XII.
Jean Meslier
12.1 Un personaggio scomodo, odiato e mistificato
Ieri come oggi, sul fronte anti-ateo, è
difficile trovare un personaggio della temperie
illuministica più odiato e
vituperato di Jan Meslier. Sentiamo ad esempio
che cosa dice di lui uno storico
cattolico come Pierre Chaunu: «Quest’uomo
mediocre, di umile estrazione, lascia
alla sua morte il più stupefacente concentrato
di odio macerato nel corso di
un’esistenza monotona, posta sotto il segno
dell’impostura. Meslier ha infatti
perso la fede, ma non intende perdere il
posto […] » Ci pare che sia proprio il
giudizio di Chaunu ad essere esemplificativo
di un “concentrato di odio” nei
confronti di colui che in maniera un pò rozza,
ma giustificata dalla
frustrazione di non potersi esprimere in
vita senza rischiare il carcere duro, si
è permesso di attaccare l’autorità della
Chiesa. Più “pietosa” l’opinione di
Cornelio Fabro:
Più che opera di studio e di ricerca obiettiva,
il Testament è un autobiografia spirituale di un uomo
che ha passato la
propria vita nei crucci personali, senz’aver
mai scavato a fondo nella realtà
del cristianesimo e della religione naturale.
Una specie di Don Abbondio delle
idee, che ha covato per tutta la vita il
malumore di una scelta sbagliata,
senz’avere il coraggio di essere sincero
con se stesso e con gli altri. Una
situazione allucinante – a pensarci bene
– che desta più compassione, che
sdegno o meraviglia. [1]
Il
giudizio psicologistico, specialmente se
condito di cristiana compassione, fa
sempre il suo ottimo effetto. Ma il “paterno”
giudizio di padre Fabro nasconde
ben più profondi interessi dottrinari che
il povero Meslier aveva turbato ed i
teologi italiani possono solo ringraziare
la barriera idealistica che ha
impedito alla cultura illuministica di penetrare
in una cultura italica bigotta
e reazionaria dominante almeno sino alla
prima metà del ‘900. D’altra parte,
stilare una grandiosa e sontuosa galleria
di insulti a Jean Meslier sarebbe
cosa facile, sì che potremmo con essa riempire
tutti gli spazi di questo libro.
Il problema che si pone non è quindi quello
di riabilitare il Nostro da un’accusa
di opportunismo e neppure di condurre una
ricerca psicologica sulle ragioni per
cui egli abbia deciso di esercitare a lungo
un mestiere che disprezza, tacendo
sulle meschinità e bassezze che il gli impone,
per registrare nel contempo i
suoi sentimenti di ribellione concretizzandoli
in un testamento segreto che può
sembrare una vendetta postuma delle umiliazioni
intellettuali subite in vita. Quel
che noi dobbiamo fare è cogliere l’essenza
del suo pensiero sotto la scorza
dell’emozione, della frustrazione e del risentimento.
Il vero problema è quello di analizzare le
sue parole e di valutarle per quello che
dicono, al fine di poter cogliere
l’importante peso etico, sociologico e filosofico
della sua opera. Infatti, se
il curato di Etrepigny organizza la sua arringa
contro il Cristianesimo, sulla
quale si può essere o no d’accordo, non deve
sfuggire il fatto che egli va
molto oltre l’intento anti-religioso, ponendo
due tematiche “teoriche”
importantissime per la cultura posteriore,
una che riguarda il campo della filosofia
(la proposta di un materialismo indeterministico
di stampo epicureo-lucreziano)
e un’altra relativa all’etica e alla sociologia
(l’idea di una società
“comunista”, giusta, libera, solidale ed
egualitaria). Entrambe precorritrici
di grandi novità filosofiche e sociologiche
che vedranno la luce solo verso la
metà del XVIII secolo o decisamente nel XIX.
Se si perde di vista l’importanza
di Meslier come pensatore isolato nel suo
stesso contesto, auto-criptatosi per
ragioni non chiare, perlopiù ignorato durante
e dopo la sua vita e spesso
mistificato dai suoi esegeti, si rischia
di continuare a lasciarlo in quel
ghetto oscuro e disdicevole in cui lo hanno
precipitato i teologi cristiani ed
idealisti. Essi insistono infatti nel cogliere
di lui la modesta cultura e la
rozzezza espressiva, ed evidenziandole poter
sotterrare frettolosamente l’opera
dell’abominevole apostata in un fossa profonda
dove diventi difficile
rimetterla in luce.
La nostra netta impressione è che anche una
critica contemporanea spesso meritevole di
condurre ottima ricerca sul pensiero
settecentesco, nei riguardi dell’opera di
Meslier adotti un metodo esegetico [2].
Giudicare il Testamento alla luce di quei riferimenti culturali
che
vengono utilizzati dall’autore per contestualizzare
il suo discorso (Descartes,
Malebranche, Montaigne, Fénelon, ecc.) e
produrne confronti di tipo
testuale-analitico, significa, a nostro parere,
perdere completamente di vista
la “sostanza “ del discorso meslieriano.
I riferimenti espliciti o impliciti ad
essi si pongono come niente di più che un
“relativo” back-ground culturale (ed
anche molto approssimativo) che egli utilizza
al solo fine di avere qualche
termine di riferimento letterariamente noto
ma perlopiù ignoto ai suoi
referenti. I quali non sono gli intellettuali
che conoscono Cartesio,
Malebranche, Montaigne e Fénelon, ma i contadini
della sua provincia che sanno
a mala pena leggere. Ciò che va quindi colto
è il discorso meslieriano “in sé
stesso”, con le coerenze o le incoerenze
del discorso stesso, che essendo
anti-metafisico non tollera alcun confronto
con la teologia filosofale
precedente, fatta esclusivamente di metafisica,
senza rischiare il fraintendimento
totale. In termini logico-dialettici è evidente
che Meslier non possa reggere
il confronto con nessuno dei pensatori sopra
citati e come da tale angolo di
giudizio egli possa apparire paradossalmente
“datato” anziché riuscire a
coglierne le dirompenti novità filosofiche.
Nato nel 1664 da famiglia piccolo borghese
il piccolo Jean viene avviato alla carriera
ecclesiastica e nel 1688 ordinato
sacerdote nel seminario di Reims. Riceve
l’incarico pastorale di guidare le
parrocchie di due piccoli paesini, Etrépigny
e Balaives, in una sperduta zona
rurale. Egli svolge l’incarico senza rivelare
alcuna smagliatura né negligenza
da un punto di vista strettamente pastorale,
senza che nessuno intravvedere
qualche tratto della sua miscredenza. Ma
non si coglierebbe appieno il suo
importante messaggio se si trascurasse di
evidenziare, accanto alla critica
della religione, una critica non meno severa
nei confronti del potere
costituito e della struttura sociale dell’epoca,
basata sulla vessazione e lo
sfruttamento delle classi umili. È probabile
che egli, nell’ambito di una
comunità contadina disagiata (e proprio in
quanto tale legata alle speranze
inculcate dalla fede) si sia ritagliato un
ruolo contingente tale da non
turbarla, lasciando essere la credenza religiosa
come corrispettivo simbolico
delle scadenze della vita e delle esigenze
del quotidiano. Ma nello stesso
tempo ha elaborato, giorno per giorno, una
riflessione devastante e un lascito
rivoluzionario in cui si denuncia l’ingiustizia
sociale come l’esito storico di
un patto scellerato tra il potere politico
e il potere religioso, le cui perverse
conseguenze hanno percorso i millenni in
maniera immutata pur cambiando
situazioni e luoghi. Il popolo di Etrépigny
e di Balaives risulta così
accomunato a tutti i popoli della Terra in
una superstizione e in una credulità
che rendono possibili a proprio danno il
dominio, la vessazione, l’ingiustizia,
lo sfruttamento. La sua è quindi un’analisi
storica per nulla banale, che
precorre di un secolo le tesi che il socialismo
a venire, espresso da Proudhon
prima e da Marx poi, avrebbe portato alla
ribalta e che avrebbero cambiato la
storia dell’Europa.
Per Meslier la giustizia e la fratellanza
tra gli uomini, un vero comunismo ante litteram, è realizzabile soltanto
rompendo l’abbraccio perverso tra fede e
politica, tra le gerarchie della
religione di Cristo e l’aristocrazia. I veri
destinatari del suo messaggio sono
gli umili e gli oppressi delle generazioni
presenti e future, con contadini che
succederanno a miseri contadini asserviti
che rischieranno di diventare altri
contadini asserviti. Egli è il gestore delle
loro credenze, delle loro
illusioni e delle loro speranze, poiché già
ne gestisce la fede nel profondo
del loro cuore come nei loro comportamenti
esteriori: perciò sente il dovere di
disingannarli, ma a costoro, il suo messaggio,
non giungerà mai. Ciò per
l’impossibilità di accedervi in quanto analfabeti,e
se alfabetizzati per la
scarsa possibilità o propensione alla lettura
di un’opera così corposa e
complessa. Inoltre essa è subito sottratta
all’accesso del grande pubblico per
il terribile rischio di “contaminarsi” con
quell’opera dai connotati diabolici.
Accadde così che Meslier diviene noto solo
in circoli intellettuali libertini e
anticristiani lontanissimi dal popolino,
da parte dei quali è oggetto di
attenzione e interesse. Del tutto ignorato
invece dai veri destinatari sognati
dallo scrivente, quelli che avrebbero dovuto
trovare nella sua opera gli
stimoli per prendere coscienza degli abusi
a cui erano sottoposti al fine di
potersi avviare sulla strada della consapevolezza
e della ribellione. Egli è
quindi l’anticipatore di tutte le concezioni
rivoluzionarie che matureranno solo
nel secolo successivo, restando tuttavia
abbastanza ignorato in Francia e soprattutto
fuori di essa per oltre un secolo.
Della vita di Meslier ad Etrépigny si sa
poco o nulla, se non che nel 1716 entra in
rotta di collisione col feudatario
locale, denunciandone dal pulpito abusi e
ingiustizie a danno dei sudditi. È
probabile che egli abbia dovuto giustificarsi
di ciò di fronte ai suoi diretti
superiori e che abbia dovuto farne ammenda
e battere in ritirata umiliato.
L’episodio sicuramente deve aver alimentato
la sua frustrazione di fronte al
ferreo connubio che univa la spada e la croce
in un blocco sociale intoccabile
e invulnerabile, traendone conseguenze definitive
per il suo punto di vista. Il
nostro uomo non è un cuor di leone, ma può
anche darsi che abbia valutato
l’impossibilità di agire ed il rischio esiziale
(e forse inutile) che avrebbe
corso. La vicenda dell’umile curato apostata,
vinto e umiliato dalla situazione
dell’Ancien Régime, e giustiziere letterario postumo, va peraltro
ben
oltre i limiti dell’opera che diverrà nota
col titolo di Testamento,
poiché dal momento della scoperta di esso
si verifica una forte
strumentalizzazione della sua figura e della
sua opera in senso unicamente
anticristiano, e non anche ateo come sarebbe
stato corretto, e “usato”
addirittura per un’apologia del deismo che
Meslier aveva implicitamente negato
e cassato non meno del Cristianesimo. La
storia del Testamento comincia
quando si chiude la vicenda umana di Jean
Meslier, il curato-ateo di Etrépigny,
che chiude gli occhi nel 1729 formalmente
“in grazia di Dio” e che i suoi
devoti parrocchiani immaginano quindi, di
rigore, “asceso al cielo”.
Meslier redige tre copie manoscritte delle
sue Memoires des pensées e des sentiments de
Jean Meslier (il Testament),
ne consegna una ad un avvocato di Mézieres
e due a cancellerie di competenza
per la zona di Etrépigny. Queste, finite
nella biblioteca di German-Louis de
Chauvelin (ex guardasigilli e segretario
di stato per gli affari esteri) nella
sezione Heterodoxi, passano dapprima nel fondo manoscritti
della
biblioteca dell’abbazia benedettina di Saint-Germain-des-Prés
e quindi,
all’indomani della Rivoluzione, nella Bibliothèque Nationale. Ma già a
pochi anni dalla sua morte alcune copie dell’opera
cominciano a circolare
clandestinamente in qualche circolo intellettuale,
ed una di queste finirà nel
1735 in mano a Voltaire, che decide di farne
un uso molto “personale”, o per
meglio dire: ideologico. Egli presenta Meslier
come anti-cristiano attraverso
un’Extrait des sentiments de Jean Meslier pubblicato nel 1742, nel quale
erano state accuratamente eliminate le pagine
in cui l’autore faceva
professione di ateismo, avvalorando così
la tesi che egli fosse deista.
Presentandolo solo come un negatore della
rivelazione biblico-evangelica e dei
miracoli Voltaire ha così buon gioco a farne
un precursore di quel tipo di
religione di cui si fa vessillifero. Quest’operetta
mistificatoria ha buona
diffusione e accantona l’opera originale,
circolante in un’edizione in-folio
che lo stesso Voltaire bolla come “illeggibile”
oltre che costosa; affermando
invece della proprio “riduzione”: «questo
piccolo estratto è molto edificante
(…) preghiamo Dio che elargisca le sue benedizioni
su questa utile lettura.» [3] Più
tardi, da vero apostolo della nuova fede,
scrive in una lettera: «Sappiate che
Dio benedice la nostra Chiesa nascente: trecento
Mêlier distribuiti in
una provincia hanno operato molte conversioni
» [4].
Ma gli equivoci sul Nostro non finiscono,
poiché, a complicare le cose, viene nel 1791
la pubblicazione di un’edizione
del Bons Sens di D’Holbach con l’attribuzione a Meslier,
sì che i due
autori cominciano a venire da qualcuno confusi,
risultando peraltro le idee
atee di fondo abbastanza simili, per quanto
l’atteggiamento del
populista-comunista Meslier fosse totalmente
lontano da quello
dell’aristocratico-liberale D’Holbach. A
porre fine all’equivoco sarà un
olandese di origine francese, Rudolf Charles,
il quale, venuto casualmente in
possesso di una copia dell’opera, ne è così
colpito che decide di lavorare per
la diffusione di essa, che cominci così,
pubblicata ad Amsterdam nel 1864, a
circolare in edizione integrale. L’opera
si legge a fatica, Meslier non ha una
preparazione filosofica profonda, ma ancor
meno è un letterato. La sua prosa è
greve, ridondante, ripetitiva; pare che egli
scriva per degli zotici nei
confronti dei quali l’unica regola valida
pare essere quella del repetitae
iuvant. Ma gli zotici, lo ripetiamo, sono i destinatari
ideali; comunicando
col loro nel confessionale e sul pulpito
ha compreso le difficoltà che hanno di
“capire”. Forse incapace di scrivere diversamente
ma forse consapevole delle
possibilità assimilative di lettori appena
post-analfabeti opta per la
ripetizione e per la ridondanza, e sforna
un’opera che in quanto ai contenuti
potrebbe essere ridotta di tre quarti.
È probabile che l’unica “filosofia” che
conosca (si fa per dire!) sia la teologia
filosofale che gli hanno propinato in
seminario: un po’ di Platone e Aristotele,
molto Origene e Sant’Agostino,
Sant’Anselmo e San Tommaso, poco di Cartesio
e Leibniz. Ma è il cartesianesimo a
dominare la scena e il meccanicismo si è
ormai insinuato in tutti i gangli
della cultura laica e per Meslier esso è
quello di Malebranche. Questi è il
prete-filosofo che ha meglio fuso la metafisica
di Descartes con la dottrina
cristiana e il cui sistema funzionerà durante
tutto il ‘700 come antidoto
contro la filosofia “inglese”: il razionalismo
empiristico. Il Nostro assume
così Malebranche come bersaglio principale
dei suoi giudizi e delle sue
analisi, per quanto è proprio a partire dal
meccanicismo cartesiano che il
Nostro costruisce la “sua” filosofia materialistica
basata su pochi semplici
assunti, in parte tratti dall’atomismo e
in parte da testi clandestini. Essi
sono: a) la materia è eterna ed è in movimento, b) movendosi essa crea
la realtà generale cosmica e i suoi gli enti,
c) essendo la realtà materiale
anche l’uomo è “interamente” materia, e in
quanto capace di pensare egli non fa
che produrre quella forma particolare di
materia che lo caratterizza: il
pensiero. Solo questo lo distingue dagli
altri animali e in tal senso l’uomo,
per Meslier, è solo macchina materiale più
nobile rispetto a macchine meno
nobili, ma rimane in ogni caso “macchina”
fatta di pura materia. Superfluo
aggiungere che in ciò Meslier precede il
La Mettrie de L’uomo macchina,
che vedrà la luce nel 1748, ed anche gli
altri due filosofi atei del Settecento,
Helvétius e d’Holbach; e va detto che, fatti
salvi lo stile e la complessità
del discorso, essi non vanno poi molto oltre
le sue posizioni.
Il Memoires-Testament di Meslier si
articola in una Premessa e piano dell’opera, in otto Prove e in
una Conclusione. Relativamente alle Prove: dalla Prima alla
Quinta ce ne
occuperemo soltanto di passaggio, mentre
approfondiremo la Sesta, la Settima e
l’Ottava. Vale però la pena di darne tutti
i titoli per esteso, poiché da essi
si possono desumere immediatamente le tesi
di Meslier, sia pur enunciate in
maniera piuttosto pedantesca. Prima Prova dell’inconsistenza e della
falsità delle religioni, le quali sono nient’altro
che invenzioni umane. Seconda Prova dell’inconsistenza e
della falsità delle religioni. La fede, credenza
cieca che serve da fondamento
a tutte le religioni, non è che fonte di
errori, illusioni, imposture. Terza
Prova dell’inconsistenza e della falsità delle
religioni, tratta
dall’assurdità e dalla falsità delle presunte
visioni e rivelazioni divine. Quarta
Prova della falsità delle religioni tratta dalla
falsità delle presunte
promesse e profezie dell’Antico Testamento. Quinta Prova
dell’inconsistenza e falsità della religione
cristiana dedotta dalle false
credenze contenute nella sua dottrina e nella
sua morale. Sesta Prova
dell’inconsistenza e falsità della religione
cristiana dedotta dagli abusi,
dalle ingiuste vessazioni e dalla tirannia
dei potenti che essa tollera ed
autorizza. Settima Prova dell’inconsistenza e falsità delle religioni
dedotta dalla falsità stessa della credenza
umana nella presunta esistenza
degli dèi. Ottava Prova dell’inconsistenza e falsità delle religioni
tratta della falsità stessa delle idee degli
uomini intorno alla spiritualità e
immortalità dell’anima.
12.2
Lo scandalo morale dell’iniquità e dell’ingiustizia
Si rischia di non capire nulla di Meslier
se si prescinde dall’afflato morale che anima
la sua scrittura. Il curato è sì
un frustrato, ma la sua frustrazione nasce
anche, se non soprattutto, dallo
scandalo delle disuguaglianze sociali che
egli si trova a registrare e, in
qualche misura, a gestire, in quanto uomo
pubblico e dotato di autorità in una
comunità di contadini e braccianti incolti.
Non sappiamo quanto sia sincero
quando dichiara di essersi fatto prete per
compiacere i suoi genitori, la
profonda assimilazione dello spirito del
primo cristianesimo clandestino come
del solidarismo e del comunitarismo che animava
quelle prime comunità,
sembrerebbero stati determinanti per la profonda
trasformazione morale di un
religioso che si sente “tradito” nei suoi
stessi sogni di redenzione del
mondo. Quando egli scopre l’impostura
che sottostà alla dottrina religiosa e la
strumentalizzazione del messaggio
cristiano a fini di dominio e di sfruttamento,
la sua rivolta morale si
scatena. Vediamo il famoso incipit
del Testamento offerto in Premessa e piano dell’opera:
Miei carissimi amici, poiché non mi sarebbe
stato permesso, e avrebbe avuto conseguenze
troppo pericolose e spiacevoli,
dire apertamente in vita ciò che pensavo
del modo in cui sono retti e governati
gli uomini, delle loro religioni e dei loro
costumi, ho deciso di farvelo
almeno sapere dopo che fossi morto. Sarebbe
sì, certo, mio desiderio dirvelo a
viva voce prima di morire, se mi accorgessi
di esser vicino alla fine dei miei
giorni, e in tale situazione fossi ancora,
al tempo stesso, in grado di
giudicare e di esprimermi. Ma, siccome non
sono sicuro di avere in quegli
ultimi giorni, in quegli ultimi momenti,
né il tempo né la presenza di spirito
che mi sarebbero necessari per rendervi partecipi
delle mie idee, ho deciso di
esporvele qui per iscritto e di darvi, al
tempo stesso, prove chiare e
convincenti di quanto ho in animo di dirvi
sulla questione. [5]
L’indirizzo
ai «carissimi amici» (in primis i suoi parrocchiani) e probabilmente,
per estensione, tutti gli umili e sfruttati
della Terra, apre con un tono
indubbiamente affettuoso l’allocuzione di
Meslier. Certo, lo abbiamo già
rilevato, egli non è un eroe, e tuttavia
il suo argomento giustificativo non è
da poco. Le «conseguenze troppo pericolose»,
infatti, non riguardano soltanto
la sua incolumità fisica, ma l’incolumità
e l’esistenza della sua stessa opera,
il frutto delle sue riflessioni. L’alternativa,
quella di dichiararsi
pubblicamente prima di morire, non è solo
resa problematica dalla situazione,
ma soprattutto dal fatto che Meslier dubita
di essere in grado di poterlo fare
adeguatamente nella condizione di moribondo.
Egli, in quanto prete che officia
estreme unzioni, sa che la lucidità in punto
di morte viene meno; non solo, sa
altrettanto bene quante conversioni e ri-conversioni
possa produrre la paura in
punto di morte. Senza un testo scritto, meditato,
stilato e rivisto quale
testimonianza della sua lucidità mentale,
messo poi nelle mani sicure di notai
e in tempo utile, egli sa benissimo che la
malattia e la discesa verso la morte
potrebbero non solo pregiudicare gravemente
la natura del suo messaggio, ma comprometterne
la stessa trasmissione. La motivazione dell’opera:
Sin dalla prima giovinezza ho intravisto
gli
errori e gli abusi che causano nel mondo
mali tanto grandi. Più sono andato
avanti negli anni e nell’esperienza, più
ho avuto modo di provare la cecità e
la malvagità degli uomini, l’assurdità delle
loro superstizioni, l’ingiustizia
dei loro governi. […] Le lacrime dei giusti
sventurati, e le miserie dei tanti
oppressi dalla tirannia dei ricchi e dei
potenti della terra, hanno suscitato
in me, come lo suscitavano in Salomone, tanto
disgusto e disprezzo per la vita,
da farmi considerare, al pari di lui, molto
più felice la condizione dei morti
che quella dei vivi, e coloro che non sono
mai nati mille volte più fortunati
di quelli che sono nati e gemono in tante
e così grandi miserie. [6]
Cecità
e malvagità si coniugano per Meslier con
la superstizione, cioè con la
religione e col malgoverno. Le “lacrime dei
giusti” in lui la stessa
indignazione espressa in un passo biblico
a lui noto in cui si coglierebbe un
parere di Salomone, il saggio per eccellenza,
analogo al suo. Il passo è dell’Ecclesiaste (4, 2-3) e il
Cohelet-Salomone dichiara:
Mi
sono poi dato a considerare tutte le oppressioni
che si commettono sotto il
sole: ed ecco il pianto degli oppressi e
non c’è un consolatore per loro, e, da
parte dei loro oppressori, violenza, e non
c’è un consolatore. E dissi: felici
i morti, che son già morti, più dei vivi,
che sono ancor vivi: e più felice
ancora degli uni e degli altri, chi ancora
non è, e non ha visto le malvagità
che si commettono nel mondo. [7]
Solo
due elementi meslieriani confliggono col
discorso biblico, l’ipotesi del “non
nato” (di un sapore leopardiano ante litteram, del tutto inconcepibile
per chi considera la vita un “dono di Dio”)
e l’omissione della “consolazione”,
poiché il discorso del Nostro implica la
“rivolta” contro tale stato di
cose. Se abbiamo reso qui il brano
biblico, non è solo per puntualizzare il
riferimento, ma perché è importante
rilevare come il Nostro, per quanto abbia
sicuramente una cultura notevole per
un umile curato dell’epoca, elabora molto
spesso le sue riflessioni con
reminiscenze che gli vengono direttamente
dalla cultura ecclesiale che ha
assorbito in seminario. Il fatto che le
sue riflessioni nascano da un back-ground religioso, rende bene l’idea
del ribaltamento di fini cui viene sottoposto
il testo sacro, non più a favore
della fede, bensì a sua condanna.
Ma quello che più scandalizza Meslier è
l’atteggiamento delle persone che pur vedendo
l’iniquità e pur avendo cultura,
mezzi e prestigio per combatterla, si guardano
bene dal farlo. Anche i saggi e
gli illuminati non fanno né dicono nulla
«benché conoscano a sufficienza le
miserie del popolo sedotto e ingannato da
tanti errori e oppresso da tante ingiustizie.»
[8] La colpa di tutto ciò sta nell’atteggiamento
«politico» che accomuna per interesse le
autorità della religione e gli
esponenti del potere laico, poiché:
[...]
gli uni e gli altri, si sono abilmente serviti
non solo della forza e della
violenza ma anche di ogni tipo di espedienti
e di frodi per ingannare il popolo
al fine di raggiungere più facilmente i loro
scopi; così tutti questi astuti e
sottili “politici”, approfittando dell’incapacità,
credulità e ignoranza dei
più sprovveduti e dei meno illuminati, hanno
fatto loro credere facilmente
tutto ciò che hanno voluto; li hanno spinti
quindi ad accettare con rispetto e
sottomissione, per amore o per forza, tutte
le leggi che hanno voluto imporre
loro. In tal modo gli uni si son fatti onorare,
rispettare e persino adorare
come vere e proprie divinità, o perlomeno
come persone particolarmente sante
che avevano avuto il privilegio di essere
scelte e inviate da qualche dio per
far conoscere agli uomini le sue volontà;
gli altri invece sono diventati ricchi,
potenti e temibili. [9]
Abbiamo qui una sintesi efficace di tutti
quegli argomenti che a tutt’oggi animano
tutte le pulsioni morali di coloro che
si rifanno a Marx, che ha così bene enucleato
nella sua teoria il connubio
religione-potere e il suo superamento con
la rivoluzione. Rivoluzione che
Meslier non evoca in modo esplicito, ma che
è implicita nell’invito a una
rivolta morale che non può che estrinsecarsi,
prima o poi, in rivolta
pragmatica. Un potere nominale avvalora e
sottolinea il potere reale; i titoli
nobiliari ed ecclesiastici che incutono rispetto
al solo venire pronunciati
sono lo strumento, apparentemente innocuo,
di tanti “lupi rapaci”
(l’espressione si richiama al La Bruyère
dei Caratteri) che se ne
fregiano. La tesi si estrinseca nei seguenti
termini:
Ecco,
ugualmente, la fonte e l’origine di tutte
queste prerogative considerate sacre
e inviolabili e legate all’autorità ecclesiastica
e spirituale che i vostri
preti e i vostri vescovi si arrogano su di
voi: sono essi che, col pretesto di
offrirvi i beni spirituali di una grazia
e di una benevolenza tutta
soprannaturale, vi privano astutamente di
beni incomparabilmente più solidi e
reali di quelli che essi fingono di volervi
dare; e che, col pretesto di
volervi condurre al cielo e di farvi godere
lì una felicità eterna, vi
impediscono di godere tranquillamente di
qualunque autentica felicità sulla
terra; infine, son sempre loro che, col pretesto
di volervi tenere lontani,
nell’altra vita, dalle pene immaginarie di
un inferno che non esiste, così come
non esiste quell’altra vita eterna, cui legano
i vostri timori e le vostre
speranze, senza alcun vantaggio per voi ma
non certo senza profitto per loro,
vi costringono a soffrire in questa vita,
la sola che possiate pretendere, le
pene reali di un vero e proprio inferno.
[10]
L’invenzione di un luogo di dolori
escatologici quali pene per la violazione
di principi e leggi inventate, allo
scopo di “controllare e asservire” gli umili
e gli ignoranti, sono le cause del
luogo di dolori “reale” che è diventata la
culla degli uomini, la Terra. Il
processo mistificatorio e di asservimento
messo in moto delle religioni
presuppone che, per il raggiungimento di
un potere compiuto e stabilizzato
nelle istituzioni sia sacre che profane,
la fede e la spada si coniughino e
agiscano insieme. L’analisi è precisa e spietata,
ma non si traduce qui in
inviti diretti alla rivolta, e tuttavia non
si sa se quando Meslier parla di un
“illetterato (ma di “buon senso”) da lui
conosciuto riferisca il pensiero di
lui, o invece il proprio, nel mettergli in
bocca l’augurio «che tutti i potenti
e tutti i nobili della terra fossero impiccati
e strangolati con le budella dei
preti.» [11]
Meslier si rende anche conto che il suo
tono talvolta aggressivo possa far pensare
a sentimenti di vendetta, per cui
precisa:
Non
pensiate, miei cari amici, che io sia
spinto da un particolare desiderio di vendetta,
né da animosità o da interesse
particolare; no, miei cari amici, non è affatto
la passione ad ispirarmi queste
idee od a farmi parlare e scrivere così;
è solo, da una parte, l’amore per la
giustizia e la verità che vedo così indegnamente
oppressa, e, dall’altra,
l’avversione per il vizio e l’iniquità che
vedo diffusi così sfacciatamente ovunque.
[12]
12.3 L’idea di
comunismo e dei suoi annessi
Veniamo ora ad un importante aspetto del
Testamento, quello sociologico, che viene
sviluppato specialmente nella Sesta
Prova. Si tratta di una parte dell’opera che contiene
riferimenti
soprattutto al testo noto, nella sua traduzione
in francese, come L’espion
du Grand Seigneur (abbreviato in L’espion turc), di Marana [13],
il quale, in realtà, gli aveva dato come
titolo originale L’esploratore
turco. Ma non mancano numerosi riferimenti anche
al Télémaque di
Fénelon e in qualche punto ai Charactères di La Bruyère, laddove vengano
trovati puntelli alle tesi esposte. Una
premessa importante:
Tutti
gli uomini sono uguali per natura e tutti
hanno uguale diritto di vivere e di
camminare sulla terra, come pure di godervi
una libertà secondo natura e di
partecipar ai frutti della terra, lavorando
utilmente, gli uni e gli altri, al
fine di procurarsi le cose necessarie e utili
alla vita. [14]
Dunque,
l’uguaglianza come concetto forte della socialità.
Esso potrebbe venirgli,
almeno in parte, dalla conoscenza di Locke,
in ogni caso ben prima dei philosophes
il Nostro ha posto l’eguaglianza sociale
come condizione essenziale per una
società giusta. Un’eguaglianza che riguarda:
a) il diritto di vivere, b) di
godere di libertà di movimento, c) di partecipare
ugualmente all’utilizzo e al
consumo dei frutti della terra, d) di lavorare
“in comune” per procurarsi le
cose necessarie e quelle utili. Si noti che
non si parla né di libertà di
espressione (eppure Meslier avrebbe più che
buone ragioni per rivendicarla!) ne
di accesso a cose superflue alla vita (come
la letteratura, la musica e le
arti). Un programma che prefigura, ante litteram, quello di un
socialismo ancora un poco rozzo, che riceverà
da Marx una teorizzazione
sistematica e un raffinamento notevole sul
piano umanistico, ma molto
innovativo e significativo se si pensa che
viene formulato prima dello scadere
del Seicento. E poi una precisazione per
allontanare ogni tentazione anarchica:
Ma
siccome vivono in società, e dato che una
società o comunità di uomini non può
mantenere un ordine giusto senza che ci sia
sempre un qualche rapporto di
dipendenza e di subordinazione tra gli uomini,
è assolutamente necessario, per
il bene della società umana, che esista pure
un certo rapporto di dipendenza e
di subordinazione tra loro. Ma occorre anche
che tale rapporto di dipendenza e
di subordinazione sia equo. Non bisogna,
cioè, che esso giunga ad innalzare
troppo gli uni e ad abbassare troppo gli
altri, né a lusingare e a dar troppo
ai primi e, nello stesso tempo, reprimere
e a non dar nulla ai secondi […] [15]
È
posto chiaramente il concetto di società
di uomini uguali per natura e “governata”
a fini di equità e senza che i governanti
godano di privilegi non compatibili
con essa. Un concetto di società che prefigura quella “comunista” nel
senso migliore del termine, quella che è
ordinata senza risultare per ciò
totalitaria né vessatoria delle libertà individuali
per il perseguimento del
“fine comune” in termini realistici e non
in nome di un egualitarismo utopico e
ideologico.
I concetti di “necessità sociale” e di
“utilità sociale” sono posti poco più avanti,
stigmatizzando l’inutilità sia
dei religiosi che dei nobili. Da ciò un principio
“comunistico”:
È
per ciò un abuso manifesto quello di tollerare
e di permettere fra gli uomini
la presenza di un tale ozio e di una tale
improduttività, come pure quello di
tollerare che degli uomini che non fanno
nulla e non vogliono far nulla siano
inutilmente a carico della collettività.
[16]
Essendo la “produttività” di beni utilizzabili
dalla comunità il solo criterio-base per
una retribuzione equa e socializzata,
solo essa deve essere assunta come criterio
di valore in termini comunitari e
ciò implica irrimediabilmente la non-tollerabilità
dell’ozio. Il concetto di “nobile
ozio” ha accompagnato in tutta la storia
e fino a tempi recenti il modo di
vivere delle classi dominanti, quale correlato
della condizione aristocratica,
con all’opposto la fatica quale compito quasi
istituzionale dei costituenti la
pura “forza lavoro”. Ma con riferimento specifico
ai religiosi (e soprattutto
ai frati), nell’evocare i giudizi che l’agente
turco del Marana manifestava al
suo sultano, egli sbotta: «Non si sa proprio
che farsene nel mondo di tutti
questi individui, di tutti questi biascicatori
di messe e di breviari, di
mattutini e di compiete, di orazioni e di
rosari.» [17],
per concludere:
Quali
cose inutili! Una sola ora di onesto lavoro
vale molto più di tutto ciò.
Quand’anche tutti i monaci e tutti i preti
celebrassero ognuno venti, trenta e
persino cinquanta messe l giorno, tutte queste
insieme non varrebbero un
chiodo, come si dice abitualmente. Un chiodo
è utile e necessario e non si
potrebbe farne a meno in varie occasioni,
ma tutte le preghiere, le orazioni e
le messe che i monaci e gli altri preti potrebbero
dire, non servono a nulla
valgono solo a far guadagnar denaro a coloro
che le dicono […] [18]
Per
comprendere il senso di queste affermazioni
bisogna tenere conto di due cose. La
prima, che l’aspetto “quantitativo” delle
preghiere e delle celebrazioni dei
sacramenti ha costituito per millenni un
valore “quantizzabile” del
corrispettivo favore divino in termini di
indulgenza o di premio nell’aldilà.
Secondo: un valore che andava a favore non
solo di chi ne era attore (il
religioso) ma anche di chi ne era committente
(il fedele) attraverso la
donazione in danaro per promuoverla. La preghiera
del religioso, infatti, a
favore di una persona in difficoltà o di
un defunto sofferente in Purgatorio,
si pensava (o si induceva a pensare) avesse
un valore presso il Padre Celeste
ben maggiore di quella del peccatore (come
dire di ogni uomo che non fosse un
ministro di Dio). Da ciò la corsa, da parte
sia di chi ne aveva i mezzi e sia
da parte di chi ne scarseggiava, a “far fare”
al religioso ciò che Dio si
aspettava, e la cui benevolenza era proporzionale
allo sforzo pecuniario del
peccatore a beneficio di sé o di chi per
lui.
Meslier insieme a quello di produttività
pone anche quello del “lavoro reale” che
un individuo svolge, e ciò proprio in
contrapposizione al vano operare del ministro
di Dio. Non solo, egli introduce
un elemento che sottolinea il parassitismo
del clero, che beneficia di
“cessioni automatiche” in risorse commestibili
o pecuniarie che il lavoratore
produce con la fatica, del tipo della decima, e che gli vengono
sottratte per legge. Il reale produttore
di risorse produce in genere più di
quanto gli serva, ma il suo maggior sforzo
è imposto perché egli deve mantenere
qualcun altro che non produce nulla. Perciò
aggiunge:
Un
buon aratore produce col suo aratro più di
quanto gli sia necessario per
vivere, mente tutti quanti i preti messi
insieme non potrebbero contribuire […]
a produrre un solo chicco di grano, né saprebbero
fare qualcosa che fosse della
più piccola utilità per la società. [19]
Dunque,
ancora la società come soggetto primario di riferimento; il
clero, nella
sua totalità, non riesce a produrre l’unità
minima e simbolica del produrre: un
chicco di grano. E ciò non solo per la non-volontà
di essere socialmente utile,
ma per la reale incapacità del religioso
di poterlo essere. Difficile
immaginare un’auto-condanna più feroce e
ultimativa del proprio esser-prete, a
testimonianza del rifiuto profondo del proprio
ruolo. Alla domanda che emerge,
ancora una volta, del perché Meslier resti
prete malgrado l’auto-disprezzo, la
risposta manca, ma questo è probabilmente
il tormento psichico che nessun
psicologo potrà indagare e che il curato
di Etrépigny si è portato nella tomba.
Si potrebbe anche pensare che il Nostro tenga
in considerazione soltanto il
lavoro manuale e non quello intellettuale,
ma non è così. Meslier si preoccupa
di contrapporre all’operare inutile dei preti
quello degli attori e dei
musicisti, infatti: «coloro che esercitano
questo mestiere hanno il merito,
perlomeno, di rallegrare e di far divertire
il popolo.» Un popolo che non deve
“vivere di solo pane”, ma anche di nutrimenti
dello spirito che devono
alleviare le sue fatiche. E sottolinea: «È
ben giusto, infatti, che coloro che
ogni giorno si dedicano al lavoro e, spesso,
a lavori penosi e faticosi, è ben
giusto, dico, che costoro ricevano almeno
in cambio qualche ora di
divertimento.» [20]
Il Nostro è anche, a suo modo, un fisiocrate
ante litteram, poiché ogni suo riferimento alla produttività
riguarda i
frutti della terra. Ed è proprio in riferimento
alla produzione dei beni
agricoli ed a tipo di società che ad essi
faccia riferimento, sia in termini
organizzativi che redistributivi, che egli
sogna una società comunista giusta
ed equa. Da ciò la precisazione:
Un
altro abuso quasi universalmente accettato
e autorizzato nel mondo è
l’appropriazione individuale che gli uomini
fanno dei beni e delle ricchezze
della terra, che dovrebbero, invece, essere
posseduti da tutti in parti uguali
e di cui tutti dovrebbero usufruire equamente
e in comune. [21]
L’appropriazione
individuale di beni derivanti dalla terra
(e in una società pre-industriale
essi costituivano il 90% della produzione
globale) è illegittima nella misura
in cui essi sono “della comunità”, quindi
di tutti, e vanno posseduti
“equamente” e “in comune”. Ma egli non smette
di sorprenderci venendo poi fuori
con un’apologia del divorzio impensabile
per un uomo della fine del Seicento (e
per di più prete). Ed è proprio il pastore
di uomini e donne, che partecipa dei
loro disagi, che li vede stritolati da leggi
ottuse, da costumi e da
consuetudini che li legano e tolgono loro
un elementare diritto ad
autodeterminarsi anche sul piano della famiglia,
a sentirsi coinvolto nei loro
problemi. Ed è il sentimento di chi coglie
la sofferenza psichica dei suoi
simili a fargli affermare:
Allo
stesso modo, ancora, che cosa deriva da quest’altro
abuso esistente tra gli
uomini, cioè quello di rendere indissolubili
fino alla morte dell’uno o
dell’altro coniuge? Deriva che vi sono fra
essi un’infinità di matrimoni
infelici, di famiglie sventurate nelle quali
gli uomini si scoprono disgraziati
con cattive mogli, e le donne, a loro volta,
misere e infelici con cattivi
mariti, la qual cosa porta spesso alla rovina
e allo sfaldamento dei nuclei
famigliari. […] Che cosa ne consegue da questi
cattivi matrimoni? Ne consegue
sovente che i figli sono miseri e infelici
a causa dello sbaglio e della
cattiva condotta dei rispettivi genitori,
che offrono quotidianamente così
cattivi esempi né si preoccupano di educarli
o di farli istruire, come sarebbe
necessario, nelle scienze e nelle arti, come
pure dei buoni costumi. Inoltre,
dato che la maggior parte di coloro che si
impegnano così nel matrimonio sono
povera gente, a loro volta male educati e
mal nutriti, privi dei mezzi e della
capacità di educare meglio i loro figli,
come pure di nutrirli meglio di quanto
lo siano essi stessi, dato ciò, consegue
che essi restano sempre nell’ignoranza
e nella miseria, a tal punto che spesso se
ne vedono parecchi morire di stenti.
[22]
Apparentemente
ci troviamo qui di fronte all’incoerenza
di abbinare due argomenti differenti, quello
dei matrimoni falliti e quello dell’impossibilità,
per indigenza e per
ignoranza, di crescere-educare e di provvedere
adeguatamente ai figli. E
tuttavia, anche se manca qualche passaggio
che li leghi, non è difficile vedere
l’acutezza di Meslier nel cogliere il fatto
che un’unione disastrata ha
conseguenze terribili. Esse vanno infatti
ben aldilà del danno psichico di cui
soffrono i coniugi stessi e i loro figli,
poiché la disunione e la disarmonia
famigliare sono spesso causa anche di insuccesso
e di fallimento professionale
ed economico. Viene qui messo in evidenza
come solamente una condizione
famigliare armonica e coesa renda possibile
unire le forze fisiche e
intellettuali per produrre lavoro, e quindi
soldi, ed educazione, cioè
prospettive di migliore collocazione sociale
per i figli. Il coniuge
insoddisfatto, infatti, si macera nella sua
insoddisfazione, e facilmente, soprattutto
se indigente e ignorante, finirà anche per
trascurare la prole e i suoi
naturali diritti. Problema che Meslier ci
lascia intendere chiaramente riguarda
soprattutto la povera gente, coloro che «si
impegnano così nel matrimonio» cioè
nell’indissolubilità istituzionale e sacramentale,
mentre vale assai meno per i
potenti e per i ricchi, che hanno molti modi
di risolvere il problema e molto
spesso anche con la compiacenza interessata
delle autorità ecclesiastiche in un
rapporto di do ut des.
Nella Conclusione Meslier lancia il
suo messaggio rivoluzionario invitando a
liberarsi della superstizione
religiosa: «Rigettate dunque interamente
tutte le vane e superstiziose pratiche
religiose, bandite dal vostro spirito la
folle e cieca credenza in questi falsi
misteri e non prestatevi fede.» [23]
È la condizione preliminare per la liberazione
dall’oppressione, che comporta
anche a carico dei religiosi un perentorio:
«costringeteli a viver e a lavorare
come voi.» [24] Ciò però non è ancora sufficiente per
conseguire la liberazione dall’oppressione
e dallo sfruttamento:
Ma
non basta, cercate di unirvi tutti, tanti
quanti siete, voi e i vostri simili,
per scuotere definitivamente il giogo del
potere tirannico dei vostri principi
e dei vostri re; rovesciate ovunque questi
troni ingiusti ed empi, spaccate
queste teste coronate, umiliate l’orgoglio
e la superbia di tutti i vostri
tiranni e non tollerate mai che essi regnino
su di voi. È compito dei più saggi
guidare e governare gli altri: devono esser
loro a formulare buone leggi e
decreti che tendano sempre, secondo i tempi,
i luoghi e le circostanze, a
salvaguardare e a far progredire il bene
pubblico. [25]
Un’incitazione
alla rivolta enunciato chiaramente, dove
“l’unione” e il “bene pubblico” sono
posti l’uno quale strumento d’azione e l’altro
come fine della ribellione
stessa, che non deve essere solo vendetta,
ma “creazione” di un ordine umano
nuovo e giusto. Però ciò non è
conseguibile nell’irrazionalità:
I
lumi della ragione naturale sono capaci da
soli di condurre gli uomini alla
perfezione della scienza e della saggezza
umana, come alla perfezione delle
arti, e sono in grado di spingerli alla pratica
di tutte le virtù morali e a
tutte le più belle e generose azioni della
vita. [26]
Abbiamo
qui quel pathos morale un po’ ingenuo che
non abbandona mai Meslier, ed il
riferimento ai “lumi della ragione” è un
auspicio dell’orizzonte illuminista.
Ma alla liberazione dei due «insopportabili
gioghi», la superstizione e la
tirannia, deve far seguito l’opera di legislatori
virtuosi (i «buoni e saggi
magistrati») [27] e,
ancora una volta, l’unione e la concordia
nell’azione:
Incoraggiatevi
l’un l’altro ad intraprendere una così nobile,
generosa e vitale azione.
Cominciate intanto a comunicarvi in segreto
i vostri pensieri e i vostri
desideri, diffondete ovunque con tutta l’abilità
possibile scritti simili a
questo […] Aiutatevi l’un l’altro per una
causa tanto giusta e necessaria, e
che coinvolge il comune interesse di tutti
gli uomini. [28]
Non
solo gli umili e gli oppressi di Francia,
bensì l’umanità intera è il referente
ideale di Meslier. Ma poi vi è anche un accenno
alla necessaria segretezza
eversiva affinché la rivoluzione non venga
bloccata sul nascere e possa
nutrirsi fin quando sarà opportuno della
clandestinità. E per il conseguimento
di una società virtuosa e giusta occorre
perseguire la conoscenza, alimentare
la cultura, organizzare l’educazione con
buone leggi più umane, ribaltando così
il criterio teologico in base al quale lo
studio della natura distrae
l’attenzione dell’uomo dalle verità e dalle
leggi divine conducendo alla
perdizione. Su ciò il Nostro è chiarissimo:
Io
sostengo che non è la verità o la conoscenza
delle verità naturali che spinge
gli uomini al male o che li rende viziosi
o malvagi; è piuttosto l’ignoranza e
la mancanza di educazione, la mancanza di
leggi giuste e di un saggio governo a
renderli viziosi e malvagi […] [29]
E
per finire: «Siano legati dunque l’onore
e la gloria, i beni e le dolcezze
della vita, e anche l’autorità del governo,
alla sola virtù, alla saggezza,
alla bontà, alla giustizia, all’onestà […]
» [30].
12.4 Dio e l’anima
Entriamo qui nell’argomento che concerne
più da vicino i concetti che per il prete
Meslier costituiscono il il
retroterra dottrinale-ideologico a cui si
è ribellato. Egli tratta
dell’esistenza di Dio nella Settima Prova e della spiritualità e
immortalità dell’anima nell’Ottava. La credenza inculcata dogmaticamente
diventa per Meslier un “abuso” da parte di
una classe dominante che la
strumentalizza a fini di dominio. Si tratta
della stessa tesi che Marx ed
Engels svilupperanno mezzo secolo dopo, mentre
Feuerbach darà, poco prima di
loro, una spiegazione del fenomeno religioso
assai più raffinata, che i due
padri del comunismo assumono solo in parte.
L’essenza del punto di vista del
Nostro è in questo passaggio:
D’altronde
appare chiaramente che l’origine della credenza
negli dèi si trova nel fatto
che alcuni uomini più acuti e più sottili,
e fors’anche più scaltri e più
malvagi di altri, che si erano innalzati,
per ambizione, al di sopra degli
altri uomini, giocando facilmente sulla loro
ignoranza e ingenuità, si sono
dati la briga di assumere il nome e la funzione
di Dio e di Signore assoluto,
al fine di suscitare più timore e rispetto.
Gli altri, sia per timore e per
stupidità, che per compiacenza e lusinga,
li hanno lasciati fare e ne hanno
fatto così dei padroni assoluti. Divenuti
costoro padroni assoluti, hanno
mantenuto il nome di Dio e si sommo Signore.
Allo stesso modo, noi possiamo
vedere oggi che i grandi conquistatori, cioè
i grandi ladri e usurpatori delle
province e dei reami della terra, si danno
i titolo di duca, re, imperatore e
principe sovrano, qualificandosi persino
come grandissimi, altissimi e
potentissimi signori; e poco importa che
essi non si fregino più, ora, del nome
e del titolo di Dio onnipotente, tanto ormai
la loro superbia si innalza al di
sopra degli altri uomini. Appare chiaro che
è da qui che trae origine la
credenza negli dèi. [31]
È
evidente l’assonanza con le posizioni assunte
dall’anonimo del Theophrastus redivivus, che il Nostro
evidentemente conosce, ed una certa ingenuità
dell’asserto se confrontata con la
contemporanea tesi del Vico, assai più convincente
da un punto di vista
antropologico, ma priva di un’analisi sociologica
del fenomeno religioso. Se si
analizza il passo attentamente, ci si accorge
che per Meslier i maggiori
colpevoli della situazione non sono gli impostori,
che agiscono con acutezza e
scaltrezza (e forse con malvagità), ma piuttosto
“gli altri”, quelli che « sia
per timore e per stupidità, che per compiacenza
e lusinga, li hanno lasciati
fare e ne hanno fatto così dei padroni assoluti.» L’assolutezza del concetto di Dio, e dei
suoi
derivati gerarchici, cioè del Signore e del
signoreggiare sugli altri, e in
ogni caso della “differenza” quasi-ontologica
tra soggetti, non sta in chi la
propone o la impone, ma in realtà in chi
l’accetta: solo l’accettazione
“istituzionalizza” l’abuso e ne fa una realtà
che è creduta quanto subita.
L’ignoranza diventa pertanto una colpa irredimibile
quanto inevitabile, poiché
gli ignoranti sono per un verso “privi” e
per altro verso “privati” di ogni
possibilità di agire sul corso della storia
per far sì che le cose vadano in
maniera differente. E tuttavia, a dispetto,
di una sorta di fatalità in Nostro
è convinto, come tutti i sognatori di una
redenzione dell’umanità dal male e
dall’ingiustizia, che ciò sia possibile attraverso
un’adeguata presa di
coscienza.
L’ipostasi dello stesso concetto di
divinità ha la sua causa più generale nella
credenza dell’esistenza dello
“spirituale”, ed è sul terreno ontologico
del rapporto materia/spirito che la
filosofia deve operare, poiché il secondo
termine è solo una scatola fittizia,
prodotta dalla fantasia di chi la fabbrica
e di quella di chi la fa propria.
Per operare lo smascheramento occorre innanzi
tutto mettere in chiaro il fatto
che ab origine, contrariamente a ciò che le religioni voglio
far
credere, sta la materia, solo la materia, che in se stessa ha come
prerogativa primaria il movimento, quale momento “diveniente” che
accompagna l’”essente”. Questa è la
verità che religione mistifica, e di ciò
occorre essere consapevoli per porvi
rimedio:
Ma
perché la verità di queste cose appaia ancor
più chiaramente e risulti ancor
più convincente il fatto che la materia è
da se stessa e ha da se stessa il suo
movimento, non solo, ma che è la vera causa
di tutte le cose, cominciamo da un
principio che sia in sé talmente chiaro ed
evidente che nessuno possa dubitare.
[32]
La
materia che «è da sé stessa» e che «ha da
se stessa il movimento» ripropone il
vecchio concetto classico di causa sui, proprio di Dio, attribuendolo
alla materia, ma in forma del tutto nuova.
Il pensiero di Dio, la cui
onniscienza ha elaborato il progetto creativo
e la cui onnipotenza l’ha
realizzato, trova qui il proprio corrispettivo
e il proprio superamento
filosofico nel concetto di movimento, che è una reviviscenza del
pensiero atomistico qui ridefinito e aggiornato.
Se il pensiero è per lo spiritualismo
(si rammenti il «Dio è una cosa pensante»
di Spinoza) l’essenza di Dio, per il
materialismo quest’essenza sta nel movimento,
e la differenza tra le due
posizioni sta nel fatto che il correlato
“attivo” della materia è reale, mentre
quello di Dio è un prodotto della fantasia.
Il movimento che la materia ha “da
se stessa” le è intrinseco in quanto tale,
ovvero: la materia è movimento e non
può essere che in movimento: cioè in divenire. Meslier, partendo da un punto di vista
sensista («Noi vediamo chiaramente che c’è
un mondo») [33]
prosegue con un appello alla ragione, affermando:
Seguiamo
dunque i più chiari lumi della ragione che
ci mostra l’esistenza dell’essere; è
chiaro ed evidente, infatti, almeno a noi
stessi, che l’essere è e che noi non saremmo,
né potremmo pensare l’essere se l’essere
non fosse […] [34]
L’essere
può venir pensato poiché il pensiero è esso
stesso essere: cioè materia. Ma qui
l’essere in quanto tale ed il pensiero come
suo attributo non sono più frutti
della fantasia ma diretti correlati della
“percezione” dell’essere nella sua
estensione. L’evidenza sensibile diventa
allora la verifica oggettiva e
fattuale dell’essere stesso. Meslier non
è quel pensatore grossolano di cui ci
è stata tramandata l’immagine, infatti egli
inserisce un «almeno a noi stessi»
che può passare inosservato, ma che è fondamentale
per comprendere come, prima
di Kant, egli si renda ben conto che il fenomeno
è ciò che “si dà a noi”. Ma
siccome il “ciò che si dà a noi” è la fonte
del nostro conoscere, tutto il
nostro inferire sulla realtà è strettamente
legato alla percezione di essa
nella sua generalità, nei suoi attributi,
nelle sue denotazioni, nelle sue
connotazioni e nei suoi dettagli percepibili,
verificabili, registrabili,
descrivibili. E ciò è al di fuori del “regno
del fantastico”, dove tutto può
esistere, poiché non vi sono limiti alla
fantasia creatrice. Ma se la materia si
identifica con l’essere è compito del
pensiero assumerne consapevolezza riconoscendosi
come parte della materia
stessa. Il “pensato” è quindi materiale,
ed allora:
Ciò
supposto, bisogna necessariamente ammettere
l’esistenza dell’essere, non solo,
ma anche ammettere che l’essere è sempre
stato e che quindi non è mai stato
creato. Se esso infatti non fosse sempre
esistito, è certo che non sarebbe mai
stato possibile che fosse, né che abbia mai
cominciato ad essere. Non avrebbe
mai potuto cominciar ad essere per ché, ciò
che non è non può farsi o darsi
l’essere; e ancora non avrebbe mai potuto
cominciare ad essere grazie ad un altro
essere o causa che potesse produrlo, se si
dice che l’esser non sia eterno. [35]
La
possibilità dell’essere in sé presuppone
due elementi fondamentali: a) che sia
“da sé” e b) che non abbia inizio. L’”essere
sempre stato”, ovvero il “non aver
avuto cominciamento” sono gli elementi costitutivi
di “ciò che è”: per Meslier
l’eternità è quindi la denotazione fondamentale
dell’essere. Noi sappiamo oggi
che il nostro universo ha avuto un inizio
e che probabilmente avrà una fine, ma
un uomo del Settecento non poteva far altro
che trasferire l’eternità da un
Essere-Dio a un essere-materia. Siccome «non
c’è niente di creato e, quindi,
non c’è creatore » [36],
la tesi dell’esistenza di Dio:
È
inconsistente ancora per il fatto che, essendo
assolutamente necessario ammettere
l’eternità ad un qualche essere, ne consegue
che è doveroso attribuirla ad un
essere reale e sensibile la cui natura ed
esistenza sia conoscibile con
certezza […] piuttosto che ad un essere di
cui non si conosce né la natura, né
l’esistenza e che, quindi può esser solo
un essere immaginario. [37]
Meslier
sviluppa la sua tesi materialistica attraverso
una serie di passaggi che
implicano: 1) essere la materia “in tutto
il reale”, 2) risultare ogni cosa reale “fatta di materia”,
3) solo di ciò che è materiale si può pensare
l’eternità, 4) solo di ciò che è
materiale “si può avere un ‘idea chiara e
distinta”, 5) ogni oggetto o fatto
“nuovo” verificabile, spiegabile e descrivibile
necessitano di una causa che li
produca e li precede nella scala dell’essere
[38].
A questa causa i Déicoles: « danno il nome di Dio e gli atei lo chiamano
Natura, o Essere materiale o, semplicemente,
Materia.» [39],
dove qui Déicoles (nome che a altrove riferisce solo ai deisti)
è inclusivo
dei Christicoles, i cristiani.
L’analisi dell’essere prosegue in relazione
ai concetti di tempo, di luogo, di spazio e di estensione.
Relativamente a questi temi è sfuggito agli
e interpreti del pensiero
meslieriano che il fatto di includere nel
concetto di spazio il luogo e
l’estensione è un’innovazione concettuale
non di poco conto ai fini euristici.
Ma cominciamo col tempo: Meslier sostiene
che esso è increato perché
increabile; nessun essere reale se non già
esistente “nel tempo”avrebbe potuto
crearlo: «Infatti, dire che esso lo avrebbe
preceduto nell’eternità e non nel tempo è
una pura illusione, poiché
l’eternità non è altro che una continuità
indefinita di tempo.» [40]
In altri termini: contrariamente a quanto
affermato da Sant’Agostino per cui
con il mondo Dio ha creato il tempo, si afferma
che l’eternità è solo un modo
d’essere del tempo, ovvero la sua “continuazione
infinita”, senza inizio e
senza fine, ma tale continuazione esiste
come successione di unità minime che
presuppongono l’esistenza del tempo in sé.
Se l’eternità precedesse il tempo
reale, ciò significherebbe che questo fu
preceduto da un tempo infinito, ma essendo
questo soltanto la sua forma continuativa,
non può produrre “inizi” di nessun
genere se non contiene già in sé “l’inizio”.
È qui posto un assioma filosofico in
base al quale dall’essere può scaturire solamente
ciò che l’esser ha “già in
sé” [41],
concetto che per un essenza fantasticata
come la Divinità è facilmente assunta con
un ‘operazione ipostatica, ma che per un
essenza reale come la Materialità va
colta e analizzata razionalmente. E il concetto
di tempo secondo il Nostro non
può fare a meno di prevedere una “differenza”
reale nei punti del suo scorrere.
Il tempo di un “inizio” non può coincidere
con un tempo della “fine”, poiché il
tempo si estrinseca in una successione di
istanti che precedono l’esistenza
degli inizi e delle fini. Degli enti definiti
si può pensare che possano
non-essere (prima di essere) e smettere di
essere, ma il tempo, come dimensione
dell’essere, dev’essere per l’eternità.
Anche lo spazio (che include localizzazione
ed estensione) non può essere stato creato,
poiché senza di esso nulla potrebbe
esistere; non certo un suo supposto creatore
non localizzabile, anche perché
nessun luogo poteva ancora esistere. Il Nostro
su quest’argomento ha un’opinione
forse un poco rozza, ma che dobbiamo registrare:
«non essere e non essere in
nessun luogo sono esattamente la stessa cosa.»
[42].
E siccome deve esistere sempre un rapporto
sostanziale tra la causa e
l’effetto, per cui la causa deve contenere
in sé la natura dell’effetto, se ne
deve dedurre che «l’essere che non avesse
estensione non può essere causa
efficiente di un essere che ha estensione
infinita. Il finito non può produrre
l’infinito» [43] Per Meslier il tempo e lo spazio sono parte
del
movimento e la materia per mezzo di esso
crea la realtà, per questa ragione
tempo, spazio e movimento sono coeterni con
la materia quale creatrice, per cui
nessun altro “creatore” è ipotizzabile.
Anche per quanto riguarda il movimento: la
materia lo ha in sé per
quanto esso non la determini in quanto tale.
Se ne deduce l’impossibilità di un
Dio privo di materia e di movimento; quindi:
«come potrebbe averla creata, dato
che non avrebbe neppure il potere di muoverla?»
[44]
È poi ribadito un criterio metodologico che
abbiamo già ritrovato altrove e che potrebbe
essere così espresso: «siccome
l’unica nostra fonte di conoscenza sono le
percezioni e le sensazioni, nulla può
venirci a prescindere da esse.», un principio
gnoseologico che troviamo qui
riaffermato in riferimento all’esistenza
di Dio. Se Dio “è”, Dio “vive”, e infatti di Lui
si
narra nella storia biblica «Egli disse, Egli
fece, Egli mandò, ecc.» il che
presuppone che egli agisca come agiamo noi
che siamo materia, ma poi si
pretende che egli sia spirituale. Meslier
trova ciò contraddittorio e aggiunge:
Infatti,
pur seguendo il loro principio, non se ne
capiscono né se ne possono capire,
nel senso comune e naturale dei termini,
gli attributi che gli danno vita,
conoscenza, volontà, forza e potenza, che
si possono capire solo in senso
equivoco, cioè in un senso che non conviene
affatto al nostro modo di vivere,
di pensare o di agire. Poiché noi non possiamo
formarci altra idea di vita se
non in rapporto a ciò che conosciamo e sentiamo
noi stessi della nostra vita,
che consiste necessariamente in un movimento
vitale del corpo e dell’anima,
poiché questa idea che noi abbiamo della
nostra vita non conviene affatto alla
presunta vita di un dio incorporeo e immateriale,
da ciò segue che quando i
nostri Déicoles dicono che il loro dio è
vivente ed ha la vita, non sanno ciò
che dicono, per ché non potrebbero formarsi
nessuna vera idea di una vita a lui
propria e specifica. [45]
Il
discorso sembrerebbe rifarsi qui a Locke,
che aveva ammonito circa il fatto che
soltanto le idee fondate sulle sensazioni
reali sono foriere di vera
conoscenza, ma vi sono altri aspetti di questo
periodo degni di attenzione.
Cominciamo col notare che viene posto il
senso comune (visto come naturale)
quale metro irrinunciabile di giudizio, sicché
fuori da esso ogni fantasia, per
quanto legittima, non può portare conoscenza
alcuna. D’altra parte,
l’utilizzazione di termini umani per indicare
gli attributi di Dio (quali
volontà, forza o potenza) siccome prescindono
dalle modalità con cui essi si manifestano
nell’uomo stesso (l’unica materia vivente
indagabile sotto questi aspetti)
rendono possibile il riferimento soltanto
alla materialità dell’uomo e a null’altro che materiale non sia.
Se il
senso comune ci dice che volontà, forza e
potenza sono caratteristiche della
materia vivente è del tutto inammissibile
immaginarle proprie di ciò che
materia non è, quindi esse, all’infuori del
riferimento all’uomo che ne è
testimonianza vivente, sono prive di senso.
Ma insieme a ciò, anche il “cogito” non è
più il giudice della realtà
del mondo se autonomo dal corpo; esso vale
gnoseologicamente solo nella misura
in cui è collegato alla verifica materiale
(la sensazione/percezione) da cui dipende.
Il senso comune invocato da Meslier qui non è certo quello
di Aristotele,
che ne da una versione fisiologica ed organicistica
(De anima, 425b,
427a), ma non possiede neppure quel significato
di opinione universale e
condivisa concepita dagli Stoici e poi da
Cicerone (De oratore, I, 3,
12) e da Seneca (Epistulae, 5, 4). Si tratta piuttosto di qualcosa
molto
vicino al concetto di buon senso posto da Cartesio, ovvero di
“ragionevolezza”, proprio all’inizio del
Discorso sul metodo. Ma se per Descartes
il buon senso (il retto uso della ragione) non era presente
in egual misura
in tutti gli uomini, in Meslier diventa,
i quanto comune, il correlato
di una facoltà condivisa in ragione della
comune materialità della mente. Ma il
concetto di buon senso utilizzato da Meslier riposa anche in larga
misura nel pensiero di Locke e prelude a
quello empirista, ma non materialista,
che sarà proposto da Thomas Reid nel 1764.
In rapporto all’unico reale, la materia,
il senso comune diventa la facoltà di distinguere
tra ciò che è reale e ciò che
è soltanto il frutto di un’arbitraria fantasia.
L’invenzione e
l’ipostatizzazione della divinità sono opere
di artificio; quindi l’idea di Dio
che ne consegue è contraria al senso comune
e non attendibile “innaturale”. In
quanto tale, la sua instaurazione nella mente
umana necessita sia della frode
di chi la fabbrica e la inculca e sia dell’ignoranza
di chi l’assume.
Viene poi l’argomento della teodicea,
uno dei temi più dibattuti in ambito teologico,
dove la giustizia divina è
ritenuta imperscrutabile per l’uomo. Tesi
fortemente contrastata dall’obiezione
che essa non si concilia né con la bontà
di un essere superiore e né con una
giustizia la quale, in quanto determinata
da un essere “perfetto”, non dovrebbe
rivelarsi alla mente di un essere fatto a
sua immagine e somiglianza di Dio
così palesemente iniqua e imperfetta. Ciò,
infatti, fa sorgere la domanda sul
motivo per cui Dio avrebbe donato all’uomo
una facoltà di giudizio fallace.
Meslier affronta il problema per negare l’esistenza
di Dio e far leva proprio
su un criterio che concerne il senso comune
ponendo due concetti molto semplici
relativi a due più alti attributi dell’uomo:
la bontà e la saggezza. Egli
osserva che, se l’uomo può essere buono e
saggio, Dio dovrebbe possedere queste
due qualità al massimo grado di perfezione;
ma ciò significa che se l’uomo è in
grado di valutare il livello umano di bontà
e perfezione non può poi vedere
ribaltare la sua facoltà di giudizio quando
si tratta di Dio, dovendone constatare
semmai un livello perfetto ed esemplare di
riferimento. Mancando questo riferimento
gli stessi concetti di bontà e di saggezza
risultano compromessi i quanto
assenti in Lui, significa ciò che un Essere
infinitamente buono e saggio non
esiste:
Se
ci fosse tale essere, amerebbe al sommo grado
di perfezione il bene, la pace,
la giustizia, la virtù, desidererebbe che
si diffondesse in ogni luogo un
ordine giusto e proteggerebbe ovunque i buoni,
i giusti e gli innocenti;
odierebbe, di contro, infinitamente, il male,
i vizi, le ingiustizie, le
malvagità punirebbe dappertutto i cattivi;
essendo infatti onnipotente, come
essi [i Déicoles] aggiungono, non mancherebbe certo di diffondere
il
vero bene e di istituire ovunque un ordine
giusto […] Ora è evidente che il mondo è pressoché
rigurgitante di mali e di miserie, gli uomini
sono pieni di vizi, di errori e
di malvagità, il modo in cui sono governati
è ingiusto e tirannico, si vedono
straripare quasi ovunque vizi e malvagità,
la discordia e le divisioni regnano
quasi dappertutto; i giusti e gli innocenti
gemono oppressi quasi ovunque, i poveri
sono quasi ovunque nell’indigenza e nelle
sofferenze, privi di sostegno, di
appoggio e di una qualsiasi consolazione.
Vediamo che i malvagi , gli empi e le
persone meno degne di vivere sono nella prosperità
e nella gioia e godono degli
onori, nell’abbondanza di ogni sorta di beni.
[46]
La
lunga tirata di Meslier potrebbe suonare
retorica, se non sapessimo quanto egli
sia sensibile al problema dell’ingiustizia
sociale, che è poi il vero movente
della stesura del Testamento e suo tema fondamentale.
E se non sapessimo che
alla fine del Seicento, in Francia, e sino
almeno alla metà del secolo
successivo le disuguaglianze sociali sono
macroscopiche e che il quadro da lui
reso corrisponde agli esiti dell’analisi
degli storici.
Ma egli pone ancora il problema sotto un
altro punto di vista: quello dell’”ignavia”
di Dio di fronte a tale devastante
ed iniqua situazione; da ciò la domanda:
«Come potrebbe [Dio] tollerare che
prevalga la legge del più forte sulla ragione,
sulla giustizia e persino sulla
sua volontà indirizzata al bene?»
Dunque, si dice che Dio voglia il bene, ma
è invece evidente che tollera
il trionfo del male. Ed allora, aggiunge
il Nostro: «L’opera degli uomini, che
sono deboli e mortali e che niente possono
da soli, come dicono i nostri Christicoles,
avrebbe dunque la meglio persino sull’opera
di un Dio onnipotente?! Questo non
è affatto credibile […] » [47] Difficile dargli torto; anche perché, se
pure
fosse Satana a determinare il male generale
servendosi degli uomini, non si
vede perché Dio dovrebbe essere così sadico
da non contenere il male nel mondo,
ben vedendo che il dolore genera dolore,
che il vizio genera vizio, attraverso
un processo contaminativo tanto evidente
quanto ineluttabile. Realtà terribile
della quale erano già ben consapevoli i proto-sociologi
dell’epoca, rendendo
insostenibile la tesi teologica per cui le
difficoltà e il dolore generano
virtù “mettendo alla prova” il peccatore
e spingendolo sulla via del pentimento
e della redenzione, essendo di tutta evidenza
che accade esattamente il
contrario. Dove vi è più indigenza e miseria,
tanto maggiore è la corruzione e
il vizio; dove le calamità naturali, le carestie
e i conflitti imperversano,
gli uomini debbono impegnarsi in una difficile
lotta per la sopravvivenza che
mette in campo le qualità peggiori e non
certo le migliori.
Non è tutto, poiché un Dio che “tace”, e
attraverso il suo silenzio avvalora il trionfo
del male, sarebbe un Dio
perverso, il che contrasta con l’idea stessa
di Lui. In altre parole, Se Dio ha
sacrificato la seconda persona della Trinità
per redimere l’umanità dal peccato
originale, non può tacere rispetto a peccati
largamente diffusi e ben peggiori
della disubbidienza di Adamo ed Eva. Ed allora:
Cosa
si può dedurre da un simile silenzio di questa
presunta divinità […] se non
questa considerazione: che non esiste cioè
in realtà alcuna divinità o che,
qualora ce ne sia una, essa disprezza l’adorazione
degli uomini, si prende
gioco di loro e si diverte più nel tenerli
divisi e in discordia tra loro che
nel procurare loro alcun vero bene? [48]
Meslier
trova poi nell’Ecclesiaste (9, 11-12) conferma della sua tesi, dove
il
Cohelet-Salomone afferma:
Di
nuovo io vedo sotto il sole che non è degli
agili la corsa, né dei forti la
vittoria, e neppure dei sapienti il pane
e dei calcolatori la ricchezza, e
nemmeno degli accorti il favore, perché il
tempo e il caso si frappongono a
tutto. [49]
«Il
tempo e il caso», cioè la casualità degli
eventi nel tempo, determinano il
corso del mondo; ed essendo questo corso
caotico esso non è pilotato da
nessuno. Conclusione tragica quella di Meslier,
poiché non soltanto pone il
concetto di “caos” in senso moderno, ma entra
in rotta di collisione con tutto
quell’”armonicismo” ordinato e finalistico
che la metafisica secentesca aveva
posto e che il nascente deismo avrebbe riproposto
in maniera forte. Si
comprende allora bene qui quanto mistificatoria
è l’operazione di Voltaire di
far passare il Nostro per un deista. Meslier
è tanto anti-deista quanto può
esserlo una materialista indeterminista che
si oppone ad ogni finalismo
spiritualista ed armonicista.
Poco
più oltre Meslier conclude con un condivisibile
“buon senso”:
Se
ci fosse un essere intelligente e sommamente
perfetto, preoccupato di guidare e
di dirigere i fatti naturali e umani, non
li lascerebbe certo andare a caso
come vanno, ma li ordinerebbe secondo giustizia
e saggezza. Visto dunque che
non appare giustizia e saggezza che diriga
questi avvenimenti, anzi essi si
verificano per caso, ciò prova in modo ceto
ed evidente che queste cose non
sono dirette ad un’intelligenza sommamente
perfetta. [50]
Passiamo ora al secondo argomento di questo
paragrafo, ovvero l’anima umana e la sua
presunta spiritualità e immortalità. Meslier
riprende il concreto antico di
anima come motore di vita e di movimento
del corpo; il nesso anima-corpo viene
così ribadito in modo netto determinando
l’immediata negazione del primo
termine, la spiritualità, e del secondo,
l’immortalità. Egli ribadisce qui che
di “ciò che è” deve essere possibile farsene
un’idea chiara e distinta e tale
idea è solo quella di un’anima che interagisca
col corpo essendo della sua
stessa natura. Se solo dell’essere ci si
può fare un’idea ragionevole, mancando questa
significa che ci si trova di
fronte a un non-essere generato dall’ «idea
di una chimera». [51] E ribadisce: «Ora, la natura dell’essere
consiste nell’essere corpo ed estensione;
di conseguenza, ciò che non è corpo
né estensione non è affatto essere.» [52] Segue una precisazione importante: non può
esser essere ciò che non ha estensione per
agire sull’estensione dell’essere,
ma ciò non significa affatto che la materia
si offra sempre sotto le specie
dell’estensione. Vi è una categoria di sue
“modificazioni” che non hanno
estensione, e sono quelle che concernono
la coscienza dell’uomo “di essere”, poiché
sa di vivere, perché percepisce e perché
pensa al proprio vivere e al proprio
percepire. Ritorna qui la teoria atomistica
dell’anima come fatta di parti di
materia “sottilissime”: «quindi la nostra
anima non consiste in nient’altro che
in quella parte di materia più fine e più
fluida, rispetto all’altra più
corposa di cui sono fatte le membra e le
parti visibili del nostro corpo.» [53]
Ne segue:
E
se ci domandassimo cosa diventa questa materia
fine e fluida al momento della
morte, si può dire senza esitare ch’essa
si dissolve subito nell’aria come un
leggero vapore e una leggera esalazione,
o pressappoco come la fiammella di una
candela che si estingue piano piano da sola
per mancanza di materia
combustibile che la tenga viva. [54]
La
vita, che è fenomeno univoco nel riguardare
sia l’anima che il corpo, o meglio,
per il complesso anima-corpo, non è altro
che l’insieme di “continue
modificazioni e fermentazioni” sino a quel
termine naturale che è la morte.
Contro i cartesiani, che distinguono tra
le “macchine animali”, fatte solo di res
extensa, e l’uomo (dotato di res cogitans), il Nostro ribadisce che
ciò che vale per l’animale-uomo vale per
ogni altro essere vivente [55]
e ammonisce:
[…]
voi li considerate semplici macchine inanimate,
incapaci di conoscere e di
sentire? […] Non vi basta dunque vedere che
gli animali hanno un loro naturale
linguaggio, che all’interno di una stessa
specie si capiscono l’un l’altro, si
chiamano e si rispondono l’un l’altro? Non
vi basta vedere che essi fanno
società tra loro? [56]
No,
ad essi non basta! Anzi, essi (e con loro
tutti i metafisici) sono così pervasi
dall’ideologia teologica che determina il
loro pensare che sono del tutto
ciechi alla realtà, vedendo di essa soltanto
ciò che vogliono vedere inforcando
occhiali metafisici che per un verso “selezionano”
il reale e per altro verso
gli sovrappongono lo spirituale. Meslier
conclude che nel Vecchio Testamento
non vi è traccia della spiritualità dell’anima,
essendo essa invenzione del
Cristianesimo al fine di correlarla alle
ricompense e ai castighi
dell’aldilà.
12.5
Un materialismo pre-illuminista
Abbiamo già visto nel paragrafo precedente
gli elementi-base della tesi materialistica
meslieriana in relazione alle
ipostasi di Dio e della spiritualità dell’anima
umana, ma dobbiamo qui
considerarla un po’ più attentamente in se
stessa. Si fa veramente fatica a
comprendere come perlopiù si ignori il fatto
che la vera origine del
materialismo sette-ottocentesco stia nelle
riflessioni di questo povero prete
frustrato, le cui riflessioni e conclusioni
precedono quelle di qualsiasi altro
pensatore illuminista. Per quanto negli scritti
libertini il materialismo fosse
per molti versi già presente, è con Meslier
che esso irrompe sulla scena,
offrendosi come una reinterpretazione dell’atomismo
antico in netta polemica
con Malebranche, per il quale il movimento
sarebbe da riferire esclusivamente
alla volontà divina e la forza motrice esterna
ai corpi Dio stesso. Afferma il
Nostro:
D’altronde
non bisogna neppure stupirsi se non si vede
un legame necessario tra queste due
cose [l’esistere dei corpi e il loro movimento],
visto che non deve
necessariamente essercene uno, poiché il
movimento non è l’essenza dei corpi,
ma soltanto una proprietà della loro natura.
[57]
La
natura dei corpi è la materia ed è la materia
ad avere, come proprietà
intrinseca, il movimento. Per Meslier,
dunque, il muovere dei corpi non è movimento
“di un corpo”, poiché la possibilità
del movimento sta nel fatto stesso di essere
parte della materia globale. E
tuttavia il movimento non è essenziale all’”esser
corpo” poiché questo può
giacere anche nell’immobilità; non esiste
quindi un legame necessario tra
l’essere corpo e muovere. Ma siccome l’esser
corpo significa essere materia se
ne deve dedurre che il movimento, per quanto
intrinseco alla materia non è una sua
ragion d’essere; cioè la materia non è necessitata
a muovere. Qui si pone un
primo problema interpretativo al fine di
comprendere di quanto Meslier sia
vittima dell’equivoco millenario che mette
insieme la linea casualistica
leucippeo-epicurea e quella necessitaristica
democritea. Ma seguiamo il Nostro:
È per questo stesso motivo che non si vede,
né
si può vedere, ciò che fa sì che la materia
si muova in questo o quel modo,
cioè con questa o quella velocità, né ciò
che fa sì che essa si muova da destra
a sinistra, dall’alto in basso o dal basso
in alto, in linea retta o in linea
circolare o obliqua, sebbene essa si muova
in tutte le direzioni con infinite,
svariate modificazioni. Il fatto è che nessuno
di quei movimenti è essenziale
alla materia ed è certo per questo che non
possiamo veder chiaramente ciò che
dà origine e direzione a tutti quei vari
movimenti, se si esclude il moto
circolare. Infatti si può dire che la materia,
di per sé, tenderebbe a muoversi
sempre in linea retta, essendo questo il
movimento più semplice e naturale, ma
essa nondimeno non può muoversi sempre così,
perché, essendo lo spazio pieno di
materia, la materia stessa non potrebbe sempre
muoversi in linea retta, senza
incontrare qualche altra materia, che le
impedisca così di continuare il suo
movimento. Perciò, non potendo muoversi in
linea retta, essa si trova costretta
a muoversi circolarmente; il che provoca
necessariamente che svariate parti di
materia si muovano sempre circolarmente,
formando così svariati vortici di
materia. [58]
Ci
troviamo qui di fronte a un passaggio che
si trova nettamente sulla linea leucippeo-epicurea
[59] ,
con un riferimento al fondamentale frammento
n° 289 del Doxographi Graeci
del Diels (corrispondente all’ A.24 del Vorsokratiker Diels-Kranz) ma
anche al passaggio dell’Epistola a Erodoto
di Epicuro (§ 61) dove viene posto
il concetto di parenklisis. Gli
atomi, nella loro caduta vanno soggetti,
quale effetto dell’urto accidentale
con “ostacoli”, a una deviazione il percorso.
Ma, se in Epicuro viene
teorizzato un effetto di “urto e rimbalzo”
casuale e non ben definito, Meslier,
introducendo il concetto di attrito materia-materia
(che è fenomeno “continuo”),
ne deduce il moto circolare come ripiegamento
su sé di una materia impedita nel
più semplice movimento rettilineo. Egli mescola
qui l’atomismo con la
pseudo-fisica di Descartes, e in particolare
a quanto sostenuto nei Principia
philosophiae (II, § 37). Ma se Cartesio si era preoccupato
di premettere ad
ogni altra considerazione «E da questa stessa
immutabilità di Dio, si possono
conoscere alcune regole ossia leggi della
natura, che sono le cause secondarie
e particolari dei diversi movimenti, che
avvertiamo nei singoli corpi.» [60]
Meslier, invece, attribuisce alla materia
stessa (come sua inerenza) le leggi
fisiche che la concernono e determinano il
suo stato nei corpi, sicché «Nulla
può spingere e smuovere la materia se non
ciò che ha in sé » [61]
Se il mondo, abbiamo già visto, procede “a
caso” e “nel caos”, ogni elemento di esso
agisce per forze interne il cui unico
fine è “muovere”. Il movimento è l’elemento
fenomenico fondamentale della
materia ed esso si verifica in maniera meccanica
e casuale:
Non si sosterrà, spero, che ciò avvenga per
un
disegno razionale da parte delle cose che
ho appena nominato, poiché le cose
inanimate si muovono senza sapere di muoversi
e agiscono senza sapere di agire.
E nemmeno si sosterrà che gli animali generano
e si riproducono con
consapevolezza razionale, dal momento che
non sanno neanche come possa formarsi
la più piccola parte del loro corpo e, ciò
nonostante, tutte le parti
continuano a formarsi naturalmente. Tutte
queste cose si muovono dunque
meccanicamente […] [62]
Abbiamo già rilevato come il meccanicismo
del Nostro derivi da
Cartesio, ma non è difficile misurare l’abisso
che separa i due, se si
considera il primo introduce in senso forte
il concetto di caso, che è
antimetafisico per eccellenza, che il secondo
(non meno di Spinoza e di Leibniz)
aveva cassato. Meslier introduce così un
concetto del divenire che prelude al
darwinismo, dove i comportamenti meccanici
(unicamente finalizzati alla vita
“propria”) degli esseri viventi debbono adattarsi,
per sopravvivere, ad
ambienti e climi determinati esclusivamente
dalla casualità. E da ciò una
conclusione teorica profonda e di grande
portata filosofica:
Che la materia, grazie alla forza attiva
che
le è propria, si muova e agisca in modo cieco
ovunque è cosa che si può
constatare direttamente tutti i giorni, e
non c’è nessuno che non possa
verificarlo. [63]
Nessuno può non-verificare ciò che con estrema
evidenza, sensibile e razionale,
si offre del procedere del mondo e ciò in
base a quel senso comune, il buon
senso razionalistico dell’uomo consapevole di
“ciò che è”, che è assunto a guida della comprensione
del
mondo. Tanto più che è ancora il caso all’origine
delle direzioni che
l’evoluzione della materia imbocca:
Poiché, dunque, alle origini di ciascuna
specie di piante e di animali alcune porzioni
di materia presero casualmente
certe particolari direzioni e si aprirono
allora determinati varchi, e poiché,
nelle circostanze in cui erano, si trovavano
spinte ad unirsi, a congiungersi e
a modificarsi in una maniera o nell’altra,
ne segue che ogni qualvolta le parti
della materia si incontrano in tal modo,
e si ritrovano nelle medesime
circostanze, esse sono parimenti spinte a
seguire il medesimo corso come
l’acqua di un ruscello che segue il suo letto;
e, seguendo gli stessi percorsi,
esse si trovano anche spinte ad unirsi, a
congiungersi e a modificarsi sempre
nello stesso modo e a produrre anche, di
conseguenza, gli stessi effetti, sia
nelle piante che negli animali, qualsiasi
sia la loro specie. Ed è questo che
in verità fa sì che tutti i vari tipi di
piante o di animali, e anche gli
uomini, generino e producano ordinariamente
e con regolarità esseri della loro
stessa specie, ad eccezione del caso in cui
si trovino fortuitamente degli
ostacoli interni alle parti della materia
che impediscano loro così di
modificarsi come avrebbero dovuto, e come
avrebbero fatto seguendo la loro
naturale e originaria tendenza. [64]
Sappiamo Meslier non essere un naturalista
e tanto meno un biologo, e tuttavia
si ha qui una delle più interessanti esposizioni
teoriche sulla materia
vivente, che anticipano non solo lo zoologo
Darwin ma anche il biologo Monod
che pone i concetti biologici di invarianza e di teleonomia. Ma
vi è anche di più, poiché viene qui anche
posto il concetto di “origine”
biologica: una specie, e ciò vale per un
erba come per l’uomo, si origina da
una “serie di circostanze” casuali che hanno
fatto sì che “porzioni di materia”
(leggersi: cellule) abbiano potuto assemblarsi
in un certo modo sì da definire
un organismo vivente capace di riprodursi
perpetuando la specie. Gli “ostacoli
interni” che Meslier ipotizza sono null’altro
che una prefigurazione delle
mutazioni genetiche, che sappiamo essere
la causa delle trasformazioni di una
specie in un'altra, come di tutte le malformazioni
e degenerazioni del genotipo
e del fenotipo, cioè filogenetiche ed ontogenetiche.
Meslier è così determinato
nella sua tesi che pone appena dopo «le
deformità e i difetti» come esemplificazioni
percepibili di fenomeni biologici.
Nel ribadire che egli non può accettare ciò
che è posto dal finalismo
teologico-metafisico, che vede nel corso
della natura un’Intelligenza all’opera,
sostiene non esservi alcuna analogia tra
le opere dell’intelligenza umana
(frutti di artificio su materiali inerti)
e le opere della natura: gli esseri
viventi «che si foggiano e si organizzano
da soli» [65].
All’opposto, le macchine prodotte dall’uomo
non possono auto-modificarsi e
gestirsi in alcun modo se il loro progettista-fabbricante
non interviene su
loro con la sua intelligenza e le sue mani.
D’altra parte, tutto è
materia, per cui anche i vizi e le virtù,
i sentimenti e i desideri, sono nient’altro
che “modificazioni” della materia [66]; ma
ciò non significa affatto che tali modificazioni
debbano avere tutte le
proprietà della materia, e in particolare
l’estensione. Meslier aggiunge che
«sarebbe anzi ridicolo pretenderlo» [67] Il
fatto che lei modificazioni siano reali,
fatte di essere, è sufficiente
che ci venga testimoniato dalla nostra consapevolezza
di vivere, di percepire e
di pensare:
È dunque certo che e sicuro che, benché i
nostri pensieri, le nostre conoscenze, le
nostre sensazioni, non siano né
rotonde né quadrate, né divisibili né nel
senso della lunghezza o della
larghezza, esse sono tuttavia nient’altro
che modificazioni dalla materia [68].
[1] C.Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, vol.I, Roma, Studium 1969, p.469.
[2] Facciamo riferimento al breve saggio di Gianluca Mori L’ateismo “malebranchiano” di Meslier (in AaVv, Filosofia e religione nella letteratura clandestina, Secoli XVII e XVIII, a cura di G.Canziani, Milano, FrancoAngeli 1994, pp.123-160). Questo autore conduce un’analisi sicuramente corretta nei termini, ma assai poco condivisibile nel metodo, poiché l’ateo-materialista Meslier non può essere “confrontato” col teologo Malebranche secondo le categorie fideistiche di questo. Fare ciò significa sviarne il pensiero, e ciò resterebbe vero anche quando Meslier ne utilizzasse in maniera più puntuale e cogente di quanto faccia argomenti, termini e linguaggio. Egli è già “totalmente fuori” della prospettiva teologica di Malebranche, ancorché ne utilizzi gli strumenti dialettici (ma ne conosce altri?), e poiché il suo discorso ha come premessa la negazione della teologia, ci domandiamo quale utilità ermeneutica possa avere il leggere un discorso anti-teologico in termini teologici.
[3] Ivi, p. 16 (Lettera a D’Argental del 31 maggio 1762).
[4] J.Meslier, Lettera a Damilaville (6 luglio 1764), in: Il Testamento, a cura di I.Tosi Gallo, Rimini-Firenze, Guaraldi 1972.
[5] Ivi, p.61
[6] Ivi, p.62.
[7] La Sacra Bibbia, Roma, Paoline 1965, p.708.
[8] J.Meslier, cit., p.63.
[9] Ivi, p.64
[10] Ivi, pp.65-66.
[11] Ivi, p.72.
[12] Ivi, p.73.
[13] Giovan Paolo Marana (Genova, 1624-1693) è uno scrittore che ne L’esploratore turco realizza un’opera satirica il cui protagonista è un agente del sultano. Si immagina che egli, viaggiando in Europa, osservi istituzioni e costumi locali e ne riferisca al suo signore per mezzo di rapporti in cui descrive la situazione sociale europea vista da un turco.
[14] J.Meslier, cit,, p.137.
[15] Ivi, p.137-138.
[16] Ivi, p.142.
[17] Ivi, p.144.
[18] Ivi, p.146.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p.147.
[22] Ivi, p.152-153.
[23] Ivi, p.246.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p.247.
[28] Ivi, pp.247-248.
[29] Ivi, p.253.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, p.169.
[32] Ivi, p.178.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35] Ivi, pp.178-179
[36] Ivi, p.179.
[37] Ibidem.
[38] Ivi, pp.179-180.
[39] Ivi, p.180.
[40] ivi, p.181.
[41] Ibidem.
[42] Ivi, p.183.
[43] Ibidem.
[44] Ivi, p.192.
[45] Ivi, pp.192-193.
[46] Ivi, pp.199-200.
[47] Ivi, p.201.
[48] Ivi, p.201-202.
[49] La Sacra Bibbia, Roma, Paoline 1965, p.712.
[50] J.Meslier, cit., p.204.
[51] Ivi, p.227.
[52] Ivi, p.228.
[53] Ivi, p.234.
[54] Ibidem.
[55] Aram Vartanian (cit, p.208) ritiene invece che Meslier sia stato influenzato proprio dalle tesi contenute ne L’uomo di Descartes relativamente alle funzioni corporee e soprattutto alla circolazione del sangue.
[56] Ivi, p.239.
[57] Ivi, pp.189-190.
[58] Ivi, p.190.
[59] Si veda: C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, cit., pp.175-183 e pp.206-226.,
[60] R.Descartes, I principi della filosofia, Torino, Boringhieri 1967, p.151.
[61] J.Meslier, cit., p.191.
[62] Ivi, p.205
[63] Ivi, p.206.
[64] Ivi, pp.222-223
[65] Ivi, p.224.
[66] Ivi, p.230.
[67] Ivi, pp.231-232.
[68] Ivi, p.233