X. Il pensiero scientifico e la tecnologia

 

 

10.1 Introduzione

 

    Quattro considerazioni preliminari concernenti il presente paragrafo: 1. il Settecento è sicuramente il secolo nel quale per la prima volta l’atteggiamento laicistico in generale e la morale laica in particolare escono alla luce del sole e trovano spazio pubblico; 2. ciò non significa affatto che essi influenzino in maniera decisiva il corso la scienza, che per sua natura, per i suoi principi euristici e per il suo modo di operare, prescinde dalla sfera morale; 3. la strumentazione tecnica entra, in modo diffuso e determinante (si pensi solo al microscopio) come attrice principale e determinante delle scoperte e degli sviluppi della scienza; 4. se il Settecento offre un panorama di eccellenza in tutte le discipline scientifiche, ciò non significa che il secolo che lo precede gli sia da meno; anzi, per alcuni versi il Seicento, ad esempio nella fisica astronomica, può essere considerato addirittura più prolifico. Ma il Settecento è quello in cui gli scienziati operano nella consapevolezza di una dignità del loro operare indipendentemente dalla metafisica e dalla religione. Essi diventano consapevoli che il valore delle loro scoperte sta nella conoscenza “in sé” e non nel rapporto con la “verità” religiosa che possa essere eventualmente confermata o contraddetta. Il cosmo in generale e la natura non sono più visti solo come il frutto della sapienza-potenza-intelligenza del Creatore, poiché essi celano meraviglie e perfezioni riferibili ad un ordine interno non necessariamente tributario del progetto divino.

    Il passo più importante è quello di aver reso la scienza indipendente dalla metafisica; gli scienziati incominciano ad assumere a propria guida e ispirazione il “come funziona”, concetto di base del fare scienza moderno; quindi dal “che cosa” sia la natura si passa al “com’è” e al “quel che fa”. Sino a tutto il Seicento tutti o quasi gli uomini di scienza operavano per conoscere meglio la meravigliosa opera della Creazione agendo “per la maggior gloria di Dio”; dal Settecento in poi qualcuno incomincia a mirare ad un conoscere in quanto tale e per se stesso, schiettamente a-teologico, che pone nell’oggetto o nella situazione da conoscere “il fine”  del proprio operare. E tuttavia, come abbiamo già visto e come vedremo ancora, il sistema di potere teologico non era assolutamente disposto a tollerare questa nuova impostazione dell’attività umana e la libertà di ricercare, scoprire, calcolare e teorizzare in contrasto con la verità religiosa doveva incontrare ancora serie difficoltà. Ma inesorabilmente, lentamente all’inizio e in accelerazione verso la fine del secolo, un operare della scienza a-teologico, una ricercare in quanto tale, cominciano ad assumere una nuova dignità indipendentemente dai lacci della tradizione metafisica ed a costituire un nuovo orizzonte per la mente umana.        

    Difetto tipico delle interpretazioni degli storici idealisti o bigotti, spesso troppo legati alla tradizione umanistica, è il trascurare l’importanza del procedere della conoscenza e della tecnica sul progresso culturale generale, al punto da metterne talvolta in evidenza supposte negatività. Così ci sono storici pur pregevoli come Chaunu che tendono a minimizzare la scienza del Settecento per enfatizzare la metafisica del Seicento quale sua fonte primaria. Anche noi siamo convinti che il XVII secolo abbia portato molta acqua al mulino della cultura settecentesca, ma per la ragione opposta, ovvero grazie a ciò che di “non-metafisico” vi era in esso. La metafisica è infatti quell’attività umana che “inventa” o “fabbrica ad hoc” una realtà fittizia attraverso costruzioni logico-dialettiche che nulla hanno a che fare con la conoscenza. Una fabbricazione che si basa su una creatività inesauribile per mezzo di una strumentazione logico-dialettica surrettizia, quella che ha prodotto una gigantesca massa di teologia filosofale gabellata per filosofia. Una filosofalità zeppa di teorie pseudo-scientifiche quanto povere di scienza vera che si estrinseca nelle invenzioni metafisiche di un Cartesio o di un Leibniz. Eppure, già con Bacone, era stata indicata la via dell’”esperienza” come la strada maestra per la produzione di conoscenza autentica, ribaltando il concetto aristotelico di scienza come studio delle “sostanze” e ponendo invece l’osservazione e lo studio degli “accidenti” a base del sapere. Se la metafisica aveva sempre ritenuto la realtà fattuale ed effettuale come elemento secondario ed inessenziale per il raggiungimento della “verità”, da Bacone in poi diventa possibile pensare la realtà “in sé” come punto di partenza del conoscere. Dopo di lui Locke, Gassendi, Bayle e infine Newton rafforzeranno questa posizione ognuno a suo modo: approfondendo le modalità del conoscere, analizzandone tutti gli aspetti in profondità, esperendo ricerca diretta e ponendole basi della nuova fisica. Il Settecento si presenta come il primo secolo nel quale una parte significativa degli intellettuali conduce le proprie ricerche e le proprie analisi adottando il criterio, totalmente nuovo, di tradurre l’esperienza in teoria e non di fabbricare teorie per produrre pseudo-conoscenza.

    L’attività scientifica e la tecnologia, con la realizzazione di strumenti e macchine, assume importanza primaria n non perché il XVIII sia un secolo in cui il progresso scientifico-tecnologico sia particolarmente tumultuoso in termini di innovazione. Al contrario, le vere novità, le autentiche nuove scoperte e le nuove invenzioni sono nel Settecento tutto sommato inferiori a quelle del Seicento. Gli storici che sostengono essere questo secolo più “innovativo” sul piano scientifico di un Settecento più “applicativo” dicono il vero, l’affermazione viene però da due punti di vista molto differenti. Il primo ritiene che le teorizzazioni tipiche dei metafisici, Cartesio e Leibniz in testa, basate eminentemente sulla matematica, siano più importanti rispetto all’osservazione e alla sperimentazione sul. Il secondo gruppo non ne fa una questione metafisico-matematica ma di priorità, cioè ritiene che il momento importante da evidenziare sia quello in cui “nasce” un nuovo concetto scientifico, un indirizzo di ricerca, una soluzione tecnologica, e in tal senso è indubitabile che uomini come Galileo, Keplero, Boyle, Harvey, Huygens, Newton, Dalton, Leeuwenhoek Lavoisier, per citare solo i maggiori, siano i veri pionieri della scienza moderna. Il fatto più significativo e ché questi geni operano in condizioni spesso di estrema difficoltà, in relazione sia allo scarso interesse loro prestato dal mondo culturale umanistico e politico in genere e soprattutto per la diffidenza, se non dall’aperta ostilità, delle autorità religiose, che in epoca barocca controllano quasi totalmente l’istruzione specialmente attraverso i Gesuiti.

    Il Settecento è importante per la scienza e la tecnologia perché in larga parte, specialmente nella seconda metà, sgancia la prima dalle università, trasferendola nelle accademie e nelle società di promozione, ed assume la seconda come primario motore di progresso attraverso una nuova attenzione a un profano che si libera dai lacci del sacro. Ma il fatto principale consiste nel fatto che sono molte gli intellettuali, ma anche solo le persone do media cultura, ed in sempre più larghi strati della popolazione, che spostano l’asse del loro interesse dalla religione alla scienza. Un nuovo atteggiamento che può essere considerato un vero e proprio “spirito del secolo”, si da trasformare nel profondo la società europea aprendo orizzonti antropologici del tutto nuovi rispetto al passato. La scienza e la tecnica non sono che i veicoli reali che trasportano l’homo sapiens in questo nuovo orizzonte e la matematica si trasforma in “geometria”, sì che l’aggettivo “geometra” indica nel Settecento la persona che si occupa di scienza. Simon Tyssot de Patot (1655-1728) in una delle sue ultime Lettere scelte  (la n° 67 del 1727), aveva scritto: «Ormai sono tanti anni che spazio per le vie vaste e illuminate della geometria che tollero a stento i sentieri stretti e bui della religione.» [1]  L’astronomo inglese Francis Baily (1774-1844) darà più tardi questa definizione:

 

Un geometra è un uomo che si propone di scoprire la verità e questa ricerca è sempre difficile sia nelle scienze che nella morale. Profondità di penetrazione, precisione di giudizio, vivezza di immaginazione, ecco le qualità dl geometra. [2]      

                                 

    Relativamente alle istituzioni che promuovono e sviluppano questo nuovo corso della cultura a favore del sapere scientifico, vanno ricordate istituzioni vecchie come la Royal Society (1660) e l’Académie des sciences (1666), e nuove come l’Accademia delle scienze di Berlino (1710), l’Accademia Reale di Stoccolma (1739), la società Reale di Copenaghen (1745). Ma insieme a queste ultime nascono centinaia di accademie ed associazioni locali pubbliche e private, che svolgeranno un ruolo fondamentale nella diffusione della scienza. E saranno proprio queste i veri motori di una nuova cultura; nate in Gran Bretagna dall’iniziativa privata attraverso l’associazionismo dal basso e l’opera volontaria e gratuita degli studiosi, altrove, specialmente in Francia e Italia, nascono perlopiù sotto il patrocinio pubblico o grazie ai buoni uffici (e ai quattrini) di qualche munifico mecenate. Ciò che importa rilevare è che si tratta di un movimento tendenziale che muta completamente la situazione della cultura, e che vede alcuni politici avveduti farsi promotori anche dello sviluppo delle arti e dei mestieri. Si legga che cosa pensa Turgot nel 1748:

 

Un’arte, una volta inventata e stabilita, diventa un oggetto di commercio capace di sorreggersi da sola. Non c’è da temere che sparisca l’arte di fare velluti, finché vi sarà della gente che ne acquista. Le arti meccaniche sussisteranno anche durante la caduta delle lettere e del gusto, e sussistendo si perfezioneranno. Il genio è diffuso tra la massa degli uomini come l’oro in una miniera; quanto più si scava la miniera, tanto più si ottiene il metallo. Una qualsiasi arte, coltivata per una lunga serie di secoli, ha dovuto quindi capitare nelle mani di qualche spirito inventivo. [3]

 

    Ma se fin’ora abbiamo dato qualche indicazione circa il progredire della conoscenza scientifica, ci corre l’obbligo di un cenno a una pseudo-conoscenza che agisce in senso antiscientifico, ma che ha il grande fascino letterario di evocare miti ancestrali mai sopiti nell’immaginario umano e sempre ricorrenti a ondate successive: il vitalismo. Ne è esponente principale Jean Baptiste Robinet (1735-1820), autore di un corposo Sulla natura in quattro tomi, usciti tra il 1761 e il 1766, che fu molto apprezzato dai romantici tedeschi (in particolare Herder e Goethe, che ne rielaborarono alcune premesse) nonché da Hegel, il quale, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dedica a lui molta più attenzione e spazio di quanti ne dedichi a tutti i philosophes messi assieme. Non a caso Robinet considera l’insieme della natura vivente come un’Unità complessa e progressiva, un Uno-Tutto panteistico e necessitato che progredisce incessantemente e deterministicamente dal meno perfetto al più perfetto. In questa scala di esseri l’uomo bianco europeo è al vertice della scala biologica, mentre l’asiatico giallo è l’anello di congiunzione regressiva al negro africano, il genere di uomo che a sua volta si collega (quale gradino evolutivo successivo alle scimmie) con lo scimpanzé. Si comprende bene come ci troviamo di fronte ad un razzismo radicale, che va a sostegno e conforto morale del nascente colonialismo e dei suoi fini egoistici. Ma se si cerca il senso del suo successo nell’ambito del Romanticismo e dell’Idealismo panteista tedesco, bisogna coglierlo nella sua teoria in base alla quale l’universo è un “continuo” evolutivo che parte dall’atomo per arrivare all’uomo bianco in una grandiosa “catena dell’essere”. Teoria nettamente storicistica e finalistica, e per tale ragione interessante per Hegel, anche perché per Robinet gli atomi sono, vitalisticamente, già forniti di vita e di anima a uno stadio-base che non chiede altro che tempo e “storia” per arrivare all’obiettivo-vertice. Manca solamente l’ultimo passaggio per arrivare a quello Spirito Assoluto che riassume e ricapitola la teologica storia dell’essere.

 

 

              

 

                    

10.2 La scienza come attività umana specifica

 

    Per noi, uomini del XXI secolo, è difficile immaginare una situazione più equivoca e una terminologia più confusionaria di quella che permea ancora buona parte del XVIII, quando l’aggiunta dell’aggettivo “naturale” al termine di filosofia è già in uso per indicare una ricerca naturalistica ancora impregnata di teologia, mentre l’attività filosofica in senso lato è ancora largamente dominata dalla metafisica. Sino alla fine del Settecento gli scienziati puri sono pochissimi e gli scienziati che nella loro vita si occupano di un’unica disciplina, come specialisti di essa, ancor meno. Il criterio della “divisione del lavoro”, al fine di concentrare attenzione ed energie, è limitato a pochi ambiti; l’uomo di scienza è molto spesso un letterato che ha deciso di abbracciare le ricerche sulla natura solo per passione e la scienza si configura ancora in gran parte come attività dilettantistica. I dilettanti, che hanno un ruolo fondamentale per gli sviluppi della scienza e della tecnica sono dei privilegiati, persone perlopiù facoltose che non lavorano per vivere, e che quindi possono permettersi di spendere il proprio tempo ed utilizzare risorse economiche per amore della conoscenza senza dover fare i conti con lo sbarcare il lunario attraverso i frutti del proprio lavoro. 

    Questa nuova dignità della scienza, tuttavia, affonda le proprie radici nel Seicento, il secolo dei grandi metafisici ma anche quello di grandi fisici, astronomi e medici-fisiologi. Per quanto i Galileo, i Keplero, gli Harvey, gli Huygens e i Newton operassero “per la maggior gloria di Dio” non meno dei metafisici Cartesio, Spinoza e Leibniz, furono essi ad aver posto le basi del “fare scienza” in senso moderno. Prima ancora della sistematica matematizzazione e meccanicizzazione del mondo fisico, Newton apre la strada alla metodologia scientifica ponendo le “leggi” della materia a fondamento di ogni possibile comprensione della realtà. Le leggi fisiche che governano gli enti del cosmo, i loro movimenti e le loro trasformazioni, diventano il sistema astratto attraverso il quale l’immanenza, il mondo, si fa intelligibile. La gloria del Dio “trascendente” tende a diventare sempre meno il “fine” del  produrre scienza per scoprire le meraviglie della Creazione; Il Creatore è sempre più soltanto il “notaio” della realtà del cosmo, il garante dell’esistenza del mondo “immanente”e del pensiero umano che ne va scoprendo le leggi. Questa nuova visione, perlopiù meccanicistica, della materia determina anche la definitiva separazione della sfera delle lettere da quella delle scienze. E tuttavia, il Settecento non riesce a sbarazzarsi del tutto dalla metafisica, dall’anti-scienza, in base alla quale il sapere è un “tutto” omogeneo e non un “insieme” di discipline. Non solo, alcuni tra i più influenti intellettuali del secolo non fanno che confermare un’immagine statica dell’universo, e Voltaire può affermare, a sostegno della stabilità non solo del mondo fisico ma anche di quello biologico (ovvero del “fissismo” delle specie), che è Dio a garantire la stabilità del mondo e la certezza di ogni conoscenza; che allontanarsi da Dio significa smarrirsi (si ricordi l’affermazione: «l’ateo non ha che dubbi»).

    Per quanto se ne sappia è nelle Considérations sur les moeurs de ce siècle di Duclos, scritte nel 1751, che per la prima volta viene effettuata espressamente la distinzione culturale tra lettere, arti e scienze, definendo tre ambiti i cui confini erano prima assai confusi. Ma va detto, come osserva giustamente la storica inglese Dorinda Outram che: « […] lo statuto intellettuale della scienza era contestato, le sue organizzazioni istituzionali spesso deboli, e di certo sorrette da una base limitatissima, la natura dei suoi rapporti con l’economia e con il potere spesso tenue. Nessuna istituzione scientifica figurava tra i grandi datori di lavoro, e le strutture educative della maggior parte dei paesi prestavano scarsa attenzione alla disseminazione della conoscenza scientifica. Solo pochi potevano mantenersi a tempo pieno come scienziati.» [4] Considerazioni che mettono in luce due aspetti diversi della situazione. Un primo più evidente: nel ‘700 l’attività scientifica è in prevalenza opera di “dilettanti” isolati o di organizzazioni amatoriali basate sul volontariato e sulla passione individuale. Un secondo: per “scienza” si intende anche la metafisica di Cartesio o quella di Leibniz quali “garanti” teoriche e veritativa del puro sperimentalismo, incapace a fare delle sue scoperte delle “verità”, ma solo delle “supposizioni” plausibili sul mondo, rimanendo la Bibbia l’unica verità indiscussa e la dottrina cristiana  la fonte di ogni vera sapienza.

    La distinzione posta da Duclos darà col tempo i suoi frutti, contribuendo ad eliminare l’ambiguità di cui era portatrice autorevole e riconosciuta la cosiddetta “scienza metafisica”, che tutto inglobava e supportava nella sua mistificazione filosofale. Una cultura ancora eminentemente teologica non può tollerare di venir compromessa da una scienza laicistica, anche perché  può contare su interpretazioni teologiche prodotte da prestigiosi teologi filosofali che si appoggiano all’impianto fideistico e dottrinario di base. La nuova distinzione tra lettere, arti e scienze porta inoltre in Francia alla promozione di singoli settori di attività intellettuali separate, a fronte delle quali alcuni settori di importanza vitale per la vita pubblica e per la circolazione del sapere riceveranno impulsi e risorse economiche. È infatti nella prima metà del secolo che avrà luogo la creazione della “Scuola dei ponti e delle miniere”, costituita da un corpo di ingegneri che determinano la rete delle infrastrutture comunicazionali e il sistema di rifornimento delle risorse fondamentali del paese: acqua, materie prime, carbone. Un certo contributo verrà a ciò anche da intellettuali come d’Holbach, che promuove la traduzione, nel 1753, dell’opera La Mineralogia o Descrizione generale delle sostanze del regno minerale del chimico tedesco Wallerius. Nel 1747 il Perronet veniva incaricato di fondare una “Scuola dei geografi e disegnatori delle mappe e delle carte delle grandi strade urbane ed extra-urbane del regno”. Nel 1771 César-François Cassini (nipote di Gian Domenico) fu incaricato di produrre la “Gran carta di Francia” in 182 fogli.

    Quel che è importante sottolineare è che la scienza nel Settecento rimaneva ancora conoscenza “incerta”, opposta alla lettera delle Sacre Scritture quale conoscenza “certa”. Come rileva ancora la Outram, non va dimenticato che nel XVIII secolo continua a valere il principio aristotelico della teologia come “regina delle scienze”, la quale pilota e condiziona le altre scienze “minori” verso la divina verità [5]. Di fatto continua a prevalere un concetto ben espresso dal Vico, secondo il quale l’uomo non può conoscere l’opera di Dio ma unicamente la propria, e siccome l’uomo produce di proprio soltanto storia, essa è l’unico oggetto conoscibile dall’uomo e di cui si può dare un sapere autentico. Ma il concetto di scienza, quale invarrà dal XIX secolo in poi, è ancora tributario del concetto piuttosto ambiguo di filosofia naturale, che nello studio della natura vede la finalità primaria di confermare la lettera biblica e glorificare il Creatore attraverso l’evidenziazione della magnificenza della sua opera. Un’opera peraltro “definita” e “bloccata” una volta per tutte sin dal Fiat lux!, come peraltro anche la classificazione di Linneo tende a considerarla. Sarà soltanto con Buffon, in seguito i suoi studi sui fossili, che potrà affacciarsi l’idea che la natura abbia una storia, e che delle specie di animali creati da Dio e salvati sull’Arca di Noè alcuni potrebbero non più esistere [6]. In generale, tuttavia, prevaleva ancora l’idea che le conquiste cognitive dovute all’osservazione o alla sperimentazione siano di rango inferiore rispetto a quelle dovute al ragionamento e allo sviluppo delle “eterne verità” già illo tempore rivelate.

    Il concetto gnoseologico ancora in vigore all’epoca, d’altra parte, è chiarissimo: essendo l’uomo fatto ad imitazione di Dio, ogni cosa che da questi venga è sempre di rango superiore a ciò che il cosmo da Lui creato, e più in particolare il cielo, la natura animale, vegetale e minerale, possano rivelarci di se stessi. Non solo, in base al principio per cui la nostra anima reca l’impronta di Dio, dei suoi attributi e delle sue leggi, questi, in quanto elementi divini “innati” nella nostra anima, sono innati, solo da scoprire ed evidenziare. Aldilà di ogni sviluppo cognitivo del conoscere il mondo, solo ciò che sta “dentro” la nostra anima conduce alla verità, dunque solo ciò che noi scopriamo “attraverso” essa è veritativo, o quanto meno esso è sempre molto più affidabile di quanto si possa scoprire fuori di noi con i sensi e l’osservazione. Il “conosci te stesso” socratico-platonico si sposa così perfettamente colla teologia di Sant’Agostino e dei suoi epigoni; l’approccio sperimentale viene raramente viene reso pubblico da parte dello scopritore, e quando ciò accade in ogni caso riguarda un sapere considerato “volgare”. La scienza su base analitica, fatta di “dati”, è considerata in ogni caso di rango inferiore rispetto a quella “discorsiva”, opera di teorizzatori o commentatori che mutuano le acquisizioni scientifiche e le rielaboravano per porgerle ad un pubblico di profani in maniera comprensibile e piacevole.

    Per aver un’idea più precisa della situazione culturale basti rilevare che all’inizio del secolo XVIII nelle biblioteche pubbliche prevalevano i libri di teologia e di narrativa edificante, mentre solo alla fine di esso cominciarono a comparire anche opere di divulgazione scientifica. D’altra parte, il Settecento può essere considerato il primo secolo in cui si comincia a produrre sistematicamente conoscenza vera e nel quale il “fare” cultura è visto in maniera nuova, sì da cominciare a mettere in mora un retorico e dominante “disquisire”. E tuttavia questo è ciò che si continua ancora a lungo a fare, almeno sino al terzo quarto del secolo, nelle ormai sclerotizzate università, mentre nelle accademie private e nei circoli di discussione si comincia a trattare in maniera pragmatica di “cose” da conoscere e di altre da produrre. I veri centri dinamici della cultura escono totalmente dall’ambito accademico per trovare spazio nelle iniziative locali di privati cittadini, nei laboratori privati e nelle officine in cui si praticano le tecnologie d’avanguardia.

    Di fronte alla posizione del Vico e di numerosi altri pensatori del Settecento sono poche le voci che si levano a difendere le prerogative cognitive della scienza. Ad essa si contrappongono le posizioni scettiche di uno Hume che non crede in nulla salvo che in Dio, di un Berkeley per cui tutto l’essere della materia sta in un’illusoria percezione di essa, di un Kant che pone il fenomeno come apparenza di un’immaginaria cosa in sé. La possibilità di conoscere l’”essenza” della realtà più profonda (quella del mondo “in sé” come Creazione divina) è ritenuta totalmente fuori dall’orizzonte antropico, poiché all’uomo è concesso di conoscere soltanto l’apparenza fenomenica. In altre parole, la scienza non offre alcuna possibilità di giungere al fondamento della realtà, né di coglierne i principi profondi, ma semplicemente di descriverne la superficie. Né la scienza poteva pretendere di sostituire la cosiddetta “filosofia naturale”, strettamente connessa alla teologia, non potendo vantare requisiti metafisici per poter pretendere di operare in sua vece. Un pregiudizio che peserà duramente sino al secolo successivo, nel quale si verificherà anche un’equivoca “teologizzazione” della scienza da parte del positivismo di Comte, che opererà una sostituzione della teologia con una scientologia non meno deprecabile. Lo scientismo sta d’altra parte all’opposto del modo corretto di considerare l’attività della scienza, come ricerca delle cause dei fenomeni in continua evoluzione.

    L’idea che il pensiero illuministico abbia costituito una sopravvalutazione della scienza rispetto alla teologia è quindi totalmente privo di fondamento. La cultura dell’Illuminismo va vista come un coacervo di tendenze assai differenti, che vedono l’arcaismo reazionario di Rousseau agire da motore dell’evoluzione sociale assai più del rivoluzionario concetto dell’uomo macchina” di La Mettrie. Ciò detto, occorre concludere che dal punto di vista concettuale nulla avrebbe potuto autorizzare gli enormi progressi fatti dalla scienza nel XVIII secolo se non l’iniziativa di pochi “appassionati” della conoscenza. Fu perlopiù l’iniziativa di libere menti “fuori sistema” che perseguivano la conoscenza per pura passione (diremo noi per gnòresi [7]) ed  indipendentemente da ogni sostegno da parte della società del tempo nella sua generalità, ancora devotamente tributaria della teologia cultuale e filosofale. Va tuttavia aggiunto che tra queste libere menti vi furono anche uomini di sincera fede, che continuarono ad operare e per la fede e per la scienza nella forma della “doppia verità”

    Anche l’eccelsa lezione morale di Spinoza aveva fatto la sua strada: come Baruch aveva ri-letto le Sacre Scritture alla luce della sua metafisica necessitaristica in nome della libertà interpretativa e della tolleranza, alcuni scienziati ora leggevano la natura cercandovi le concordanze o le discordanze con la Bibbia. Ma se la scienza non riusciva ancora ad ottenere uno status adeguato al suo ruolo, le sue acquisizioni incominciavano a circolare in sempre più ampi strati della popolazione attraverso la pubblicistica clandestina, perlopiù ad opera di deisti anti-cristiani, ma anche di pochi atei che vedevano sì nella scienza una guida affidabile per il loro pensiero, ma che spesso confondevano ancora la scienza con la metafisica. E sarà infatti la metafisica meccanicistica ad improntare prevalentemente il pensiero ateo; un meccanicismo cartesiano de-teologizzato sarà perlopiù il protagonista, assai meno un materialismo autentico basato sulla conoscenza della materia in quanto tale. Ma c’è anche un meccanicismo più scientifico e meno rozzo, che fa riferimento a Newton, a suggerire una nuova filosofia su base materialistica dove il concetto di “attrazione” riceve interessanti interpretazioni anche in biologia, ma ciò avverrà purtroppo in direzione vitalistica, come si è visto con Maupertuis. Si ricordi anche Voltaire, grande divulgatore della fisica di Newton, ma della quale dà una versione semplificata e ideologizzata, nell’insieme poco rispettosa della complessità di essa, a favore di una religione deista che egli chiamerà “teista”. D’altra parte, come nota correttamente la Outram [8], la scienza newtoniana era già servita al teologo Richard Bently, a fine ‘600, per confortare il contenuto dei suoi sermoni evangelici. E Saint-Simon utilizzerà addirittura Newton sul piano sociologico, proponendo un modello sociale ordinato in base alla ragione, all’ordine ed a una legge fisica universale basata sull’astronomia.         

 

 

 

 

10.3 Tecnologia, strumentazione e macchine 

 

    Spesso si tende a disgiungere la scienza dalla tecnologia, l’abbiamo fatto anche noi in un contesto teoretico in cui distinguevamo tra l’entusiasmo dello scoprire e del conoscere e la messa a frutto di essi al fine “di fare o produrre” tecnologie e macchine [9]. Ma, in termini storici e fattuali, un disgiungimento della scienza dalla tecnica è privo di senso, poiché la prima promuove la seconda nella misura in cui questa alimenta e feconda quella. Tutti i grandi progressi scientifici del XVII e XVIII secolo nascono grazie a nuovi strumenti d’indagine, come il telescopio o il microscopio. Una nuova metallurgia, la produzione di leghe sempre più sofisticate, e specialmente l’arte vetraria, mettono a disposizione dello scienziato o dell’ingegnere materiali prima impensabili per fabbricare strumenti scientifici forieri di scoperte prima impossibili, in un interscambio dove lo scienziato offre conoscenza all’ingegnere e questo a quello. Quasi superfluo aggiungere che il progresso tecnologico ha ricadute anche per il “modo di vivere” e che i conforts e la bellezza dei manufatti tendono a migliorare anche il corso della quotidianità. Materiali nuovi entrano nell’attività artigianale e in campi assai differenti. Nell’edilizia e nell’arredamento il legno, materiale principe sino a tutto il Medioevo, è ormai largamente sostituito da altri, diventando nel contempo preziosa materia prima per un artigianato sempre più raffinato. La più semplice costruzione dei vecchi bauli, dei cassoni, delle cassapanche, lasciano ora spazio alla raffinata falegnameria dell’armadio, il nuovo mobile che si specializza per contenere abiti e biancheria intima, oppure, in forma differente, come dispensa da cucina, per ricevere e ordinare contenitori di cibo, attrezzi, stoviglie.

    Vi sono anche alcuni casi eclatanti di costruzioni di nuove macchine che utilizzano principi scientifici ancora da teorizzare, diventando forieri di ricerca teorica sulla base di risultati puramente empirici. È questo il caso della macchina a vapore, costruita e impiegata come produttrice di forza motrice assai prima che Sadi Carnot, studiasse il problema e potesse pubblicare nel 1824 le sue Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco. In generale, molta attrezzatura prima di diventare scientifica era servita ad altri scopi, tra cui la guerra, come alcune attività di ricerca di soluzioni e di produzione di strutture e congegni erano riservate prima al Genio Militare, dominato dall’aristocrazia, che passa però nel Settecento ad una classe di ingegneri prevalentemente di estrazione borghese. Una classe di tecnici che avrà un ruolo importante nei progressi posteriori al 1780, senza peraltro che l’ammodernamento del sistema tecnologico-amministrativo del regno di Francia riesca a produrre effetti sociali rilevanti. Non vi sarà redistribuzione del potere, rimanendo in vigore il vecchio modello di Luigi XIV; il nipote Luigi XVI, pur operando in certi settori in maniera positiva, farà le spese di un sistema di potere centralistico e rigido ereditato dai suoi predecessori. Uno stato non rinnovato in rapporto ai Lumi, né sufficientemente attento alla scienza e alla tecnica e né ad umili categorie di lavoratori di grande utilità pubblica.

    L’industria manifatturiera si sviluppa inizialmente in Inghilterra, dove la produzione industriale triplica tra il 1700 e il 1790, estendendosi poi nel vicino oltre-Manica e raggiungendo più tardi le altre regioni d’Europa. La necessità di produrre energia per via termica (la caldaia a vapore di Watt nasce nel 1780) per il funzionamento delle macchine intensifica anche la ricerca e l’estrazione del carbone e le regioni che ne sono ricche risultano avvantaggiate. È l’industria tessile a registrare i maggiori investimenti in nuovi insediamenti produttivi, ma si sviluppa nel contempo una fitta rete di lavoro a domicilio e la piccola Boemia conta nel 1770 circa 200.000 filatori di lino che lavorano in casa [10]. La “navetta volante” di Kay (del 1733), la giannetta di Hargreaves (1768) e il telaio ad acqua Arkwright e il filatoio intermittente di Crompton (1779) sono quattro novità fondamentali dell’industria tessile moderna. Sempre in Inghilterra è Henry Cort a mettere a punto intorno al 1780 la produzione del coke in sostituzione del carbone di legna per la fusione del ferro. I tecnici inglesi sono ingaggiati quali esperti in un industria continentale più arretrata per avvicinarsi a rese e qualità “britannici”. Potenza e snellezza dell’apparato produttivo della Gran Bretagna furono anche favoriti da un intenso programma di miglioramento delle comunicazioni stradali e dall’assenza di pedaggi e gabelle che ostacolavano altrove (come in Francia) la libera circolazione delle merci. Un nuovo genere di operatori “dal basso” fa la sua apparizione: gli entrepreneurs; sono uomini come il birraio Whitebread, il magliaro Strutt, il siderurgico Wilkinson, il vasaio Wedgwood. Il sistema bancario inglese è tra i più antichi dopo quello fiorentino ed olandese, ma ha grande incremento già nel corso del XVII secolo e nel 1694 viene fondata la Banca d’Inghilterra. Nel ‘700 a sostegno delle attività produttive e dei commerci il numero delle banche accreditate alla City di Londra cresce ancora, passando dalle trentacinque del 1760 alle settanta del 1795.

    A favorire iniziative produttive sono società private di pubblica utilità votate alla cultura pratica attraverso attività didattiche di vario tipo, frequenti nel mondo anglosassone fin dall’inizio del Settecento e in seguito diffuse nelle stesse forme o in altre (ma perlopiù statali) anche sul continente. Tra esse va ricordata la Society for the improvement of Husbandry, Agricolture and Other Useful Arts di Dublino, fondata nel 1731, sul cui esempio nascerà nel 1754 la più potente e organizzata Society for the Encouragement of Arts, Manufactures, and Commerce di Londra. L’intento di queste società non era solo il perseguimento del progresso delle conoscenze bensì la loro immediata applicazione in attività produttive. Sul continente fecero presto seguito le Sociétes Royales d’Agricolture in Francia, le Kaiserlich-Königlichen Ackerbaugesellschaften nell’Impero Asburgico e Societad des Amigos del Paìs in Spagna. In realtà la prima nata, quella di Dublino, aveva tratto stimolo e origine dalla terribile carestia del 1724, che aveva rivelato gravi carenze di cultura agraria e tecnologica, e non meno di quella economico-domestica ed alimentare. I fondatori (il filantropo Thomas Prior e il sacerdote anglicano Samuel Madden, ai quali si associarono altre dieci persone) intendevano ovviare a tali carenze, anche in vista di temibili e future negative incombenze, attraverso un programma estremamente pragmatico di cultura tradotta in attività reale, ben espresso nelle parole seguenti:

 

I membri della società … intendono favorire nel modo più semplice la diligenza del semplice artigiano, vogliono portare il sapere pratico ed utile dalle biblioteche e dai gabinetti scientifici alla luce del sole. In breve, il loro unico intento è di fare del bene, a prescindere che questo avvenga per via di nuove scoperte, attraverso la pubblicazione di invenzioni già note, oppure ampliando le conoscenze attuali diffondendole tra un pubblico più vasto. [11]

    

Non si sottovaluti tale programma nominalmente modesto ed assai semplice nella sua formulazione e se ne colgano le importanti implicazioni di promozione tecnologica presenti. Se lo si confronta con la vuota retorica dei programmi delle strutture deputate all’istruzione, perlopiù teologica o umanistica in quel tempo, ci si renderà conto che qui qualche cosa di nuovo appare e si impone. Si tratta di un pragmatismo che caratterizza precipuamente il mondo britannico e che, facendosi esempio per le altre culture europee, segnerà uno degli aspetti più importanti della cultura “pratica” e finalizzata dell’Illuminismo scientifico-tecnologico. Nel 1754 nasce a Birmingham anche una società collegata alla Society of Art di Londra con lo scopo di promuovere nella zona le attività commerciali e industriali. Ad essa si aggiunse un gruppo di uomini, perlopiù imprenditori e tecnici, che si riunivano (nei giorni di luna piena) nella casa di Mattew Boulton, titolare di un’importante officina meccanica Più tardi, nel 1775, quelle persone costituiranno la Lunar Society of Birmingham, tra i cui membri si contavano naturalisti come William Small e tecnologi come James Watt [12].     

    Per entrare nel tema della tecnologia diremo che, approssimativamente, gli oggetti che la concernono si possono dividere in due grandi categorie: gli strumenti e le macchine. I primi, spesso chiamati anche apparecchi, sono perlopiù di dimensioni modeste, ed il loro scopo è contribuire al conseguimento di un risultato scientifico esprimibile in “dati”; essi sono pertanto oggetti utili all’osservazione, all’indagine e alla misurazione. Le macchine sono invece oggetti di maggiori dimensioni e spesso assai complessi, costituiti dall’assemblaggio di congegni collegati e concorrenti a un fine unitario, il cui scopo è quello di svolgere una funzione circoscritta o di produrre energia nelle sue varie forme o movimento di un certo tipo su certi materiali che devono essere trasformati in altri. Ebbene, termini come quelli che abbiamo qui utilizzato vedono la luce proprio nel Settecento, poiché in precedenza anche la nominazione delle apparecchiature scientifiche poteva risultare impropria quanto sviante. Anche il linguaggio “della macchina” si affina nell’epoca in cui le macchine incominciano ad essere degli oggetti apprezzati non solo più per la guerra o per le grandi opere edilizie ed idrauliche ma di uso comune. Il manufatto artigiano nel Settecento si avvia a diventare un manufatto industriale, e l’industria diventa la protagonista di un nuovo modo di produrre beni d’uso.

    Relativamente alla strumentazione è il campo dell’ottica a portare il più alto contributo per i progressi della scienza, e tutto ciò grazie a un pezzo di vetro: la lente. Nata a Venezia nel XIV secolo questa lastrina di vetro a sezione tonda diventerà ciò che permetterà all’uomo di superare i limiti della visione naturale per aprire l’orizzonte di quella artificiale, l’unica che avrebbe permesso di indagare l’estremamente piccolo e l’enormemente lontano. Ma solo all’inizio del ‘600, in Olanda, verrà impreso un grande stimolo alla ricerca e ne è testimonianza la richiesta di brevetto per un nuovo strumento per vedere lontano da parte di Hans Lippershey, un fabbricante di occhiali di Meddleburg. Sugli strumenti ottici di Galileo, di Keplero, di Newton e di Huygens (che nel 1684 era riuscito a costruire una lente quasi-acromatica) parlano le loro scoperte, possibili appunti in virtù di quei loro apparecchi. Le lenti, perlopiù accoppiate, sono l’elemento fondamentale di strumenti che portano i nomi di cannocchiale, telescopio, microscopio. L’evoluzione delle lenti e il loro assemblaggio è stato un processo secolare, ma che vede solo nel Settecento il conseguimento dell’acromaticità, cioè la rifrazione della luce senza la scomposizione. Ci informa Corrado Mangione che nel Settecento:

 

Si formò perfino un nuovo mercato per la costruzione di strumenti scientifici ad uso dimostrativo. Come scrive Derek J.Price: «gli artigiani più in vista cominciarono ora a vendere attraenti cassette contenenti serie di apparecchi per la dimostrazione delle leggi della meccanica o del magnetismo, scatole di modelli per illustrare la geometria solida, serie di lastre e oggetti per il microscopio del principiante, globi e complicati congegni istruttivi come il planetario. Questa tendenza si accentuò man mano che il secolo s’inoltrava […]» [13]

 

    Per quanto riguarda la termometria l’inizio del Settecento vede la comparsa dei primi apparecchi ad opera di Fahrenheit e di Réamur intorno al 1730, avendo utilizzato il primo il mercurio e il secondo l’alcool etilico. Ma è molto importante la contemporanea definizione da parte di Celsius della scala centigrada, dove lo 0° coincide con il congelamento dell’acqua e il 100° con la sua ebollizione. Anche la cronometria ha nel secolo uno sviluppo straordinario,soprattutto perché l’orologio riduce le sue dimensioni sino al portatile da tasca. Già Huygens si era occupato a lungo della misura del tempo arrivando nel 1675 a proporre la spirale in sostituzione del pendolo, ma notevole impulso al perfezionamento viene nel 1714 dal Parlamento inglese, che mette in palio lauti premi in una gara per la fabbricazione dell’orologio più esatto, seguito da un’analoga iniziativa francese nel 1720 da parte dell’Académie des Sciences. In tali gare per la misurazione del tempo un punto importante è quello conseguito con l’apparecchio di Ferdinand Berthoud (1727-1807) nel 1771 il cui scarto nell’arco delle 24 ore era di un secondo.  Le bilance di precisione, alle quali molto concorse Lavoisier, vedono la luce intorno al 1770, ma fin dalla metà del secolo una fiorente industria di strumenti molto raffinati si sviluppa in Inghilterra, dove vi sono aziende come quella di John Dollond (inventore di un obbiettivo acromatico complesso) che producono microscopi e cannocchiali tecnologicamente molto avanzati [14]. 

    Per quanto riguarda le macchine, si può affermare senza ombra di dubbio che il XVIII secolo vede ancora il modo britannico nettamente davanti agli altri. È là dove il ferro va più rapidamente sostituendo il legno nella costruzione di macchinario, cui si affianca la macchina a vapore come produttrice di energia. È infatti nel 1709 che Adam Darby  riesce per la prima volta a fondere il ferro utilizzando il carbon coke, mentre nel 1720 la produzione annua di ghisa nel Regno Unito raggiunge le 25.000 tonnellate [15].  Vedono anche la luce nel Settecento inglese le “macchine per fare macchine” e i primi torni per filettare le viti, come quello realizzato da Jesse Ramdsen intorno al 1770. Ma le macchine utensili sono ora inventate anche per produrre un infinità di parti e sottoparti di congegni e macchine; è la nascita della “componentistica”, che va dagli spilli agli spinotti, dai cilindri ai tubi, dalle ruote agli ingranaggi di precisione per l’orologeria. In questo campo eccelle il già citato Berthoud  nominato Horologer mécanicien du Roi e de la Marine. Ed ancora in Francia Nicolas Focq nel 1751 inventa una nuova alesatrice per l’interno di cilindri [16], mentre Watt fa produrre nelle ferriere Wilkinson un maglio a vapore capace di 150 colpi al minuto.

   L’industria tessile vede nel ‘700 uno straordinario affinamento tecnologico e la più straordinaria innovazione nella tessitura è sicuramente la “spoletta volante”, un dispositivo inventato da John Kay nel 1730, che passa velocemente da un lato all’altro dell’ordito senza richiedere l’intervento manuale del tessitore raddoppiando la velocità di produzione. Nel 1748 nasce la cardatrice tecnica, poi nel 1787 nasce il primo telaio completamente meccanico. Ma nella tessitura vi è anche uno straordinario sviluppo nella lavorazione di nuove fibre come il lino e il cotone, questo ha uno sviluppo tumultuoso e diventa la prima fibra tessile per metri quadrati tessuti. Nel 1749 Jacques de Vaucanson (già celebre fabbricante di automi) progetta un avanzato tipo di filatoio per la seta, che ottiene filati meglio rifiniti, più resistenti e soprattutto quasi asciutti quando arrivano all’avvolgimento sull’aspo. Ma non tutte le nuove macchine hanno utilità così spiccate; nel 1729 Charles Marie de La Condamine, coraggioso viaggiatore ed estroso scienziato, inventa un tornio curioso, guidato da una camma rotante coassiale al mandrino che mette in movimento una punta scrivente o un utensile a taglio frontale, realizzando una sorta di pantografo a bilanciere che taglia profili copiati per realizzare forme curiose come quelle cicloidali. [17] 

    Né la macchina ha il solo scopo di produrre “cose”, poiché i progressi settecenteschi riguarda anche le macchine per nutrire lo spirito umano non solo attraverso la stampa e le arti figurative ma attraverso il suono; è questo il caso degli organi, cui è dedicato L’art du facteur d’orgues di Dom Bedos de Celles, che dal 1766 al 1778 scrive questo trattato al fine pratico di affinare la tecnica costruttiva di una macchina che mette insieme l’arte della falegnameria, quella della meccanica e quella della pneumatica [18]. Niccolò Tron, che era stato nel 1718 ambasciatore della Repubblica veneta a Londra, dove aveva conosciuto un già anziano Newton, si era così appassionato alla meccanica da dimenticare le incombenze diplomatiche da mettersi a studiare assiduamente «le meccaniche, ora portavasi nei cantieri, negli arsenali e nelle fabbriche per vedere applicate le teorie e le speculazioni geometriche alla costruzione delle macchine» [19]. Questa notizia ce la rende Francesco Griselini, che nel 1769 scrive un Dizionario delle arti e dei mestieri ed è un animatore del progresso tecnologico nella Repubblica di Venezia nelle sue realizzazioni manifatturiere [20]. Ma la tecnologia non riguarda solo la produzione di manufatti: il tedesco Johann Beckmann, ispettore alle miniere e alle fonderie del suo paese, decide di estendere i benefici della meccanica all’agricoltura scrivendo nel 1777 l’Anleitung zur Tecnologie.

    Uno straordinario apporto alla tecnologia settecentesca viene dall’americano Benjamin Franklin (1706-1790). Operaio a 12 anni, aiuto tipografo a giornata a Filadelfia nel 1723 ed apprendista a Londra dal ’24 al ’26, torna in America nel 1727 e fonda il circolo culturale Junto, diviene editore, nel 1742 fonda l’Accademia  (che costituirà il primo nucleo dell’Università della Pennsylvania). Nel 1743, come sviluppo della Junto, nasce l’American Philosophical Society di cui diviene segretario. Tecnologo e filantropo, Franklin promuove la prima biblioteca circolante in America fornendo libri anche gratuitamente, mentre sviluppa importanti ricerche di elettrologia, con esperimenti nel suo laboratorio e studi all’aperto sui fulmini fino a produrre il primo parafulmine. Esperienze e invenzioni documentate nel suo Experiments and Observations on Electricity del 1754 alle quali si accompagnano studi di calorimetria, di ottica, di medicina, di  meteorologia e di oceanografia. Genio vulcanico ed eclettico egli si occupa di etica e di organizzazione sociale non meno che di tecnologia, scrivendo dalla gioventù alla vecchiaia saggi di vario genere. Nel 1776 è firmatario della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti e nel 1777 è ambasciatore a Parigi. Per comprendere lo spirito col quale Franklin vede la tecnica nella sua generalità come “aiuto al vivere quotidiano” va ricordato che nel 1741, già uomo famoso e facoltoso, egli si dedica alla messa a punto di una stufa di nuova concezione, che deve produrre la massima efficienza termica e il massimo risparmio di combustibile.

    Ultimo aspetto della rivoluzione tecnologica è l’architettura industriale. Se sino a tutto il Seicento le officine erano sostanzialmente case di civile abitazione adibite alla produzione di manufatti, nel Settecento cominciano a venir progettati edifici il cui unico scopo è di costituire il luogo in cui installare macchine. È così che all’interno o alle periferie dei centri urbani o di semplici villaggi nascono nuove fisionomie edilizie ed urbanistiche dove compaiono le prime costruzioni concepite per produrci dei beni e non per abitarci. Manchester è uno dei primi grandi sistemi urbani inglesi organizzati anche per la produzione industriale, e nel Kent, dove le ferriere fanno dalle pentole ai cannoni, si incominciano a vedere vere e proprie “fabbriche”. Anche Glasgow in Scozia diventa città industriale e vi nascono fabbriche dove si producono particolari tessuti come i plaids di lana e le muslins di cotone; ma accanto vi sono zuccherifici e famose distillerie di brandy. Ed è proprio in Gran Bretagna che intorno al 1760 Josiah Wedgwood, fondatore di un’industria per la produzione di ceramiche farà costruire il primo villaggio in prossimità del centro produttivo per accogliere gli operai che vi lavorano. Da un certo punto di vista una ghettizzazione dell’operaio e della sua famiglia, ma da un altro la razionalizzazione o l’eliminazione del trasferimento dal domicilio al luogo di lavoro del lavoratore.  

    In Francia si cura soprattutto l’organizzazione della viabilità e del trasporto, perciò nel 1747 viene fondata l’École des Ponts et Chaussées, moderna scuola di ingegneria civile che si deve occupare della progettazione e della costruzione di strade e ponti. Tra gli insegnanti vi è Gaspard-François Riche de Prony, autore di opere importanti come la Nouvelle architecture hydraulique del 1790 e il successivo Leçons de mécanique analytique. Faranno seguito all’indomani delle Rivoluzione l’”École de navigation et de cannonade maritimes” e l’”École des armes” per affrontare razionalmente incombenze belliche, cui seguono l’”École des travaux publics” e il “Conservatoire des Arts et Métiers” nel 1794. Relativamente al campo idraulico nel 1706 era apparso sull’Histoire et Mémoires de l’Académie Royal des Sciences un importante studio di Antoine Parent dove veniva posto il problema di quanta energia utile fosse ottenibile dal flusso di una determinata quantità d’acqua, riguardando i tipi di ruote e pale da utilizzare. Lo studio peccava di errori di impostazione ma stimolava altri studi. Bernard Forest de Bélidor dal 1737 al 1753 scrive una ponderosa opera in 4 volumi dal titolo Architecture Hydraulique, divenuta famosa e più volte ristampata e tradotta in varie lingue. In Gran Bretagna l’interesse pratico prevale sul teorico ed è interessante il caso dell’artigiano John Smeaton, che nel 1759 smentisce i due francesi dopo ripetuti esperimenti e calcoli per determinare la resa ideale di una ruota idraulica, scoprendo che l’alimentazione dall’alto porta a un resa quasi doppia rispetto a quella dal basso. Conclusioni esatte ed opposte sia a quelle di Parent sia a quelle di Bélidor, comprensibili col semplice fatto che Smeaton è un progettista e un riparatore di ruote da mulino e non un professore. Ma l’inglese non osa contraddire i dati dei due luminari francesi (peraltro confermati dai calcoli del fisico Colin MacLaurin) e si limita modestamente a comunicare a chi ne è interessato i dati dei suoi esperimenti. L’esattezza delle valutazioni di Smeaton tuttavia emerge a poco a poco e i suoi modelli di ruota e di impianto si diffondono in Gran Bretagna prima, in Francia poi, quindi in Italia e poi in tutto il resto d’Europa [21].  

    Ma John Smeaton è un geniale meccanico che non si ferma:  nel 1769 progetta un’alesatrice-trapanatrice di nuova concezione che è fabbricato nelle Officine Wilkinson a partire dal 1775, essa permette di alesare grandi cilindri con la massima precisione. I cilindri che ne derivano sono molto apprezzati dall’industriale Boulton (che ha per socio Watt) e per lui la Wilkinson costruirà per vent’anni tali manufatti [22]. Il tornio più perfetto è realizzato da Henry Mudslay, che dall’età di dodici anni fa l’apprendista e a sedici è già un fabbro provetto, sì da far dire ai suoi compagni che «vederlo maneggiare la lima da diciotto pollici era semplicemente splendido» Il giovane entra nell’officina di Joseph Bramah dove inventa una serratura, una macchina per avvolgere le molle a spirale e una segatrice, collaborando con lui per la messa a punto della sua famosa pressa idraulica. Ma quando gli viene rifiutato un aumento di salario se ne va ed apre una propria officina dove produce ottime macchine interamente metalliche. Applica su vasta scala il portautensili scorrevole, una macchina filettatrice e un micrometro da banco di alta precisione [23]. Ma anche Bramah è un talento della meccanica che nel 1784 inventa un famoso tipo di serratura che costruisce direttamente e che sarà prodotta  venduta sino al 1851.     

    Il modo di affrontare i problemi tecnici non solamente con la teoria e con la matematica ma con la sperimentazione pratica trova compiuta espressione nell’importante iniziativa di Isaac Milner, primo titolare della “Jacksonian Chair”, che dal 1784 al 1792 realizza presso il Queen’s College un laboratorio di meccanica dotato di ogni sorta di torni, mole, mantici, forni e banchi elettrostatici, dove mettere in atto una larga messe di esperimenti. Analogamente William Farish a Cambridge conduce il primo serio tentativo di istituire come materia autonoma di insegnamento la “Costruzione di macchine”, mettendo gli studenti nelle condizioni di lavorare come costruttori prima che come progettisti. Criterio che trova la sua migliore espressione nella produzione di strumenti scientifici in generale e nell’orologeria in particolare. Abbiamo già parlato di questo settore tecnologico, ma lo concludiamo qui con tre notizie editoriali relative al trentennio 1730-1760, periodo in cui sono fatti progressi enormi, producendo apparecchi sempre più piccoli e sempre più precisi che hanno come ingredienti principali lo scappamento a molla, il bilanciere e la conoide. Le edizioni Ozanam pubblicano nel 1735 un Traité des horologes élémentaires, cui segue da parte di Thiout un Traité d’horologerie nel 1741, mentre nel 1763 vede la luce l’importante Essai sur l’horologerie di Ferdinand Berthoud, uno dei più geniali orologiai del Settecento.   

    Proseguiamo trattando del pallone aerostatico, più noto come mongolfiera, una macchina tanto semplice quanto geniale ed affascinante. Tutto nasce dalle osservazioni di Joseph Mongolfier davanti a un caminetto, quando si accorge che l’aria calda spinge in alto oggetti leggeri di carta o di tessuto. La macchina che inventa col fratello Étienne e che si alza nel giugno dell’’83 è costituita da un fornello posizionato sotto un pallone di tela del volume di 800 metri cubi. Poco dopo ripetono l’esperimento Pilâtre de Rozier e il marchese d’Arlandes come passeggeri. L’evento fa scalpore e l’Accademia delle scienze incarica Lavoisier e Condorcet di valutare meglio l’invenzione poiché i fratelli Mongolfier sono solo degli artigiani e degli empirici. Il fisico J.A.C. Charles viene incaricato di perfezionare il pallone aerostatico con i fratelli Robert quali costruttori e decide di utilizzare l’idrogeno (appena scoperto nel 1666 dall’inglese Cavendish). L’ascensione di questo nuovo apparecchio avviene il 1 dicembre dallo stesso anno alla presenza di una grande folla entusiasta e l’anno dopo Vincenzo Monti compone l’ode Al signor di Mongolfier [24].

    Chiudiamo la nostra rassegna con un argomento più leggero ma non di minor importanza sotto il profilo strettamente tecnico: la progettazione di automi e giocattoli meccanici. Un genio in questo campo è Jacques de Vaucanson (1709-1782) che già a 15 anni costruisce una navicella meccanica. È solo l’inizio di una straordinaria carriera poiché ha il pallino di costruire androidi e frequenta corsi di anatomia e medicina; così, nel 1732, costruisce il primo automa umano. Deve confrontarsi con Maillard, che ha costruito un cigno artificiale molto apprezzato, ma Jacques punta alle antropomorfe «anatomie mouvantes» e prosegue instancabile le sue ricerche. Finalmente, nel 1738 può presentare all’Accademia delle Scienze il suo “flautista, un automa che suona il flauto muovendo le labbra, la lingua e le dita. Una macchina che d’Alembert descrive e Diderot ammira. Funziona come un carillon a doppio movimento, che ruota su se stesso e si sposta assialmente con la possibilità di variare la combinazione dei movimenti; dalla bocca esce un soffio d’aria alimentato da un serbatoio che fa produrre al suonatore note musicali di ben tre ottave [25].  Sulla sua scia ottime cose faranno sia dilettanti amanti della meccanica e sia veri professionisti. Tra i primi i tedeschi Friedrich von Knaus e il barone von Kempelen e tra i secondi gli orologiai svizzeri Pierre ed Henri Jaquet-Droz, gli automi dei quali sono oggi esposti nel Musée d’Art et d’Histoire di Neuchâtel [26]. 

 

 

 

 

 

10.4 La diffusione della cultura scientifica e tecnologica

 

    Le università, ancora legate all’“autorità” di Aristotele, fin dal XVII secolo avevano cominciato a perdere il loro primato culturale a favore delle “accademie”, istituzioni perlopiù private di ricerca e di studio, libere da schemi pregressi e aperte alle novità. Lo scambio delle informazioni scientifiche e tecnologiche finisce così per tagliar fuori le istituzioni pubbliche deputate ad una cultura organizzata “dall’alto”, per trovare sviluppi ed innovazioni in piccole e medie strutture nate “dal basso”. Un prototipo di esse nasce nel 1657 con la fiorentina Accademia del Cimento, cui seguono le più importanti Royal Society di Londra, fondata nel 1662, e l’Académie des sciences, nata a Parigi nel 1666. Un ruolo importante in questi processi di acculturazione si deve all’opera di dilettanti e di autodidatti isolati, non sempre ricordati nelle cronache del tempo. La “dilettanza” e l’“autodidattica” sono due fattori importanti della cultura dell’Illuminismo mai abbastanza valorizzati, tra i quali grandeggia Leeuwenhoek, il biologo inventore del microscopio; primo, tra l’altro, ad osservare gli spermatozoi e a descriverli. Il fisico olandese Pieter van Musschenbroek [27] scrive nell’introduzione ai suoi Principes de physique, apparsi in Francia nel 1736:

 

La fisica non è mai stata coltivata in Olanda come ai nostri giorni: oggi esiste un gran numero di persone che vi si dedicano e ne traggono diletto. Notiamo infatti che questa scienza compie quotidiani progressi e si diffonde a poco a poco in tutte le professioni. Non è, come un tempo, esclusività di pochi filosofi, ma fiorisce ed è bene accetta presso la maggior parte degli uomini di cultura. Anche il mercante si interessa di fisica, e l’artigiano, che ne sente parlare ogni giorno, comincia a gustarne l’utilità. La fisica si fa conoscere ovunque e ormai quasi non v’è persona di qualsiasi condizione sociale, che non tragga diletto dalla dimestichezza con tale scienza. [28]

 

Se la testimonianza risponde a verità ci troviamo di fronte a una vera mutazione antropologica; sia per lo spostamento degli interessi delle persone colte dal campo della cultura umanistica a quello della scienza per una democratizzazione della cultura scientifica che riguarda sia lo scienziato sia il tecnico che costruisce strumenti. D’altra parte, era stato solo grazie ai rudimentali prototipi del microscopio se William Harvey aveva potuto osservare la pulsazione del cuore degli insetti e Francesco Stelluti effettuare nel 1625 le sue osservazioni sulle api. Poi Robert Hooke, un naturalista assistente di Boyle dotato di grande spirito pratico, perfeziona lo strumento e ne studia le possibilità osservative, rendendo conto di ciò nel saggio Micrographia del 1665. 

    Prima che Diderot e D’Alembert diano corso al grandioso progetto dell’Encyclopédie compare nel 1735 uno straordinario libro di Jean Gaffin Gallon dove vengono presentate 377 nuove macchine col corredo di 432 tavole rappresentative ed esplicative: si va dalle calcolatrici di Perrault e di Lepine agli automi di Maillard. Leggiamo che cosa dice l’autore nell’Avertissement:

 

Lo studio della meccanica e delle macchine utili alle arti, a cui mi sono da sempre applicato, avendomi condotto al deposito dei modelli delle macchine e delle invenzioni conservateci presso l’Accademia delle Scienze nell’Osservatorio Reale, ho ritenuto, esaminandole, che sarebbe stata cosa conveniente per il pubblico far conoscere queste invenzioni in maniera più dettagliata di quanto non appaia nella storia dell’Accademia. [29]

 

Il destinatario dell’opera non è più il gruppo ristretto degli uomini di cultura, ma il “pubblico”, ovvero la massa di persone che accede ora all’opportunità di conoscere ciò che era prima riservato a pochi. Ma non solo questo:

 

Ho pensato tutto d’un tratto che un gran numero di persone, dotate di senso meccanico, avendole sotto i loro occhi, avrebbero potuto perfezionare queste macchine o inventarne delle nuove. Molte persone prive di conoscenze esatte della meccanica, come la maggior parte degli artigiani e degli altri operai, avrebbero potuto per mezzo di questa raccolta contribuire al perfezionamento di queste macchine o persino all’arte delle macchine in generale. [30]

 

Siamo di fronte a un modo totalmente nuovo di concepire la cultura e di offrirla non solo all’uso delle classi lavoratrici ma di contare sul loro apporto per il perfezionamento delle macchine stesse sulla base dell’esperienza pratica. Gaffin Gallon non intende solo informare, bensì promuovere i progressi della meccanica contando sull’apporto dei suoi operatori. Un’altra iniziativa particolarmente interessante è quella presa nel 1726 da un gruppo di studiosi tra cui il matematico Clairault, il fisico Nollet, il musicologo Rameau, l’orologiaio Le Roy e l’architetto Chevotet, i quali fondano una Societé des Arts per sviluppare le scienze senza perdere di vista le belle lettere, nell’intento di «sposare le arti meccaniche alla scienza» e «attirare lumi alla conoscenza scientifica per mezzo delle tecniche, così come è l’orologeria per l’astronomia, la fabbricazione di lenti per l’ottica» [31] Insieme alle altre precedenti enciclopedie cui Diderot e D’Alembert faranno riferimento anche questa iniziativa può essere considerata un tentativo di produrre informazione tecnica attraverso le lettere, dove è il letterato che elabora l’informazione con il criterio descrittivo del narratore o del saggista. Si pensi infine che alla Fiera del Libro di Lipsia nel 1764 vennero messi a catalogo cinquemila titoli di libri pubblicati negli anni immediatamente precedenti e che in quella del 1800 i titoli erano diventati dodicimila.  

 

    L’attività artigianale assume un’importanza notevole e ne è esempio la sempre maggiore specificazione della pluralità e multiformità dei mestieri. Quell’attività manuale, disprezzata nel mondo greco, romano e medievale, assume ora un nuovo significato sociale e culturale. A fine ‘500 un artigiano svizzero enumera già novanta mestieri, l’Encyclopédie del 1745 duecentocinquanta [32], a testimonianza di un maggior riconoscimento della specificità operativa e oggettuale dell’attività artigiana, dei cui frutti strumentali nessun scienziato può più fare a meno. In un contesto in cui il superamento di una vecchia struttura sociale e la fondazione di una società più libera ed egualitaria tutti gli elementi debbono adeguarsi ai nuovi tempi. La scienza e la tecnologia, mal viste quando non decisamente combattute dalle autorità ecclesiastiche più conservatrici, prendono così la loro rivincita e da ciò l’opportunità di normare in un sistema univoco e più razionale di misurazione l’esprimersi dei dati dimensionali e di peso. Una commissione nella quale figurano Monge, Borda, Lagrange, Laplace e Condorcet inizia un lavoro normativo che si conclude con l’adozione del “metro provvisorio” da parte della Convenzione nel 1793, ratificato poi in legge nel 1795 con l’obbligatorietà dell’uso in Francia del sistema metrico decimale.  

 

                                                           

10.5 Astronomia

   La visione del cielo e dei suoi oggetti da tempi immemorabili ha affascinato l’uomo in tutti i luoghi della Terra, e portato a conclusioni osservazionali empiriche, come quelle calendariali, di grande importanza per la sfera del quotidiano (agricoltura, pesca, navigazione,  ecc.) ma non meno per la teologia, che nel cielo ha posto le sue principali divinità. Con Copernico non soltanto cambia lo scenario celeste, ma l’uomo si avvia, seppure lentamente e faticosamente, verso una visione scientifica di esso, le cui tappe principali sono legate ai nomi di Galileo, Keplero, Huygens e Newton. Il XVIII secolo non vede scoperte eclatanti ma una successione costante di affinamenti nella conoscenze astronomiche, come quella di Edmund Halley che nel 1718, confrontando le latitudini di diverse stelle, si accorge che la “fissità” delle stelle è un’invenzione della metafisica, constatazione confermata nel 1725 da Samuel Molyneux dall’osservatorio di Kew. Ma è James Bradley a trarre nel 1745 le più importanti conclusioni sull’aberrazione delle orbite e sulle complesse reciproche influenze dei corpi celesti, poi confermate in seguito da numerosi altri studiosi. Sulle orme di Newton si sviluppano nel XVIII secolo importanti studi sulla meccanica dei corpi celesti. Due francesi, Alexis-Claude Clairaut e d’Alembert, e uno svizzero, Leonard Euler, proseguono il lavoro del grande Isac. Tutti e tre sono anche, specialmente il terzo, grandi matematici, e quindi esperti nei complessi calcoli necessari per capire come si muovono stelle e pianeti. Non risolvono certo il “problema dei tre corpi” (determinazione delle orbite di tre masse celesti che si attraggono reciprocamente) ma se ne occupano. Clairaut arriva ad una soluzione approssimativa e Lagrange ne dà soluzioni interessanti insieme con una spiegazione razionale del fenomeno delle “librazioni” lunari, piccole oscillazioni dell’asse maggiore del nostro satellite.

   Le comete sono oggetti misteriosi che hanno sempre stimolato la fantasia popolare ed erano stati investiti dalle teologie dei più strani compiti, perlopiù fausti (come la nascita di Gesù) od invece infausti. Halley nel 1682 ne osserva una che conclude essere la stessa che Keplero aveva già osservato nel 1607, da ciò la domanda se anche “altre” comete viste in precedenza non fossero la stessa. Risale all’osservazione di un’altra che Pietro Bennewitz (più noto come Appiano) aveva visto solcare il cielo di Ingolstadt nel 1535 e calcola che la cometa (sempre la stessa) sarebbe ricomparsa nel 1758. Ma Halley non fa un calcolo preciso non tenendo conto delle perturbazioni nel “passaggio a perielio” (distanza minima dal sole). Clairaut fa questo calcolo e stabilisce il passaggio nell’aprile del 1759, avvertendo però della possibilità di un margine d’imprecisione. L’astro passerà il 12 marzo confermando sostanzialmente il calcolo del francese, e la cometa prese il nome di Halley quale suo primo studioso.

   Pierre-Simon Laplace è un eminente matematico, fisico, astronomo, e figura dominante del panorama scientifico francese tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800; un convinto monista e necessitarista nel vedere le leggi fisiche concernere uniformemente tutto il cosmo fisico. È anche il fondatore del calcolo delle probabilità che sviluppa in senso deterministico, essendo già giunto a una teoria della necessità cosmica di cui tratteremo più avanti. Profonda l’eredità di Newton, la cui fisica Laplace assimila e trasmette ai suoi numerosi allievi, facendo di lui uno dei migliori interpreti della meccanica newtoniana e delle sue implicazioni filosofiche, consentendogli di andare oltre l’ideale maestro nel dimostrare la stabilità del sistema solare. Interessato anche alla filosofia, egli desume da Kant la sua tesi cosmogonica e la configura come coronamento degli studi di Newton, una teoria poi divenuta nota come “Ipotesi di Kant-Laplace” e che chiude il trattato Esposizione del sistema del mondo pubblicato nel 1796. Ed è proprio in questo lavoro che è dato trovare gli aspetti più notevoli del filosofo Laplace, ma anche quelli meno convincenti dal punto di vista astronomico, per quanto l’ipotesi cosmogonica sia tuttora valida per numerosi aspetti. Laplace ipotizza una “nebulosa primitiva” all’origine del sistema che avrebbe occupato l’attuale posizione del Sole, con un nucleo centrale densissimo e ad altissima temperatura. Per successivo raffreddamento si sarebbero formati per rotazione centrifuga una serie di anelli di materia raffreddata esterni e concentrici, mentre il nucleo centrale, assumendo sempre più velocità, avrebbe dato origine al Sole. L’anello di Saturno sarebbe rimasto, come un fossile, a testimoniare l’accaduto.

    La teoria laplaciana è affascinante, per molti versi convincente, e continuerà a stimolare a lungo la fantasia dei cosmologi. Ma il principio da cui parte il Nostro è l’arbitraria assunzione dell’assoluta costanza dei fenomeni cosmici, tributaria di un in determinismo filosofico che condurrà sempre Laplace a sovrapporre la sua credenza monistico-necessitaristica alle sue elaborazioni concettuali di alto livello, sì da fargli commettere non pochi errori di carattere scientifico. La teoria presenta diverse incongruenze di cui ne citeremo solo due. La prima: la formazione di anelli stabili è impossibile poiché essi svanirebbero rapidamente, e peraltro, l’aver preso solo in considerazione il sistema solare, non rende ragione di altre entità celesti come le nebulose a spirale e le stelle doppie. La seconda: l’assunzione di una monodirezionalità di rotazione dei pianeti è negata dal fatto che Urano, Nettuno e alcuni satelliti di Giove ruotano in senso contrario a quello supposto da Laplace. Numerosi suoi seguaci tentarono di modificarla lasciandone immutati i fondamenti, sì che anche in tempi recenti [33] i tentativi sono proseguiti.

    Ciò che comunque ha acquisito un posto imperituro nella storia della filosofia è il cosiddetto “Universo di Laplace” di cui ci siamo già occupati [34], una rigorosa teoria deterministica che ritiene essere tutto ciò che non è dimostrabile dalle leggi fisiche in termini di immutabilità e di necessità dovuto esclusivamente all’impossibilità di conoscere tutte le variabili fenomeniche in gioco. Da qui l’assunto che si deve «considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro » e che se «Un’Intelligenza […] conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva […] nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi.» [35]  Ci siamo permessi di rilevare che la supposizione di un’intelligenza “superiore” (un demone-dio) non può che alludere, in qualche maniera, ad un “Colui” che avrebbe partecipato alla creazione stessa dell’universo, e da ciò il nostro parere che tale tesi cosmogonica si presenti anche come piuttosto “teologica”, sia nel presupporre la Necessità come ordinatrice nel mondo e sia nel presupporre un’Onniscienza in grado di darne  conferma. 

                         

 

             

 

10.6 Le scienze fisiche

 

    Il campo della fisica è estremamente vasto e i suoi principi riconducibili a una moltitudine di leggi specifiche che avevano già ricevuto notevole sviluppo nel XVII secolo; un secolo molto importante per gli sviluppi delle matematiche, che videro impegnati anche metafisici eminenti come Cartesio e Leibniz.  Senza le matematiche, come è ovvio, è quasi impossibile occuparsi di fisica, e tuttavia una considerazione va fatta, perché la matematica è scienza dell’astratto e la fisica invece del concreto, anche se la fisica contemporanea sempre più sfocia nell’astratto ogni qual volta deve andare oltre i limiti del possibile e avventurarsi nei modelli teorici di ciò che suppone o immagina. Nel Settecento fisica e matematica si sovrappongono ma non si fondono. La differenziazione è ancora, almeno nominalmente possibile: il matematico calcola e formula equazioni, il fisico osserva, sperimenta e induce. È Newton a rappresentare lo straordinario modello, valido ancor oggi, del fisico-matematico, ma nel pieno il Settecento i matematici più notevoli saranno svizzeri e francesi. Tra i primi i Bernoulli ed Euler, il genio instancabile che creerà le premesse per una nuova matematica, tra i secondi Clairaut, d’Alembert, Lagrange, Laplace Matematici eminenti ma anche scienziati che trasferiscono il calcolo astratto in settori particolari, come fanno Clairaut e Laplace in astronomia.

    Tra le importanti novità matematiche del secolo vi è anche la scoperta di un nuovo ramo della geometria, quella “descrittiva”, ad opera di Gaspar Monge, la cui vicenda è significativa per comprendere come, prima della Rivoluzione, l’umiltà dei natali potesse ancora costituire un grave handicap. Il giovane Gaspar, figlio di un modesto mercante, pur avendo mostrato ottime capacità e godendo di un ottimo curriculum al collegio locale e poi a quello “de la Trinité” di Lione è accettato alla Scuola Militare di Mezières, ma non ammesso ai corsi di ingegneria, bensì solo a quelli di disegno ed agrimensura. Un’umiliazione che però il ragazzo riscatta, diventando in seguito professore di matematica e fisica della Scuola di Ingegneria stessa e poco dopo, nel 1777, corrispondente all’Accademia delle Scienze di Parigi. Ma gli studi più significativi nel campo restano quelli che portano d’Alembert a pubblicare nel 1743 il Trattato di dinamica e specialmente quelli di Giuseppe Luigi Lagrange, il quale, destinato a studi legali è un autodidatta in matematica che Solo in seguito, entrato in rapporti epistolari con Euler e d’Alembert, ha modo di farsi notare come fine matematico. Fondatore dell’Accademia delle Scienze di Torino, nel ’66 si trasferisce a Berlino, dove rimane sino al 1787 per approdare in seguito a Parigi e rimanervi sino alla morte, nel 1813.  Lagrange è uno dei più grandi matematici di tutti i tempi, ma il suo capolavoro si intitola Meccanica analitica. In esso, e per la prima volta, la matematica viene espressa in pure formule, senza alcun ausilio di figure geometriche esemplificative. È il primo caso di esposizione matematica totalmente astratta, prova di forza di un grande teorico che vede la propria materia nella sua unicità ed assolutezza. 

    Abbiamo già accennato alla calorimetria dal punto di vista strumentale e abbiamo visto Réamur competere con Fahrenheit e Celsius per la realizzazione del miglior termometro. Ma è lo scozzese Joseph Black ad utilizzare l’apparecchio per le sue osservazioni e formulare teorie che ne fanno il fondatore della scienza del calore. Dal 1756 Black inizia le sue osservazioni sul comportamento dell’acqua al variare della temperatura e studia la fusione del ghiaccio, l’ebollizione e il passaggio a vapore. Gli interessa capire come mai i passaggi di stato siano lenti e richiedano tanta energia. Si  pone l’obbiettivo di calcolarla e scopre la quantità di calore che occorre fornire per determinare l’aumento o la diminuzione di 1°F per una determinata massa d’acqua. Le sue misure e i suoi calcoli risulta importanti in quanto assimilano correttamente il calore al concetto di energia, permettendo anche a Watt di perfezionare la macchina a vapore. E tuttavia, incredibilmente, molti continueranno ancora per lungo tempo a ignorare le sue conclusioni ed a considerare “metafisicamente” il calore un fluido “molto sottile” e immateriale. 

    Il Settecento è il secolo in cui si scopre l’essenza dell’elettricità, dando corso a una delle più affascinanti linee di ricerca del sapere umano e della più importante risorsa del mondo moderno, un mondo senza di essa impensabile. Tutto inizia verso la fine del ‘600 con la scoperta dei fenomeni elettrostatici da parte di Otto von Guericke, ma è solo all’inizio del ‘700 che Francis Hawksbee, per mezzo dello strofinamento del vetro, riesce a farsene un’idea più precisa. Dopo il 1730, e quasi contemporaneamente, Stephen Gray e Charles du Fay ancora utilizzando il vetro riescono a determinare meglio le caratteristiche del fenomeno: l’inglese conducendo elettricità in un conduttore lungo 2 chilometri ed elettrizzando più persone in catena, il francese riuscendo ad ottenere scintille dal corpo umano ed inventando rudimentali elettrometri prima a filo e poi a foglia [36].  Ancora quasi contemporaneamente due studiosi, il dilettante tedesco Ewald Jurgen von Kleist e il fisico olandese Petrus van Musschenbroek, mettono a punto l’apparecchio che prenderà il nome di Bottiglia di Leida e con il quale si può elettrizzare dell’acqua contenuta in una bottiglia di vetro. Molti fisici ripetono l’esperimento con apparecchi modificati, in numerose varianti ed anche su grande scala (come in una vasca delle Tuileries da parte di Jean-Antoine Nollet), traendone ulteriori spunti di conoscenza e sviluppo.

    La corsa alla scoperta definitiva dei fenomeni elettrici parte dall’inglese Peter Collinson, che tra il 1747 e il 1754 entra in contatto epistolare con Benjamin Franklin e lo mette al corrente delle sue ricerche; la collaborazione porta alla definizione della nozione di conservazione dell’elettricità e del possibile accumulo di essa. Negli stessi anni Franz Ulrich Aepinus e Charles Coulomb estendono il campo della ricerca al magnetismo. Poco dopo Franklin studierà i fulmini e realizzerà il parafulmine. Passi successivi saranno compiuti da Coulomb tra il 1784 e il 1789 con gli studi sull’attrito e la teorizzazione del momento magnetico. Nello stesso periodo in Italia Luigi Galvani scopre per caso nel 1771 la contrazione dei muscoli animali per effetto dell’elettricità. Le sue ricerche vengono riprese da Alessandro Volta sino alla realizzazione della “pila”, un generatore di elettricità costituito da dischi di zinco e di argento impilati e alternati e con l’interposizione di un feltrino umido acidificato.

   

    

 

10.7 I primi passi della chimica

 

    Ancora per buona parte del ‘600 nessuno pensa alla possibilità di una “scienza delle sostanze” indipendente dalla fisica e dalla medicina e nello stesso tempo non identificabile con l’alchimia e le sue velleità stregonesche. E tuttavia, già nel 1675, appare un Cours de chimie del francese Nicolas Lemery che avrà trenta successive edizioni e nel quale la tradizione medico-farmaceutica e il meccanicismo fisico si incontrano nel tentativo di definizione del “principio chimico”. Un principio-base per una nuova scienza relativa alle sostanze (gas, liquidi e solidi) a base delle quali dovevano stare particelle misteriose ed invisibili che Nicolaus Hartsoeker aveva graficamente immaginato come dotate di ganci e di incastri [37] per stare assieme. Ma il concetto di chimica rimane ancor per diversi decenni abbastanza vago e nel 1723 Georg Ernst Stahl scrive:

 

La chimica è stata per oltre duecento anni dominio esclusivo di ciarlatani che hanno prodotto un’infinità di vittime […] Oggi alcune persone cominciano ad occuparsi seriamente di questa scienza. Il loro piccolo numero non deve sorprendere. Era naturale che gli impostori, le false promesse dei fabbricanti di oro, i pretesi arcani, i rimedi universali, le preparazioni farmaceutiche spesso nocive degli alchimisti, rendessero odiosa la chimica alle perone oneste e sensibili, facessero sorgere in loro un senso di disgusto per un sapere caratterizzato dalla frode e dall’impostura. [38] 

 

Si tratta di un nuovo orizzonte di conoscenza che Stahl identifica perfettamente e che lo porta a porre una nuova linea di ricerca di cui sarà protagonista per alcuni decenni. In effetti, sino agli anni 15-20 del ‘700, lo studio della chimica si basa sulle sue esperienze e sui suoi libri, dal Theoria medica vera del 1707 al  più tardo Esperimenta fundamentalis seu fermentationis theoria generalis, del 1731. Stahl era colui che aveva definito, all’inizio del secolo, i tre componenti-base dell’universo materiale: il “fluido umido” (l’acqua), il “principio di secchezza” (la terra) e il “flogisto”, principio incorporeo, concernente la combustione e la trasformazione dei derivati metallici. Egli pensa che “perdendo” flogisto il metallo si trasformi in ossido ed acquistandolo ripassi a metallo, per cui esso si presenta come una sorta di ossigeno “al contrario” [39]. La teoria è molto approssimativa e per molti versi errata, ma costituisce il primo punto fermo per l’avvio verso un vera scienza chimica, ma che si avrà solo con la scoperta dell’affinità e la nascita della teoria atomica. Le scoperte ricevono un buon avvio con i lavori del francese Étienne Geoffroy “il Vecchio” e dell’olandese Boerhaave, ma occorreva uscire coraggiosamente dalle secche di un cartesianesimo ancora imperante. Geoffroy riesce a comprendere e a mettere in evidenza la sostanziale discontinuità della materia e, rifacendosi a Leucippo, concepire delle particelle-base e indivisibili quali costituenti elementari delle sostanze, elaborando un’ingegnose “tavola di affinità” che sarà di esempio per tutti i miglioramenti successivi sino a quella di Torben Olaf Bergman, che rimase la più completa ed affidabile sino all’inizio dell’800.

    Ma parliamo dei gas, che vedono come capofila l’inglese Joseph Priestley, figura pittoresca di chimico e pastore presbiteriano dalla cultura vastissima e dal carattere collerico. Dopo essersi interessato a ricerche sull’elettricità sotto l’influsso di Franklin egli passa ad occupasi dei gas e nel 1772  scopre il “gas nitroso” (il biossido di azoto), poi l’”aria nitrosa deflogistizzata“ e il protossido di azoto. Scopre l’ossigeno nel 1774 riscaldando minio di piombo e ossido di mercurio in un vaso chiuso e si rende conto che si tratta di un comburente. Entra in contatto con Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), che già studia gli stessi fenomeni, e lo informa degli esiti delle sue ricerche, in anticipo su quelli del francese. Priestley lo anticiperà anche con altre intuizioni e scoperte, ma Lavoisier è uno dei padri della chimica e si distingue per l’approccio eminentemente teorico. Inoltre, mentre l’inglese è ancora legato a Stahl e al principio del flogisto il francese è già oltre arrivando alla precisa definizione dei due gas fondamentali dell’atmosfera terrestre, l’azoto e l’ossigeno, in quanto tali. Egli non fa tanto nuovi esperimenti ma ne approfondisce i significati ed è seguace del “metodo quantitativo”. Scrive nel Traité élémentaire de chimie (1789)

 

Possiamo considerare un assioma incontestabile il fatto che, in tutte le operazioni artificiali o naturali, nulla viene creato; sia prima sia dopo l’esperimento sussiste un’eguale quantità di materia; la quantità e la qualità degli elementi rimangono esattamente le stesse; null’altro avviene se non modificazioni e mutamenti nella combinazione di tali elementi. [40]

 

Lavoisier si propone di produrre fatti e dati reali e nel 1783 attacca la dottrina del flogisto mandandola in soffitta. Poi, nel 1787, elabora una nuova nomenclatura unificata per le sostanze chimiche.

    Anche il farmacista tedesco Wilhelm Scheele scopre l’ossigeno, ma attraverso un metodo di lavoro più legato alla sperimentazione. E tuttavia, questo straordinario sperimentatore darà un enorme contributo con la scoperta di numerose nuove sostanze inorganiche ed organiche. Tra le prime basti citare un altro gas, il cloro, i composti del manganese, l’acido fluoridrico, l’acido prussico; tra le seconde gli acidi formico, urico, lattico e malico.  [41] Ma il passo più importante nella chimica è la scoperta della composizione dell’acqua attraverso la combustione dell’idrogeno. Due gas, idrogeno e ossigeno, combinandosi producono un liquido: l’acqua. Conclusione sconcertante in una temperie culturale ancora impregnata di metafisica e difficilmente propensa a credere che due sostanze aeree e quasi immateriali insieme a una terza sostanza “quasi spirituale”, come il fuoco, possano dar luogo ad un liquido così “materiale” come l’acqua. Potere di una scienza, la chimica, che sin dai primordi era stata sempre vista dalla religione come qualcosa di stregonesco. Ne fa tesoro l’inglese Henry Cavendish (1731-1810), fisico-chimico rigoroso, che dal 1781 prosegue le sue ricerche sui gas fino al 1784, offrendo l’esempio di un rigore sperimentale esemplare anche per i suoi successori e riproducendo reazioni chimiche naturali in laboratorio. Cercando l’origine di tracce di acido nitrico nelle combustioni si accorge che si tratta di un prodotto secondario e riesce a produrlo combinando direttamente azoto e ossigeno facendoli attraversare da una scintilla elettrica [42].

 

 

 

 10.8 Biologia e genetica

    Dopo la scoperta all’inizio del secolo da parte di Leeuwenhoek, e grazie al microscopio, degli spermatozoi e della loro azione fecondatrice si apre una nuova fase delle scienze biologiche e la nuova scoperta viene elaborata in senso filosofico da Maupertuis che ne la Venus physique scrive:

 

Ogni principio di vita risedendo nel picciolo animale [lo spermatozoo], ed essendovi in esso contenuto l’uomo intero, l’uovo è ancora necessario: egli è una massa di materia propria a somministrargli l’alimento, e l’accrescimento. In quella gran copia di animali deposti nella vagina, o subito lanciati nella matrice uno più fortunato, o più sgraziato degli altri, nuotando, rampicandosi ne’ fluidi, onde queste parti sono bagnate, arriva all’imboccatura della tuba, che lo conduce fino all’ovaia. Trovando quivi un uovo pronto a riceverlo, ed a nodrirlo, lo foracchia, vi si alloggia, e vi riceve i primi gradi del suo ingrandimento. [43]

 

Egli non solo vede chiaramente il processo di fecondazione, peraltro già noto, ma si rende anche conto che soltanto uno spermatozoo “più fortunato” o “più sgraziato” raggiunge l’uovo, fccondandolo. Con ciò conferma l’esclusione di ogni determinismo per il fatto, oggettivo, che ad uno tra molti capita, solo ed unico, di fecondare invece di altri. Tutti hanno infatti, teoricamente, le medesime possibilità; il più veloce, ma soprattutto il più fortunato, quello che si trova al punto giusto nel momento giusto sulla membrana della cellula ovarica, entra, e arriva allo scopo. 

    Abbiamo utilizzato il brano di Maupertuis per introdurre il nostro breve excursus sulla storia della biologia e della genetica nel Settecento. Una storia che è innanzitutto quella dell’affrancamento da molte convinzioni metafisiche, col che le nuove scoperte tentano di farsi strada faticosamente tra cento equivoci, cento riserve e resistenze, cento incomprensioni e contrasti. Sono del Settecento anche i primi tentativi di classificazione del mondo vivente. Sia in botanica che in biologia il microscopio permette di indagare assai più a fondo la natura intima del fenomeno della vita e dei suoi elementari protagonisti. Basti  ricordare che solo nel 1723 si scoprirà, ad opera di Jean-André Peyssonel, che il corallo è un animale, e che nel 1740 Abraham Trembley scopre la partenogenesi dell’idra di acqua dolce e Charles Bonnet quella degli afidi e dei vermi [44].  Le prime ricerche sistematiche sugli insetti sono merito del già ricordato René-Antoine Réamur: dal 1734 al 1742 pubblica in sei volumi le sue Mémoires pour servir à l’histoire des insectes che rimarranno a lungo un’opera di riferimento per gli studi entomologici posteriori [45]. Nella botanica, dopo l’Historia plantarum di John Ray, del 1686, vi è un serrato susseguirsi di studi sull’argomento che culmina nel Systema naturae del 1735 dello svedese Linneo (Carl von Linné), che definisce quella nomenclatura binomia (genere e specie) ancor oggi utilizzata. La classificazione linneiana è in gran parte arbitraria, ma essendo molto semplice ha finito per imporsi rispetto a classificazioni più corrette ma più complesse. Linneo, d’altra parte, uomo molto devoto, si pone lo scopo di rendere accessibile la comprensione dell’opera di Dio fissata dalla Creazione, immutabile e definitiva. Concezione rigorosamente fissista, che naturalmente confligge con quella evoluzionistica, ma che, nonostante i suoi limiti teorici, risulta ancora utile per la sua vastità, poiché classifica e descrive ben oltre 7.700 specie di vegetali e 4.400 di animali [46], fornendo le basi di una codifica semplice e chiara. L’opera di Antoine-Laurent Jussieu Genera plantarum secundum ordines naturales disposita, del 1786, costituisce un importante passo in avanti e si basa sulle ricerche dirette dei suoi zii Antoine, Joseph e Bernard, curatori, prima di lui, del Jardin du Roi. Ma molto importante è anche l’opera Familles des plantes di Michel Adanson, del 1763, un geniale ed originale scienziato rimasto perlopiù misconosciuto che visse oscuramente la sua vita di ricercatore assiduo ed attento sino al 1806 [47] in una dedizione assoluta alle ricerche botanice.

    Il superamento delle teorie aristoteliche, rilanciate in ambito padovano nel ‘500 ed ancora assai seguite in quasi tutte le sclerotizzate università europee, comportava l’abbandono della convinzione che le piante assumessero la loro energia prelevandola solo dal terreno. Il naturalista fiammingo Jean Baptiste Van Helmont, malgrado le sue tendenze spiritualistiche e mistiche, aveva capito, sin dall’inizio del Seicento, che le cose non stavano così, e che le piante non prelevavano esclusivamente dal terreno le loro risorse accrescitive ma anche dall’aria. Altri contributi vennero da Marcello Malpigli (Anatomes plantarum idea) e da Edme Mariotte, sino al 1727, quando Stephen Hales pubblica la Vegetable Staticks (tradotta in francese da Buffon) dove espone le sue vaste ed importanti esperienze che dimostrano definitivamente la traspirazione delle foglie, il ruolo biologico dell’aria e della luce, la circolazione della linfa [48]. In ambito animale sarà poi il grande Lazzaro Spallanzani (1729-1799) a dimostrare che nei polmoni di chiocciole chiuse in contenitori di azoto puro si formava anidride carbonica, rilevabile dalla respirazione, grazie all’ossigeno assorbito prima del confinamento.  

    Il problema della generazione delle forme viventi costituisce il primo grande contenzioso della storia delle scienze biologiche nei secoli XVII e XVIII, quello su cui pesavano le credenze della più lontana tradizione greca, incerte evidenze osservative e implicazioni di carattere teologico. La credenza nella “generazione spontanea” (il fango e la putredine come foriere di vita) risaliva ai naturalisti ionici, ripresa poi da Democrito venne ammessa da Aristotele, e, sostanzialmente, sino a tutta la prima metà del Seicento la si riteneva del tutto attendibile. Sarà Francesco Redi a dimostrarne l’inconsistenza con rigorose prove sperimentali che i suoi predecessori non erano stati capaci di fare, delle quali rende conto in Esperienze intorno alla generazione degli insetti del 1668.  Leeuwenhoek le conferma nel 1687 e tuttavia le resistenze rimangono forti e durano molto a lungo. Come spiegare lo sviluppo delle larve di insetti in bacche rigorosamente chiuse? E com’è possibile la nascita dei vermi intestinali? Qualcuno sostiene addirittura che sin dalla creazione di Adamo i loro germi fossero presenti nel suo intestino [49]. D’altra parte la generazione spontanea ha ancora nel Settecento molti sostenitori in biologi illustri come Needham e Buffon. Gli equivoci nascono dal fatto che non è evidente il ruolo dell’“asetticità” ed il limite minimo di garanzia per poterla ritenere realizzata nelle tecniche sperimentali, e ciò malgrado le esperienze di Redi avessero già lasciato intuire i termini veri del problema. La questione si chiude definitivamente con lo Spallanzani, uno dei più grandi sperimentatori della storia della biologia e della medicina, che mette in atto la tecnica della bollitura molto prolungata dell’acqua usata per gli esperimenti e la sigillatura dei contenitori per fusione a fuoco del vetro. I risultati di tali esperienze sono resi pubblici nel libro Saggio di osservazioni microscopiche del 1765, ma Needham si difende portando la questione sul terreno dell’indimostrabilità scientifica. Egli, sostenendo che a base del fenomeno della vita c’è una “forza generativa” che può venir distrutta con processi estremi di sterilizzazione, spiega la mancata nascita della vita negli esperimenti spallanzaniani come “distruzione di vita” per effetto termico. Sia Needham che Spallanzani sono dei religiosi, ma il primo è ancora legato a concetti metafisici, il secondo se n’è sbarazzato. L’italiano ha infatti applicato per primo quel rigore scientifico oggettivo e neutrale che mette da parte ogni “idea” interpretativa  preconcetta, basando le proprie conclusioni esclusivamente sul “dato” e non sull”interpretazione” di esso, marcando così quel discrimine netto tra esperienza e teoria che è alla base di ogni ricerca scientifica moderna.

    Per rendere però un’idea corretta di chi fosse John Turberville Needhan, nato nel 1713 (e quindi di sedici anni più  vecchio del suo avversario Spallanzani) bisogna sottolineare il fatto che anch’egli è un grande sperimentatore ed un assiduo utilizzatore del microscopio. Gli va riconosciuto un ruolo fondamentale per avere compreso in modo corretto che il fenomeno della vita è un fatto “a sé” nell’ambito del reale. Egli escludendo perciò ogni fattore meccanicistico, come uno stuolo di cartesiani continuava a pensare e come materialisti puri come La Mettrie finiscono per perpetuarlo. Needham, per quanto sbagli, ha il merito di mettere in un angolo il meccanicismo in biologia, per quanto nello stesso tempo dia spazio al vitalismo, che già Maupertuis aveva proposto e sostenuto. Nel contempo egli corregge anche il suo amico Buffon, che aveva ipotizzato la generazione spontanea come una sorta di processo di “fecondazione” della materia bruta da parte di quella vivente, dimostrando l’irriducibilità della materia viva a quella inorganica. Per comprendere come Needham non sia affatto un facilone occorre tener presente che egli mette sempre in atto prove multiple coi suoi esperimenti. Ad esempio ripete 15 volte la prova per verificare il processo germinativo dei semi di mandorla in ambiente sigillato e 70 volte l’esperimento sul sugo di carne sterilizzato per dimostrare che il processo della nascita di forme di vita “in movimento” escludevano comunque origini non-biologiche.

    Relativamente a Spallanzani, colui che è considerato il fondatore della biologia moderna, ma che vanta anche grandi meriti nella medicina relativamente alla fecondazione, alla digestione e alla circolazione sanguigna, va ribadito che la sua grandezza sta tutta nel “rigore” sperimentale, assunto quale fondamento di ogni conclusione scientifica. Ciò significa che la scienza vera, l’autentica conoscenza che segna un confine netto tra ciò che è solo ipotesi, esige un “atto” di ricerca e indagine ed un conseguente”fatto” verificabile e ripetibile all’infinito che “sempre” confermano lo stesso dato. È solo la corretta acquisizione del “sempre” (e da ciò il determinismo teorico), del “qualche volta” (e quindi il probabilismo statistico) o del “mai” (impossibilità teorica) che marcano il discrimine tra una tesi e un ipotesi, e non l’assunzione di un criterio deterministico, indeterministico o probabilistico a priori. Spallanzani è anche attore primario della disputa tra preformismo ed epigenesi e dimostra (studiando rane e rospi) che lo spermatozoo non feconda l’uovo dall’esterno (con la supposta aura seminalis) ma solo se penetra in esso. E tuttavia non comprende affatto la funzione spermatica poiché, da buon teologo, rimane ancorato al pregiudizio “preformista”, negandosi il tal caso come scienziato per voler rimanere cristiano integrale, il che conferma che fede rigorosa e scienza rigorosa sono per loro natura inconciliabili e praticabili solo separatamente. Un religioso può essere certamente un eccellente scienziato, ma solo a condizione che non mescoli mai la fede con la scienza.  

    Entriamo ora nel vivo della grande querelle concerne l’embriologia, ovvero la nascita e la formazione dell’organismo animale. Abbiamo già accennato ai due grandi partiti che si contrappongono, quello preformista e quello epigenista, e qui la teologia cristiana assume un ruolo negativo fondamentale. La realtà dell’epigenesi, malgrado la sua determinazione ancora un po’ rozza, si affermerà, ma attraverso un lungo travaglio dibattimentale di cui dovremo dare qualche conto. Una volta cassata la tesi della generazione spontanea restava infatti la domanda del “come?” poteva formarsi l’embrione. La tesi preformista sostiene che il singolo organismo “sin dall’inizio”possiede già “in sé” tutto ciò che diventerà: il futuro di ogni essere vivente “deve” essere già perfettamente determinato sin dalla sua concezione e si realizza deterministicamente sin dal suo apparire. La tesi epigenetica sostiene invece che l’individuo si forma “nel suo farsi”, ovvero per l’aggiunta di parti strutturalmente e funzionalmente nuove ad un nucleo vitale privo della gran parte degli elementi che lo faranno essere un organismo in grado di sopravvivere autonomamente. Il preformismo, come materia “di fede”, trasferito tal quale in biologia porta ad un’inevitabile e abbastanza paradossale conclusione: “tutti” gli uomini che sarebbero nati dai loro progenitori nel Paradiso Terrestre avrebbero dovuto “già essere” o nelle ovaie di Eva o nei testicoli di Adamo. Per quanto a noi, oggi, la disputa possa parere incongrua, in realtà, tre secoli fa, vi erano degli accesi preformisti in genetica che in altri ambiti erano ottimi ed acuti ricercatori. Per non dire di metafisici post-cartesiani come Malebranche, che non era peraltro uno sprovveduto, il quale squalificava il dibattito sostenendo che siccome «lo spirito vede assai più lontano del corpo» era privo di senso fare ricerche ed esperimenti su ciò che l’anima era già in grado di conoscere grazie alla fede.

    Nel Seicento il preformismo era stato sostenuto da Malpighi e Swammerdam, l’epigenesi da Harvey, colui che coniò il termine e trattò l’argomento in Exercitationes de generatione animalium del 1651. Il Settecento vede schierasi per il preformismo gli svizzeri Haller e Bonnet e l’italiano Spallanzani, mentre sono epigenisti Maupertuis, Buffon, Kaspar Friederich Wolff (1733-1794) e Friederich Blumenbach (1752-1840). Giovanni Solinas, uno studioso della filosofia e della scienza settecentesche ci ha reso col suo Il microscopio e le metafisiche uno dei migliori resoconti di come si sia sviluppato quel dibattito attraverso i suoi temi e i suoi protagonisti; lo utilizzeremo quindi come utile traccia per la nostra sintesi. Charles Bonnet (1720-1793), uno dei più convinti e prestigiosi preformisti (peraltro ottimo microscopista sì da diventar quasi cieco per l’uso estremo  dello strumento) è colui che non solo meglio definisce la preformazione, ma anche colui che, in una nota del suo Contemplation de la nature (1764), dà una chiara definizione di ciò che pensano i suoi avversari, scrivendo essere quella epigenetica : «Opinione di quelli che non ammettono germi [embrioni] preformati, e vogliono che l’animale sia realmente generato parte dopo parte, dalla riunione di differenti molecole che si aggregano in virtù di certi rapporti.» [50] I preformisti, peraltro, si dividono a loro vola in ovisti e animalculisti, ritenendo i primi che la preformazione sia nell’ovaia e i secondi nello sperma. o tutti preformati in Eva o tutti in Adamo. Per Bonnet, che è un convinto ovista, la Creazione ha determinato tutto ciò che ne è seguito solo nelle femmine; nelle ovaie della progenitrice di ogni specie animale vi erano già, miniaturizzati e incapsulati l’uno nell’altro, “tutti” i discendenti di essa, mentre il seme maschile funge da “stimolatore di crescita”.  Dello stesso parere è anche il più anziano Albrecht von Haller, “grande pontefice” della fisiologia e della psicologia settecentesca, convinto ovista proprio in base agli argomenti di Bonnet.

    Si tenga presente che una delle finalità principali del preformismo è di escludere categoricamente il caso in ogni possibile o supponibile processo formativo, poiché anche la sola allusione ad esso irrimediabilmente compromette il determinismo creazionale. Siccome qualsiasi interferenza nell’evolvere di un mondo “voluto così” dal suo Creatore non è tollerabile il fissismo diventa dogma irrinunciabile per una biologia cristiana, sì da costituire ancora ai nostri giorni la barriera irrinunciabile contro l’evoluzionismo. E tuttavia il problema dei mostri ripropone la presenza di un caso foriero di mutazione genetica a meno di pensare che nelle ovaie di Eva o nei testicoli di Adamo i mostri fossero già presenti in nuce; ma con ciò violando la perfezione del Creato e la Teodicea. Sin dall’inizio il partito preformista deve fare i conti con problemi esplicativi quasi proibitivi e bisogna ricorrere a tutte le scappatoie possibili ed utili. Ciò non significa che gli epigenisti non siano ferventi cristiani, ma soltanto che hanno della Creazione un’idea non rigida, oppure giudicano le affermazioni bibliche metaforiche o dispositive; da interpretare come già Filone Alessandrino e più recentemente Spinoza avevano fatto. Ma anche la più banale questione del parassitismo pone problemi non da poco per il preformismo (ed implicitamente per la Teodicea), poiché, se essi erano stati mandati da Dio all’uomo (dopo il crimine di Caino) per tormentarlo della sua peccaminosità è un conto, ma se sono preesistenti nell’intestino di Adamo o di Eva prima di mangiare la mela, perché Dio ce li ha messi? 

    Per quanto riguarda l’epigenesi gli orientamenti sono due, il meccanicista e il vitalista, quindi anche in questo campo i problemi non sono pochi, e seppure la corrente vitalista ha maggiori frecce al proprio arco rispetto al riduzionismo meccanicista deve fare i conti con elementi vagamente “spiritualisti” che la riporta sul terreno metafisico e l’allontanavano a quello scientifico. Tanto più che si sarebbero potuti vedere i due grandi teologi filosofali barocchi Cartesio e Leibniz quali possibili precursori rispettivamente dell’epigenismo meccanicistico e di quello vitalistico. Si vede ancora una volta, come il Settecento, il secolo in cui nasce la scienza moderna, sia percorso da fermenti e contraddizioni che lo rendono complesso, problematico e tormentato. Eppure è proprio grazie ai tormenti speculativi ed ai turbamenti esistenziali e fideistici dei suoi protagonisti se la scienza settecentesca ha potuto costruire la propria rigorosa cornice di riferimento sia pure a costi umani non trascurabili. Il prezzo da pagare da parte dei credenti ortodossi è che nell’intento di essere scienziati in buona fede viene corso il rischio di diventare cristiani “di cattiva fede”. In qualche caso il preformismo, soprattutto nella forma più radicale della “preesistenza” nei proto-genitori ed in riferimento alla rara ma continua generazione di mostri, viene rifiutato proprio per il fatto che suona offensivo per la bontà e la sapienza divina. In generale la posizione del fedele e le sue convinzioni influenzano in maniera determinante l’orientamento verso l’una o verso l’altra e per questo, come nota giustamente Solinas [51], la teoria preformista e quella epigenica si presentano così intersecate e connesse nella multiformità delle rispettive articolazioni, che in qualche caso riescono a convivere in teorie “miste”. 

    All’interno del preformiamo è esemplare l’atteggiamento di Spallanzani; egli è per un verso un credente granitico, ma per altro verso un  rigoroso sperimentatore. In questa veste non si appiattisce affatto sulle posizioni di altri preformisti e riesce nel contempo a mettere i crisi la tesi delle moules avanzata da Buffon, dimostrando che aveva osservato non già spermatozoi vivi ma altre forme di vita nate dalla putrefazione del liquido seminale. L’errore di Spallanzani sta però nel fatto che avendo dimostrata falso uno dei presupposti di una tesi epigenica tra le più accreditate ha poi ritenuta chiusa la patita in favore del preformismo, e quindi della fede, senza preoccuparsi di effettuare ulteriori verifiche sperimentali confermative ritenendole inutili. La fede, in tal caso, aveva giocato un bruttissimo scherzo al grande scienziato, poiché aveva salvato la credenza ma offeso la scienza. Spallanzani è sicuro di sé quando in base alle sue ricerche su rane, rospi e salamandre, scrive:

 

Siccome quei corpicelli fuora del corpo materno sono i veri girini, così lo sono eziandio dentro di esso; e per conseguente che il feto esiste nella madre priaché vi concorra il padre col liquore spermatico […] Conchiudo adunque, che anche in quegli animali si trovano già i feti nelle femmine, innanzi che concorsa vi sia la fecondazione del maschio. [52]

 

Posizione preformista comune nei cristiani ortodossi ma non meno nei deisti, che ugualmente ritengono che il lasciare strada alla teoria epigenica conduca facilmente al meccanicismo materialistico, e da questo all’ateismo; un atteggiamento che permane persino dopo che Wolff mette fine alla disputa demolendo definitivamente la tesi preformista. L’esempio di un tipico intellettuale preformista deista, e direttamente coinvolto in questa attività di salvaguardia di una cultura scientifica esente da rischi ateistici, è Voltaire, che si vota ad una fervente attività pubblicistica contro l’epigenesi.   

    Come si è già visto i più accesi epigenisti della prima metà del secolo sono stati biologi come Maupertuis e Buffon, seguiti da filosofi come Diderot e d’Holbach, ma è solo nella seconda metà di esso che la contesa vede i loro successori uscirne vincitori.  Tra questi emerge la figura di Théophile Bordeu, medico e biologo amico di Diderot e protagonista del Sogno di D’Alembert. Egli è sostenitore di un epigenismo vitalista non privo di elementi metafisici, ma comunque più convincente di quello semi-meccanicista di Maupertuis e di quello iper-meccanicista di d’Holbach, anche perché Bordeu ha dalla sua parte un bagaglio di verifiche sperimentali che mancano agli altri. E tuttavia non mancano tentativi teologici di bloccare fin sul nascere la tesi epigenetica con opere come l’Anti-Venus physique di Gilles Basset e l’Art de faire des garçons di M.P. Couteau [53], con le quali si cerca di erigere anche una barriera contro un lucrezianismo sotterraneo introdotto dai libertini che appare esiziale pere la fede. In questo senso è notevole l’opera pastorale di Melchior de Polignac, astuto diplomatico, poi cardinale ed infine, nel 1726, arcivescovo di Auch, capoluogo dell’Armagnac, una delle regioni più cattoliche della Francia. Egli si impegna nella composizione di un grandioso poema (9 libri di 1000 versi ciascuno) che non riesce a portare a termine (apparso postumo nel 1742) dal titolo Anti-Lucretius, sive de Deo et natura, con il quale Lucrezio è confutato alla luce delle fede, ma con l’intendimento di colpire anche Bayle quale fautore dell’indifferenza religiosa e dell’agnosticismo.

    Il vero vincitore della guerra genetica è l’acuto e rigoroso embriologo tedesco Kaspar Friedrich Wolff, che fa esperimenti definitivi sugli embrioni di pollo a favore dell’epigenesi rendendoli noti nella sua Theoria generationis del 1759. E tuttavia quest’importante scienziato non solo rimane abbastanza ignorato, ma gli esiti del suo lavoro sono riconosciti solo dopo la sua morte, poiché la fama ed il prestigio di preformisti come Haller ne mantengono in ombra le scoperte. Molto a lungo continua a dominare il preformismo negli assertori delle varie teologie, la cristiana come la deista e la panteista. Wolff, boicottato in patria, schiacciato tra i seguaci di Haller e i leibniziani, veri dominatori della cultura tedesca, facenti fronte comune in difesa del fissismo deterministico che egli contrasta finisce per trasferirsi nel 1767 in Russia e mettersi al servizio di Caterina II. L’espediente utilizzato dai preformisti per contrastarlo, a cominciare da Haller (ma anche da Bonnet e da Spallanzani), è quello di avanzare un “limite di visibilità” oltre il quale l’osservazione non può andare; ne deriva un “c’è ma non si vede” poco scientifico, ma dialetticamente efficace [54]. Per quanto Wolff ponga la necessità di ipotizzare un vis essentialis nella generazione della vita, già dal 1764, senza negarla, la lascia sempre più in ombra. Porta anche un apporto determinante alla fisiologia, nel far derivare l’accrescimento dalla nutrizione, sicché anche l’aumento delle facoltà intellettive nel bambino deriva da un vile “mangiare” che produce la crescita del cervello insieme a quello del resto del corpo. La nutrizione diventa così elemento epigenetico primario per ogni forma del vivente, sia vegetale che animale; sia pure in forme differenti Wolff fornirà un’articolata descrizione dei vari tipi di nutrizione possibile, delle varie forme di accrescimento e dei fenomeni di nuova vascolarizzazione indotta [55].

    Quel che è importante rilevare è che Wollf con le sue ricerche demolisce non solo il preformiamo, ma anche l’altro ramo della teoria epigenetica, quella meccanicistica, ancora legata a Cartesio; tuttavia egli vede la questione in maniera problematica e non aprioristica, né si esime dal cercare i possibili nessi tra biologia e meccanicismo. Ma, espunto questo, egli si trova a dover ipotizzare una forza essenziale su cui si fondi la vita, che non si muove su vie prestabilite ma è essa stessa che crea le vie per agire. Per quanto essere anti-meccanicisti significasse inevitabilmente essere vitalisti, il Nostro riesce a stare lontano da derive filosofiche, rimanendo strettamente ancorato alla fisiologia, facendo molte descrizioni ma poche interpretazioni teorizzanti. E tuttavia, essendo ancora impossibile definire l’esistenza di un qualche tipo di “fluido accrescitivo” in un embrione dove le cellule mesodermiche non hanno ancora prodotto né il cuore, né i vasi e né il sangue che in essi dovrà circolare, l’ipotizzare una “forza vitale” era quasi automatico. Una forza che spinga i liquidi nutritivi dove servono, sino a determinare i tessuti costituenti i differenti organi, nevi, tendini, muscoli, ecc. attraverso un processo di solidescibilitas, di solidificazione [56].  Wolff opera poi una distinzione tra generazione ed organizzazione,  tra nutrizione semplice e nutrizione organizzativa, ed oltre al principio della vis essentialis e al fenomeno della solidescibilitas, egli individua anche degli accessori vitali [57].  Il movimentoè per la   biologia wolffiana accessorio fondamentale degli esseri viventi, ma la vita può esistere senza movimento. In altre parole: i corpi organici possono essere considerati macchine in via “accessoria” ma non  “fondamentale” [58]. 

    Ben più noto e fortunato epigenista sarà Johann-Friedrich Blumenbach, nato diciannove anni più tardi di Wollf e morto a 88 anni nel 1840. Il fatto di operare quasi una generazione dopo, in un clima già molto differente e di aver avuto tutto il tempo di elaborare compiutamente ed attentamente le sue teorie, ricevendo stima e apprezzamento da parte di Kant che lo cita nella Critica del Giudizio. Blumenbach si muove sulla strada tracciata da Wolff, ma utilizza una terminologia differente ed in lui la vis essentialis wolffiana prende il nome di nisus formativus [59], concetto fortunatissimo che caratterizzerà un vitalismo che nell’800 godrà di vasti riconoscimenti ed adesioni. E tuttavia il nisus , anzi “i” nisus,  non sono cause bensì effetti, essendo le vere cause per Blumenbach l’irritabilità, la contrattilità e la sensibilità, che egli desume da Glisson, da Haller e da Bordeu, che già aveva utilizzati il termine nisus. L’importanza del lavoro teorico di Blumenbach sta quindi nel fatto che egli “pluralizza” le cause vitali, ipotizzando l’assemblaggio di parti in base ad un coordinamento pluralistico che esclude ogni monismo, sempre foriero di derive teologiche o mistiche. Blumenbach è anche noto per aver analizzato i caratteri somatici dei vari gruppi umani, raggruppandoli in 5 razze: A. la caucasica (europea e indiana), B. la mongola (asiatica e boreale), C. l’etiope (africana), D. americana, E. malese (sud-asiatica e australe).                  

 

 

                                 

 

                       

10.8 La salute dell’uomo

 

    Durante un lungo Medioevo l’unica salute di cui le due istituzioni del potere “garantite” da Dio (la”Croce” e la “spada” in sua difesa) si occupassero, in onore e gloria di Lui, era quella dell’anima; solo dal Rinascimento in poi qualche piccola attenzione alla salute del corpo comincia ad affacciarsi con lo spostarsi degli interessi da un sacro totalitario ad un profano molto timido. Ma è il Settecento il secolo in cui la salute comincia a venir riconosciuta come un valore importante, di cui il potere si deve occupare, anche in considerazione dei guasti sociali ed economici conseguenti ad epidemie e malattie contagiose ed endemiche. Così ci si comincia a porre seriamente il problema di risolvere alcuni fondamentali problemi nosologici, studiando i modi per favorire e conservare un buon stato di salute del popolo, sia prevenendo l’insorgenza delle malattie e sia pianificandone le cure a livello collettivo. Novità sociologica importante, per la quale la cultura illuministica si spende e fortemente contribuisce sia con nuove tesi concernenti sia la socialità che l’eticità. La consapevolezza che la salute del corpo è un bene inestimabile e primario, atteggiamento tipico del mondo moderno e quasi del tutto assente sino a tutto il Seicento (quando il sacrale destino dell’uomo “figlio” di Dio è di raggiungerlo nella sua empirea beatitudine), muta il panorama sociale. Il processo evolutivo che aveva comportato un relativo passo indietro della sfera del sacro lasciando emergere un poco la sfera del profano, iniziato due secoli prima, vede nel XVIII un suo primo traguardo significativo e tuttavia ancora abbastanza precario.

    Prima di occuparci della medicina e della chirurgia ci preme fornire alcune informazioni circa il luogo deputato al recupero della salute: l’ospedale. All’inizio del Settecento è ancora vivo il ricordo delle disastrose epidemie di peste del 1629-1630 (memorabile la manzoniana descrizione di ne I promessi sposi del lazzaretto di Milano) e di quella del 1665 che aveva colpito particolarmente Londra (magistralmente descritta da Defoe nel Journal of the Plaghe Year). Una nuova attenzione alla salute pubblica pone un problema generale che investe direttamente lo stato, il solo a potersene occupare in modo organico e istituzionale. D’altra parte il superamento della leggenda metropolitana degli “untori” impone di combattere il contagio generalizzato attraverso efficienti norme igieniche al fine di dimostrarne la falsità. Quello dell’igiene diventa nel XVIII secolo il problema medico fondamentale, tenendo conto che in molti centri urbani vengono ancora gettati in strada escrementi ed urine e che Luigi XVI fa installare nel palazzo reale il primo water closet solo nel 1774. Un’igiene che molti Illuministi, ammiratori dell’igienismo del mondo classico pagano e in specie romano, vedevano accantonata da diciotto secoli di era cristiana, quando l’igiene dello spirito aveva fatto non solo dimenticare quello corporea, ma aveva, se non proibito, duramente sconsigliato le lavature del corpo, presupponenti la nudità, come foriere di vanità, di tentazioni peccaminose, di lussuria e di libidine.

    Sino al XVI secolo l’organizzazione ospedaliera era impostata solo sulla carità cristiana dei lazzaretti, dove più che curare si preparava l’inevitabile trapasso all’aldilà, affidati agli ordini cavallereschi (San Lazzaro, San Maurizio, Malta, Templari, Teutonici, ecc.) e da essi gestiti. Pare che nel XIII secolo di tali luoghi se ne contassero in Europa 19.000; una rete vastissima, quindi, di strutture indubbiamente meritorie, ma che nella tradizione della pietà cristiana dovevano sì alleviare le malattie degli sfortunati e possibilmente condurli alla salvezza della vita, ma soprattutto condurli alla santità, riposta nella sopportazione, nella fede e nella preghiera. Dal Rinascimento in poi, in seguito a profondi mutamenti etici e sociali, anche l’organizzazione ospedaliera si avvia verso un profondo rinnovamento, consistente nell’attenuazione del compito caritativo e nella contemporanea accentuazione di quello medico, orientamento che impone l’intervento del potere civile quale gestore diretto della salute pubblica. A nosocomi veri e propri, grazie ad una nuova attenzione per l’infanzia, nascono anche luoghi dove ci si occupa della salute dei bambini poveri e dell’allevamento dei trovatelli. A quell’epoca, ancora ignote le cause come i meccanismi della trasmissione delle malattie, in numerosi casi gli ospedali divengono focolai di trasmissione, sì da insinuare dubbi sulla loro reale utilità e persino consigliarne la soppressione. Solo l’abbandono di una medicina fortemente “metafisica” e l’affermarsi di quella “osservazionale e sperimentale” determina quel cambiamento sostanziale dell’orizzonte sanitario che inizia nel XVII secolo e che si completa con l’inizio del successivo attraverso l’istituzione di centri di studio e di ricerca sulle malattie.  

    In Francia, nei primi decenni del Settecento, tra le categoria dei medici e dei barbieri-chirurghi si inserisce una categoria intermedia, quella dei medici-chirurghi, che danno vita all’Accademia Regia di Chirurgia di Parigi. Si incominciano anche a formare levatrici professioniste che sostituiscono gradualmente le praticone, ed un donna generosa e intelligente come Angélique le Boursier du Coudray compie viaggi all’estero per aumentare le proprie conoscenze e gira la Francia tenendo sedute didattiche e veri e propri corsi di istruzione utilizzando manichini fatti costruire all’uopo [60]. Nasce anche la nuova categoria dei farmacisti che via via si stacca da quella degli erboristi. Ma la situazione rimane ancora a lungo confusa e intricata, con grande incertezza nella definizione delle professioni e conflitti tra differenti categorie professionali con compiti vicini sin verso la fine del secolo, allorché André Tissot (1728-1797) redige un Avis au peuple su la santé, seguito da Foderé che nel 1798 scrive un Traité de médecine légale et d’hygiène publique [61]. Ma la medicina e la chirurgia possono ora anche contare su tutta una serie di nuovi strumenti medicali resi possibili dalle nuove scoperte della fisica e dalle nuove tecnologie, come il termometro e il microscopio insieme a nuovi di sistemi di registrazione, catalogazione e storicizzazione dei fenomeni clinici.          

    I primi segni di un cambiamento di atteggiamento vengono anche da una ripresa massiccia degli studi anatomici, un campo nel quale eccelle l’italiano Gian Battista Morgagni (1682-1771) che insegna in varie università dove profonde le sue conoscenze e i suoi metodi nella dissezione dei cadaveri [62]. Operazione che, è il caso di ricordarlo, fu sempre molto avversata dai teologi, quale violazione di un corpo che le anime beate avrebbero dovuto riassumere tal quale all’indomani del Giudizio Universale. L’accuratezza di Morgagni gli permette di mettere in evidenza aspetti nascosti di aree anatomiche già studiate da altri e di correggerne le inadeguatezze, scoprendo l’inserzione dei muscoli jotiroidei e sternotiroidei, i canali escretori delle ghiandole sottolinguali, importanti particolari della laringe, delle ghiandole lacrimali e della valvola ileocecale, il legamento sospensore del pene, i canali parauretrali, particolari della mucosa rettale, ecc. [63] È anche eccellente patologo e in De sedibus et causis morborum per anatonomen indagatis del 1761 fissa non solo regole fondamentali per la pratica anatomica ma dà anche importanti indicazioni sulle patologie connesse alle diverse parti. Da ricordare anche un altro italiano, Antonio Scarpa, esperto di chirurgia e insegnante alle università di Modena e di Pavia, che fa importanti scoperte sull’apparato otorino-laringoiatrico che portano ancora il suo nome.

    Eminente figura della scuola olandese è Herman Boerhaave (di cui sarà allievo anche La Mettrie), colui che fa dell’Università di Leida il principale centro per lo studio della medicina in Europa dall’inizio del Settecento. La sua importanza sta nell’aver combattuto l’astrattezza di molta medicina dell’epoca, mettendo in atto una rigorosa pratica medica “sul malato”. Le sue lezioni cliniche sono basate sui fatti medici reali, distinguendo rigorosamente tra diagnosi, prognosi e terapia [64]. Anche la scuola tedesca produce ottimi medici ed in particolare anatomo-patologi e fisiologi. Tra questi il già citato Albrecht Haller, che studia la bocca, l’utero, il sistema vascolare e i genitali. I nove volumi del suo Esperimenta physiologiae corporis umani, pubblicati tra il 1759 e il 1776, sono la corposa testimonianza del suo lavoro e si offrono come un compendio esaustivo dello stato delle nozioni fisiopatologiche nella seconda metà del Settecento. Nella fisiologia emerge ancora la figura di Spallanzani, il quale dimostra nel 1780 che nella digestione nei mammiferi non avviene alcuna “fermentazione”, ma che sono i succhi gastrici a decostruire gli alimenti. E sempre con numerosi esperimenti su animali studia la circolazione sanguigna nei capillari venosi, dimostrando poi che la respirazione è essenzialmente un processo di scambio tra ossigeno e anidride carbonica, Un fatto rilevante e assai significativo riguarda anche la nuova attenzione alle parti non vitali del corpo umano ma sicuramente fonti di grandi sofferenze, come i denti. Grazie a Pierre Fauchard (1678-1761) l’odontostomatologia diventa una branca della medicina e vanno diminuendo le persone che si fanno estrarre i denti da ciarlatani privi di conoscenze mediche ed itineranti di fiera in fiera a cavar denti in modo rozzo e senz’alcuna norma igienica [65].   

    Sul piano della terapia preventiva un’epocale innovazione viene dalla pratica della vaccinazione, messa in atto da Eduard Jenner a partire dal maggio 1796 con l’inoculazione in un bambino sano di u siero vaccino contenente bacilli morti di vaiolo. È il caso di accennare alla lunga storia della terapia contro il vaiolo fino a questa tappa finale, trattandosi di una delle più gravi malattie organiche dell’Asia e dell’Europa e che sarebbe divenuta devastante per le popolazioni dell’America all’indomani della sua scoperta, proprio perché gli Amerindi non ne erano mai stati toccati. Tutto inizia con la cosiddetta “variolizzazione”, ovvero con la pratica di introdurre nel corpo umano piccole porzioni di tessuto già infettato dal vaiolo. In Cina, sin dall’antichità, si usava infilare nelle narici croste dissecate di pustole vaiolose per provocare artificialmente una forma leggera di vaiolo. In altre parti dell’Asia, come la Turchia, e in Africa, si pungeva o si scarnificava la cute introducendovi del pus vaioloso. Tutto ciò nasceva dalla constatazione che molti malati che avevano superato fasi lievi della malattia ne erano poi definitivamente immuni. La variolizzazione viene introdotta in via sperimentale in Europa già all’inizio del ‘700, ma gli esiti sono incerti in relazione a rischi notevoli di malattia e di infezione. Jenner è al corrente di queste pratiche, ma si accorge anche che i mungitori che contraggono forme lievi di vaiolo bovino toccando le pustole sulle mammelle delle mucche diventano poi immuni anche al vaiolo umano. Egli pone in opera una serie di esperimenti inoculativi che lo convincono a decidere per la pratica poi universalmente adottata. Ma l’’inoculazione incontra opposizioni non trascurabili da parte di medici ancorati alla “dottrina umorale”, che vedono l’escrescenza pustolosa “spurgo benefico”, nella stessa misura in si pensava funzionasse il salasso. Vi era anche il timore di una “bestializzazione” degli umori umani e quello teologico di contaminare un corpo umano “tabernacolo dell’anima” con elementi di una “macchina” bestiale (Cartesius docet).

    Nel Seicento erano nati i primi manicomi, ma nel Settecento la soluzione della questione psichiatrica restava assai controversa, con importanti risvolti sociali e morali. Il problema dell’internamento è complicato e lo status del malato psichiatrico non ben definito, ed erano ancora drammaticamente presenti le analisi teologiche che portavano a diagnosticare “la possessione demonica” come causa di molte situazioni psicotiche. Un rapporto diretto tra la follia e la fisiologia cerebrale comincia a diventare più evidente solo verso la metà del secolo e lavori come l’Avis aux gens de lettres sur leur santé di Tissot e le Mémoires sur les hôpitaux de Paris di Tenon denunciano la piaga della malattia mentale e la confusione tra lo stato di vera follia e quelli che oggi chiameremmo di “caratterialità” o di “disadattamento”. Ma vi anche il fato grave che spesso il malato di mente si trova spesso detenuto insieme ai portatori di malattie come la sifilide, la tubercolosi e il vaiolo [66].  Sull’eziogenesi della follia esprime Condillac ritenendola una forma di “disfunzionalità sensoria”, ma François Boissier de Sauvages (1706-1767), il più importante nosologo dell’epoca, si oppone a tale interpretazione a-scientifica proponendo una riorganizzazione della patologia sulla base di una “nosologia metodica” ricalcata sul modello linneiano per la botanica. Prima di lui il già citato Stahl, teorizzatore dell’ “animismo biologico”, nel suo Theoria medica vera del 1707 e nel successivo De animi morbis avanza (con l’ipostatizzazione dell’“anima sensitiva”) che un “umore” contrario alla “forza vitale” determini la malattia. Tesi fortemente contrastata da iatrofisici come Boerhaave, propensi a considerare il corpo umano una “macchina”. Anche Kant sene occupa nel Saggio sulle malattie di mente del 1764, dove riprende la posizione di Rousseau sui danni della modernità sulla psiche e sulla socialità, vedendo la malattia psichica come una distorsione mentale da considerarsi assente nei popoli primitivi (!). Il Settecento non trova comunque soluzioni adeguate alla malattia psichiatrica, e solo con gli sviluppi della medicina ottocentesca si arriverà a porre il problema in maniera sufficientemente corretta.      

 

 



[1] R.Mousnier-E.Labrousse, Le XVIII e siècle, Paris, Presse Universitaire de France 1955, vers.it.Firenze, Storia generale della civiltà, vol.V, Il XVIII secolo, Casini 1959, p.13.

[2] Ivi, p.21.

[3] Turgot, Recherches sur les causes des progrés et de la décadence des sciences e des arts, (Schelle, I, pp.118-9) in: Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, pp.359-360.

[4] D.Outram, L’Illuminismo, Bologna, Il Mulino 1997, p.67

[5] A questo proposito si veda: C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Clinamen 2007, p.54.

[6] Buffon come direttore del Jardin des Plantes di Parigi lo aprì per primo all’accesso del pubblico, con l’evidente scopo di promuovere e diffondere una didattica della natura sotto il profilo scientifico all’epoca assai carente. 

[7] Cfr: C.Tamagnone, Necessità e libertà, cit., p.182 e pp.198-199.

[8] D.Outram, L’Illuminismo, Bologna, Il Mulino 1997, p.76.

[9] Si veda la nota 298.

[10] G.Rudé, L’Europa del Settecento, storia e cultura, Roma-Bari, Laterza 1986, p.69.

[11] U. Im Hof,  L’Europa dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1993, pp.129-130.

[12] U. Im Hof, cit., pp.131-132.

[13] AaVv, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.III, Milano, Garzanti 1973, p.240. 

[14] Cf:r: AaVv, Storia della scienza, vol. I, a cura di M.Dumas, Roma-Bari, Laterza 1969, p.140

[15] V.Marchis, Storia delle macchine, Bari-Roma, Laterza 1994, p.130.

[16] Ivi, pp.140-141.

[17] V.Marchis, cit., p.153.

[18] Ivi, p.156.

[19] Ivi, p.157.

[20] Ibidem.

[21] Ivi, pp.180-182.

[22] A.Mondini, Storia della tecnica, vol.III, Torino, UTET 1977, p.323

[23] Ivi, pp.326-327.

[24] A.Mondini, cit., p.121-123,

[25] V.Marchis, cit., p.186.

[26] Ivi, p.187.

[27] Si tratta del rampollo di una famosa famiglia di costruttori di apparecchi scientifici nei campi dell’ottica e della meccanica, il cui capostipite era stato Samuel (1639-1682). Pieter (1692-1761) fu professore nelle università di Leida, di Duisburg e di Utrecht; si occupò di rifrazione della luce, costruì il primo pirometro e inventò “la bottiglia di Leida”, il più antico condensatore elettrostatico noto. Tra i suoi scritti: De certa methodo philosophiae exsperimentalis,  Dissertationes physicae et geometriae (1729), De methodo instituendi experimenta physicae (1735), Introductio ad philosophiam naturalem (1762).   

[28] AaVv, Storia della scienza, tomo primo, cit., Profilo della storia della vita scientifica di M.Dumas, p.116.

[29] V.Marchis, cit., pp.152-153.

[30] Ivi, p.153

[31] V.Marchis, cit,, p.158.

[32] F.Braudel, Le strutture del quotidiano, Torino, Einaudi 1982, p.399.

[33] P.Humbert, L’astronomia dal Rinascimento ai nostri giorni, in Storia della scienza, vol.I, a cura di M.Dumas, Roma-Bari, Laterza 1969, pp.594-596.

[34] C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Firenze, Clinamen 2007, pp.175-178.

[35] Pierre Simon Laplace, Opere, UTET, Torino 1967, p.243.

[36] R.Viallard-M.Daumas, Nascita e sviluppo della scienza classica, in Storia della scienza, vol.II, a cura di M.Dumas, Roma-Bari, Laterza 1969, pp.710-711.

[37] P.Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari, Laterza 1997, p.226-227.

[38] Ivi, p.226.

[39]R.Viallard-M.Daumas, Nascita e sviluppo della scienza classica, in Storia della scienza, vol.II, a cura di M.Dumas, Roma-Bari, Laterza 1969, p, p.681.

[40] A.Rupert Hall, cit., p.307.

[41] Ivi, pp.686-688.

[42] Ivi, p.689.

[43] P-L. M. de Maupertuis, La Venere fisica, a cura di F.Focher, Pavia, Studia Ghisleriana 2003 (Ibis, Como), pp.63-64. Il linguaggio forbito è quello del traduttore settecentesco Diodato Anniani, a cura del quale comparve la prima edizione italiana dell’opera a Venezia nel 1767 per i tipi di Antonio Graziosi, e che secondo i curatori dell’edizione pavese offre massima fedeltà letterale al testo originale francese..

[44] M.Caullery, Le scienze biologiche, in Storia della scienza, vol..II, a cura di M.Dumas, cit., p.909.

[45] Ivi, p.910.

[46] Ivi, pp.911-912

[47] Ivi, pp.912-913.

[48] Ivi, p.913

[49] Ivi, p.916.

[50] G.Solinas, Il microscopio e le metafisiche, Milano, Feltrinelli 1967, p.20.

[51] Ivi, p.49.

[52] L.Spallanzani, da Della generazione di alcuni animali anfibi, in: G.Solinas, cit, p.140.

[53] Ivi, p.127.

[54] ivi, p.150.

[55] Ivi, p.160-161.

[56] Ivi, p.162.

[57] Ivi, pp.166-167.

[58] Ivi, p.168.

[59] Ivi, pp.182-183.

[60] J.-Ch. Sournia, Storia della medicina,  Bari, Dedalo 1994, p.225

[61] Ivi, p.226.

[62] In Francia specifici decreti avevano ammesso dal 1707 la pratica autoptica e lo studio dei cadaveri. 

[63] G.Maconi, Storia della medicina e della chirurgia, Milano, Ambrosiana 1991, pp.235-236.

[64] G.Maconi, cit., p.248.

[65] J.-Ch. Sournia, Storia della medicina,  Bari, Dedalo 1994, p.218.

[66] R.Fabietti, La filosofia nell’epoca moderna, vol.II, AaVv, Filosofie e società, Bologna, Zanichelli 1981, pp.482-483.