaneamente le ragioni
dell’incredulità.» [13]
La prima opera nella quale in maniera
organica Diderot affronta sia il problema
gnoseologico e sia quello ontologico
è l’Interpretazione della natura, apparsa nel 1753 e ristampata, riveduta
e corretta (e con un’irrilevante variazione
del titolo) nel 1754. Questa reca
un’esortazione Ai giovani che si accingono allo studio della
filosofia
naturale che recita:
Giovane, prendi e leggi. Se riuscirai a leggere
fino in fondo questa opera, non sarai incapace
di capirne una migliore. Più che
di istruirti mi sono proposto di metterti
alla prova: poco importa perciò che
tu accetti o rifiuti le mie idee, purché
esse attirino tutta la tua attenzione.
Qualcuno più esperto ti insegnerà a conoscere
le forze della natura; a me
basterà averti fatto saggiare le tue. Addio.
[14]
Cui segue il Post
Scriptum:
Ancora una parola e ti lascio. Abbi sempre
presente alla mente che la natura non è Dio; che un uomo
non è una macchina; che un’ipotesi non è un fatto: e sta
sicuro che non avrai ben compreso, là dove
crederai di scorgere qualche cosa di
contrario a questi principi. [15]
L’indirizzo di Diderot
non è retorico, ciò che gli preme è puntualizzare
il suo atteggiamento in tre
punti: 1. dichiarando i suoi limiti in riferimento
ad una possibile opera
“migliore” sull’argomento, 2. invitando alla
riflessione attenta su un tema non
facile e senza alcuna intenzione di convincere,
3. considerando il suo scritto
propedeutico alla comprensione di testi più
impegnativi. Il Post Scriptum è
di altro tono e pone tre “principi” che qui
Diderot, generalmente contrario ad
essi, ritiene ineludibili a chiarimento della
sua posizione filosofica.
L’asserzione che “la natura non è Dio” significa
che il Nostro è andato ormai
oltre la sua giovanile posizione deistico-panteistica
e che, contro Spinoza,
intende prendere le distanze da ogni divinizzazione
della natura. Sostenere che
“l’uomo non è una macchina” è una netta presa
di posizione contro il
meccanicismo, al quale nega valore eziologico.
Asserire che “solo i fatti
contano e non le ipotesi” significa che soltanto
il “dato” può essere vera
fonte di conoscenza.
In questa sorta di prologo de l’Interpretazione
Diderot precisa il suo indirizzo gnoseologico
nell’approccio alla realtà. Ne
deriva: 1. che Dio (in ogni forma ipotizzabile)
è escluso dagli orizzonti della
conoscenza, 2. che l’uomo non ha nulla di
meccanico nelle sue funzionalità sia
psichiche che fisiche, 3. che essendo solo
i dati o i fatti forieri di
conoscenza, le sensazioni perdono il loro
statuto veritativo sostenuto dai
sensisti puri.. Per quanto succinto si tratta
di un vero programma d’indagine
sulla natura ed espressione di uno “spirito
sistematico” che si oppone ad ogni
“spirito di sistema”. Nell’entrare in argomento
Diderot precisa sin dal § 1 un
programma che vede la conoscenza autentica
conseguibile solo attraverso la
coniugazione dell’esperienza strumentale
con la riflessione. Perciò:
Si tratterà di vedute generali sull’arte
sperimentale e di vedute particolari su un
fenomeno che sembra completamente
assorbire l’attenzione di tutti i nostri
filosofi e dividerli in due schiere.
Gli uni, almeno così mi sembra, hanno molti
strumenti e poche idee; gli altri
invece hanno molte idee e sono assolutamente
privi di strumenti. L’interesse
della verità richiederebbe però che coloro
che
riflettono si degnassero finalmente di associarsi
con coloro che si
danno da fare, affinché il teorico non avesse
bisogno di muoversi qua e là; il
manovale [le manoeuvre] trovasse indirizzati a uno scopo gli infiniti
movimenti che compie; i nostri sforzi fossero
riuniti e diretti tutti insieme
contro la resistenza della natura; e, in
questa specie di associazione
filosofica, ciascuno facesse la parte che
gli conviene. [16]
La
natura nasconde i suoi segreti e solo il
“manovale della cultura” li porta alla
luce, ma non sapendoli interpretare adeguatamente
ha bisogno delle
riflessioni del “teorico” per coglierli
compiutamente. Ma se pure Diderot ritiene
che l’opera del teorico sia molto importante
ai fini della conoscenza, nondimeno pone
a fondamento di essa, e senza alcuna
esitazione, la scienza sperimentale. Ne troviamo
testimonianza persino dove
meno ce lo aspetteremmo, ne I gioielli indiscreti, del 1748 , un
romanzetto licenzioso–satirico che porta
a termine per scommessa in 15 giorni.
In quest’operetta narrativa sono numerosi
gli inserti filosofici, ma quello del
sogno di Mangogul (capitolo XXXII) è tra
i più interessanti. Il sultano
gaudente che si sveglia e ingiunge ai suoi
dignitari «Non mi si parli più di
filosofia, queste conversazioni sono malsane»
racconta il suo sogno in una
sorta di regno cadente della filosofia, dove
interpella Platone, principe di
essa un po’ messo in disparte. Questi, alla
domanda del sognante «Chi siete? Dove
sono?» risponde «Io sono Platone» e «Voi
vi trovate nella regione delle ipotesi
[si rammenti l’aforisma newtoniano Hipotheses non fingo], e costoro sono
sistematici» A domanda di che cosa ci faccia
in mezzo a tali «dissennati»,
Platone risponde «Raccolgo proseliti. Lontano
da questo portico ho un piccolo
santuario» La conversazione prosegue sino
al punto in cui il Padre
dell’Idealismo esclama: «Chi mai raccoglierà
questi pezzi, e ci renderà la
veste di Socrate?» Ma poi accade qualcosa:
Egli
aveva appena pronunciato questa patetica
esclamazione, quando intravidi in
lontananza un fanciullo che veniva verso
di noi a passi lenti ma sicuri. Aveva
la testa piccola, il corpo minuto, le braccia
deboli e le gambe corte, ma tutte
le sue membra s’ingrossavano e si allungavano
a mano a mano che procedeva. Nel
progresso di questi accrescimenti successivi,
mi apparve sotto cento forme
diverse; lo vidi puntare verso il cielo un
lungo telescopio, misurare con
l’aiuto di un pendolo la caduta dei corpi,
provare il peso dell’aria con un
tubo pieno di mercurio, e , col prisma in
mano, scomporre la luce. Era
diventato un colosso enorme […] Egli scosse
con la mano destra una fiaccola la cui luce si diffondeva
lontano nell’aria, illuminava il fondo delle
acque e penetrava nelle viscere
della terra. [17]
Il
fanciullino che diventa gigante nel suo procedere,
e che illumina con la sua
fiaccola ogni aspetto dell’universo, è immagine
metaforica di quell’attività
scientifica sperimentale che il XVIII secolo
vedrà ingigantire e rafforzarsi
sino a diventare il pilastro di fondazione
della nuova civiltà europea
post-metafisica. Il sultano [probabile personificazione
del re Luigi XV] chiede
impaurito a Platone: «Chi è quella figura
gigantesca che muove verso di noi ?»,
e il sommo teologo filosofale risponde: «È
la scienza sperimentale […]
Fuggiamo! Questo edificio non resisterà un
momento di più!» [18]
Il palazzo crolla in un boato spaventoso
e Mangogul si sveglia.
Diderot, come convinto sostenitore
dell’esperienza, non ha molta fiducia nel
potere e euristico e conoscitivo
della matematica, che considera troppo astratta
per risultare veramente utile
alla conoscenza. Alludendo all’analogo parere
di Buffon, espresso all’inizio de
l’Histoire naturelle, egli sottolinea:
§
2. Una delle verità, che ultimamente sono
state annunciate con maggior coraggio
e forza, che un buon fisico non perderà mai
di vista, e che avrà certamente le
più utili conseguenze, è l’affermazione che
la regione dei matematici sia un
modello intellettuale, dove viene considerato
come verità rigorosa quel che
perde completamente questa prerogativa quando
lo si trasporti sulla nostra
terra. Si è giunti alla conclusione che era
compito della filosofia
sperimentale correggere i calcoli della geometria
e ne hanno convenuto persino
i geometri. Ma a quale scopo correggere il
calcolo geometrico con l’esperienza?
Non è più semplice attenersi ai risultati
di quest’ultima? Da tutto ciò si vede che la matematica,
soprattutto quella trascendente, non conduce
a nulla di preciso senza l’esperienza;
che essa è una specie di metafisica generale
ove i corpi sono spogliati delle
loro qualità individuali; e che resterebbe
ancora da fare una grande opera che
si potrebbe intitolare l’Applicazione dell’esperienza alla geometria,
ovvero Trattato sull’aberrazione delle misure. [19]
Se
si tiene conto che Diderot era stato uno
studioso della matematica, sulla quale
aveva scritto nel 1748 un saggio notevole
come il saggio Memorie sui
differenti oggetti matematici, apprezzato anche da studiosi che si sono
occupati
della storia delle matematiche [20],
si comprende bene il senso dell’affermazione.
Il Nostro non intende negare le capacità
veritative della matematica, quanto porre
una definizione del suo campo
d’azione, che da sempre i matematici-metafisici
pretendono estendere al campo
filosofico. Questa consapevolezza si incomincia
ad avere nel Settecento perché
per la prima volta strumenti sofisticati
permettono verifiche prima
impensabili. Diderot, tuttavia, in questa
limitazione dei compiti della
matematica compie un errore in senso opposto,
ma equivalente a quello dei
metafisici, là dove, non cogliendone i possibili
sviluppi in campo fisico, la
riduce quasi a un puro gioco dei numeri,
scrivendo subito dopo:
§
3. Non so se vi sia qualche rapporto tra
lo spirito del giuoco e il genio
matematico; ma molti sono i rapporti fra
giuoco e matematica. Tralasciando l’incertezza
che la sorte introduce, o
paragonandola con quanto di inesatto l’astrazione
introduce nella matematica,
una partita può essere considerata come una
serie indeterminata di problemi da
risolvere rispettando certe condizioni. Non
c’è problema di matematica al quale
non possa convenire questa definizione, e
la cosa del matematico non
esiste più di quella del giocatore. Da una
parte come dall’altra si tratta di
convenzioni. [21]
Diderot pare non cogliere nella matematica
la sua capacità di “tradurre” la denotazione
fisica in una connotazione
simbolica, cioè in un’equazione. Il fatto
che sia la matematica e sia il gioco
si fondino su delle “regole fisse” rende
il Nostro sospettoso di essa, nella
quale “convenzioni” di scarso rapporto con
la realtà. Quest’incomprensione si
rivela anche come l’atteggiamento di colui
che vede il conoscere come
l’operazione complessa che fa coincidere
l’esattezza del dato con la
sensibilità emotiva e sentimentale del suo
utilizzatore. Mentre in Rousseau il
sentimento assume la funzione del cocchiere
unico del sapere, in Diderot i
cocchieri sono sempre due, il sentimento
e la ragione, che bilanciano l’azione
delle loro briglie. Ma egli va ancora oltre
(§ 4 e 5) nell’immaginare che le
scienze esatte potrebbero già essere giunte
a un livello di saturazione che
suggerisce l’opportunità di un mutamento
nell’atteggiamento scientifico. La
scienza dovrebbe andare oltre la messe dei
dati per fornirne una nuova
interpretazione che li leghi insieme, poiché
tutto ciò che esiste va colto come
una “catena dell’essere” che per essere conosciuta
adeguatamente richiede una
“catena del conoscere”, con conoscenze che
vanno tutte collegate. Si tratta per
un verso di un programma scientifico e per
un altro dell’espressione di un
monismo gnoseologico che egli difenderà sempre,
vedendo nella scienza del suo
tempo una frammentazione simile alla disgregazione
linguistica della mitica
Torre di Babele [22]. In
realtà egli introduce un concetto di “utilità”
che dovrebbe selezionare la conoscenza
in funzione di un approccio più concreto
alla realtà, tale da uscire dal gioco
folle e presuntuoso di perdersi nella produzione
di astrattezza:
§
7. Finché le cose rimangono esclusivamente
nel nostro intelletto, sono nostre
opinioni, sono nozioni che possono essere
vere o false, accettate o
contraddette. Esse acquisiscono consistenza
solo legandosi agli esseri esterni.
Tal legame si attua mediante una catena interrotta
di esperienze. Oppure
attraverso una catena interrotta di ragionamenti,
che da una parte dipende
dall’osservazione e, dall’altra, dall’esperienza.
[23]
Siccome
l’essere è costituito dalla catena degli enti, per
conoscerlo si deve
operare attraverso una catena esperienziale
opportunamente congegnata. Diderot
insiste su una catena ininterrotta di esperienze
e ragionamenti che il
“manovale” (lo sperimentatore) e il teorico
devono produrre “insieme” per
raggiungere una conoscenza adeguata agli
“esseri esterni” e che non deve ridursi
al puro dato o al puro ragionamento, senza
che vi sia tra essi un’”utilità”
connettiva. Infatti: «Tutto si riduce
a ritornare dai sensi alla riflessione e
dalla riflessione ai sensi: rientrare in
se stessi e uscirne continuamente
fuori.» [24] Il
processo conoscitivo deve consistere secondo
Diderot nel cogliere “fuori” il
dato per portarlo “dentro” ed elaborarlo.
Egli fa riferimento alla metafora
ontologica di Bordeu, che vede il “tutto”
come un grande alveare in cui le
“parti”, le api, vanno fuori per trarre la
materia prima e tornano dentro per
elaborarla: «È il lavoro dell’ape. Si sarà
esplorata inutilmente una grande
estensione di terreno, se non si rientra
nell’alveare carichi di cera. Si sarà
ammassata tanta cera inutile, se non si saprà
formarne dei favi.» [25];
la ricerca e l’ammasso dei dati va seguita
dalla loro elaborazione per produrre
conoscenza. D’altra parte la ragione umana
è auto-referenziale, ed ha bisogno
dell’istinto come funzione sensoria etero-referenziale.
Questo da solo è
insufficiente per conoscere adeguatamente
la realtà, ma quella non porta a
nulla senza il lavoro di questo. Il binomio
ragione/istinto diventa qui
metafora di quello esperienza/riflessione,
da ciò il rilievo:
§
10. Ma disgraziatamente è più facile e più
semplice consultare se stessi che
non la natura. Perciò la ragione è portata
a restare in se stessa, mente
l’istinto si diffonde verso l’esterno. L’istinto
guarda, gusta, tocca, scolta
continuamente e forse si potrebbe imparare
più fisica sperimentale studiando
gli animali che non seguendo i corsi di un
professore. [26]
Occorre
da parte dello scienziato una sorta di identificazione
sentimentale-intellettuale con la natura
e non un porsi presuntuosamente “al di
sopra” di essa con l’astrazione:
Provare
orgoglio per i fenomeni della natura, come
se ne fossimo noi stessi gli autori,
significa imitare la stoltezza di un editore
di Saggi che non poteva
sentir nominare Montaigne senza arrossire.
Ammettere la propria incapacità, è
una grande lezione che si ha spesso occasione
di impartire. Non è forse
preferibile conciliarsi con le conoscenze
degli altri, confessando sinceramente
io non so nulla, piuttosto che balbettare qualche parola
e far pena a se
stessi, sforzandosi di spiegare ogni cosa?
[27]
Non
solo, la presunzione di uno pseudo-sapere
autororeferenziale privo di verifiche
sperimentali è per Diderot un “balbettamento”
inconsistente, che renderebbe opportuna
l’ammissione della propria ignoranza. Facendo
ciò si diventerebbe anche più
credibili, poiché: «Colui che confessa liberamente
di non sapere ciò che ignora
mi induce a credere a quello che cerca di
spiegarmi.»
La teoria della conoscenza in Diderot
deriva però anche dal suo monismo gnoseologico,
che al § 12 de l’Interpretazione
della natura gliela fa scorgere come “una donna dai mille
travestimenti” [28]
sicché:
§
14. Mi rappresento il vasto recinto delle
scienze come una grande estensione di
terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati.
Lo scopo delle nostre
fatiche deve essere quello di estendere i
confini dei luoghi illuminati, oppure
di moltiplicare sul terreno i centri di luce.
L’un compito è proprio del genio
che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona.
[29]
Estendere
l’area della conoscenza, illuminarla meglio
ed agire metodicamente:
§
15. Tre sono i mezzi principali in nostro
possesso: l’osservazione della
natura, la riflessione e l’esperienza. L’osservazione
raccoglie i fatti, la
riflessione li combina insieme, l’esperienza
verifica il risultato della
combinazione. È necessario che l’osservazione
della natura sia assidua, la
riflessione profonda e l’esperienza esatta.
Raramente questi mezzi si vedono
riuniti insieme. Neppure i geni creatori
sono comuni. [30]
La
ricerca dei dati, la riflessione che li connette
e li elabora, l’esperienza che
li verifica, sono indissolubilmente legati
nel processo conoscitivo, in cui anche
la genialità ha un ruolo importante. Ne emerge
un “metodo”, dove impegno,
profondità e accuratezza, si coniugano in
maniera indissolubile con
l’immaginazione. Purtroppo che l’abbondanza
di geni tendenti all’astrazione e
non alla concretezza hanno prodotto sempre
«poche conoscenze certe» e progressi
assai modesti nella conoscenza [31], poiché:
§
17. Le scienze astratte hanno occupato troppo
a lungo e con troppo poco
profitto gli spiriti migliori; o non si è
studiato ciò che importava sapere,
oppure si sono seguiti i propri studi senza
discrezione, senza idee e senza
metodo; le parole si sono moltiplicate all’infinito
e la conoscenza delle cose
è rimasta indietro. [32]
È
messo qui a fuoco il problema fondamentale
del “conoscere” e di riflesso della
filosofia: l’”amore per la conoscenza”. In
realtà è accaduto che la teologia
filosofale, da Platone in poi, ha cassato
il “conoscere la realtà” per
rimpiazzarlo con il “fabbricare una pseudo-realtà”
metafisica. È nel Settecento
che ci si comincia a rendere conto sino in
fondo della colossale mistificazione
gnoseologica operata dalla metafisica nei
millenni, e Diderot è forse il
pensatore che meglio di ogni altro ne è consapevole,
sì da affermare:
§
20. I fatti. di qualsiasi natura essi siano,
sono la vera ricchezza del
filosofo. Ma uno dei pregiudizi della filosofia
razionale, è che colui il quale
non saprà contare i propri scudi, non sarà
affatto più ricco di colui il quale
abbia un solo scudo. Disgraziatamente la
filosofia razionale è molto più
occupata a paragonare e a collegare i fatti
che già sono in suo possesso,
anziché a raccoglierne di nuovi. [33]
La filosofia razionale e antimetafisica si
è persa a “contare i propri scudi”, entrando
con ciò in concorrenza con la
metafisica, e non si è preoccupata di “scoprire
nuovi scudi (nuovi fatti) ” in
sintonia con la scienza, che i fatti porta alla luce fornendo sempre
nuova “materia prima” al filosofo. Se questo
non arricchisce la propria base
conoscitiva si ridurrà a rimasticare (a ricontare)
gli elementi conoscitivi di
cui è in possesso finendo per ripetersi nell’ermeneutica
di un “già dato”. Siamo di fronte a una considerazione
gnoseologica di capitale importanza, poiché
mette in rilievo come la filosofia
debba uscire dalle chiacchiere logico-dialettiche
per passare a “scoprire fatti” e abbandonare il chiacchiericcio pseudo-filosofico.
Ma i “manovali” e gli “architetti” della
filosofia non hanno ancora trovato il
giusto accordo per produrre nuova conoscenza,
i primi perché operano in maniera
casuale e scoordinata, i secondi perché non
sanno utilizzare il lavoro dei
primi (§ 21) [34],
mentre «I fenomeni sono infiniti; le cause
nascoste; le forme, forse,
transitorie [35] ».
La realtà è dinamica e quelle stesse “forme”
riconosciute potrebbero essere precarie,
sicché nel momento in decidiamo di studiarle
sono già mutate. È qui accennata
quell’“evoluzione” che è uno degli aspetti
più notevoli del pensiero
diderotiano e che spiega anche la mobilità
dei suoi concetti, che si inquadrano
sempre in una visione dinamica della realtà
che necessita di una filosofia altrettanto
dinamica per lasciarsi “leggere”. Da ciò
emerge quella una dinamicità cognitiva
che esclude ogni “sistema bloccato” poiché
soltanto attraverso nuovi orizzonti
aperti dalla “manovalanza” e indagati dalla
”teoria” si può dare filosofia
autentica uscendo dalla disgiunzione sperimentale/teorica:
§
23. Abbiamo distinto due specie di filosofia;
la sperimentale e la razionale.
L’una ha gli occhi bendati, procede sempre
a tentoni, afferra tutto ciò che le
cade tra le mani e, alla fine, si imbatte
in cose preziose. L’altra raccoglie
queste materie preziose e cerca di farsene
una fiaccola […] L’esperienza
moltiplica all’infinito i propri movimenti,
è continuamene in azione, e impiega
nella ricerca dei fenomeni tutto il tempo
che la ragione impiega a stabilire
analogie […] Al contrario la filosofia razionale
soppesa le possibilità, si
pronuncia e lì si ferma. [36]
Senza
nuovi dati resi dalla scienza la filosofia, se vuol
essere tale e non metafisica,
presto è costretta “a fermarsi”. La
realtà storica è lì a dimostrarlo:
Essa
dichiara senza alcun timore: non è possibile decomporre la luce. La
filosofia sperimentale l’ascolta, e per interi
secoli tace davanti ad essa; poi
improvvisamente mostra il prisma e dichiara:
la luce si decompone. [37]
Ci
è reso qui con grande efficacia e semplicità
il problema fondamentale di ogni
autentica filosofia, quello di essere disposta
oppure no “a ricredersi” e a riformularsi
ogni qual volta la scienza, facendo un ulteriore
passo oltre l’ignoto, le
“regala” nuovo materiale di conoscenza
autentica; un materiale che molto spesso
viene da scoperte tanto casuali
quanto importanti per la filosofia.
Come si vedrà al § 24 de l’Interpretazione
(Schema della fisica sperimentale), che esporremo per esteso al § 15.3 (Il
problema ontologico) che faremo seguire, l’utilizzazione di
un criterio
come la “bizzarria” (che chiude l’esplicazione
dell’uso di un ente quale
suo criterio euristico) per condurre la ricerca
scientifica può sembrare
improprio, eppure è proprio l’originalità
e l’anticonvenzionalità diderotiana,
anche sul piano linguistico, a costituire
uno dei tratti caratteristici di
questo grande pensatore. Egli ci spiega:
§
25. Dico analoga o bizzarra perché tutto
nella natura ha il proprio effetto:
l’esperienza più stravagante, così come l’esperienza
più ragionata. La
filosofia sperimentale, che non si propone
nulla, è sempre contenta di ciò che
ottiene; la filosofia razionale è sempre
istruita, anche quando non raggiunge
ciò che si è proposto. [38]
La
bizzarrìa va infatti intesa qui anche come
la massima variabilità
d’impostazione delle prove in una ricerca
che si fonda, all’epoca, ancora
eminentemente sulla casualità e sull’imprevedibilità.
Se si considera la
limitatezza dei mezzi d’indagine di allora,
che non consentiva certo quelle
ricerche “in batteria” così complesse ed
estese che caratterizzano la ricerca
odierna (nella quale si possono condurre
contemporaneamente centinaia di
esperienze con una sola apparecchiatura)
si comprende bene come l’invito alla
“bizzarria sperimentale” sia la valorizzazione
delle risorse dell’intuito e
dell’immaginazione rispetto ad una pedestre
esecuzione. D’altra parte la
famigliarità di Diderot con molti illustri
sperimentatori dell’epoca ci fa
comprendere come egli avesse ben assimilato
i criteri da essi utilizzati per
ottimizzare il loro lavoro. La sperimentazione,
l’opera del “manovale” della
filosofia, secondo Diderot (ma l’affermazione
appare un po’ provocatoria) non
richiede particolare cultura in quanto “innocente”,
dall’altro lato quella del
“teorico” può diventare “delirante”:
La
filosofia sperimentale è uno studio innocente,
che non richiede all’anima quasi
nessuna preparazione. Non si può dire altrettanto
delle altre parti della
filosofia. La maggior parte aumentano in
noi il delirio delle congetture. La
filosofia sperimentale alla lunga lo reprime.
Prima o poi ci si stanca di fare
predizioni errate. [39]
Affermazione
importante. La ricerca sperimentale, in quanto
“innocente”, non può mai essere
ideologica, poiché non “persegue nulla” e
non vuole “dimostrare nulla”.
L’interpretazione teorica di dati approssimativi
(in assenza di nuove verifiche
sperimentali) può condurre a un ermeneutica
infinita, consistente in un vero e
proprio “delirio” teorico, al quale solo
la sperimentazione può porre fine,
“reprimendolo” con i suoi dati sulla realtà. Il tema tornerà più avanti,
ma dal § 32 al 38 de l’Interpretazione Diderot sviluppa sette gruppi di congetture,
con le quali egli affronta problemi biologici,
fisici e matematici in
riferimento a teorie di Maupertuis, Buffon,
Halley, Franklin e altri,
fornendoci la sua interpretazione.
È al § 39 che il Nostro incomincia a porre il problema
dell’informazione
e dell’istruzione, domandandosi: «la fisica
sperimentale che si espone nelle
pubbliche lezioni è forse sufficiente a procurare
quella specie di delirio
filosofico?» [40] (di
cui aveva parlato al § 26). La risposta::
«Non lo credo affatto. I nostri
autori di corsi di esperienze somigliano
un po’ a colui che ritenesse di aver
offerto un gran banchetto perché ha avuto
molte persone alla sua tavola.» In
altre parole, la “qualità” del discorso filosofico
non dipende dal numero dei
suoi estimatori, poiché il ruolo del filosofo
si determina attraverso: 1. il
desiderio di conoscere, 2. l’apprendimento,
3. l’applicazione. Solo con queste
tre fasi è possibile conseguire, quale quarto
stadio, la “professione” di vera
filosofia. Perciò la “comunicazione” del
docente deve seguire alcuni criteri di
opportunità ed utilità:
Si
dovrebbe dunque soprattutto cercare di stuzzicare
l’appetito [di cultura],
affinché molti, trascinati dal desiderio
di soddisfarlo, passassero dalla
condizione di discepoli a quella di dilettanti
e, successivamente, alla
professione di filosofi. Lungi però da qualsiasi
uomo pubblico tutte quelle
riserve così contrarie al progresso delle
scienze! È necessario rivelare la cosa e il metodo.
[41]
Questione
di merito e di metodo. L’informazione scientifica
deve giungere adeguatamente
al destinatario per spingerlo a mettersi,
a sua volta, sulla strada della
produzione di altra scienza. E un rimprovero
che riguarda anche i “grandi”:
Quanto
stimo grandi per la loro invenzione quegli
uomini che per primi scoprirono i
nuovi calcoli! [quello infinitesimale] Ma
quanto li trovo meschini nel mistero
che essi ne fecero! Se Newton si fosse deciso
subito a parlare, come avrebbe
richiesto l’interesse della sua gloria e
della verità, Leibniz non condividerebbe
con lui la qualifica di inventore [42]
La
notizia di scienza va subito “messa a disposizione”,
affinché tutti ne possano
fruire, e ciò riguarda la comunicazione della
“cosa”. Ma altrettanto importante
è il “modo”:
Ma
non basta rivelare, è necessario inoltre
che la rivelazione sia intera e
chiara. C’è un tipo di oscurità che
potremmo definire l’affettazione dei grandi maestri. È un velo che ad
essi piace stendere fra il popolo e la natura.
[43]
Diderot pone un problema di democraticità
della conoscenza che è di tutti i tempi,
e che implica l’eticità con cui si
devono mettere a disposizione di tutti le
conoscenze delle quali si è
possessori. È ciò che ha inteso fare anche
con l’Encyclopedie, chiamando
a collaborarvi gli specialisti delle varie
branche ed accompagnando molte voci
con tavole esplicative ricche di dettagli.
Da ciò il rimprovero:
A
parte il rispetto che si deve avere per i
nomi celebri, direi che di questo
genere è l’oscurità che regna in alcune opere
di Stahl e nei Principi
matematici di Newton. Per essere stimati in tutto il
loro valore questi
libri richiedevano solo di essere intesi;
e il renderli chiari non sarebbe
costato ai loro autori più di un mese. Questo
mese avrebbe risparmiato tre anni
di lavoro e di fatiche a mille ottime menti.
Ecco dunque perduti quasi tremila
anni, che si sarebbero potuti utilmente impiegare
per un’altra cosa.
Affrettiamoci a rendere accessibile la filosofia.
[44]
Dunque,
l’accessibilità e la fruibilità! È forse
la prima volta nella storia della
cultura che questo problema viene evidenziato
in maniera così chiara e decisa,
e con esso il suo “costo” in termini di energie
intellettuali sprecate! La
modesta fatica ulteriore del produttore d’informazione
risparmierebbe l’immenso
spreco intellettuale di migliaia di lettori.
È solo un problema di
“affettazione intellettuale” oppure di
pigrizia? La pigrizia può riguardare anche
i grandi della cultura, ma
l’affettazione intellettuale riguarda sempre
i piccoli; anzi, quanto più sono
piccoli e tanto più sono boriosi. Il problema
è però grave e coinvolge il modo
stesso di fare e dare cultura in un dato
contesto. Il criterio elitario per cui
sarebbe inutile perdere tempo per rendersi
accessibili agli incolti per non “dare
perle ai porci” è un atteggiamento ottuso,
ma affonda le proprie radici in un
assunto aristocratico che purtroppo è ancora
tra noi e che ai tempi di Diderot era
forse dominante. L’Illuminismo è venuto anche
per questo, per democratizzare la
cultura, e il Nostro ne è uno dei massimi
suoi fautori.
Egli pone poi al § 43 il principio
epistemico della “prova dell’inversione”, una sorta di prodromo del fallibilismo
popperiano, dove la specularità dei termini
del binomio vero/falso diventa
strumento di convalida del primo termine:
Poiché
i sistemi in questione [quelli puramente
teorici e privi di verifiche
esperienziali] si fondano soltanto su
idee vaghe, lievi sospetti e analogie illusorie,
e anche, bisogna dirlo, su
chimere che lo spirito entusiasta scambia
facilmente per vedute, non bisogna
abbandonarne nessuno senza averlo prima sottoposto
alla prova dell’inversione.
Nella filosofia puramente razionale la verità
è assai spesso l’estremo opposto
dell’errore; così nella filosofia sperimentale:
se non sarà l’esperienza che
avremo tentato, sarà proprio quella contraria
a produrre il fenomeno che ci si
aspettava. [45]
Ottimismo
operativo raramente appagato. Ma la considerazione
diderotiana è importante per
un altro aspetto; quello relativo al fatto
che molto spesso un elemento teorico
del tutto improduttivo al suo apparire, può
diventarlo molto tempo dopo
attraverso una nuova interpretazione, un’appropriata
ridefinizione, una
rettifica di esso. In altre parole: delle
fatiche umane per il “conoscere”
nulla va buttato via!
Diderot al § 44 si sofferma a delineare i
criteri che debbono guidare la ricerca scientifica,
cominciando con
l’affermare: «Le esperienze devono essere
ripetute per determinarne le
circostanze nei loro particolari, e per conoscerne
i limiti. È necessario
riferirle a oggetti diversi, complicarle
e combinarle tra loro i tutti i modi
possibili.» (compresi quelli “bizzarri”,
come si è visto precedentemente),
poiché:
Finché
le esperienze sono sparse, isolate, senza
reciproco legame e irriducibili, è
manifesto, per la loro stessa irriducibilità,
che ne rimangono ancora da fare.
In tal caso ci si deve applicare unicamente
al proprio oggetto e tormentarlo,
per così dire, fino a quando non si sia riusciti
a incatenare talmente i
fenomeni fra loro che, datone uno, si ricavano
tutti gli altri: adoperiamoci
anzitutto a ridurre gli effetti, dopo penseremo
alla riduzione delle cause. [46]
L’oggetto
ignoto va metaforicamente tormentato
sino a “farlo parlare” e per raggiungere
la verità si deve partire dagli
effetti per ricavarla e non viceversa. Principio
euristico fondamentale a cui
la vera scienza si attiene da sempre, mentre
la metafisica fa sempre
esattamente il contrario. E per scoprire
gli effetti utili che conducono alla
scoperta delle cause occorre averne a disposizione
il maggior numero possibile:
Ma
non si potranno ridurre gli effetti se non
moltiplicandoli. La grande arte di
scegliere i mezzi necessari per ricavare
da una causa tutto ciò che essa può
dare, consiste nel distinguere esattamente
quelli dai quali ci si attende a
buon diritto un fenomeno nuovo, da quelli
che non produrranno che un fenomeno
camuffato. [47]
La
scelta dei mezzi opportuni è la «grande arte
» del ricercatore, quella che
aiuta a distinguere il fenomeno apparente
(camuffato) dirigendolo verso
l’individuazione di quello nuovo ed autentico.
Il progredire della conoscenza
non si dà nella ripetizione, ma nella scoperta
del nuovo, sì che:
Tutte
le esperienze che non sono in grado di estendere
la legge a qualche nuovo caso,
o che non ne restringono l’applicazione con
qualche eccezione, non hanno alcun
significato. Il mezzo più breve per conoscere
il valore del proprio tentativo è
quello di farne l’antecedente di un entimema
[48], per
poi esaminare ciò che ne consegue. [49]
Tra
gli antecedenti e i conseguenti del processo
euristico si snoda l’accadere
della conoscenza sino a comprenderne i limiti
o i possibili sviluppi. Perciò:
Se
la conoscenza è esattamente la stessa di
quella che si è già ricavata con
un’altra prova, allora non si è scoperto
nulla o, al massimo, si è confermata
una scoperta precedentemente fatta. Sono
ben pochi i libri di fisica
sperimentale che con questa regola così semplice
non sarebbero ridotti a un
esiguo numero di pagine, e moltissimi sono
i piccoli libri che con essa si
ridurrebbero a nulla. [50]
Abbiamo
qui l’auspicio per l’applicazione di una
sorta di virtuoso Rasoio di Ockham
scientifico e anche la stigmatizzazione di
molta inutile carta inchiostrata!
Diderot segue costantemente il filo di un
discorso gnoseologico che non ammette
mistificazioni. In tal senso l’esperienza
va lasciata libera [51]sino
ai suoi limiti operativi e al suo esaurirsi,
ma il grosso problema sorge quando
idee distorte diventano “accecanti” nel pilotare
il prodursi della ricerca. Da
ciò l’accusa al cattivo scienziato: «Il tuo
mestiere è quello d’interrogare la
natura, tu invece tu la fai mentire, oppure
temi di farla spiegare.» [52]
16.3
Il problema ontologico
Com’è noto Diderot è stato deista almeno
sin verso il 1747, quindi potenzialmente
anti-ateo, ed è significativa questa
frase contenuta nei già citati Pensieri filosofici dove afferma:
XIII. Soltanto il deista può far fronte
all’ateo. Il superstizioso [il cristiano]
non ha la stessa forza. Il suo Dio
non è altro che un essere immaginario. Oltre
alle difficoltà dell’argomento,
deve superare tutte quelle che risultano
dalla falsità delle sue nozioni. Un C…
[Cudworth [53]], un S… [Shaftesbury [54]], avrebbero messo in
imbarazzo un Vanini [55]
mille volte più di tutti i Nicole e i Pascal.
[56]
E tuttavia ne La
passeggiata dello scettico, che esce proprio nel 1747, pare che egli
abbia
già preso le distanze dal deismo e dalla
sua ipostasi dell’ordine e della
perfezione in una certa adesione alla posizione
del personaggio di nome “Ateo”,
che replica ai suoi interlocutori:
No, riprese Ateo, non lo vedete com’è [il
cosmo]. Chi vi ha detto che l’ordine che
ammirate qui non si smentisce in
nessun punto? Vi è forse consentito di trarre
conclusioni, a partire da un
punto nello spazio, allo spazio infinito?
Riempì un vasto terreno di fango e
macerie a caso, dove però il verme e la formica
trovano abitazioni comodissime.
Che pensereste di questi insetti, se, ragionando
col vostro metodo, si
estasiassero dell’intelligenza del giardiniere
che ha disposto tutti quei materiali
per loro? [57]
XXIII. Il deista afferma l’esistenza di un
Dio,
l’immortalità dell’anima e le relative conseguenze;
lo scettico non prende
alcuna decisione su queste affermazioni;
l’ateo le nega. Per essere virtuoso lo
scettico ha quindi un motivo in più dell’ateo
e qualche ragione in meno del
deista. Senza il timor del legislatore, l’inclinazione
del temperamento e la
conoscenza dei vantaggi attuali della virtù,
la probità dell’ateo mancherebbe
di fondamento e quella dello scettico sarebbe
fondata su un forse. [58]
L’impressione che si ricava da queste
considerazioni è che Diderot pensi da deista,
ma ponga questa posizione in
raffronto a quella scettica e a quella atea
per coglierne i vantaggi ontologici
ed etici senza preclusioni, col tipico “problematicismo”
che lo caratterizza.
Una netta svolta verso l’ateismo si registra
con la Lettera sui ciechi ad
uso di coloro che vedono, pubblicata nel 1749, nella quale egli pare
aver
superato tutte le incertezze dei Pensieri filosofici pubblicati appena
tre anni prima. La ragione del titolo sta
nell’aver tratto spunto dal problema
posto da William Molyneux a Locke circa la
questione se un cieco dalla nascita
che riacquistasse improvvisamente la vista
sarebbe in grado o no di distinguere
una sfera da un cubo come col tatto. Convinto
che il nuovo vedente non sia in
grado, almeno subito, di distinguere i due
solidi è Locke, ed anche Voltaire si
allinea su questa tesi, di parere contrario
Condillac e la Mettrie. Il problema
coinvolge da presso le teorie sensistiche
di cui Diderot non è mai stato
convinto, ma egli svolge il tema in modo
assolutamente originale, introducendo
nell’opera la figura di Samuel Saunderson
(1682-1728), cieco dall’età di un
anno e celebre professore di matematica,
che diviene nella Lettera il
personaggio che viene investito del compito
di enunciare la tesi cosmologica
diderotiana. Questo matematico aveva ricoperto
dal 1711 la cattedra “lucasiana”
di matematica a Cambridge e inventato un’
“aritmetica palpabile” ad uso dei
ciechi geniale ed estremamente utile; il
Nostro l’assume quale figura esemplare
di intelligenza e acutezza e implicitamente
come un alter ego. La grande
importanza teorica delle Lettera sui ciechi sta nel fatto che Diderot
mette a fuoco quattro punti essenziali della
sua filosofia: 1. la materia in
generale come complesso dinamico e in evoluzione,
2. la materia vivente come
soggetta a trasformazioni continue e profonde,
3. la non-fissità delle specie
viventi, 4. l’uomo come parte della natura
in evoluzione. L’opera è la goccia
che fa traboccare il metaforico vaso che
il curato di San Medard aveva già nel
’47 reso pieno con la sua accusa di uomo
empio che «pronuncia contro Gesù
Cristo e la Vergine bestemmie che non oso
mettere per iscritto».Il Nostro viene
arrestato e incarcerato.
Nella lettera, indirizzata a un’immaginaria
“signora”, dopo una dissertazione iniziale
sul problema della cecità e sulle
notevoli capacità dei ciechi non solo di
supplire alla loro disabilità, ma, in
alcuni campi di esperienze, di essere di
molto superiori ai vedenti, Diderot
passa ad esporre con dovizia di dettagli
grafici il sistema di matematica
tattile di Saunderson. Esso consta di un
supporto ligneo ripartito in piccoli
riquadri forati e in elementi mobili costituiti
da spilli a capocchia grande e a
capocchia piccola, sì che la loro collocazione
nei fori e la loro differente unione
renda possibile una mole enorme di operazioni
aritmetiche. Il Nostro rileva
che, a dispetto di ciò che solitamente si
pensa «il tatto può diventare un
organo più raffinato della vista, quando
sia perfezionato dall’esercizio» [59].
Non esiste alcuna gerarchia dei sensi poiché
l’uomo carente di uno fa di
necessità virtù nell’usare la mente per strutturare
gli altri, che non posseggono
un definito status fisiologico, ma sono “funzioni” elastiche
che la
mente usa opportunamente. Saunderson è un
modello di saggezza umana e sul letto
di morte, al reverendo Holmes venuto per
convertirlo, dice: «Un fenomeno ci
pare al di sopra delle forze dell’uomo?;
ed ecco che subito diciamo: è opera
di un Dio; la nostra vanità, altrimenti, non né è
soddisfatta! Non potremmo
mette nei nostri discorsi un po’ meno di
arroganza e un po’ più di filosofia?» [60]
Il morente entra quindi in tema ontologico
e la finzione letteraria si fa
teoria nel far notare al prete che la vista
non è di alcun aiuto per un’analisi
della realtà, osservando:
Immaginate pure, se volete, che l’ordine
che vi
colpisce sia sempre esistito; ma permettetemi
di credere che non sia affatto
così; se dovessimo risalire all’origine delle
cose e del tempo, e potessimo
avere esperienza della materia automoventesi
e del caos che assume un certo
ordine, ci imbatteremmo in una moltitudine
di esseri informi di contro a pochi
già formati. [61]
L’idea
di una perfezione originaria e di un ordine
divino sono privi di fondamento e
il caos iniziale si tramuta in un “certo”
ordine mai definitivo, che si evolve
e si trasforma. Poi la domanda:
Posso
chiedervi, per esempio, chi ha detto a voi,
a Leibniz, a Clarke e a Newton, che
nei primi istanti della formazione degli
animali, alcuni non fossero senza
testa e altri senza piedi? Potrei anche sostenere
che alcuni non avevano
stomaco e altri mancavano di intestino, che
quelli vissuti per un certo periodo
perché provvisti di stomaco, di palato e
di denti, non esistono più per vizi al
cuore o ai polmoni, che i mostri sono andati
scomparendo grado a grado, che
tutte le difettose combinazioni della materia
si sono dissolte, e che sono
rimaste soltanto quelle il cui meccanismo
non comportava contraddizioni
importanti e che potevano mantenersi da sé
e riprodursi. [62]
La “selezione naturale” viene qui enunciata
con grande chiarezza sulla base della “funzionalità”
organica. L’essere vivente
sopravvive se la macchina corporea è sufficientemente
funzionale per
sopravvivere, ma la condizione della sopravvivenza
di una specie animale
presuppone due elementi indispensabili: la
capacità di autosostenersi
prelevando dall’ambiente il nutrimento e
la capacità di riprodursi. Anche se
qui non compare esplicitamente il “contesto”
come selettore, esso è sottinteso
nella misura in cui le risorse energetiche
provengono da un “fuori”
dell’organismo che offre le condizioni ambientali
adatte per la procreazione. L’incompletezza,
e di conseguenza la non-sopravvivenza e non-riproduzione
di taluni esseri imperfetti
si rifà ad un tesi che era stata avanzata
già da Lucrezio nel Libro V del De
rerum natura, quando il grande poeta-filosofo, che pensava
l’universo
governato dal caso [63]
e la natura passare da uno stato all’altro
«impotente a produrre ciò che prima
poteva, ma capace di creare quel che prima
non poteva» [64],
scriveva:
In
antico la terra tentò di creare anche numerosi
portenti, / creature fornite di
membra e sembianti orridi o strani, / […]
esseri privi di piedi o di mani, / o
muti, mancanti di bocca, o ciechi, generati
senza volto, / o avvinti per tutto
il corpo da membra aderenti fra loro, / o
tali che nulla potessero fare, né
ritrarsi in alcun luogo, / né evitare un
pericolo, né prendere nulla del
necessario. / Generava ogni sorta di mostri
e prodigi, / ma invano, poiché la
natura ne impedì la crescita: / quei mostri
non poterono raggiungere il fiore
desiderato dell’età, / né trovare cibo, né
congiungersi nell’atto di Venere. / È evidente che molte cose devono concorrere
negli esseri / affinché riproducendosi possano
formare le stirpi; / prima è
necessario che vi siano alimenti, poi diffusi
nel corpo, / i semi genitali che
possano stillare dalle membra rilassate,
e perché la femmina possa congiungersi
al maschio, devono entrambi / possedere gli
organi con cui scambiare il
reciproco diletto. / Molte stirpi viventi
dovettero allora perire, / né
poterono propagandosi formare una discendenza
/ Infatti tutti gli animali che vedi nutrirsi
delle aure vitali, / fin
dalle età primigenie furono protetti dall’astuzia
o dalla forza / o dalla
velocità che poterono conservare le loro
specie. [65]
In
quest’anticipazione letteraria della selezione darwiniana il
poeta-filosofo romano precorreva Diderot.
Ma torniamo a Saunderson, che
accennando alla teodicea, aggiunge: «Guardatemi
bene signor Holmes, io non ho
occhi. Che cosa abbiamo fatto a Dio, voi
ed io, perché uno di noi possieda
quest’organo e l’altro ne sia privo?» Al
silenzio del pio uomo, incapace di una
risposta plausibile, il matematico prosegue:
La
mia ipotesi, dunque, è che al tempo delle
origini, quando la materia in
fermento dava luogo all’espansione dell’universo,
i miei simili fossero
assolutamente informi. Perché mai non dovrei
credere dei mondi ciò che credo
degli animali? Quanti mondi nati storti,
imperfetti, si sono dissolti, si
riformano e, forse, si dissolvono ad ogni
istante negli spazi lontani, dove io
non giungo a toccare e voi non potete vedere,
ma dove il movimento continua e
continuerà a cambiare masse di materia, finché
queste abbiamo ottenuto una
sistemazione nella quale potersi mantenere?
[66]
L’evoluzionismo
viene esteso per analogia alla materia nella
sua generalità, e l’ipotesi risulta
interessante se solo si traduca “mondi” con
“sistemi”, permettendoci di
cogliere come Diderot abbia intuito la fenomenologia
del vivente come un’evolutiva
“creazione di tentativi” che in gran parte
abortiscono e solo in qualche caso
hanno successo. Ma il povero prete silente
deve ascoltare un’altra osservazione
di grande importanza ontologica, quella dei
“tempi”:
Vi
rimproveravo poc’anzi di giudicare della
perfezione delle cose in base alla
vostra capacità; e potrei accusarvi ora di
misurare la durata in base a quella
dei vostri giorni. Voi giudicate dell’esistenza
successiva del mondo, come una
mosca che ha così breve vita, della vostra.
Il mondo è eterno per voi, come voi
siete eterno per un essere che viva pochi
istanti. [67]
La
riduzione dell’universo “a misura” della
nostra mente è all’origine di tutti i
più colossali equivoci ontologici di cui
è affetta la cultura umana a tutte le
latitudini; questa vera e propria pulsione
monista-fissista-eternista è così diffusa
che è difficile immaginare il giorno in cui
la cultura scientifico-filosofica
riuscirà a rimuovere tale credenza determinata
dalla psiche. Lasciato
Saunderson alla sua morte Diderot passa ad
occuparsi del problema posto da
Molyneux, riportando i pro e i contro e spiegandone
articolazioni e
ragioni.
Ne l’Interpretazione della natura, e
siamo poco dopo il 1750, il Nostro rafforza
la tesi esposta nella Lettera
sui ciechi e tematizza in maniera definitiva la sua
ontologia, che è sì
materialistica, ma anti-meccanicistica. Il
concetto di sensibilità,
dedotto da Bordeu quale elemento base della
sfera del vivente, diventa una
sorta di “forza” generale della materia vivente,
aprendo anche la strada verso
la nascita della psicologia moderna. Nel
contempo si evoca un monismo non-spinoziano
nel ritenere che la realtà,per quanto plurale,
nella “meraviglia” della varietà
e della differenziazione fenomenica (§ 11)
possa implicare un’unità-totalità
della natura. Sicché: «L’indipendenza assoluta
anche di un solo fatto è incompatibile con l’idea di un tutto, e senza
l’idea di un tutto non vi sarebbe più filosofia.»
[68]
Il monismo ontologico pare evocato più che
altro in funzione di quello gnoseologico,
senza l’ammissione del quale « non vi sarebbe
più filosofia.» In realtà qui egli pensa alla buffoniana
catena
dell’essere, cui associa la propria teoria pre-evoluzionistica
nell’affermare: «La natura sembra essersi
compiaciuta a variare uno stesso
meccanismo in modi diversi. Essa non abbandona
un genere di produzioni, se non
dopo averne moltiplicato gli individui sotto
tutti gli aspetti possibili.» [69]
La natura, pensa Buffon, potrebbe operare
secondo un “metodo di esaustione”,
per cui la variazione delle specie si estrinseca
in tutti i modi possibili secondo
un unico “meccanismo” biologico. Posto ciò
è legittimo pensare ad un prototipo
da cui, per successive varianti, sono derivati
tutti gli esseri viventi
presenti sul pianeta. Ma il Nostro aderisce
all’ipotesi di Maupertuis, negata
da Buffon, di un animale primigenio come
progenitore di tutti gli altri. Da ciò
l’unità della natura in una pluralità “organizzata”
e creatrice di differenze:
La
natura è una donna che si compiace di travestirsi,
ma i suoi diversi
travestimenti, lasciandone scorgere ora una
parte ora un’altra, dànno, a coloro
che la seguono con assiduità, qualche speranza
di poter conoscere un giorno
tutta la sua persona. [70]
Dai dettagli si deve desumere l’esistenza
di un tutto conoscibile nel suo insieme e
i fenomeni i fenomeni particolari debbono
spingere alla ricerca di una struttura
causale generale che li renda meglio comprensibili.
Nel § 24 de l’Interpretazione
il Nostro traccia uno schema della fisica sperimentale costituito da tre
grandi elementi d’indagine: 1. l’esistenza, 2. la qualità e 3. l’uso.
Questa partizione è poiché pone tre elementi
concreti nella determinazione del
reale. Scendendo nel dettaglio Diderot ci
dice che:
L’ESISTENZA
comprende la storia, la descrizione, la generazione, la conservazione
e la distruzione. La storia è storia dei luoghi,
dell’importazione, del prezzo, dei pregiudizi,
eccetera. La descrizione
è descrizione dell’interno e dell’esterno,
mediante tutte le qualità sensibili.
La generazione viene considerata dalla sua prima origine
sino allo stato
di perfezione. La conservazione è conservazione di tutti i mezzi per
consolidare questo stato. La distruzione viene considerata dallo stato
di perfezione fino all’ultimo grado conosciuto
di decomposizione o di deperimento,
di dissoluzione o di risoluzione.
Diderot
parrebbe qui rinunciare per un momento al
suo spirito anti-sistemico ponendo
una classificazione di dati afferenti ogni ente reale su cui condurre
l’indagine. In realtà egli non fa che porre
dei “temi” sui quali la filosofia
deve intrattenersi e confrontarsi. E ciò
vale anche per 2.:
Le
QUALITÀ sono generali e particolari. Chiamo
generali quelle che sono
comuni a tutti gli esseri e che variano solo
per quantità. Chiamo particolari quelle che
costituiscono il tale essere. Queste
ultime sono proprie o della sostanza in massa o della sostanza divisa
o decomposta. [71]
Il
criterio ontologico diderotiano qui usato
per la fisica sperimentale può
apparire un poco grossolano rispetto al rigore
formale e classificatorio della ragion
pura che renderà circa trent’anni dopo Kant nella
prima Critica. Ciò
che però non deve sfuggire è il senso “pratico”
delle classificazioni
diderotiane rispetto a quello “teorico” delle
categorie kantiane. Ed ora il 3.:
L’USO
si estende alla comparazione, all’applicazione e alla combinazione.
La comparazione procede per somiglianza o per differenze.
L’applicazione
deve essere quanto più possibile estesa e
variata. La combinazione è
analoga o bizzarra. [72]
Poche
indicazioni schematiche su che cosa debba
basarsi la ricerca scientifica e
tuttavia di grande efficacia, con un senso
pragmatico che Diderot desume dalla
cultura anglosassone piuttosto che da quella
francese, più incline a forme letterarie descrittive e pletoriche.
Nei § 50 e 51 il Nostro si propone di
sottoporre ad analisi il pensiero biologico
di Maupertuis, che aveva pubblicato
nel ’46 la Venere fisica sul tema dell’epigenesi biologica ma che, come abbiamo visto, nel 1751 (sotto lo
pseudonimo di “dottor Baumann”) pubblica
lo scritto noto come Système de la
nature in cui va oltre le conclusioni della Venus in senso
materialistico. Diderot parte dal presupposto
che per verificare la validità di
una tesi scientifica si debba portarla alle
sue estreme conseguenze teoriche,
applicandolo qui alla tesi del dottor Baumann.
La critica diderotiana a questi,
dopo aver sottolineato «il merito di aver
avanzato nuove congetture», «frutto
di meditazione profonda», «impresa
ardita» e «tentativo di un grande filosofo.»
è la seguente:
§
51. Se il dottor Baumann avesse circoscritto
il suo sistema entro giusti
limiti, avesse applicato le proprie idee
solo alla formazione degli animali,
senza estenderle alla natura dell’anima,
con la conseguenza, come credo di aver
dimostrato contro di lui, di poterle estendere
fino all’esistenza di Dio, non
sarebbe caduto nella più seducente specie
di materialismo, attribuendo alle
molecole organiche qualità come il desiderio,
l’avversione, la sensazione e il
pensiero. Bisognava limitarsi a supporvi
una sensibilità mille volte minore di
quella che l’Onnipotente ha accordato agli
animali più prossimi alla materia
inerte. [73]
Qui
abbiamo due affermazioni sulle quali dobbiamo
soffermarci. La prima riguarda la
citazione di Dio in modo così chiaro senza
lasciar pensare di credervi
seriamente, la seconda l’errore del Baumann-Maupertuis
di estendere la tesi
epigenetica alla formazione dell’anima. Il
materialista sanziona qui una tesi
materialistica chiamando in causa l’Onnipotente
e la sua creazione: una tipica
capriola letteraria diderotiana. Anche se
il materialismo del Nostro è molto sui
generis, in quanto “aperto”, è nell’essere uomo
sensibile e problematico
che rifiuta di “ridurre” la materia a un
la meccanicismo (il che, peraltro, non
è neppure in Mapertuis). È anche evidente
che qui Diderot, avviandosi alla
chiusura del saggio, avverte la necessità
di attenuare il suo atteggiamento
anti-religioso, sia citando Dio e sia mostrandosi
contrario a un materialismo
rozzo.
Difficile dire quanto Diderot sia consapevole
che il dottor Baumann è in realtà Maupertuis,
il quale già sei anni prima
dell’apparire de l’Interpretazione della natura è emigrato a Berlino dove
muore sei anni dopo. In ogni caso pare evidente
il tentativo di Diderot di
apparire agnostico citando Dio in maniera
generica e criticando un ateismo per
nulla evidente. Si tratta di un’operazione
attenuativa di una posizione
radicale assai pericolosa non solo per la
perdita della libertà personale ma
anche per la propria incolumità. Poco più
avanti, al § 55, a proposito degli
impedimenti che rendono difficile l’esercizio
della vera filosofia, egli torna
a lamentare gli «ostacoli morali» [74]
che la libera ricerca e il libero pensiero
incontrano sul loro cammino.
L’allusione è alle opere di due religiosi,
l’abate de La Roche e l’abate
Lelarge; questi aveva attaccato Buffon in
un libro intitolato Lettres à un
Ameriquain pubblicato nel 1751. da ciò
la rampogna che inizia con le parole: «E
voi che usurpate il titolo di filosofi
e di persone intelligenti, e che non vi vergognate
di somigliare a quegli
insetti importuni […] » [75]
Veniamo ora all’importante § 56, che si
compone di una prima e di una seconda parte,
i cui titoli sono rispettivamente Sulle
cause e Sulle cause finali, e dove si delinea l’ontologia
diderotiana a conclusione del saggio. Il
primo brano si sviluppa attraverso una
professione di materialismo radicale e deterministico,
per chiudersi con il
sottintendimento dell’inesistenza di Dio.
Lo riportiamo per intero, anche
perché è un interessante esempio del procedere
diderotiano di sostenere una
tesi in maniera indiretta. È particolarmente
interessane cogliere già nell’incipit
la sottile ironia di un’apparente squalificazione
della filosofia (sue «vane
congetture») e
della ragione (sua «debole luce») per poi imporne la validità nel corso
dell’esposizione:
Se
ci si attenesse esclusivamente alle vane
congetture della filosofia, e alla debole
luce della nostra ragione, si potrebbe credere
che la catena delle cause non ha
mai avuto un inizio e che quella degli effetti
non avrà fine. Immaginate una
molecola spostata, essa non si è spostata
da sola; la causa del suo spostamento
ha un’altra causa; questa, a sua volta, un’altra,
e così di seguito, senza che
si possano trovare limiti naturali alla catena delle cause nel tempo che
li ha preceduti. [76]
La
filosofia, in base alla razionalità che la
guida, evidenzia nella dinamica
della materia una “catena delle cause” che
non rivela alcuna “causa prima” a
monte. D’altronde:
Immaginate
una molecola spostata, questo spostamento
avrà un effetto, e via di seguito,
senza che nel tempo futuro si possano trovare
limiti naturali agli
effetti. Lo spirito, spaventato da questi
progressi all’infinito delle più
insignificanti cause come dei più piccoli
effetti, rifugge da questa ipotesi, e
da alcune altre della stessa specie, solo
per il pregiudizio che nulla avvenga
oltre la portata dei nostri sensi, e che
ogni cosa abbia termine là dove non
arrivano più i nostri occhi: ma una delle
più importanti differenze fra
l’osservatore della natura e
l’interprete della natura è che quest’ultimo
parte dal punto in cui i sensi e
gli strumenti vengono meno all’altro: da
ciò che è, egli cerca di stabilire ciò
che deve ancora essere; dall’ordine delle
cose trae conclusioni astratte e
generali, che hanno per lui la stessa evidenza
delle verità sensibili e
particolari; s’innalza all’essenza stessa
dell’ordine, e vede che la coesistenza
pura e semplice di un essere sensibile e pensante e di un
concatenamento
qualunque di cause e di effetti non gli è
sufficiente per formulare un giudizio
assoluto. A questo punto si arresta; se facesse
un solo passo di più uscirebbe
dalla natura. [77]
Dunque,
l’interprete della natura deve ammettere
un’ininterrotta catena delle cause e
degli effetti che vada oltre i “pregiudizi
dello spirito” (ma qui assimilati al
semplicismo sensistico) poiché la “pura e
semplice coesistenza” di un’entità
“sensibile e pensante” esterna alla catena
delle cause e la stessa appaino
inconciliabili. La posizione di Diderot appare
qui perfettamente allineata su
quella di d’Holbach; in realtà, presa nel
suo complesso, la posizione
diderotiana è molto differente. Veniamo al
secondo brano (Sulle cause finali)
che si apre con una domanda e con un’abile
riconoscimento delle “verità
teologiche, ma dove Dio e Natura vengono
equivocamente sovrapposti:
Che
cosa siamo noi per spiegare i fini della
natura? Quando ci accorgeremo che, quasi
sempre, esaltiamo la sua saggezza a spese
della sua potenza? e che sottraiamo
alle sue risorse più di quanto possiamo mai
accordare alle sue vedute? Questo
modo di interpretarla non è valido, neppure
per la teologia naturale. Significa
sostituire all’opera di Dio la congettura
dell’uomo, significa far
dipendere dalla sorte di un’ipotesi la
più importante delle verità teologiche. [78]
La
“più importante” delle verità teologiche
è, come si vedrà subito dopo, che non
vi sono “cause finali”, cioè divine, ma a
ciò si arriva affermando che “le
congetture dell’uomo” (sia quelle dello spirito
e sia quelle basate sui sensi)
farebbero torto a un Dio (che si nega) non
riconoscendo alla sua opera (in
quanto Natura) la potenza (e non la saggezza!)
di determinare un “tutto” che si
manifesta come un’eterna “catena dell’essere”,
che escludendo un inizio esclude
un “iniziatore”. Proseguiamo:
Il
fenomeno più banale sarà sufficiente a mostrare
quanto sia contraria alla vera
scienza la ricerca di queste cause. […]
Il fisico, la cui professione è di istruire
e non di edificare, abbandonerà
dunque il perché e si occuperà solo del come. Il come si
ricava dagli esseri, il perché solo dal nostro intelletto; esso si
riferisce ai nostri sistemi; dipende dal
progresso delle nostre conoscenze.
Quante idee assurde, supposizioni false,
nozioni chimeriche in quegli inni che
alcuni temerari difensori delle cause finali
hanno osato comporre in onore del
Creatore! […] Anziché adorare l’Onnipotente
negli esseri stessi della natura,
si sono prosternati davanti ai fantasmi della
loro immaginazione.[79]
Fantasmi della
loro immaginazione o termini della dottrina?
E gli inni dei “temerari difensori
delle cause finali” composti “in onore del
Creatore” sarebbero lesivi di quale
essenza? Come si vede bene siamo di fronte
all’oscillare tra un apparente riconoscimento
e una reale negazione, dove l’uno si sovrappone
all’altro. Ma, come vedremo
subito, tale fede idolatra si estrinseca
in superstizione, con una certa
adesione allo spirito dello Spinoza del Tractatus teologico-politicus. Siamo allora tornati indietro al panteismo
deistico dei Pensieri filosofici del 1746? Nemmeno, perché l’ultimo
tocco è di marca perfettamente cristiana,
là dove si afferma: «L’uomo
attribuisce, come un merito, all’Eterno le
sue meschine vedute, e l’Eterno, che
dall’altro del suo trono lo ascolta e ne
conosce le intenzioni, accetta la sua
stupida lode e sorride alla vanità.» Un Eterno che è nel cielo, in trono, e
che «ascolta» e «conosce
le intenzioni» non è altri
che il Dio della Bibbia e dei Vangeli! Allora,
delle due l’una, o Diderot in quest’ultimo
scorcio de l’Interpretazione
della natura ha trovato
la sua “via di Damasco”, oppure, consapevole
dell’evidente ateismo delle sue
tesi, decide di controbilanciarlo con una
virata strumentale ed
opportunistica.
Il § 57 (Su alcuni pregiudizi) funge
da preparazione di quello successivo, nel
sottolineare che nel cosmo tutto è
mutevole e infinitamente differenziato nella
sua singolarità, sì ché non
esistono due foglie dello stesso verde [80].
Ma questa realtà si pone come l’esatto contrario
di ciò che recita il detto
popolare “nulla di nuovo avviene sotto il
cielo” [81],
poiché anzi, tutto è sempre assolutamente
nuovo in virtù della dinamicità della
materia e l’estrema mutevolezza si estrinseca
quale evoluzione continua
dell’essere. Infatti:
Se gli esseri, passando attraverso le più
impercettibili sfumature, si alterano successivamente,
il tempo, che non si
ferma, deve stabilire, alla lunga, fra le
forme che sono esistite nelle epoche più
remote, quelle che esistono oggi, e quelle
che esisteranno nei secoli più
distanti, la massima differenza; [82]
La
differenziazione tra gli enti è il senso
più autentico della natura, poiché
essa si distende attraverso «le
più impercettibili sfumature»,
ovvero in un pluralismo estremo e diversificato.
Il paragrafo chiude ribadendo
che, all’opposto, sono le opinioni degli
uomini a patire omologazione:
Si dice in morale quot capita tot sensus,
ma la verità è esattamente il contrario:
nulla infatti vi è di più comune delle
teste, e di più raro delle opinioni. Si afferma
in letteratura: non si deve discutere dei
gusti. Se con ciò si vuole intendere che non si
deve contestare a un uomo
che tale sia effettivamente il suo gusto,
la sentenza è semplicemente puerile.
Se invece si intende che nel gusto non vi
sia né del buono né del cattivo,
l’affermazione è falsa. Il filosofo esaminerà
severamente tutti quegli assiomi
della saggezza popolare. [83]
Che “nulla di
nuovo avviene sotto il cielo” sottolinea
il fatto che Dio ha creato un cosmo illo
tempore perfetto e immutabile, che le specie viventi
sono “fisse” e
determinate dalla volontà divina nella sua
onnipotenza e onniscienza: “nulla
può cambiare”. Diderot lo nega risolutamente,
e ci vuole un certo coraggio a
combattere sul fronte della « saggezza popolare
», sulla quale riposa la
maggior parte delle “credenze” profane, e
su quello della “dottrina della
fede”, il cogente dixit della Lettera Sacra. Perciò, diventa compito
primario del filosofo mettere a nudo l’inconsistenza
della prima e sottoporre
la seconda al tribunale della ragione.
L’ultimo paragrafo, il 58°, viene
intitolato da Diderot Questioni, e consta di una serie di riflessioni
sull’essere stesso della materia, con attenzione
particolare al mondo vivente.
Dovremo seguire passo passo l’esposizione,
che si apre con un’affermazione:
Vi è una sola maniera possibile per essere
omogeneo. Vi sono invece infinite maniere
possibili, una diversa dall’altra,
per essere eterogeneo. Che tutti gli esseri
della natura siano stati prodotti
con una materia perfettamente omogenea, mi
sembra altrettanto impossibile,
quanto lo sarebbe volerli rappresentati tutti
con un unico colore. Mi sembra
persino di intravedere che la diversità dei
fenomeni non può essere il risultato
di un’eterogeneità qualunque. Chiamerò dunque
elementi le differenti
materie eterogenee necessarie alla generale
produzione dei fenomeni della
natura; e chiamo natura il risultato generale attuale, o i risultati
generali successivi della combinazione degli
elementi. [84]
Si tratta del
passo più importante di tutto il libro, quello
dove Diderot, uscendo da una
certa oscurità, definisce il suo punto di
vista, che è qui chiaro e
inequivocabile. Siamo lontani sia dal deismo
e sia dal panteismo, ed anche da
ogni monismo. La weltanschauung diderotiana si esplicita qui come un
materialismo pluralistico che presuppone
la natura solo come il “risultato”
dell’azione costruttiva degli elementi.
Essi, in quanto tali, sono i fondamenti della
differenza e della
pluralità, infatti: «Fra i vari elementi
devono intercorrere differenze
essenziali; altrimenti tutto avrebbe potuto
nascere dall’omogeneità, poiché
tutto vi potrebbe ritornare.» Il punto è
importante: gli elementi devono portare,
ognuno nella sua singolarità, dei fattori-base
che non solo negano un’omogeneità monistica
ma la rendono impossibile come
esito futuro dell’evoluzione cosmica. La
“divisione” è speculare alla
“combinazione, poiché: «C’è, c’è stata, o
ci sarà una combinazione naturale o
una combinazione artificiale, nella quale
un elemento è, o è stato, o sarà
portato alla sua massima divisione possibile.»
Egli avanza qui due tesi
importanti: la prima è la possibilità sia
di combinazioni e sia di suddivisioni
“artificiali” (dell’arte) operate dalla scienza
sperimentale, la seconda è che
gli elementi sono ulteriormente divisibili in loro costituenti
ancora
più elementari (una sorta di profezia che
si avvererà nel XX secolo con la
scoperta delle particelle subnucleari). Queste
particelle Diderot le chiama (creando
qualche confusione) “molecole di un elemento”;
ma occorre notare che altrove
viene fatta una distinzione tra “molecole
elementari” e “molecole aggregative”
che dovremo tenere a mente. Non è chiaro
il motivo per cui egli non chiami le
prime “atomi” e le seconde “molecole”, senza
alcun’altra aggettivazione, il ché
avrebbe semplificato il discorso, ma ci tocca
seguirlo in questa sua
terminologia impropria:
La
molecola di un elemento, in questo stato
di estrema divisione, è indivisibile,
di un’indivisibilità assoluta: una divisione
ulteriore non rientrando più nelle
leggi della natura e superando d’altronde
le forze dell’arte, sarebbe infatti
solo un’operazione intellettuale. Poiché,
per materie essenzialmente
eterogenee, lo stato di estrema divisione
possibile, nella natura o per mezzo
dell’arte, non è, secondo ogni apparenza,
lo stesso, ne consegue che vi sono
molecole essenzialmente diverse per la loro
massa e, tuttavia, assolutamente
indivisibili in se stesse. [85]
Non quindi la
massa che determina la natura “atomica”,
ovvero di indivisibilità, poiché è
“essenzialmente” che ogni molecola elementare
è se stessa e non altro. In altre
parole è proprio l’essenza che fa la differenza nella pluralità. E
tuttavia, poiché tutto ciò si trova ad un
livello dell’essere al quale (siamo a
tre secoli fa) non è possibile giungere nemmeno
“con l’arte”, ne deriva la
nostra ignoranza. Quindi la precisazione:
Quante sono le materie assolutamente eterogenee
e elementari? Lo ignoriamo. Quali sono le
differenze essenziali delle materie
che noi consideriamo come assolutamente eterogenee
o elementari? Lo ignoriamo.
Fino a qual punto, nelle produzioni dell’arte
come nelle opere della natura,
può essere portata la divisione di una materia
elementare? Lo ignoriamo …
eccetera, eccetera, eccetera. Ho unito le
combinazioni dell’arte e quelle della
natura, perché, tra un’infinità di fatti
che ignoriamo e che non conosceremo
mai, ci rimane nascosto anche questo: se
la divisione di una materia elementare
non sia stata, non sia, o non sarà
portata più oltre in qualche operazione dell’arte,
di quanto non lo sia stata,
non lo è o non lo sarà in nessuna combinazione
della natura abbandonata a se
stessa. E, dalla prima delle questioni che
seguiranno si vedrà perché mai in
qualcuna delle mie proposizioni abbia fatto
entrare le nozioni del passato, del
presente e dell’avvenire; e perché ho introdotto
l’idea di successione nella
definizione, da me data, della natura. [86]
L’idea di
“successione” implica la dimensione storica
dell’essere del cosmo, ovvero una
cosmogonia evolutiva, la sua evoluzione nel
tempo e la possibilità futura che
l’uomo, con la sua arte, possa in qualche
modo determinarla, nel bene o nel
male. L’idea che una natura “abbandonata
a se stessa” potrebbe in futuro non
esserlo più, e quindi venir violata nella
sua essenza dall’uomo è un’idea priva
di fondamento ieri come oggi, ma rivela nella
mente di Diderot l’idea del
“futuribile”. Un’idea che non è mai peregrina
in proiezione avveniristica, poiché
può divenire motore di progresso. Se oggi
noi sappiamo ciò che l’homo
sapiens è riuscito a fare con la sua scienza e la
sua tecnologia in tre
secoli, nessuno può dire ciò che potrà fare
esso (o una nuova specie homo)
tra trenta o trecento secoli. Il passo citato
ha anche un aspetto deontologico
ed etico di grande rilievo, infatti si coglie
sin dall’inizio che a parlare non
è un metafisico ma un filosofo. Il metafisico
direbbe che “sa” (perché
“dimostra” logicamente e dialetticamente
ciò che “sa e predica”) mentre il
filosofo è tenuto a dire che “non sa” ciò
che non può provare sperimentalmente.
Ma in quest’umiltà e onestà intellettuale
vi è prefigurato il grandioso
scenario ontico che la fisica contemporanea
metterà in luce in termini tutto
sommato vicini a quanto qui ipotizzato da
Diderot, che conclude l’esposizione
della sua Interpretazione con 15 proposizioni conclusive delle quali
vedremo le più importanti. Cominciamo ad
esaminare l’incipit della
prima: «Se non si concatenano i fenomeni
l’uno con l’altro, non si fa
filosofia.» Un’affermazione che pone chiaramente
la connessione “gnoseologica”
che conduce alla conoscenza e non già l’ipostasi
“ontologica” di un Tutto che
connette le sue parti. Il seguito:
I fenomeni potrebbero essere tutti concatenati,
sicché lo stato di ciascuno di essi potrebbe
essere senza permanenza. Ma se lo
stato degli esseri è in una perpetua vicissitudine,
se la natura è ancora
all’opera, nonostante la catena che lega
i fenomeni, non vi è filosofia. Tutta
la nostra scienza naturale diventa transitoria
come le parole. Ciò che noi
consideriamo come storia della natura non
è altro che la storia incompletissima
di un istante. Domando, dunque, se i metalli
sono sempre stati e sempre saranno
come attualmente sono, se le piante sono
sempre state e sempre saranno come
attualmente sono; se gli animali sono sempre
stati e saranno come attualmente
sono, eccetera. Dopo aver meditato profondamente
su certi fenomeni, un dubbio
che forse vi si perdonerebbe, o scettici,
non è già se il mondo sia stato
creato, ma se esso, sia ora, come è stato
e come sarà. [87]
Il problema
ontologico ed insieme gnoseologico qui posyto
è se il cosmo, in quanto insieme
nominale di “parti reali” con una loro essenza
e una loro funzione differente e
specifica, è in evoluzione o no. In
altri termini: se esso è essere immutabile
o divenire mutevole. Il punto
di vista “creazionale” della religione viene
qui sostituito con quello
“deterministico” della metafisica, assai
più cogente e pertinente col problema
posto. Ma ciò, come rileva Pietro Omodeo,
implica un ricollegamento del
pensiero illuministico a quello presocratico
(specialmente di Leucippo) come
premessa ineludibile di una concezione evoluzionistica
che deve saltare di pié
pari venti secoli di idealismo platonico,
aristotelico e cristiano [88]
per ritornare al materialismo atomistico.
Cominciamo col seguire attentamente come
Diderot pone il problema nella premessa della
proposizione 2., dove domanda :
«Nei regni animale e vegetale, un individuo
comincia, per così dire, si
accresce, dura, deperisce e trapassa. Ma
non potrebbe avvenire la stessa cosa
per le specie intere?» Enunciazione di una
vera e propria ipotesi
evoluzionistica, seguita da una serie di
considerazioni collaterali probatorie
come per esempio quella del “sospetto” che
gli
elementi si siano riuniti « perché era possibile
che ciò avvenisse »,
non già perché un Dio-Volontà lo abbia progettato
o perché un Dio-Necessità
abbia dovuto determinarlo a priori. Così,
tra qualità perdute ed acquistate ci
sarà anche ciò che «scomparirà per sempre
dalla natura » e ciò che «continuerà
ad esistervi, ma sotto una forma e con
facoltà completamente diverse » Queste, afferma
ironicamente Diderot con
un’astuta captatio benevolentiae, non sono che ipotesi produttrici di
“sbandamenti e fatiche” intellettuali che
(grazie a Dio!) non sono affatto
necessarie, infatti:
La religione ci risparmia molti sbandamenti
e
fatiche. Se essa non ci avesse illuminato
sull’origine del mondo e sul sistema
universale degli esseri, quante ipotesi diverse
non saremmo stati tentati di assumere
per svelare il segreto della natura?
Siccome queste ipotesi sarebbero state tutte
egualmente false, ci
sarebbero sembrate tutte, quasi nella stessa
misura, verosimili. [89]
Un inno alla
religione, quindi, che ci ha fortunatamente
“illuminato” tenendovi lontani da
tali “false” ipotesi evoluzionistiche! Come
si vede Diderot, a differenza del
modo di procedere del d’Holbach “arrabbiato”
la butta sull’ironia, ma un’ironia
così controllata e studiata che al lettore
disattento produce un effetto e quello
attento l’opposto. Il gioco probabilistico
a cui Diderot si sottopone è che “chi deve intendere” intenda e chi
“non
si deve accorgere” del senso riposto del
discorso non intenda e se ne stia
tranquillo. Vediamo ora la breve conclusione
della proposizione 2.: «La
questione: perché esiste qualche cosa è la più imbarazzante fra quelle
che possa mai proporsi alla filosofia; e
solo la rivelazione può rispondere ad
essa.» La Rivelazione fornisce “la
risposta” ma la questione ontologica fondamentale
rimane aperta e
“ineludibile”!
Nella proposizione 3. si pone la possibile
divisione della natura in “materia morta”
e “materia viva” e alla 4. ci si
domanda quali sono le reali differenza tra
le due. Ed ecco alla 5. un’ipotesi
evoluzionistico-vitalistica: «ciò che chiamiamo
materia vivente non sarebbe
forse solo una materia che si muove da se
stessa? E ciò che chiamiamo una
materia morta non sarebbe una materia che
può essere mossa da un’altra
materia?» [90] La
seconda risposta è evidentemente quella “meccanicistica”,
che Diderot vuole
combattere, da ciò le proposizioni seguenti.
La 6.: «Se la materia vivente è
una materia che si muove da se stessa, come
può cessar di muoversi senza
morire?» e inoltre, 7., «Se esistono una
materia vivente e una materia morta di
per se stesse, questi due principi saranno
sufficienti per la produzione
generale di tutte le forme e di tutti i fenomeni?
» E ancora, 8., «[…] se una
molecola vivente si unisce a una molecola
di materia morta, il risultato sarà
vivente o morto? » Ulteriori sette proposizioni-domande
proseguono su questo
tono, sino alla nota conclusiva, di tono
scettico e nello stesso tempo
pragmatico. Afferma Diderot: «poiché, per
un verso, “il mondo mi sembra molto
vecchio”, e per un altro “la terra mi pare
nata solo ieri” gli uomini “se
fossero saggi, si dedicherebbero finalmente
a ricerche relative al loro
benessere, o, al più presto, risponderebbero
alle mie futili questioni solo fra
mille anni”, oppure: “non si degnerebbero
mai di rispondermi.» [91]
Il retorico depotenziamento intellettuale
delle “futili questioni” ontologiche gli
consente di abbassare di tono le sue ipotesi-tesi
e di rientrare
nell’ortodossia di un’utile “doppia verità”
alla quale si sono attenuti i
pensatori illuministi per evitare la censura
religiosa.
I Principi filosofici sulla materia e il
movimento costituiscono un breve scritto che Diderot
elabora posteriormente
a l’Intepretazione della natura e che compare postumo ad opera di
Naigeon, uno dei più fedeli collaboratori
dell’Encyclopedie. Essi possono
esser considerati complementari a l’Interpretazione nel teorizzare che
ogni ente dell’universo è sia in movimento
nello spazio (in translazione) e sia
in nisu. Il concetto di nisus, come tensione o sforzo della
materia ad evolvere è correlato del movimento e da non confondere con
quello di conatus (o anche impetus) espresso dagli ilozoisti
rinascimentali e da Spinoza, che riprende
quello stoico di ormé, come
tendenza “conservativa di ogni esser vivente.
Ciò perché in Diderot essa è “evolutiva”,
e verrà poi ripresa equivocamente dal panteismo
romantico nel concetto di nisus
formativus, in Goethe, Coleridge e Schelling. Fin dall’inizio
Diderot
afferma:
Ciò che vi è di assolutamente sicuro è che
tutti
i corpi gravitano gli uni sugli altri, che
tutte le particelle dei corpi
gravitano le une sulle altre; e che in questo
universo tutto è in traslazione
oppure in nisu, ovvero in traslazione e in nisu insieme. [92]
Coloro che non
si rendono conto di ciò è perché «considerano
la materia come omogenea», perché «fanno astrazione da tutte le qualità
che le sono essenziali » e perché «la considerano
inalterabile» [93].
Il mancato riconoscimento dell’eterogeneità
e della dinamicità della materia,
tipico della metafisica monistica, è esiziale
per la conoscenza. Infatti:
Il corpo, secondo alcuni filosofi, è di per
se
stesso senza azione e senza forza; si tratta di un
tremendo errore, del tutto contrario a qualsiasi
fisica e chimica solidamente
fondate: il corpo, di per se stesso, per
la natura delle sue qualità essenziali,
sia che lo si consideri in molecole sia che
lo consideri in massa, è pieno di
azione e di forza. [94]
A questa
considerazione Diderot fa seguire un asserto
importante in antitesi a ciò che
suggeriscono i sensi e la nozione comune:
«La pesantezza non è una tendenza
alla quiete; bensì una tendenza al movimento locale.»
E ancora: «La forza
che agisce sulla molecola si esaurisce; la
forza intima della molecola non si
esaurisce: è immutabile, eterna. Queste due
forze possono produrre due tipi di nisus;
il primo un nisus che cessa, i secondo un
nisus che non cessa mai. È dunque
assurdo dire che sia propria della materia
un’opposizione reale al movimento.»
Ciò che viene qui messo in discussione è
il concetto metafisico che considera
la materia “inerte” e messa in moto o vivificata
o dallo spirito o da un’anima,
concetto teologico ancora fortemente radicato
nella cultura del Settecento.
Viene poi enunciato il seguente principio
fisico:
La quantità di forza è costante nella natura;
ma
la somma del nisus, e la somma delle traslazioni sono variabili.
Più la
somma dei nisus è grande, più la somma delle transazioni
è piccola; e ,
reciprocamente, più la somma delle translazioni
è grande, più la somma dei nisus
è piccola. L’incendio di una città accresce
all’improvviso, in quantità
prodigiosa, la somma delle translazioni.
[95]
Per un sistema
fisico dato la quantità di nisus (energia potenziale) è inversamente
proporzionale alla quantità di moto (energia
dispiegata). Non si tratta di una novità
per la fisica del tempo, ma sono pochi i
pensatori settecenteschi che ne fanno
materia filosofica in modo così chiaro.
E più oltre:
Ma ora voglio fermare la mia attenzione sul
generale complesso dei corpi: ogni cosa mi
si presenta in azione e in reazione;
che nella natura esiste un’infinità di elementi
diversi; che ciascuno di questi
elementi, per la sua stessa diversità, ha
una propria forza particolare,
innata, immutabile, eterna, indistruttibile;
e che tutte queste forze interne
al corpo agiscono fuori del corpo: di qui
ha origine nell’universo, il
movimento o meglio ancora la fermentazione
generale. [96]
La realtà
fondamentale e generale del divenire è qui evidenziata con forza e il
concetto di fermentazione come distruzione/costruzione del mondo
organico è concetto molto ricco di significati
ontologici. Ed infine un colpo
finale ad ogni tipo di teologia: «L’ipotesi
di un essere qualsiasi, posto al di
fuori dell’universo materiale, è impossibile.»
[97]
Sotto il titolo complessivo di Il sogno
di d’Alembert si qualifica l’insieme di tre brani connessi
che appaiono nel
1769. Il titolo suddetto in realtà compete
solo al secondo brano della serie,
il più lungo e complesso, mentre gli altri
due si intitolano, il primo, Colloquio
fra il signor d’Alembert e il signor Diderot, e il terzo Seguito del
colloquio. Nel suo
complesso si tratta di un’opera molto importante
per il suo contenuto
ontologico. L’inizio è una sorta di riassunto
di quanto già espresso,
specialmente nei Principi filosofici sulla materia e il movimento, ma
presto la tematica si sposta sul campo biologico,
per ribadire sia i concetti
già espressi sulla materia e sulla sua fenomenologia,
sia sul generale divenire
di essa sia sulla formazione dell’animale
per epigenesi e non per preformazione.
Quest’ultimo punto di vista viene ribadito
con forza là dove il personaggio
Diderot, in risposta a un d’Alembert che
parrebbe preferire la tesi
“preformista”, afferma:
Se la questione della priorità dell’uovo
sulla
gallina o della gallina sull’uovo vi mette
in difficoltà, è perché supponete
che gli animali siano stati in origine ciò
che sono oggi. Che pazzia! Non
sappiamo meglio ciò che sono stati di quanto
sappiamo che cosa diventeranno. [98]
La
storicizzazione del fenomeno della vita implica
l’ammissione di una mutazione
genetica e quella dell’evoluzione biologica.
Su questo punto Diderot ha le idee
chiare nell’ammettere l’ignoranza di ciò
che è stato e di ciò che sarà nella
sfera del vivente, ma poi passa ad entrare
all’interno di essa stabilendo
un’analogia tra le fibre sensitive che animano
i nostri organi e quelle sonore
degli strumenti musicali. Come la vibrazione
di una di queste mette in
risonanza altre corde così una fibra nervosa
coinvolge altre fibre nella sua
vibrazione [99].
All’obiezione di d’Alembert che il pensiero
(del filosofo) considerato come
“vibrazione” si distinguerebbe dall’organo
che lo produce Diderot risponde: «Lo
strumento filosofo è sensibile, è nello stesso
tempo il musicista e lo
strumento. In quanto sensibile ha la coscienza
del suono che rende momento per
momento; in quanto animale, ne ha la memoria;
questa facoltà organica
collegando i suoni dentro di lui vi produce
e conserva la melodia.» [100]
L’analogia con uno strumento musicale, il
clavicembalo, diventa interessante
nel momento in cui Diderot, alla domanda
dell’interlocutore circa un
clavicembalo che potendo nutrirsi e riprodursi
sarebbe simile all’animale,
afferma:
Non
c’è dubbio. Che altro pensate che sia un
fringuello, un usignolo, un musicista,
un uomo? E quale altra differenza ci trovate,
fra un canarino e un organetto di
quelli che insegnano ai canarini nuove melodie?
Vedete quest’uovo? Con questo
si tirano giù tutte le scuole di teologia
e tutti i templi della terra. Che
cos’è quest’uovo? Una massa insensibile prima
che il germe vi sia introdotto; e
dopo che il germe vi è stato introdotto,
che cos’è ancora? Una massa
insensibile, perché a sua volta quel germe
non è a sua volta che un fluido
inerte e grossolano. Come farà questa massa
a passare a una diversa
organizzazione, alla sensibilità, alla vita?
Con il calore. Chi vi produrrà il
calore? Il movimento. Quali saranno gli effetti
graduali del movimento? […]
All’inizio è un punto che oscilla, una rete
che si estende e si colora; carne
che si forma; un becco; mozziconi d’ala,
occhi, zampe che appaiono, un
materiale giallastro che si divide e produce
degli intestini, è un animale.
Quest’animale si muove, s’agita, grida, ne
sento le grida attraverso il guscio;
si copre di peluria; vede; il peso del capino,
che oscilla, porta il becco a
colpire ripetutamente la parete interna della
sua prigione, ecco è rotta; esce,
cammina, vola, si irrita, fugge, s’avvicina,
si lamenta, soffre, ama, desidera,
gode; possiede tutte le vostre affezioni,
tutte le vostre azioni anche lui le
fa. Vorreste sostenere con Descartes che
è una semplice macchina imitativa? I
bambini vi prenderanno in giro, e i filosofi
vi replicheranno che se questa è
una macchina anche voi lo siete. Se riconoscerete
che fra l’animale e voi non
c’è altra differenza che quella dell’organizzazione,
mostrerete buon senso e
ragionevolezza, sarete in buona fede; ma
si dovrà concludere contro di voi che
con una materia inerte, disposta in un certo
modo, impregnata di un’altra
materia inerte, con il calore e il movimento
si ottiene sensibilità, vita,
memoria, coscienza, passioni, pensiero. [101]
Naturalmente
Diderot sbaglia nella sua semplificazione
del processo genetico, ma a noi
interessa qui cogliere quale sia il suo obbiettivo:
colpire la tesi preformista
e sottolineare come sia l’”organizzazione”
della materia il fattore dirimente
sulla tipologia dell’organismo vivente. Il
movimento e il nisus, che
avevamo visto caratterizzare la materia in
generale si estrinsecano in quella
vivente come “sensibilità” quale «proprietà
generale della materia o prodotto
dell’organizzazione.» [102]
All’obiezione di d’Alembert che la sensibilità
potrebbe essere incompatibile
con la materia si risponde:
E come sapete che la sensibilità è
essenzialmente incompatibile con la materia,
voi che non conoscete l’essenza
proprio di niente, né della materia né della
sensibilità? Riuscite a concepire
con più chiarezza la natura del moto, la
sua esistenza in un corpo e il suo
comunicarsi da un corpo a un altro? [103]
Ma d’Alembert
replica: «[…] vedo che la sensibilità è una
qualità semplice, una, indivisibile
e incompatibile con un supporto o soggetto
divisibile.» E Diderot:
Vaniloqui metafisico teologici. Ma come,
non
vedete forse che tutte le qualità, tutte
le forme sensibili di cui si riveste
la materia sono essenzialmente indivisibili?
Non c’è più o meno
impenetrabilità; c’è la metà di un corpo
rotondo, ma non c’è la metà della
rotondità; c’è più o meno moto, ma non c’è
moto a mezzo, più che moto; non ce
n’è la metà, né un terzo, né un quarto di
testa, orecchio, dito, come non c’è
la metà, il terzo, il quarto di pensiero.
[104]
Il matematico è
incalzato sul suo terreno, i numeri; ma subito
il Nostro torna all’ontologia:
Se nell’universo non c’è una molecola
[elementare] che somigli a un'altra, in una
singola molecola non c’è un punto
che somiglia a un altro punto, allora ammettetelo,
l’atomo stesso è dotato di
una qualità, di una forma indivisibile; ammettete
che la divisione è
incompatibile con le essenze delle forme,
giacché le distrugge. Siate fisico, e
ammettete che un effetto si produce quando
lo vedete, anche se non potete
spiegare il legame tra la causa e l’effetto.
Siate logico, e non sostituite a
una causa che c’è e che spiega tutto, un’alta
causa che non si riesce a
concepire, il cui legame con l’effetto si
concepisce ancora meno, che genera
una moltitudine infinita di difficoltà e
che non ne risolve nessuna. [105]
Quale che
possa essere il nostro giudizio sul discorso
diderotiano, non privo qui di un
po’ di saccenza, ciò che ci interessa cogliere
è la circoscrizione del discorso
ontologico a un'unica sostanza generale dell’universo:
la materia, espressa da
una pluralità di elementi e da quella dei corpi che questi assemblano
in
differenti “organizzazioni”. Fin qui il colloquio. Veniamo ora al sogno.
I personaggi sono tre: Mademoiselle de
l’Espinasse, il dottor Bordeu e d’Alembert.
L’impianto letterario non é privo
di effetti scenici; i due primi interlocutori
parlano del terzo e della sua
notte agitata. La de l’Espinasse è stata
testimone del vaneggiamento notturno
del grande matematico e lo racconta a Bordeu,
il teorico della tesi
materialistico-vitalistico-evoluzionistica
espressa nel sogno e inventore della
metafora biologica dell’alveare e delle api.
Ci limiteremo a citare alcuni
passaggi del sogno nella testimonianza della
de l’Espinasse:
Un punto vivente … No, mi sbaglio. Niente
all’inizio, poi un punto vivente. A questo
punto vivente se ne appiccica un
altro, ancora un altro; e per questo susseguirsi
di applicazioni successive
risulta un essere uno, poiché sono pur uno,
io, non potrei dubitarne … (dicendo
questo, si tastava dappertutto) … ma come
si è fatta, una tale unità? […] Come
una goccia di mercurio si fonde a un'altra
goccia di mercurio, una molecola sensibile e vivente
si
fonde in un’altra molecola sensibile e vivente
[…] La sensibilità diventa comune alla massa
comune … […] Il contatto di
due molecole omogenee, perfettamente omogenee
forma la continuità .. è il caso
dell’unione, della coesione, della combinazione,
dell’identità più completa che
si possa immaginare … […] Dopo questo preambolo
s’è messo a gridare, signorina
de l’Espinasse! signorina de l’Espinasse!
– Che cosa volete? – Avete visto mai
uno sciame di api fuggir fuori dall’alveare?
… Il mondo o la massa generale
della materia è l’alveare … [106]
La metafora
biologica dell’alveare è diventata cosmica
e Diderot attraverso l’espediente
del sogno dell’amico trasferisce il processo
di formazione dell’organismo
vivente in una cosmogonia immaginaria che
si fa proposta teorica. Dopo aver
concluso il racconto naturalmente la signorina
dirà che non ci ha capito nulla
e il dottore che ha capito tutto e che il
sogno «è bellissimo». Egli spiega
quindi che il dormiente ha sognato in realtà
l’organismo animale e che il
rapporto che sta tra le api sciamate a fare
grappolo sull’albero e le stesse
api nell’alveare sta nel fatto che nel primo
caso sono “parti” disassemblate e
nel secondo un “tutto” organico. Bordeu si
diffonde poi a spiegare meglio la
sua teoria sino al risveglio di d’Alembert,
che ora razionalizza il
vaneggiamento notturno nei seguenti termini:
Sono come sono, perché necessariamente tale
ho
dovuto essere. Cambiate il tutto, e cambiate
me necessariamente; ma il tutto
cambia senza sosta … L’uomo non è che un
effetto comune; il mostro un effetto
raro; tutt’e due ugualmente naturali, ugualmente
necessari, ugualmente
nell’ordine universale e generale … E che
cos c’è di stupefacente in questo? …
tutti gli esseri circolano gli uni entro
gli altri, di conseguenza tutte le
specie … tutto è in perpetuo flusso …
Ogni animale è più o meno uomo; ogni minerale
è più o meno pianta; ogni pianta
è più o meno animale. Non c’è nulla di
preciso in natura. […] Ogni cosa è più o
meno un’altra cosa qualunque, più o
meno terra, più o meno acqua, più o meno
aria, più o meno fuoco; più o meno di un regno o di un altro. Dunque nulla
è essenzialmente un essere particolare. […]
C’è un solo atomo in natura
rigorosamente simile a un altro atomo? …
No … Non convenite che tutto è
collegato in natura e che è impossibile che
ci sia un vuoto lungo la catena?
Dunque che cosa intendete con i vostri individui?
Non ce n’è nessuno, no, non
ce n’è nessuno … Non c’è che un solo grande
individuo, è il tutto. [107]
La “catena
dell’essere” è qui enunciata in modo chiaro.
Si tratta sì di una forma di
olismo, ma molto particolare, lontanissimo
dalla sua canonica “perfezione”
teologica. Anche il mostro, nella sua rarità,
è necessario al tutto e ad esso
funzionale, poiché nel “cambiamento” continuo
e diffuso anch’esso ha dignità
ontologica, né più e né meno di ogni altra “presenza”. Ogni presenza
trapassa in un'altra, « tutto è in
perpetuo flusso » poiché «Non c’è nulla di
preciso in natura.» Ma se si
segue attentamente l’esposizione frase per
frase si coglierà una contraddizione
fondamentale tra l’asserzione che ogni atomo
ha una sua individualità, in
quanto dissimile da ogni altro, e che, all’opposto,
non ci sono individui ma un
solo grande individuo: il tutto. Abbiamo
qui un ulteriore esempio della
problematicità del filosofare diderotiano,
così differente da quello del suo grande
amico d’Holbach. Poiché al Nostro non interessa
costruire un sistema teorico
compatto e coerente della realtà, ma porre
il problema di quale “potrebbe”,
ragionevolmente, essere un modello interpretativo
di essa.
Ma seguiamo ancora per un po’ il discorso
del d’Alembert-Diderot:
Che cos’è un essere? … La somma di un certo
numero di tendenze … […] E la vita? … La
vita, una sequenza di azioni e di
reazioni … vivo, io agisco e reagisco in
massa … morto, agisco e reagisco in
molecole. [108]
Dunque
l’”essere” non è altro che un “tendere” (si
ricordi il nisus) e il
vivere come “ massa” o come “molecola” è
la stessa cosa. Abbiamo qui
l’enunciazione di una teoria quasi ilozoistica
che elimina ogni differenza tra
la materia morta e la materia vivente. Tutto
è vivente e tendente ad evolvere
verso la complessità per poi ritornare alla
semplicità elementare. La catena
dell’essere per in verso si svolge verso
un futuro in senso evoluzionistico e
indeterministico [109],
ma per altro ruota intorno a un pignone in
senso olistico e deterministico.
Diderot raggiunge qui il più alto grado di
problematicità e nello stesso tempo
ci rivela il senso più profondo della sua
riflessione aporetica. E ancora:
Nascere, vivere
e passare, è cambiare di forma … Che importa
una forma o un’altra. Ogni
forma possiede bene e male che le sono propri.
Dall’elefante fino al pidocchio
… dal pidocchio alla molecola sensibile e
vivente, l’origine di tutto, non un
puntino in natura che non soffra o che non
goda. [110]
È evidente che
l’affermazione « non un puntino in natura
che non soffra o che non goda » è una
provocazione, ma proprio in essa si coglie
il meglio del Nostro: il suo
coraggio teoretico, la sua libertà intellettuale,
la sua anticonvenzionalità e
la sua problematicità. Una problematicità
che domanda più che rispondere, come
la considerazione messa in bocca a Bordeu:
«Ecco una filosofia altissima; tutta
ipotetica, per ora, ma credo che più le conoscenze
dell’uomo faranno progressi,
più la si verificherà.» In questa frase del
biologo (e suggeritore ontologico)
vi è il senso più profondo della filosofia
diderotiana, che vede la
sperimentazione scientifica offrire al filosofo
il materiale su cui ragionare,
suggerendogli un via interpretativa più ampia.
Ma le ipotesi del filosofo, alla
fine, debbono ritornare alla sperimentazione
per cercare verifica, altrimenti
sono solo vane elucubrazioni. Tutto il conoscere
vero si gioca quindi nel
binomio ipotesi/verifica, e al di fuori di
esso non esiste alcuna forma di
conoscenza valida.
Che quella del sognatore sia solo l’ipotesi
estensiva di una realtà ristretta (quella
dell’organismo animale) quale
estrapolazione ad una dimensione cosmica
di ciò che è biologico è compito dello
scienziato ridimensionare per ricondurre
il frutto dell’immaginazione al “dato”
reale verificabile. Bordeu si dilungherà
infatti in una descrizione di
quell’embriogenesi che conosce bene, partendo
con un «All’inizio non eravate
nulla. Foste, cominciando, un punto impercettibile,
formato da molecole ancor
più piccole sparse nel sangue, la linfa di
vostro padre o di vostra madre; quel
punto divenne un filo, poi un fascio di fili.
[…] il fascio è un sistema
puramente sensibile […] Ma quella sensibilità
pura e semplice, quel tatto si
diversifica attraverso gli organi emanati
da ciascuno dei fuscelli; un fuscello
forma così un orecchio, dà la nascita a una
specie di tatto che chiamiamo
rumore o suono; […] un quarto che forma un occhio dà la nascita
a
una quarta specie di tatto che noi chiamiamo
colore.» [111]
Fin qui l’ontogenesi animale normale, ma
uno dei problemi più seri per la teodicea
e per la sua supposizione della
perfezione della Creazione sono sempre state
le mostruosità, la loro
“anormalità” richiedente una spiegazione
e una giustificazione che la teologia
ha sempre faticato a dare. Com’è noto è l’indeterminazione
biologica a renderle
possibili, ma in contesto culturale ancora
legato alla Provvidenza o alla
Necessità non c’era posto per il caso, sicché
il dibattito sul tema assume nel
Settecento un rilievo non trascurabile in
coscienze post-cristiane. Il discorso
cade nel Sogno sull’argomento quando Bordeu invita la de
l’Espinasse a
una nuova riflessione embriologica sulla
possibilità delle mancanze e delle
eccedenze nella formazione dei tessuti organici
(i fuscelli): «Fate con il
pensiero quello che fa talora la natura:
mutilate il fascio di uno dei
fuscelli: per esempio togliete il fuscello
che
formerà gli occhi, che cosa credete che succeda?»
La Signorina risponde
che l’animale potrebbe nascere cieco, ma
Bordeu aggiunge che potrebbe nascere
orbo, ed in tal caso ecco spiegata la mitica
figure del Ciclope; infatti, vi
sono persone che nascono con un occhio solo
come esito di una carezza
ontogenetica e il dottore aggiunge «Tanto
che posso farvene vedere uno quando
volete. » [112]
Bordeu prosegue con l’esercizio mentale dichiarando
che sono possibili animali
senza naso e senza un orecchio e che l’anatomista
spesso scopre (dissezionando)
che mancano frenuli (elementi di collegamento)
olfattivi o auditivi. Possibili,
infine, animali senza piedi, senza mani ed
anche senza testa, che muoiono
perlopiù molto presto, ma che in qualche
maniera “sono stati”. Ma anche il
contrario è possibile:
Duplicate qualcuno dei fuscelli, e l’animale
avrà due teste, quattro occhi, quattro orecchie,
tre testicoli, tre piedi,
quattro braccia, sei dita per ogni mano.
Danneggiate i fuscelli del vostro
fascio, e gli organi risulteranno fuori posto:
la testa occuperà il centro del
petto, i polmoni saranno a sinistra, il cuore
a destra. Incollate insieme due
fuscelli, e gli organi si confonderanno.
Le braccia si attaccheranno al corpo;
le cosce, le gambe e i piedi si uniranno,
e avrete ogni sorta di mostri
immaginabili. [113]
La teratogenesi
descritta da Bordeu è impressionante e sottintende
anche la possibilità di quell’“ingegneria
genetica” che tanto inquieta e nello stesso
tempo rende speranzosi noi. Il
dottore parla di casi «innumerevoli» e cita
un morto di recente all’ospedale
della Charité, un venticinquenne che faceva
il carpentiere, che aveva viscere,
cuore, fegato, milza e pancreas fuori posto,
ed i reni addossati alle vertebre
lombari; degenerazioni di origine
genetica che possono ricomparire, a
volte, dopo due o tre generazioni [114].
All’ “idea pazza” della de l’Espinasse che:
«L’uomo forse non è che il mostro della
donna, o la donna il mostro dell’uomo.» Bordeu
replica che, in fondo, maschio e
femmina sono fatti nello stesso modo con
piccole varianti, spesso in termini di
introversione o estroversione, ma tali da
determinare funzioni sessuali opposte
e da rendere esteriormente l’uno e l’altra
molto differenti a partire da una
sostanziale identità fetale iniziale [115].
16.4 Il problema etico
Relativamente all’etica di Diderot sono i
dialoghi filosofici, includendovi abbozzi
di romanzi ed opere teatrali, a rivestire
particolare interesse, poiché sono i testi
dove la problematicità si fa più
evidente attraverso la dialettica. La difficoltà
interpretativa sta nel capire in
quale misura lo scrivente aderisca ad un
certo punto di vista o di quanto se ne
allontani a seconda dei personaggi e delle
situazioni. In realtà egli è sempre
partecipe del pensiero dei suoi personaggi
e organizza il loro
confronto/contrasto per mettere in scena
un evento intellettuale che pone e
svolge un certo tema. Iniziamo dal Seguito, la terza sezione del Sogno
di d’Alembert che conclude il trittico, dove le parole
del dottor Bordeu collimano
dal più al meno col pensiero del Nostro ed
espongono il suo punto di vista sui
comportamenti sessuali. È il
brano più breve del trittico e in esso la
signorina e il dottore parlano
inizialmente dell’incrocio delle specie animali,
per spostare poi il discorso
sulla sessualità umana. Sul problema della
castità, uno dei punti centrali
della sessuofobia cristiana, il dottore non
ha dubbi, iniziando col dire che «a
dispetto dei magnificanti elogi che il fanatismo
prodiga» è difficile
immaginare fisiologicamente qualcosa «di
tanto nocivo, di tanto deprecabile».
Segue l’elogio di una completa libertà che
si conclude con un’affermazione di
libertà e nello stesso tempo di dignità umana:
«io non mi faccio intimidire
dalle parole, e mi spiego ciò in tutta libertà
perché sono pulito e la purezza
dei miei comportamenti non offre presa da
nessun lato.» [116]
Abbiamo introdotto il paragrafo con uno dei
problemi etici più discussi nel Settecento,
ma passiamo ora a cogliere altri aspetti
interessanti dell’atteggiamento etico di
Diderot, che si caratterizza
soprattutto per l’anticonvenzionalità. Si
tratta peraltro di opere che, come Jacques
il fatalista, si offrono come forme letterarie innovative,
ma il problemi
estetico è qui fuori luogo ci soffermeremo
quindi sui contenuti filosofici. Siccome
adottiamo il criterio cronologico cominciamo
con l’occuparci del Colloquio
di un padre coi figli, iniziato nel 1770 e concluso assai più
tardi con
notevoli rielaborazioni. I personaggi sono
famigliari di Diderot ed amici, ma i
principali sono due, quello qualificato come
“mio padre” (una sorta di “giudice
di pace” locale) e l’”io” (il filosofo),
ai quali si affiancano il fratello
minore (l’abate), la sorella, un medico,
un ecclesiastico e un magistrato. Gli
argomenti dibattuti riguardano la reputazione
dell’uomo “dabbene”, il suo comportamento,
la legge e il diritto di proprietà. La questione
iniziale posta del padre
riguarda un momento critico del suo passato,
relativo ad una decisione da
prendere circa un’eredità, ma ad un certo
punto diventa centrale un altro fatto
della sua vita di giudice: il comportamento
di un operaio fabbricante di
cappelli dopo la morte della moglie, malata
da molti anni e la cui infermità
aveva determinato spese tali da dar fondo
ad ogni risorsa economica famigliare.
Finito sul lastrico, carico di debiti, il
cappellaio confessa di essersi appropriato
di tutta l’eredità della moglie,
costituita dal corredo nuziale e da una certa
somma di denaro, che avrebbero
dovuto andare a rigor di legge in parte a
lontani parenti di lei. Egli è roso
dal rimorso, ed il problema posto è se, a
fronte di tale malversazione, debba
restituire il maltolto o no in relazione
alla sua situazione di profonda
indigenza. L’ecclesiastico pensa che l’uomo
debba tacere e tenersi i soldi, il
magistrato, invece che deve restituire il
maltolto perché, “la legge è la
legge”, ma l’io-filosofo contesta la legge
che manca di «senso comune» e invita l’uomo a
eliminare il rimorso disfacendosi al più
presto di quei soldi: «bevete,
mangiate, dormite, lavorate, siate felice
a casa vostra, se potete restarci, o
altrove, se non ce la fate a mantenervi.»
[117]
A richiesta di chiarimenti del padre su tale
opinione del figlio-filosofo
questi risponde che il problema non sussiste,
poiché l’uomo, avendo profuso
tutte le sue risorse per assistere la moglie
ed essendole il congiunto più
stretto, non ha nessun dovere verso parenti
lontani e non deve rimordersi
affatto del suo illecito. La sorella obbietta
che si dà il furto solo secondo
la legge e non secondo la morale, ma il fratello-abate
obbieta che «Senza la
legge, tutto è di tutti, e non c’è più proprietà.»
[118]
Il filosofo contesta l’affermazione e il
padre domanda: «E qual’è allora il
fondamento della proprietà?» La risposta:
In prima istanza, è la presa di possesso
attraverso il lavoro,. La natura ha fatto
le buone leggi di tutta l’eternità;
una forza legittima ne assicura l’esecuzione;
e questa forza, che tutto può
contro il malvagio, nulla può contro l’uomo
dabbene. Io sono quest’uomo
dabbene; e in queste circostanze e in molte
altre che vi dirò in dettaglio, io
la cito dinanzi al tribunale del mio cuore,
della mia ragione, della mia
coscienza, al tribunale dell’equità naturale;
l’interrogo, mi ci sottometto, o
la cancello. [119]
Il “tribunale
dell’equità naturale”, dunque, sostituisce
qui quello istituzionale, e siccome
non esistono nella morale le mezze misure
o si dà ascolto alla Natura o se ne
cancella il messaggio. Presa di posizione
che il padre disapprova, ma non la
sorella, mentre il discorso torna alla questione
posta in apertura di dialogo e
il discorso cade sull’ingiustizia. Il filosofo
contesta il giudizio espresso
dal padre in un caso dove avrebbe riconosciuto
ad un certo prete, sulla base di
cavilli giuridici, un non-dovuto. Il giudizio
sulle “scartoffie legali” è
inappellabile:
Un baule per cartacce, fra le cartacce una
vecchia cartaccia proscritta; per la data,
per l’ingiustizia, per la confusione
con altre cartacce, per la morte degli esecutori,
per disprezzo delle lettere
del legatario, e per la povertà dei veri
eredi! [120]
La legge “naturale” confligge con quella
“convenzionale” e la povertà dei veri eredi
è dirimente per indirizzare
l’eredità a chi ne ha bisogno piuttosto che
a chi “formalmente” pare averne
diritto. Decisione determinata da «la temibile
autorità delle opinioni
religiose sulle menti meglio organizzate,
e dall’influenza perniciosa delle
leggi ingiuste e dei falsi principi sul buon
senso e sull’equità naturale.» [121].
Più avanti un attacco alla legge di sapore
un poco anarcoide:
L’uomo non é forse anteriore all’uomo di
legge?
Forse che la ragione della specie umana non
possiede tutt’altra sacralità della
ragione di un legislatore? Ci chiamiamo civilizzati,
e stiamo peggio dei
selvaggi. Sembra che ci occorra ancora di
girare in tondo per secoli, da una
stravaganza a un’altra e di errore in errore,
per arrivare dove la prima
scintilla del giudizio, l’istinto da solo,
ci avrebbe portati direttamente. [122]
L’invettiva
sdegnata dell’io-filosofo contro i riferimenti
legalistici dell’”uomo dabbene”,
rispettoso della legge, di cui fa l’apologia
il padre è un punto di vista
dell’uomo Diderot, non il suo unico punto
di vista. In una nota a L’uomo
di Helvétius egli dice:
Se
ci sono questioni apparentemente molto complesse,
che mi sono parse semplici
una volta analizzate, ne esistono di semplicissime
all’apparenza che ho
giudicate superiori alle mie forze. Per esempio
sono convinto che in una
società mal ordinata qual è la nostra, ove
il vizio che ha successo è sovente
applaudito, e la virtù che fallisce è quasi
sempre ridicola, sono convinto,
dico, che, tutto sommato, non si ha nulla
da fare di meglio per la propria
felicità che esser uomo dabbene. [123]
L’io-Diderot parla
nel colloquio sull’onda dello sdegno emozionale,
ma l’opinione che nasce qui
dalle “ragioni del cuore” si alterna altrove
con le “ragioni della testa” nella
complessità diderotiana. Spesso ai cattivi
interpreti questa appare come incoerenza,
mentre bisogna coglierne la poliedricità critica, che implica “fluidità”
laddove si pretenderebbe “fissità”. In chiusura,
quando i figli augurano la
buona-notte al padre, il filosofo anarcoide
aggiunge: «Padre mio, il fatto è
che a rigore non ci sono leggi per il saggio
…. Essendo tutte sottoposte ad
eccezioni, proprio al filosofo appartiene
di giudicare i casi in cui bisogna
sottomettervisi o affrancarsene.» [124].
E tuttavia per Diderot la questione non è
chiusa, rimane aperta, come uno dei tanti
“luoghi” della sua tormentata problematicità.
Il nipote di Rameau è opera dalla
lunga gestazione, iniziato nel 1761 è concluso
solo nel 1781. Vi è un interrogante, l’Io
(Diderot), e il protagonista, una sorta di
musicista fallito e debosciato, ma
con un suo fondo di saggezza, nipote del
grande musicista Rameau. Uno
sfaccendato senza arte né parte, nonché musicista
fallito, che nel presentarsi
afferma di sentirsi orgoglioso di essere
dappoco; suo zio, che è un “genio”
«Pensa solo a se stesso, il resto dell’universo
non vale un fischio per lui.
Muoiano quando vogliono sua figlia e sua
moglie». Gli uomini di genio «Sono
bravi in una cosa sola. Oltre a quella, niente.»,
sicché: «di uomini c’è
bisogno; ma di uomini di genio per niente.»
[125]
Se si pensa che siamo in un’epoca in cui
incominciano ad affacciarsi quelle che
saranno le varie “teorie del genio” tipiche
del Romanticismo, si comprende bene
come Diderot la pensi a proposito degli uomini
eccezionali (categoria alla
quale egli, sicuramente, pensa di appartenere!)
nel delineare la figura del
simpatico e scanzonato “nipote del genio”
(che è anch’egli un suo alter-ego).
Autoironia che prosegue con l’affermazione:
Se sapessi la storia, vi dimostrerei che
il male
quaggiù è sempre venuto da qualche uomo di
genio. Ma io non so la storia,
perché non so niente. Il diavolo mi porti,
se ho mai imparato qualcosa; e se
per non aver imparato nulla, me ne trovo
peggio. [126]
All’obiezione
: «Ma io ho visto un tempo in cui eravate
disperato di non esser altro che un
uomo comune.» [127]
il nipote elude il discorso. Ma più avanti,
a proposito di un altro genio,
Racine, nel rilevare che le sue creazioni
gli hanno reso così poco da farne
quasi un miserabile, senza gli agi di cui
può godere “un buon mercante”,
aggiunge che nella vita l’importante è far
soldi in qualunque modo e spenderli
bene: «E perché diavolo volete che uno spenda
il suo danaro se non per aver una
buona tavola, buona compagnia, buoni vini,
belle donne […] » [128]
Incalzato dall’interrogante ed invitato a
riflettere, afferma: «Non ci capisco
molto, in tutto questo discorso che mi fate.
Dev’esser filosofia; vi avverto
che non ne voglio sapere nulla.» [129]
ma poi ammette:
Quello che so, è che vorrei proprio essere
un
altro, a rischio di essere un uomo di genio,
un grand’uomo. Sì, debbo
ammetterlo, è qualcosa che me lo dice. Mai
ho ascoltato le lodi di qualcuno
così, senza che l’elogio mi abbia fatto in
segreto infuriare. Sono invidioso.
Quando vengo a sapere della loro vita privata
qualche tratto che li degrada,
l’ascolto con piacere. Perché ci fa vicini,
e
sopporto più facilmente la mia mediocrità.
[…] Dunque sono sempre stato
e sono seccato di essere un mediocre […]
Sicché ero geloso di mio zio; e se
alla sua morte ci fosse stato qualche bel
pezzo per clavicembalo nel suo
portacarte non avrei esitato fra restare
me ed essere lui. [130]
Il nipote vuole in fondo essere solo se
stesso, ma vorrebbe anche poter passare per
un genio ritenuto capace di
scrivere bella musica, consapevole, con la
sua furbizia, di farla meglio
fruttare di quanto sapesse fare lo zio. Riflette
pensoso, si mette a
canticchiare due pezzi celebri di lui, e
poi si scioglie:
C’è qualcosa qui, e mi parla, e mi dice:
Rameau,
vorresti eccome aver fatto questi due pezzi;
se avessi fatto questi due, ne
faresti anche altri due; e quando ne avessi
fatti un certo numero, li
eseguirebbero, li canterebbero dappertutto,
cammineresti a testa alta; la tua
coscienza sarebbe testimone del tuo merito;
gli altri ti indicherebbero a dito.
[…] avresti una buona casa […] buoni vini
[…] belle donne […] cento gaglioffi
verrebbero ogni giorno a incensarmi […] ti
direbbero la mattina che sei un
grand’uomo; leggeresti nella Storia dei tre
scoli che sei un grand’uomo; la sera ti convincerebbero che sei un
grand’uomo; e il grand’uomo Rameau nipote
si addormenterebbe al dolce mormorio
dell’elogio […] [131]
Nel dire ciò
il frustrato si allunga, chiude gli occhi
e mima un sonno beato. Il sogno di
grandezza e opulenza del poveraccio si è
dispiegato per un istante ed esprime
riconoscenza al suo inquisitore benevolo
al quale dice: «Voi vi siete sempre
interessato a me, perché sono un buon diavolo
che disprezzate nel fondo, ma vi
diverte.» [132] Poi
racconta le molteplici umiliazioni a cui
va soggetto nel quotidiano, e
l’ultima, con cui ha perso anche la facoltosa
amicizia di una gran signora per
aver detto, tra tante stupidaggini ossequiose,
una cosa di buon senso. Ma
quando il filosofo gli consiglia di andarsi
a prostrare chiedendo perdono, il
Rameau-nipote sbotta: «Capiamoci; il fatto
è che c’è un baciare il culo
semplice e un baciare il culo figurato.»
[133]a
cui gli viene replicato: «Allora abbiate
il coraggio di restare pezzente.» E il pezzente riprende il suo doloroso
racconto, incalzato dalle domande di spiegazione,
senza rivelare il minimo
proposito di uscire dalla sua condizione
per diventare una persona seria e laboriosa,
ma continuando a contestare il fatto
che siccome un sacco di emeriti gaglioffi
hanno raggiunto ricchezza e fama, non
vede perché non debba riuscirci anche lui
restando ciò che è. Ma neanche viene
raccolto l’invito ad esse più naturale, poiché
l’uomo naturale vive contento come
il cinico Diogene, poiché il giovanotto ribatte
che lui non sa vivere senza un
buon letto, una buona tavola e dei bei
vestiti.
Alla fine il filosofo sbotta: «È che siete
un fannullone, un avido, un vigliacco, avete
fango al posto dell’anima. […] Le
cose della vita hanno un prezzo, non c’è
dubbio, ma voi ignorate il prezzo del
sacrificio che fate per ottenerle. Danzate,
avete danzato, continuerete a
danzare la vile pantomima. » La risposta:
«È vero. Ma mi è costato poco, e non
mi costa più nulla, per questo.», ma poi
lo riprende la tristezza nel ricordare
la mogliettina che ha perduto, che «era una
specie di filosofo», «aveva il coraggio di un leone», «era gaia
come un fringuello» e «oltre al talento aveva
una boccuccia […] denti come
perle […] gambe da cerva, cosce, fianchi
da modella» così attraente che «presto
o tardi avrebbe conquistato il controllore
generale»; e poi, soprattutto: «Un
portamento, un didietro, Dio!, che didietro!»
Dopo di ché comincia a singhiozzare
e ammettere la sua abbiezione finché si ricorda
che deve andare all’Opera,
chiedendo infine al filosofo: «È vero che
sono sempre lo stesso?» e alla
«Ahimé, sì, purtroppo.» replica: «Che io
abbia questa disgrazia ancora per una
quarantina d’anni. Riderà bene chi riderà
ultimo.» La battuta finale è una
sfida al filosofo in nome di un’orgogliosa
sciatteria. Diventa inevitabile
domandarsi che cosa Diderot pensi veramente
del suo personaggio. Ebbene, qui
sta il punto, ancora una volta, “problematicamente”,
l’io-filosofo virtuoso,
che ha incalzato di continuo lo sciattone
con le sue domande, le sue
spiegazioni, le sue rampogne e i suoi consigli,
è soltanto il “contrappeso”
esistenziale di una morale-al-contrario che
accompagna la miseria di un mondo a
volte ottuso e corrotto, conformandosi ad
essa per trovare, senza sforzo e
rischio “la sua nicchia” opportunistica.
Esattamente l’opposto dell’atteggiamento
di sfida alla società messo in atto da
Diderot, ma l’umanità del quale sta anche
nel comprendere ed ammettere la
sciatteria come sua controparte persino simpatica.
In Jacques il fatalista e il suo padrone, scritto tra il 1778 e il 1780, il tema è quello del destino e dell’atteggiamento fatalista di Jacques, che colloquia col suo padrone nel corso di un viaggio tra osterie e alberghi. Il narratore introduce la vicenda e poi il dialogo si snoda sulle tracce del ricordo che il protagonista conserva del suo capitano, un grand’uomo per il quale «tutto quanto ci succede di bene e di male quaggiù era scritto lassù » E siccome un’altra frase di tale mitico capitano era «ogni pallottola che parte da un fucile ha il suo visto d’ingresso» è proprio una pallottola la fautrice del destino di Jacques e delle sue disgrazie amorose. Il racconto si snoda tra il picaresco e il boccaccesco e non entreremo nel dettaglio delle vicende, ma coglieremo al volo alcune battute significative. Naturalmente fin dall’inizio si pone il problema di chi diriga il destino degli uomini e alla domanda del padrone «Potreste dirmi che cos’è un pazzo? E che cos’è un saggio?» e «che cos’è un uomo fortunato e un uomo sfortunato?» la risposta di Jacques è che pazzia e sfortuna coincidono e altrettanto vale per la saggezza, che coincide con la fortuna e che tutto «è scritto lassù.» [134] Il problema che il padrone pone è chi sia che «scrive lassù». Ma Jacques obbietta che siccome ciò che è scritto sta su un “gran rotolo” bisognerebbe prima sapere chi ha fatto il rotolo su cui ha potuto essere scritto il destino, ma che non gliene importa nulla di saperlo («a che mi servirebbe?») poiché egli sa che esso «contiene tutta la verità» e tanto gli basta, senza indagare chi e come scriva il destino.
L’atteggiamento di Jacques diventa
paradossale quando, alla domanda perché alcuni
poveracci siano finiti a Lisbona
proprio il giorno del disastroso terremoto
del 1° febbraio 1755 (che tanto
aveva sconvolto il determinismo ottimistico
di Voltaire) lasciandoci la pelle,
la risposta del fatalista è: «A cercare un
terremoto che non poteva avvenire
senza di loro, a farsi schiacciare, inghiottire,
bruciare, com’era scritto
lassù. » Per Jacques il destino si
manifesta come una catena di equivoci implicati
da ciò che è scritto sul “gran
rotolo” e che non si può comprendere, sicché:
«Caro padrone, la vita passa fra
quiproquo. Ci sono quiproquo d’amore, quiproquo
d’amicizia, quiproquo di
politica, di finanza, di chiesa, di magistratura,
commercio, di donne, di
mariti, … » [135] In
un alternarsi di tali riflessioni sul destino
però il racconto non va mai
avanti e il padrone, in realtà, è solo interessato
ad esso e ne sollecita il
prosieguo, ma un po’ il corso delle cose
e un po’ le esitazioni meditative di
Jacques ne rallentano lo svolgersi. Nel finale
si comprende che la storia del
capitano era solo un pretesto e che in realtà
Jacques, attraverso episodi e
vicende del viaggio, intendeva solo dimostrare
al suo padrone la realtà e la
cogenza di un destino che è “scritto lassù”.
Dopo una caduta da cavallo che il
padrone imputa alla distrazione del servo
(ma finendo fortunatamente tra le sue
braccia) questi cerca di fargli capire, ancora
una volta, che “doveva andare così”,
aggiungendo:
Non è dimostrato fino all’evidenza che agiamo
la
maggior parte del tempo senza volere? Mettetevi
una mano sulla coscienza, di
tutto quello che avete detto o fatto nell’ultima
mezz’ora non avete voluto
nulla. Non siete stato la mia marionetta,
non avreste continuato ad essere il
mio pulcinella per un mese, se solo me lo
fossi proposto? [136]
Dunque, Jacques
ha solo voluto prendersi gioco del padrone,
architettando strada facendo tanti
piccoli stratagemmi finalizzati a far ammettere
dal padrone la realtà del
destino. E ciò perché, a sua volta era stato
ingannato allo stesso modo dal capitano,
facendo si che, vittima della beffa, cominciasse
a diventare un «pensator
sottile». Ma il destino è ancora lì, presente,
e alla domanda: «Ma se mi fossi
veramente ferito?» la risposta è: «Era scritto
lassù e nella mia preveggenza
che non sarebbe successo.» Ma il preveggente
scopre improvvisamente di essere
rimasto senz’acqua e sbotta: «Peste allo
scemo! […] non ho lasciato un ultimo
sorso nella borraccia.» [137].
Ma il padrone gli fa notare che tanto sarebbe
rimasto all’asciutto, poiché se
la sarebbe bevuta lui di diritto. Al che
Jacques: «avrei dovuto tenerne due
sorsi.» Il padrone lo prega ancora una volta
di
proseguire il racconto, e proprio per ingannare
la sete, ma Jacques
afferma di non poterlo fare, poiché sente
ancora «la mano del destino alla gola» [138]
Il narratore rientra in campo per comunicare
la fine del racconto, e a chi gli
domandi come sono finiti gli amori di Jacques
risponde che “era destino” lasciarla
inconclusa:
Vedo, Lettore, che questo ti dispiace; ebbene,
riprendi il racconto dove lui l’ha lasciato
e
proseguilo a tua fantasia, oppure fa visita
alla signorina Agate,
apprendi il nome del viaggio in cui Jacques
è imprigionato, incontra Jacques,
interrogalo, non si farà tirare le orecchie,
per contentarti: lo distrarrà. [139]
Il calembour
prosegue, il narratore incomincia a fare
alcune ipotesi di come siano andate
poi realmente le cose per colpa di manipolazioni
del testo originale e plagi
vari. Pare che Jacques non abbia colto l’occasione
di dormire con la desiderata
Denise che le si concedeva in attesa di esserne
veramente amata, ma anche che
ella, improvvisatasi infermiera, si sia ancora
offerta più avanti [140].
Poi si parla di lui ai ferri in un’oscura
prigione, da dove, miracolosamente
liberato con altri briganti entra nella banda
di un famoso bandito. In questa
nuova veste, durante l’assalto a un castello,
lo riconosce come la dimora del
suo benefattore, il signor di Desglandes,
che lì vive con la sua amante ed i
suoi servi tra cui l’amata Denise. Jacques
evita l’assalto, salva il castello e
i suoi abitanti ed ha la calda riconoscenza
di Desglandes con un invito a far
bisboccia. La conclusione? Sembra che:
Qualche giorno dopo il portinaio del castello
morì, Jacques ottenne il suo posto e sposò
Denise con la quale si impegna a
suscitare discepoli per Zenone [di Cizio]
e Spinoza, amato da Desglandes […]
perché così era scritto lassù. [141]
Un racconto
burlesco contro il determinismo? Probabilmente,
ma fors’anche il contrario! Il
narratore conclude:
Hanno cercato di convincermi che il suo padrone
e Desglandes divennero poi amanti di sua
moglie. Io non ne so nulla, ma di una
cosa sono certo, che la sera diceva a se
stesso: Se è scritto lassù che sarai
becco, Jacques, avrai un bel fare, lo sarai;
se al contrario è scritto che non
lo sarai, non lo sarai. Dormi, amico … e
che s’addormentava. [142]
Del lungo
testo (245 pagine) abbiamo dovuto saltare
molti dettagli, ma il senso profondo
del racconto sembra chiaro: del “lassù” è
assai difficile fare a meno. Il
Dio-Necessità di Zenone di Cizio e di Spinoza,
non meno che il Dio-Volontà di
Sant’Agostino e di Leibniz, è difficile mandarli
in soffitta. Cosa c’entrano
queste considerazioni con l’etica diderotiana?
C’entrano per l’ironia, la
tolleranza e la simpatia umana con cui Diderot
descrive Jacques, una delle
figure più notevoli (insieme al nipote di
Rameau) della sua galleria di
personaggi.
Ai fini della nostra indagine sull’etica
diderotiana assume particolare rilievo il
dialogo fra A e B nel Supplemento
al viaggio di Bouganville, che ha per sottotitolo Sull’inconveniente di
collegare idee morali a certe azioni fisiche
che non ne comportano. Il
dialogo era nato in una prima versione nel
1772, rimaneggiato tra il 1778 e il
1779 apparirà postumo nel 1796. Il pretesto
dello scritto è un resoconto
apparso nel 1771 (Voyage autour du monde) di un viaggio nel Pacifico
compiuto, tra il 1766 e il 1769, dall’esploratore
Louis-Antoine Bougainville.
Sulla base delle notizie rese da questi Diderot
trae spunto per considerazioni sulla
morale del selvaggio rispetto a quella del
civilizzato. Ne emerge un quadro
elogiativo della naturalità del primitivo
in sintonia con le posizioni di
Rousseau, ma con degli scostamenti non da
poco in termini di prospettiva
antropologica. La parte più interessante
dell’opera è il conclusivo Seguito
del dialogo, ma faremo alcuni accenni al resto dell’opera,
dove emergono le
figure morali di due tahitiani, Aoturu (il
“Vegliardo”) e Oru, e quella del
frate elemosiniere. Aoturu è colui che Bougainville
porta con se in Francia e
che poi rimanda a casa vista la sua impossibilità
di integrarsi nel mondo
civile; basti dire che, proveniente da un
mondo di totale libertà sessuale,
nota B: «Era così abituato all’uso comune
delle donne, che si buttò sulla prima
europea che gli venne incontro, disponendosi
molto seriamente a farle la
cortesia di Tahiti.» [143]
Il Vegliardo è colui che accoglie con preoccupazione
lo sbarco degli europei e
con sollievo la loro partenza, a dispetto
di qualche rimpianto dei suoi
compaesani, sì da dir loro: «Piangete, infelici
tahitiani!: ma dell’arrivo, non
della partenza di questi uomini ambiziosi
e malvagi.» poiché, purtroppo «Un
giorno, torneranno […] » a violare il “paradiso
perduto”. A Bougainville in
partenza il vecchio dice:
E tu, capo dei briganti che ti obbediscono,
stacca presto il vascello dalle nostre sponde,
siamo innocenti, siamo felici;
tu puoi soltanto nuocere alla nostra felicità.
Noi seguiamo il puro istinto
naturale, e tu hai tentato di cancellare
dall’animo nostro il suo carattere.
Qui tutto è di tutti; e tu ci hai predicato
non so che distinzione del mio
e del tuo. Le nostre ragazze e le nostre donne sono
comuni a tutti noi;
tu hai condiviso con noi questo privilegio;
e sei venuto ad accendere in loro
furori sconosciuti. Sono diventate pazze
fra le tue braccia; tu feroce fra le
loro. Hanno cominciato a odiarsi; voi vi
siete scannati per loro; sono tornate
a noi macchiate del vostro sangue. Siamo
liberi, e ora tu hai seppellito nella
nostra terra il documento della nostra futura
schiavitù [presa di possesso in
nome del re di Francia]. Non sei né un dio
né un demone: chi sei dunque per
fare schiavi? Oru, tu che intendi la
lingua di quegli uomini dì a tutti, come
l’hai detto a me, quello che hanno
scritto su quella lama di metallo. Questo paese è nostro. Questo paese è
tuo! E perché? perché ci hai messo piede?
Se un tahitiano sbarcasse un giorno
sulle vostre coste, e scolpisse su una delle
vostre pietre o sulla scorza di
uno dei vostri alberi: Questo paese è degli abitanti di Tahiti, che cosa
ne penseresti? Tu sei il più forte! E questo
che significa? Quando ti hanno
portato via una delle stupide bagattelle
di cui è pieno il tuo bastimento, hai
gridato, ti sei vendicato; e nello stesso
momento hai progetto nel fondo del
tuo cuore il furto di tutta una contrada!
Tu non sei schiavo: preferiresti
morire piuttosto che essere schiavo, eppure
vuoi asservirci! Credi che il
tahitiano non sappia difendere la propria
libertà e morire? Colui di cui ti
vuoi impadronire come di un animale, il tahitiano,
è tuo fratello. Siete due
figli della natura: che diritto hai su di
lui, che egli non abbia su di
te? Sei venuto: ci siamo buttati sulla
tua persona? abbiamo saccheggiato il tuo
vascello? t’abbiamo catturato ed
esposto alle frecce dei nostri nemici? t’abbiamo
messo al lavoro nei campi con
gli animali? Noi abbiamo rispettato la nostra
immagine in te. Lasciaci alle
nostre usanze: sono più sensate, più oneste
delle tue; non vogliamo proprio
barattare ciò che chiami la nostra ignoranza
con i tuoi lumi vani. [144]
Abbiamo citato
solo la prima parte del lungo discorso per
rendere un’idea del contenuto, non
meno interessante nel prosieguo. Risulta
evidente la forzatura idealizzante
della primitività, ma essa bene l’atteggiamento
etico del Nostro, che quale
esponente di primo piano dei Lumi non esita
a farli definire dal vecchio
tahitiano “vani” rispetto alla moralità e
alla felicità ingenua degli ignoranti
“di natura”. Ed è poi bellissima la frase:
« Noi abbiamo rispettato la nostra
immagine in te.»
Il frate elemosiniere è un simpatico
personaggio, in bilico tra il suo dovere
di religioso e l’apprezzamento dei
costumi locali egregiamente spiegati da Oru.
Il suo colloquio con questi, che
gli offre sua moglie e le tre figlie, è tutto
giocato sulle perplessità del
frate che si difende dalla tentazione continuando
a ripetere: «Ma la mia
religione, ma la mia condizione!». Il seguito
del colloquio tra A e B riserva
le asserzioni più notevoli. I due si avviano
sul discorso antropologico e
discutono sul passaggio dell’uomo dallo stato
di natura a quello della
civilizzazione. L’apprezzamento della cultura
tahitiana è comune tra i due ed A
fa da spalla a B ponendo domande e chiedendo
spiegazioni. Il discorso cade
sulle leggi ed ecco la tesi di B (ben diversa
da quella del filosofo anarcoide
del Colloquio di un padre coi figli):
Se le leggi sono buone, i costumi sono buoni,
se
le leggi sono cattive i costumi sono cattivi;
se le leggi, buone o cattive, non
vengono osservate, e questa è la peggior
condizione di una società, non ci sono
usi e costumi. Ora, come volete che vengano
osservate leggi quando siano
contraddittorie? Scorrete la storia dei secoli
e delle nazioni tanto antiche
quanto moderne, e troverete gli uomini assoggettati
a tre codici: il codice
della natura, il codice civile, e il codice
religioso, e costretti ad
infrangere alternativamente questi tre codici
che non sono mai andati
d’accordo. [145]
Il problema
posto da B è cruciale. Essere contemporaneamente
un uomo buono, un buon
cittadino e un buon fedele non è facile,
e da ciò nasce un problema nel
contempo antropologico e sociologico. Sulla
compatibilità/incompatibilità dei
tre “codici” antropologici posti da Diderot
si gioca tutta la dialettica sui
possibili modi degli uomini “di stare insieme”.
Alla domanda di A, se il secondo e il terzo
codice debbano sottoporsi al
primo, B risponde che l’uomo alla nascita
porta con sé l’analogia organizzativa
e gli stessi bisogni di tutti gli altri animali;
sicché il desiderio del
piacere e l’avversione per il dolore sono
la base del suo comportamento. Sotto
questo punto di vista il tahitiano è
«più vicino a una buona legislazione di qualunque
altro popolo civile.» [146]
Relativamente al rapporto uomo/donna deve
considerarsi naturale tutto ciò che
in qualche modo è analogo al comportamento
animale in termini di corteggiamento
e di civetteria deduttiva.
Per
quanto riguarda la fedeltà coniugale, essa
non deve diventare un tabù e la
gelosia è «Passione di un animale indifferente
e avaro che ha paura di fallire;
sentimento ingiusto dell’uomo; conseguenza
delle mostre abitudini alla falsità,
e di un diritto di proprietà esteso a un
soggetto senziente, pensante, che ha
volontà e libertà.» E tuttavia, anche la
gelosia non è “innaturale”, poiché
rientra nel possibile alternarsi dialettico
di vizi e virtù che la natura
ammette. Il senso del pudore invece è
concetto puramente “istituzionale”, che dipendendo
dal tipo di istituzioni codificate
nei vari contesti fa sì che sia contemplato
tra gli europei ed ignoto ai tahitiani,
dove i figli possono assistere agli amplessi
dei genitori senza esserne turbati
[147].
Il tahitiano, infatti, nota B, ci direbbe
in proposito: «Perché ti nascondi? Di
che ti vergogni? Faresti il male quando cedi
all’impulso più augusto della
natura? Uomo, presentati con franchezza,
se piaci. Donna, se quest’uomo ti va,
accoglilo con la stessa franchezza.» La
replica di A è scontata: «Ma come è avvenuto
che un’azione il cui fine è tanto
solenne […] sia diventato la sorgente più
feconda della nostra depravazione e
dei nostri mali?»
Dieci volte Oru l’ha fatto capire
all’elemosiniere: ascoltatelo dunque ancora,
e cercate di rammentare. Per via
della tirannia dell’uomo, che ha convertito
il possesso della donna in
proprietà. Per via di usi e costumi, che
hanno sovraccaricato di condizioni
l’unione coniugale. Per via delle leggi civili,
che hanno assoggettato il
matrimonio a infinite formalità. Per via
della natura della nostra società, in
cui la disparità delle fortune e dei ranghi
ha istituito convenienze e
disconvenienze. Per via di una contraddizione
bizzarra […] in cui la nascita di un bambino, guardata sempre come
un accrescimento di ricchezza per la nazione,
è più spesso e più sicuramente
ancora un accrescimento di indigenza per
la famiglia. Per via delle opinioni
politiche dei sovrani, che hanno
ricondotto ogni cosa al loro interesse e
alla loro sicurezza. Per via
delle istituzioni religiose, che hanno legato
il nome di vizio e di virtù
ad azioni che non avevano alcun risvolto
morale. [148]
La tirata è
esaustiva di ciò che una morale “naturale
“ può contestare a una “civilizzata”,
o meglio “cristiana”, e quasi scontata è
l’aggiunta: «Quanto siamo distanti
dalla natura e dalla felicità!». Il rammarico
rivela il profondo dell’etica
diderotiana, dove l’importante è che la naturalezza
conduca alla felicità più
che alla moralità (come pensava Rousseau);
e tuttavia felicità e moralità
coincidono nella misura in cui l’una implica
l’altra (si ricordi anche
d’Holbach). Un’etica che non è mai “forma”,
sulla base di principi o di
convenzioni, ma sempre “sostanza” del vivere
stesso. È per questo che è un
grosso errore ermeneutico richiamare Rousseau
a proposito del naturalismo di
Diderot: quello del ginevrino è puramente
ideologico, astratto e velleitario,
quanto quello di questo è concreto. Si colga
anche l’articolazione e la
problematicità, ben lontani dal semplicismo
rousseauiano, con cui B risponde
alla domanda: «Ma, infine, ditemi, dobbiamo
civilizzare l’uomo, o abbandonarlo
ai suoi istinti?»:
Se vi
proponete di farvi suo tiranno, civilizzatelo;
intossicatelo come meglio
potete con una morale contraria alla natura;
mettetegli difficoltà di ogni
specie; imbarazzate i suoi movimenti con
mille ostacoli; rendete eterna la
guerra nella caverna, e che l’uomo naturale
vi sia sempre incatenato ai piedi
dell’uomo morale. Lo volete felice o libero?
Non vi occupate dei suoi affari:
un numero sufficiente di incidenti imprevisti
lo porteranno alla ragione e alla
depravazione. E siate convinto per sempre
che non è per voi, ma per sé che
questi savi legislatori vi hanno impastato
e manipolato come siete ora. Mi
richiamo a tutte le istituzioni politiche,
civili o religiose: analizzatele in
profondità; o mi sbaglio di molto, o ritroverete
la specie umana piegata secolo
dopo secolo sotto il giogo che un pugno di
delinquenti si prometteva di
imporle: Diffidate di quello che vuol fare
ordine. Ordinare significa sempre
farsi maestro degli altri e molestarli. [149]
L’oggetto
della rampogna è soprattutto l’evangelizzazione,
che ha sempre accompagnato
l’occupazione. “Fare ordine” è un’espressione
di carattere prevalentemente
morale che significa fare “il mio ordine”
abolendo il tuo. Ma quando A incalza:
«Così preferireste lo stato di natura brutale
e selvaggio?» B risponde: «In
verità non so decidere» . Ecco riemergere
la problematicità: tutto si può dire
ma poi si constata che se ne può dire anche
il contrario. Ma A incalza ancora:
«Che faremo dunque? Torneremo alla
natura? Ci sottometteremo alle leggi?» Ed
ecco la risposta:
Parleremo contro le leggi insensate finché
non
verranno riformate; e nell’attesa ci sottometteremo
ad esse. Colui che con la
sua sola privata autorità infrange una legge
cattiva, autorizza chiunque altro
ad infrangere quelle buone. Ci sono meno
inconvenienti ad essere pazzi con i
pazzi, che savio da solo. Diciamo a noi stessi,
gridiamo senza stancarci che
vergogna, castigo, ignominia sono stati imposti
ad azioni innocenti in se
stesse; ma non le commettiamo, perché la
vergogna, il castigo, l’ignominia sono
i peggiori tra tutti i mali. [150]
Siamo schiavi
delle forme sociali. Sappiamo che le imposizioni
sono indebite, ma la forza
“sociale” della vergogna, del castigo e dell’ignominia
collettiva ci
spaventano.
Il Colloquio di un filosofo con la
Marescialla di *** è divenuto famoso per la sorpresa della
signora
nell’apprendere che l’ateo, che non teme
Dio, si astenga dal commettere crimini.
L’opera, risalente al periodo 1774-77, è
uno dei più interessanti dialoghi per
comprendere l’etica di Diderot, a dispetto
della sua brevità ma grazie alla sua
concisione. Il filosofo si reca dalla signora
marescialla, che «è una donna
attraente; è bella e devota come un angelo;
porta dipinta in viso la dolcezza;
e poi, un suono di voce e un candore dei
discorsi affatto in armonia col viso.»
[151]
ma anche «di quelli che pensano che chi nega
la Santa Trinità è uomo da sacco e
corda, che finirà impiccato». La santa donna
però, a dispetto della sua
dolcezza, apostrofa subito il nostro appena
si sono seduti con un: «Ma non
siete il signor Diderot?» ed a risposta affermativa
aggiunge «Dunque siete voi
che non credete a niente?» e al «Proprio
io» viene l’osservazione cruciale:
«Eppure la vostra morale è quella di un credente.»
Ecco un primo punto interessante,
per la marescialla “la” morale per eccellenza
è quella cristiana e chiunque si
comporti in maniera coincidente con essa
“deve” essere cristiano. Da questo
punto in poi si snoda il dialogo che porta
il filosofo a chiarire la sua
posizione. Siccome alla successiva domanda
se tale morale egli “anche” la
pratichi, alla risposta «Del mio meglio.»
la signora sbotta nella celebre
domanda: «Come! Non rubate, non uccidete,
non saccheggiate?». All’ironica
risposta: «Molto di rado.» incalza l’ulteriore
domanda: «Che ci guadagnate
allora a non credere?» . Ma l’interrogato
inizia qui a porre domande
all’interrogante con un: «Forse che uno crede
perché ci guadagna qualcosa?».
Fin dalle prime battute vengono enunciate
le premesse su cui si snoda il
confronto, che prosegue con la marescialla
che lo accusa di incoerenza,
aggiungendo poi che se ella non fosse credente
ci sarebbe «qualche piccolo
piacere » di cui non si priverebbe. Ne viene
l’ovvia domanda di quali sarebbero
questi piccoli piaceri; al che la santa donna
si trincera dietro un «No, per
favore; è argomento di confessione, per me.»
incalzandolo più oltre con un
rude: «Che motivo può avere un incredulo
di essere buono, se non è pazzo?
Vorrei proprio saperlo.» [152]
Diderot enuncia la sua etica per gradi, in
un botta e risposta con la marescialla che
inizia così: «Non pensate che uno
possa nascere così fortunato da trovare un
gran piacere nel fare il bene?». [153]
La signora risponde che lo ritiene possibile,
ma che «i cattivi principi» e «le
passioni» inclinano al male. Diderot si rende
conto che la signora naviga tra
lo stupore e la diffidenza nei confronti
di un poco credibile “ateo virtuoso”,
ma, galantemente, si fa carico dell’incomprensione
della signora per un
possibile spiegarsi male, ricevendo per risposta:
«Siete gentile: ma dovete
sapere che io non ho letto mai altro che
le mie preghiere, e non mi sono
occupata d’altro che praticare il Vangelo
e fare figli.» La cristiana-tipo,
quindi, malgrado il rango, che ritiene superflua
una cultura che vada oltre
quella che concerne la fede e con essa la
morale “del giusto”. Impresa non
facile, quindi, per il Nostro, che si vede
costretto a prenderla alla larga con
la domanda «Dunque cos’è che chiamate male,
o bene?» cui segue la risposta: «Il
male, sarà quello che ha più inconvenienti
che vantaggi; e il bene, al
contrario, quello che ha più vantaggi che
inconvenienti.» Il filosofo mette a
profitto la risposta e invita la signora
a ricordarsi di tale “definizione” ed
ella domanda se “definire” i concetti dei
bene e di male è fare filosofia, e, a
risposta affermativa, ne attribuisce il merito
alla fede. Diderot le fa
presente che i piccoli beni che la religione
può determinare non sono
confrontabili coi mali ben maggiori che la
storia insegna sulle guerre di
religione, dove la reciproca incomprensione
su come definire e qualificare la
divinità è foriera di lotte senza fine. La
marescialla li chiama “abusi”, che
lasciano intatta la validità della fede,
ma l’uomo le chiede come sia possibile
separare gli abusi della religione dalla
religione stessa, al che la signora lo
sfida a una dimostrazione. Il filosofo replica:
Molto facilmente: ditemi, se un misantropo
si
fosse proposto di fare la sfortuna del genere
umano, che cosa avrebbe potuto
inventare di meglio che la credenza in un
essere incomprensibile, sul quale gli
uomini non avrebbero mai potuto intendersi,
e al quale avrebbero attribuito
maggiore importanza che alla vita? Ora, è
possibile separare dalla nozione di
una divinità l’incomprensibilità più profonda
e l’importanza più grande? [154]
Incomprensibilità
di un concetto e sua importanza esistenziale
paiono veramente inconciliabili e
la marescialla deve convenirne: «Ma qualcosa
ci vuole, che spaventi gli uomini
per le cattive azioni che sfuggono alla severità
delle leggi; e se distruggerete
la religione, che cosa le sostituirete?»
Diderot risponde:
Anche se non avessi nulla da mettere a quel
posto, sarebbe sempre un terribile pregiudizio
di meno. Senza contare che in
nessun secolo, in nessuna nazione le opinioni
religiose hanno costituito la
base della morale nazionale. Gli dèi che
adoravano quei vecchi greci e romani,
gente la più onesta sulla terra, erano la
più dissoluta canaglia: un Giove da
bruciarlo vivo; una Venere da chiudere in
riformatorio, un Mercurio da mettere
a Bicêtre. [155]
Sul fatto che i Greci e i Romani siano
stati « gente la più onesta sulla terra »
ci sarebbe molto da eccepire, ma il
filosofo gioca sull’ignoranza della signora
e sull’impossibilità di una sua
obiezione. Va però anche rilevato che qui
Diderot sta proseguendo il discorso
partito con le guerre di religione, e va
detto che, effettivamente, le guerre
dell’antichità, a differenza di quelle del
Medioevo, non hanno mai avuto come
causa la religione. La signora è sorpresa
dal fatto che si possano assimilare i
valori cristiani a quelli pagani e Diderot
ribatte che questi ultimi farebbero
sì «che saremmo un po’ più allegri.» [156]
Il dialogo prosegue sul filo delle contraddizioni
della religione e dei
comportamenti di coloro che vi si richiamano
e Diderot le fa notare che, in
realtà, vi è una morale universale (sottintesa
“naturale”), comune a tutte le
nazioni e a tutti i culti, ed una specifica
per ogni culto, basata su una
credenza, predicata nelle chiese, difficile
da seguire (in quanto
“innaturale”). Vi è qui una certa forzatura,
ma è interessante lo sviluppo del chiarimento:
Il fatto che è impossibile assoggettare un
popolo a una regola che si adatta solo a
poche persone malinconiche, che ce
l’hanno scolpita nel carattere. Avviene alle
religioni, come alle istituzioni
monastiche, che tutte si rilassano, col tempo.
Follie che non possono reggere
contro la sollecitazione costante della natura,
che ci riporta alla sua legge.
E fate che il bene dei singoli sia così strettamente
legato al bene generale,
che un cittadino non possa quasi nuocere
alla società, senza nuocere a se
medesimo; garantite alla virtù la sua ricompensa,
come avete garantito il
castigo alla malvagità; fate che senza alcuna
distinzione di culto, in
qualunque condizione sociale il merito si
trovi, conduca ai posti di rilievo
nello stato; e non dovrete contar più su
altri malvagi all’infuori che un
piccolo numero d’uomini; che una natura perversa
che nulla potrebbe cambiare
induce al vizio. [157]
Fermiamoci un istante per cogliere un punto
importante che differenzia molto Diderot
sia da Rousseau sia da Helvétius, i
quali pensano che l’educazione “faccia l’uomo”.
Il Nostro, che possiede un ben
più vasta cultura antropologica e
psicologica sa che le cose non stanno così,
e che l’incidenza dell’educazione
sulla forma mentale di un individuo è notevole,
ma certamente assai minore di
quella determinata geneticamente. Ancora
una volta l’inconsistenza dogmatica di
alcune posizioni di suoi contemporanei risulta
saggiamente corretta da un uomo
che sa andare assai oltre i limiti velleitari
della teorizzazione ideologica.
Essa può mettere sì in mora l’aprioristica
e bloccata concezione religiosa
dell’uomo e del suo comportarsi, ma nel contrapporsi
ad essa, sul piano formale
e metodologico, ne riproduce l’inconsistenza
e la pericolosità. Sarà qui il
caso di ricordare quanto il determinismo
sociologico (basato sulla plasmabilità
dell’uomo attraverso mezzi pedagogici ed
educazionali più o meno coercitivi)
sia stato tipico anche dei totalitarismi
del ‘900, con esiti devastanti sia per
la morale sociale e sia per quella individuale.
Diderot vede bene che l’analisi
della struttura mentale e di quanto condizioni
i comportamenti costituisca un
problema della massima complessità e da affrontare
mai in maniera astrattamente
deterministica. Prosegue:
Signora
marescialla, la tentazione è troppo vicina;
e l’inferno troppo lontano; non
aspettatevi nulla su cui valga la pena che
si impegni un saggio legislatore da
un sistema di opzioni bizzarre che mette
in soggezione solo i bambini; che
manda il colpevole a chiedere perdono a Dio
per l’ingiuria fatta all’uomo, e
che avvilisce l’ordine dei doveri naturali
e morali, subordinandoli a un ordine
di valori chimerici. [158]
Una morale
civile su base naturale, e quindi aderente
alla realtà dei rapporti umani, è
inconciliabile con una su base fideistica
che prescinde dalla realtà per
affidarsi a un dettato soprannaturale creato
dalla fantasia, per cui nessun
legislatore saggio può farvi
riferimento. Se non altro perché è fuori
di ogni logica razionale che di un
peccato contro l’uomo venga chiesta remissione
a Dio, e che si faccia
riferimento a doveri che hanno il loro fondamento
fuori della morale naturale,
che ne risulta perciò avvilita. La signora
è perplessa e Diderot precisa:
Non mi sono proposto di persuadervi. La
religione è come il matrimonio. Il matrimonio,
che è la disgrazia di tanti
altri, è la fortuna vostra e del signor maresciallo,
avete fatto benissimo
sposarvi, voi due. La religione, che ha fatto,
che fa e farà tanti malvagi, vi
ha reso ancora migliore; fate bene a conservarla.
Vi è dolce immaginare al
vostro fianco, sul vostro capo, un esser
grande e potente che vi vede camminare
sulla terra, e quest’idea rassicura il vostro
passo. Continuate, signora, a
godere di codesto garante augusto dei vostri
pensieri, spettatore, modello
sublime delle vostre azioni. [159]
Signora
marescialla, la tentazione è troppo vicina;
e l’inferno troppo lontano; non
aspettatevi nulla su cui valga la pena che
si impegni un saggio legislatore da
un sistema di opzioni bizzarre che mette
in soggezione solo i bambini; che
manda il colpevole a chiedere perdono a Dio
per l’ingiuria fatta all’uomo, e
che avvilisce l’ordine dei doveri naturali
e morali, subordinandoli a un ordine
di valori chimerici. [160]
Molto
importante questo passaggio, dove non soltanto
il Nostro non si permette di
turbare più di tanto le convinzioni della
signora, ma le dice «continuate»,
riconoscendo i vantaggi, anche morali, che
una fede sincera può determinare in
una persona “predisposta” alla religione,
ovvero con una struttura mentale che
gliela rende non solo congeniale ma utile
in ogni senso.
Diderot è consapevole di quanto la credenza
nella “garanzia” divina sia, tutto sommato,
un privilegio esistenziale di cui
nessuna razionalità può indurre a privarsi.
Non solo, vi è nel Nostro la
convinzione, che non di irreligiosi abbia
bisogno il mondo per migliorarsi, ma
di persone rette e buone, poiché questo è
il fine da perseguire. Se vi sono
persone che si comportano in maniera positiva
seguendo la religione, non c’è
nessun buon motivo di censurare la loro fede,
anzi (come si vede con la
marescialla) meritano anche encomio. Posizione
che ad alcuni è parsa
contraddittoria; non è così. La ragione problematizzante,
tollerante e pragmatica,
di Diderot non può che tenersi lontana da
ogni dogmatismo che si scagli
acriticamente contro la religione per partito
preso, senza fare quindi
distinzioni tra una realtà che vede persone
spinte al bene dalla religione ed
altre, invece, al male. D’altra parte, egli
aggiunge sinteticamente. «Permetto
a ciascuno di pensare a modo suo (purché
mi lascino pensare con il mio)» [161].
Libertà, tolleranza, ragionevolezza, in queste
tre parole può essere
sintetizzata l’etica di Diderot. Poca cosa?
Pensiamo di no; il senso etico,
quello più autentico, non è mai costituito
dai grandi princìpi, quasi sempre
ideologici, capaci di creare eroi e martiri,
ma mai uomini probi e saggi.
[1] A questo proposito è significativo il racconto Il nipote di Rameau, dove Diderot fa mettere in discussione le proprie convinzioni dal personaggio a cui si contrappone, con cui dialoga e cerca di portare su posizioni razionalistiche eticamente più valide, senza riuscirci per nulla.
[2] D.Diderot, Pensieri filosofici, in Opere filosofiche, a cura di P.Rossi, Milano, Feltrinelli 1963, p.20.
[3] Ivi, Il nipote di Rameau, p.141.
[4] D.Diderot, Siamo tutti libertini, Lettere a Sophie Volland, a cura di M.Premoli, Milano, Rosellina Archinto 1990, pp.37-38.
[5] D.Diderot, La passeggiata dello scettico, a cura di M.Brini Savorelli, Milano, Serra e Riva 1984, p.XI..
[6] Ivi, p.XIII.
[7] Ma nel 1741 “forse” Diderot non la escludeva ancora, se nel Salon del 1767 scriveva: «Arrivai a Parigi, stavo per prendere la “fourrure” [l’abito ecclesiastico] e assidermi tra i dottori della Sorbona, ma poi ho incontrato una donna bella come un angelo e desiderai di andare a letto con lei.» (cit. in: A.M.Wilson, Diderot: gli anni decisivi, Milano, Feltrinelli 1984, p.41).
[8] Ivi, p.XIV.
[9] Ivi, Discorso preliminare, p.12.
[10] P.Vernière, Spinoza et la pensée
française avant la Révolution, Paris 1954, pp.555-560.
[11] Diderot, Pensieri filosofici, cit., p.32.
[12] Ivi, p.29.
[13] Ivi, cit., p.47.
[14] D.Diderot, Interpretazione della natura, a cura di P.Omodeo, Roma, Editori Riuniti 1995, p.23.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, pp.25-26.
[17] D.Diderot, I gioielli indiscreti, Milano, Rizzoli 2001, p.176.
[18] Ibidem.
[19] Ivi, p.26.
[20] Julian Lowel Coolidge nel suo The Mathemathics of Great Amateurs (Oxford 1949, p.185) ha affermato: «Pur riconoscendo l’ampiezza e la varietà degli altri suoi interessi, non posso lasciare Diderot senza esprimere la mia ammirazione per la sua opera di matematico veramente fecondo.» (cit. in: A.M.Wilson, Diderot: gli anni decisivi, Milano, Feltrinelli 1984, p.97).
[21] Ivi, pp.26-27.
[22] Ivi, § 6, p.30.
[23] Ivi, p.31.
[24] Ivi, § 9, p.32.
[25] ibidem.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, pp.32-33.
[28] D.Diderot, Interpretazione della natura, cit., p.35.
[29] Ivi, p.36.
[30] Ivi, pp. 36-37.
[31] Ivi, p.37.
[32] Ivi, p.38.
[33] Ivi, pp.38-39
[34] Ivi, p.39.
[35] Ivi, pp.39-40.
[36] Ivi, p.40.
[37] Ibidem.
[38] Ivi, pp.41-42.
[39] Ivi, p.42.
[40] Ivi, p.62.
[41] Ivi, pp.62-63.
[42] Si fa qui riferimento alla ben nota polemica per la priorità della scoperta del calcolo infinitesimale.
[43] Ivi, p.63.
[44] Ivi, pp.63-64.
[45] Ivi, pp.66-67.
[46] Ivi, p.67.
[47] Ivi, pp.67-68.
[48] Nella logica aristotelica un sillogismo basato su premesse incerte.
[49] Ivi, p.68.
[50] Ibidem.
[51] Ivi § 47, p.70.
[52] Ivi, pp.70-71.
[53] Ralph Cudworth (1617-1688) è autore di un trattato che confuta l’ateismo, in chiave antihobbesiana, dal titolo The true intellectual System o f the Universe del 1678.
[54] Di Shaftesbury egli aveva tradotto nel 1744 l’Inquiry concerning Virtue or Merit.
[55] Giulio Cesare Vanini (1585-1619) non è ateo ma grandiosa e tragica figura di naturalista libero pensatore. Autore di un De admirandis Naturae reginae deaeque mortalium arcanis (1616) in cui dispensa tutta la sua spregiudicatezza di averroista libertino proponente una “religione della natura”. Considerato eretico e nemico della fede finisce sul rogo a Tolosa nel 1619.
[56] Diderot, Pensieri filosofici, cit., p.22.
[57] D.Diderot, La passeggiata dello scettico, cit., p.81.
[58] Diderot, Pensieri filosofici, cit., p.29.
[59] D.Diderot, Lettera sui ciechi, in Opere filosofiche, a cura di P.Rossi, Milano, Feltrinelli 1963, p.92.
[60] Ivi, p.95.
[61] Ivi, p.96.
[62] Ibidem.
[63] Lucrezio Caro, La natura delle cose, a cura di G.B.Conte, L.Canali e I.Dionigi, Milano, Rizzoli 2000, p.433.
[64] Ivi, p. 485.
[65] Ivi, pp.485-487.
[66] Diderot, Lettera sui ciechi, cit., p.97.
[67] Ibidem.
[68] D.Diderot, Interpretazione della natura, cit., p.33.
[69] Ivi, pp.33-34.
[70] Ivi, p.35.
[71] Ibidem.
[72] Ibidem.
[73] Ivi, pp.78-79.
[74] Ivi, p.82.
[75] Ibidem.
[76] Ivi, p.83.
[77] Ivi, pp.83-84.
[78] Ivi, p.84.
[79] Ivi, pp.84-85.
[80] Ivi, p.86.
[81] Ibidem.
[82] ivi, p.87.
[83] Ivi, p.87.
[84] Ivi, pp.87-88.
[85] Ivi, p.88.
[86] Ivi, p.88-89.
[87] Ivi, pp.89-90.
[88] Ivi, p.90, Nota p.d.p.n° 1.
[89] Ivi, p.91.
[90] Ivi, pp.91-92.
[91] Ivi, pp.93-94.
[92] Ivi, p.99.
[93] Ivi, pp.99-100.
[94] Ivi, p.100.
[95] Ivi, p.102.
[96] Ivi, pp.104-105.
[97] Ivi, p.105.
[98] D.Diderot, Il sogno di d’Alembert, in: Dialoghi filosofici, Firenze, Le Lettere, 1990, p.13.
[99] Ivi, p.16.
[100] Ibidem.
[101] Ivi, pp.17-18.
[102] Ivi, p.18.
[103] ivi, pp.18-19.
[104] Ivi, p.19.
[105]
Ibidem.
[106]
Ivi, p.25-27.
[107] Ivi, p.38.
[108] Ivi, p.39.
[109] Abbiamo già rilevato la plasticità e la problematicità diderotiane, da alcuni interpretate un segno di incoerenza intellettuale. In una famosa lettera a Langlois, in un momento di crisi, Diderot ha un attacco di determinismo, e scrive: «Pensateci bene e vedrete che la parola libertà è priva di senso […] che noi siamo ciò che conviene all’ordine generale, all’organizzazione, all’educazione e alla catena degli avvenimenti.» (in: D.Diderot, L’uomo e la morale, a cura di V.Barba, Pordenone, Studio Tesi 1991, p.8.
[110] Diderot,
Il sogno di d’Alembert, in: Dialoghi filosofici, cit., p.39.
[111]
Ivi, p.43.
[112] Ivi, p.46
[113] Ibidem.
[114] Ivi, p.47.
[115] Ivi, p.48.
[116] Ivi, p.80.
[117] Diderot, Colloquio di un padre coi figli, in: Dialoghi filosofici, cit., p.126.
[118] Ivi, p.128
[119] Ibidem.
[120] Ivi, p.129.
[121] Ivi, p.130
[122] Ivi, p.132.
[123] Ivi, nota 15 al testo, p.617.
[124] Ivi, p.137.
[125] Diderot, Il nipote di Rameau, in: Dialoghi filosofici, cit., p.145.
[126] Ivi, p.146.
[127] Ibidem.
[128] Ivi, pp148-149.
[129] Ivi, p.150.
[130] Ivi, pp.150-151.
[131] Ivi, p.151.
[132] Ivi, p.152
[133] Ivi, p.155
[134] Ivi, p.238.
[135] Ivi, p.277.
[136] Ivi, p.469.
[137] Ivi, pp.469-470.
[138] Ivi, p.470.
[139] Ivi, p.471.
[140] Ivi, p.473.
[141] Ivi, p.474.
[142] Ibidem.
[143] Diderot, Supplemento al viaggio di Bougainville, in: Dialoghi filosofici, cit., p.532.
[144] Ivi, pp.534-535.
[145] Ivi, p.563.
[146] ivi, p.564.
[147] Ivi, p.565-566.
[148] Ivi, pp.567-568.
[149] Ivi,
pp.569-570
[150] Ivi, p.572.
[151] Diderot, Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***, in: Dialoghi filosofici, cit., p.575
[152] Ivi, p.576.
[153] Ivi, p.577.
[154] Ivi, p.579.
[155] Ivi, p.580.
[156] Ibidem.
[157] Ivi, pp.582-583.
[158] Ivi, p.583.
[159] ivi, p.584.
[160] Ivi, p.583.
[161] Ibidem.