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FRANCISCI PETRARCHE LAUREATI POETE

RERUM VULGARIUM FRAGMENTA


RIME SPARSE

DI FRANCESCO PETRARCA POETA LAUREATO


 

I
 

Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore,
quand'era in parte altr'uom da quel ch' i' sono,

del vario stile in ch'io piango e ragiono,
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, non che perdono.

Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me mesdesmo meco mi vergogno;

e del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

 

II
 

Per fare una leggiadra sua vendetta
e punire in un dí ben mille offese,
celatamente Amor l'arco riprese,
come uom ch'a nocer luogo e tempo aspetta.

Era la mia virtute al cor ristretta
per far ivi e ne gli occhi sue difese,
quando 'l colpo mortal là giú discese,
ove solea spuntarsi ogni saetta.

Però turbata nel primiero assalto,
non ebbe tanto né vigor né spazio
che potesse al bisogno prender l'arme;

overo al poggio faticoso ed alto
ritrarmi accortamente da lo strazio
del quale oggi vorrebbe, e non pò, aitarme.

 

III
 

Era il giorno ch'al sol si scoloraro
per la pietà del suo fattore i rai,
quando i' fui preso, e non me ne guardai,
ché i be' vostr'occhi, Donna, mi legaro.

Tempo non mi parea da far riparo
contra colpi d'Amor; però m'andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
nel commune dolor s'incominciaro.

Trovommi Amor del tutto disarmato,
ed aperta la via per gli occhi al core,
che di lagrime son fatti uscio e varco.

Però, al mio parer, non li fu onore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l'arco.

 

IV
 

Que' ch'infinita providenzia ed arte
mostrò nel suo mirabil magistero,
che criò questo e quell'altro emispero
e mansueto piú Giove che Marte,

vegnendo in terra a 'lluminar le carte
ch'avean molt'anni già celato il vero,
tolse Giovanni da la rete e Piero,
e nel regno del ciel fece lor parte;

di sé, nascendo a Roma non fe' grazia,
a Giudea sí, tanto sovr'ogni stato
umiltate essaltar sempre gli piacque!

Ed or di picciol borgo un sol n'à dato,
tal che natura e 'l luogo si ringrazia
onde sí bella donna al mondo nacque.

 

V
 

Quando io movo i sospiri a chiamar voi,
e 'l nome che nel cor mi scrisse Amore,
LAUdando s'incomincia udir di fore
il suon de' primi dolci accenti suoi;

vostro stato REal, ch'encontro poi,
raddoppia a l'alta impresa il mio valore;
ma: TAci, grida il fin, ché farle onore
è d'altri omeri soma, che da' tuoi.

Cosí LAUdare e REverire insegna
la voce stessa, pur ch'altri vi chiami,
o d'ogni reverenza e d'onor degna:

se non che forse Apollo si disdegna
ch'a parlar de' suoi sempre verdi rami
lingua morTAl presuntuosa vegna.

 

VI
 

Sí traviato è 'l folle mi' desio
a seguitar costei che 'n fuga è volta,
e de' lacci d'Amor leggiera e sciolta
vola dinanzi al lento correr mio,

che quanto richiamando piú l'envio
per la secura strada men m'ascolta:
né mi vale spronarlo, o dargli volta,
ch'Amor per sua natura il fa restio;

e poi che 'l fren per forza a sé raccoglie,
i' mi rimango in signoria di lui,
che mal mio grado a morte mi trasporta:

sol per venir al lauro onde si coglie
acerbo frutto, che le piaghe altrui,
gustando, afflige piú che non conforta.

 

VII
 

La gola e 'l sonno e l'oziose piume
ànno del mondo ogni vertú sbandita,
ond'è dal corso suo quasi smarrita
nostra natura vinta dal costume;

ed è sí spento ogni benigno lume
del ciel, per cui s'informa umana vita,
che per cosa mirabile s'addita
chi vol far d'Elicona nascer fiume.

Qual vaghezza di lauro? qual di mirto?
« Povera e nuda vai Filosofia »,
dice la turba al vil guadagno intesa.

Pochi compagni avrai per l'altra via:
tanto ti prego piú, gentile spirto,
non lassar la magnanima tua impresa.

 

VIII
 

A pie' de' colli ove la bella vesta
prese de le terrene membra pria
la Donna, che colui ch'a te ne 'nvia
spesso dal somno lagrimando desta,

libere in pace passavam per questa
vita mortal, ch'ogni animal desia,
senza sospetto di trovar fra via
cosa ch'al nostr' andar fosse molesta;

ma del misero stato ove noi semo
condotte da la vita altra serena,
un sol conforto, e de la morte, avemo:

che vendetta è di lui ch' a ciò ne mena:
lo qual in forza altrui, presso a l'estremo,
riman legato con maggior catena.

 

IX
 

Quando 'l pianeta che distingue l'ore
ad albergar col Tauro si ritorna
cade vertú da l'infiammate corna
che veste il mondo di novel colore;

e non pur quel che s'apre a noi di fore,
le rive e i colli, di fioretti adorna,
ma dentro, dove già mai non s'aggiorna,
gravido fa di sé il terrestro umore,

onde tal frutto e simile si colga;
così costei, ch'è tra le donne un Sole,
in me, movendo de' begli occhi i rai,

cria d'amor penseri, atti e parole;
ma, come ch'ella gli governi o volga,
primavera per me pur non è mai.

 

X
 

Gloriosa columna in cui s'appoggia
nostra speranza e 'l gran nome latino,
ch'ancor non torse del vero camino
l'ira di Giove per ventosa pioggia,

qui non palazzi, non teatro o loggia,
ma 'n lor vece un abete, un faggio, un pino
tra l'erba verde, e 'l bel monte vicino,
onde si scende poetando e poggia,

levan di terra al ciel nostr'intelletto;
e 'l rosigniuol, che dolcemente all'ombra
tutte le notti si lamenta e piagne,

d'amorosi penseri il cor ne 'ngombra:
ma tanto bel sol tronchi, e fai imperfetto,
tu che da noi, signor mio, ti scompagne.

 

XI
 

Lassare il velo o per sole o per ombra,
Donna, non vi vid'io
poi che in me conosceste il gran desio
ch'ogni altra voglia d'entr'al cor mi sgombra.

Mentr'io portava i be' pensier' celati,
ch'ànno la mente desiando morta,
vidivi di pietate ornare il volto;
ma poi ch'Amor di me vi fece accorta,

fuor i biondi capelli allor velati,
e l'amoroso sguardo in sé raccolto.
Quel ch' i' piú desiava in voi, m'è tolto:

sí mi governa il velo,
che per mia morte, ed al caldo ed al gielo,
de' be' vostr'occhi il dolce lume adombra.

 

XII
 

Se la mia vita da l'aspro tormento
si può tanto schermire, e dagli affanni,
ch' i' veggia per vertù de gli ultimi anni,
Donna, de' be' vostr'occhi il lume spento,

e i cape' d'oro fin farsi d'argento,
e lassar le ghirlande e i verdi panni,
e 'l viso scolorir, che ne' miei danni
a lamentar mi fa pauroso e lento;

pur mi darà tanta baldanza Amore,
ch' i' vi discovrirò de' mei martiri
qua' sono stati gli anni e i giorni e l'ore;

e se 'l tempo è contrario ai be' desiri,
non fia ch'almen non giunga al mio dolore
alcun soccorso di tardi sospiri.

 

XIII
 

Quando fra l'altre donne ad ora ad ora
Amor vien nel bel viso di costei,
quanto ciascuna è men bella di lei
tanto cresce 'l desio che m'innamora.

I' benedico il loco e 'l tempo e l'ora
che sí alto miraron gli occhi mei,
e dico: « Anima, assai ringraziar dei,
che fosti a tanto onor degnata allora;

da lei ti ven l'amoroso pensero,
che mentre 'l segui al sommo ben t'invia,
pocho prezando quel ch'ogni uom desia;

da lei vien l'animosa leggiadria
ch' al ciel ti scorge per destro sentero:
sí ch' i' vo già de la speranza altero. »

 

XIV
 

Occhi miei lassi, mentre ch'io vi giro
nel bel viso di quella che v'à morti,
pregovi siate accorti,
ché già vi sfida Amore, ond'io sospiro.

Morte pò chiuder sola a' miei penseri
l'amoroso camin che gli conduce
al dolce porto de la lor salute;
ma puossi a voi celar la vostra luce
per meno oggetto, perché meno interi
siete formati, e di minor virtute.
Però, dolenti, anzi che sian venute
l'ore del pianto, che son già vicine,
prendete or a la fine
breve conforto a sí lungo martiro.

 

XV
 

Io mi rivolgo indietro a ciascun passo
col corpo stanco ch'a gran pena porto,
e prendo allor del vostr'aere conforto,
che 'l fa gir oltra dicendo: « Oimè lasso! »

Poi ripensando al dolce ben ch'io lasso,
al camin lungo ed al mio viver corto,
fermo le piante sbigottito e smorto,
e gli occhi in terra lagrimando abasso.

Talor m'assale in mezzo a' tristi pianti
un dubbio: come posson queste membra
da lo spirito lor viver lontane?

Ma rispondemi Amor: « Non ti rimembra
che questo è privilegio degli amanti,
sciolti da tutte qualitati umane? »

 

XVI
 

Movesi il vecchierel canuto e bianco
del dolce loco ov'à sua età fornita
e da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;

indi traendo poi l'antiquo fianco
per l'estreme giornate di sua vita,
quanto piú pò, col buon voler s'aita,
rotto dagli anni e dal cammino stanco;

e viene a Roma, seguendo 'l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch'ancor lassú nel ciel vedere spera:

cosí, lasso, talor vo cercand'io,
Donna, quanto è possibile, in altrui
la disiata vostra forma vera.

 

XVII
 

Piovonmi amare lagrime dal viso
con un vento angoscioso di sospiri,
quando in voi adiven che gli occhi giri,
per cui sola dal mondo i' son diviso;

vero è che 'l dolce mansueto riso
pur acqueta gli ardenti miei desiri,
e mi sottragge al foco de' martiri
mentr'io son a mirarvi intento e fiso;

ma gli spiriti miei s'aghiaccian poi
ch' i' veggio, al departir, gli atti soavi
torcer da me le mie fatali stelle:

largata al fin co l'amorose chiavi
l'anima esce del cor per seguir voi,
e con molto pensiero indi si svelle.

 

XVIII
 

Quand'io son tutto volto in quella parte
ove 'l bel viso di Madonna luce,
e m'è rimasa nel pensier la luce
che m'arde e strugge dentro a parte a parte,

i' che temo del cor che mi si parte,
e veggio presso il fin de la mia luce,
vommene in guisa d'orbo, senza luce,
che non sa ove si vada e pur si parte.

Cosí davanti ai colpi de la morte
fuggo, ma non sí ratto, che 'l desio
meco non venga, come venir sòle;

tacito vo, ché le parole morte
farian pianger la gente, ed i' desio
che le lagrime mie si spargan sole.

 

XIX
 

Son animali al mondo de sí altera
vista che 'ncontra 'l sol pur si difende;
altri, però che 'l gran lume gli offende,
non escon fuor se non verso la sera;

ed altri, col desio folle che spera
gioir forse nel foco, perché splende,
provan l'altra vertú, quella che 'ncende:
lasso, e 'l mio loco è 'n questa ultima schera!

Ch'i' non son forte ad aspettar la luce
di questa Donna, e non so fare schermi
di luoghi tenebrosi o d'ore tarde.

Però con gli occhi lagrimosi e 'nfermi
mio destino a vederla mi conduce,
e so ben ch' i' vo dietro a quel che m'arde.

 

XX
 

Vergognando talor ch'ancor si taccia,
Donna, per me vostra bellezza in rima,
ricorro al tempo ch' i' vi vidi prima
tal che null'altra fia mai che mi piaccia;

ma trovo peso non da le mie braccia,
né ovra da polir colla mia lima;
però l'ingegno che sua forza estima
ne l'operazion tutto s'agghiaccia.

Piú volte già per dir le labbra apersi,
poi rimase la voce in mezzo 'l petto;
ma qual sòn poria mai salir tant'alto?

Piú volte incominciai di scriver versi,
ma la penna e la mano e l'intelletto
rimaser vinti nel primier' assalto.

 

XXI
 

Mille fiate, o dolce mia guerrera,
per aver co' begli occhi vostri pace
v'aggio proferto il cor, ma voi non piace
mirar sí basso colla mente altera;

e se di lui fors'altra donna spera,
vive in speranza debile e fallace:
mio, perché sdegno ciò ch'a voi dispiace,
esser non può già mai cosí com'era.

Or s'io lo scaccio, ed e' non trova in voi
ne l'esilio infelice alcun soccorso,
né sa star sol, né gire ov'altri il chiama,

poria smarrire il suo natural corso:
che grave colpa fia d'ambeduo noi,
e tanto piú de voi, quanto piú v'ama.

 

XXII
 

A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti ch'ànno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è 'l giorno;
ma poi che 'l ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa e qual s'anida in selva
per aver posa almeno infin a l'alba.

Ed io, da che comincia la bella alba
a scuoter l'ombra intorno de la terra,
svegliando gli animali in ogni selva,
non ò mai triegua di sospir' col sole;
poi quand'io veggio fiammeggiar le stelle,
vo lagrimando, e disiando il giorno.

Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
e le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle,
che m'ànno fatto di sensibil terra,
e maledico il dí ch' i' vidi 'l sole,
e che mi fa in vista un uom nudrito in selva.

Non credo che pascesse mai per selva
sí aspra fera, o di notte o di giorno,
come costei ch'i 'piango a l'ombra e al sole;
e non mi stanca primo sonno od alba:
ché, bench' i' sia mortal corpo di terra,
lo mi fermo desir vien da le stelle.

Prima ch' i' torni a voi, lucenti stelle,
o tomi giú ne l'amorosa selva,
lassando il corpo che fia trita terra,
vedess'io in lei pietà, che 'n un sol giorno
può ristorar molt'anni, e 'nanzi l'alba
puommi arichir dal tramontar del sole.

Con lei foss'io da che si parte il sole
e non ci vedess'altri che le stelle,
sol'una notte, e mai non fosse l'alba;
e non se transformasse in verde selva
per uscirmi di braccia, come il giorno
ch'Apollo la seguia qua giú per terra.

Ma io sarò sotterra in secca selva,
e 'l giorno andrà pien di minute stelle
prima ch' a sí dolce alba arrivi il sole.

 

XXIII
 

Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide e ancor quasi in erba,
la fera voglia che per mio mal crebbe,
perché cantando il duol si disacerba,
canterò com'io vissi in libertade
mentre Amor nel mio albergo a sdegno s'ebbe;
poi seguirò sí come a lui ne 'ncrebbe
troppo altamente, e che di ciò m'avvenne,
di ch'io son fatto a molta gente essempio;
ben che 'l mio duro scempio
sia scritto altrove, sí che mille penne
ne son già stanche, e quasi in ogni valle
rimbombi il suon de' miei gravi sospiri,
ch'aquistan fede a la penosa vita.
E se qui la memoria non m'aita,
come suol fare, iscúsilla i martiri,
ed un penser, che solo angoscia dàlle,
tal ch' ad ogni altro fa voltar le spalle,
e mi face obliar me stesso a forza;
ché ten di me quel d'entro, ed io la scorza.

I' dico che dal dí che 'l primo assalto
mi diede Amor, molt'anni eran passati,
sí ch'io cangiava il giovenil aspetto;
e d'intorno al mio cor pensier' gelati
fatto avean quasi adamantino smalto
ch' allentar non lassava il duro affetto;
lagrima ancor non mi bagnava il petto,
né rompea il sonno, e quel che in me non era
mi pareva un miracolo in altrui.
Lasso, che son? che fui?
La vita el fin, e 'l dí loda la sera.
Ché, sentendo il crudel di ch'io ragiono
infin allor percossa di suo strale
non essermi passato oltra la gonna,
prese in sua scorta una possente Donna,
ver' cui poco già mai mi valse o vale
ingegno o forza o dimandar perdono:
ei duo mi trasformaro in quel ch' i' sono,
facendomi d'uom vivo un lauro verde
che per fredda stagion foglia non perde.

Qual mi fec'io quando primier m'accorsi
de la trasfigurata mia persona,
e i capei vidi far di quella fronde
di che sperato avea già lor corona,
e i piedi in ch'io mi stetti e mossi e corsi,
com'ogni membro a l'anima risponde,
diventar due radici sovra l'onde
non di Peneo, ma d'un piú altero fiume,
e 'n duo rami mutarsi ambe le braccia!
Né meno ancor m'agghiaccia
l'esser coverto poi di bianche piume,
allor che folminato e morto giacque
il mio sperar che tropp'alto montava;
ché perch' io non sapea dove né quando
mel ritrovasse, solo, lagrimando,
là 've tolto mi fu, dí e notte andava
ricercando dallato e dentro a l'acque;
e già mai poi la mia lingua non tacque,
mentre poteo, del suo cader maligno:
ond'io presi col suon color d'un cigno.

Cosí lungo l'amate rive andai,
che volendo parlar, cantava sempre
mercé chiamando con estrania voce;
né mai in sí dolci o in sí soavi tempre
risonar seppi gli amorosi guai
che 'l cor s'umiliasse aspro e feroce.
Qual fu a sentir? ché 'l ricordar mi coce:
ma molto piú di quel, che per inanzi,
de la dolce ed acerba mia nemica
è bisogno ch'io dica,
ben che sia tal ch'ogni parlare avanzi.
Questa, che col mirar gli animi fura,
m'aperse il petto, e 'l cor prese con mano,
dicendo a me: « Di ciò non far parola. »
Poi la rividi in altro abito sola,
tal ch' i' non la conobbi, oh senso umano!
anzi le dissi 'l ver, pien di paura;
ed ella, ne l'usata sua figura
tosto tornando, fecemi, oimè lasso,
d'un quasi vivo e sbigottito sasso.

Ella parlava sí turbata in vista
che tremar mi fea dentro a quella petra,
udendo: « I' non son forse chi tu credi ».
E dicea meco: « Se costei mi spetra,
nulla vita mi fia noiosa o trista:
a farmi lagrimar, signor mio, riedi ».
Come non so, pur io mossi indi i piedi,
non altrui incolpando che me stesso,
mezzo tutto quel dí, tra vivo e morto.
Ma, perché 'l tempo è corto,
la penna al buon voler non pò gir presso,
onde piú cose ne la mente scritte
vo trapassando, e sol d'alcune parlo,
che meraviglia fanno a chi l'ascolta.
Morte mi s'era intorno al cor avolta,
né tacendo potea di sua man trarlo
o dar soccorso a le vertuti afflitte;
le vive voci m'erano interditte;
ond'io gridai con carta e con incostro:
« Non son mio, no; s'io moro, il danno è vostro ».

Ben mi credea dinanzi agli occhi suoi
d'indegno far cosí di mercé degno,
e questa spene m'avea fatto ardito.
Ma talora umiltà spegne disdegno,
talor l'enfiamma, e ciò sepp'io da poi,
lunga stagion di tenebre vestito,
ch'a quei preghi il mio lume era sparito,
ed io, non ritrovando intorno intorno
ombra di lei, né pur de' suoi piedi orma,
come uom che tra via dorma,
gittaimi stanco sovra l'erba un giorno.
Ivi, accusando il fugitivo raggio,
a le lagrime triste allargai 'l freno,
e lasciaile cader come a lor parve;
né già mai neve sotto al sol disparve,
com'io sentí' me tutto venir meno,
e farmi una fontana a pie' d'un faggio.
Gran tempo umido tenni quel viaggio.
Chi udí mai d'uom vero nascer fonte?
E parlo cose manifeste e conte.

L'alma ch'è sol da Dio fatta gentile,
ché già d'altrui non pò venir tal grazia,
simile al suo fattor stato ritene;
però di perdonar mai non è sazia
a chi col core e col sembiante umile,
dopo quantunque offese a mercé vene.
E se contra suo stile ella sostene
d'esser molto pregata, in lui si specchia,
e fal perché 'l peccar piú si pavente,
ché non ben si ripente
de l'un mal chi de l'altro s'apparecchia.
Poi che Madonna da pietà commossa
degnò mirarme, e ricognovve e vide
gir di pari la pena col peccato,
benigna mi redusse al primo stato.
Ma nulla à 'l mondo in ch'uom saggio si fide:
ch'ancor poi, ripregando, i nervi e l'ossa
mi volse in dura selce; e così scossa
voce rimasi de l'antiche some,
chiamando morte, e lei sola per nome.

Spirto doglioso errante (mi rimembra),
per spelunche deserte e pellegrine,
piansi molt'anni il mio sfrenato ardire,
ed ancor poi trovai di quel mal fine,
e ritornai ne le terrene membra,
credo, per piú dolore ivi sentire.
I' segui' tanto avanti il mio desire,
ch'un dí, cacciando sí com'io solea,
mi mossi; e quella fera bella e cruda
in una fonte ignuda
si stava, quando 'l sol piú forte ardea.
Io, perché d'altra vista non m'appago,
stetti a mirarla: ond'ella ebbe vergogna;
e per farne vendetta o per celarse,
l'acqua nel viso co le man mi sparse.
Vero dirò (forse e' parrà menzogna)
ch' i' senti' trarmi de la propria imago,
ed in un cervo solitario e vago
di selva in selva ratto mi trasformo,
e ancor de' miei can fuggo lo stormo.

Canzon, i' non fu' mai quel nuvol d'oro
che poi discese in preziosa pioggia,
sí che 'l foco di Giove in parte spense;
ma fui ben fiamma ch'un bel guardo accense
e fui l'uccel che piú per l'aere poggia,
alzando lei che ne' miei detti onoro;
né per nova figura il primo alloro
seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra
ogni men bel piacer del cor mi sgombra.

 

XXIV
 

Se l'onorata fronde che prescrive
l'ira del ciel, quando 'l gran Giove tona,
non m'avesse disdetta la corona
che suole ornar chi poetando scrive,

i' era amico a queste vostre dive,
le qua' vilmente il secolo abandona;
ma quella ingiuria già lunge mi sprona
da l'inventrice de le prime olive;

ché non bolle la polver d'Etiopia
sotto 'l più ardente sol, com'io sfavillo,
perdendo tanto amata cosa propia:

cercate dunque fonte piú tranquillo,
ché 'l mio d'ogni liquor sostene inopia,
salvo di quel che lagrimando stillo.

 

XXV
 

Amor piangeva, ed io con lui tal volta,
dal qual miei passi non fur mai lontani,
mirando per gli effecti acerbi e strani
l'anima vostra dei suoi nodi sciolta.

Or ch'al dritto camin l' à Dio rivolta,
col cor' levando al cielo ambe le mani
ringrazio lui che' giusti preghi umani
benignamente, sua mercede, ascolta;

e se, tornando a l'amorosa vita,
per farvi al bel desio volger le spalle
trovaste per la via fossati o poggi,

fu per mostrar quanto è spinoso calle
e quanto alpestra e dura la salita
onde al vero valor conven ch'uom poggi.

 

XXVI
 

Piú di me lieta non si vede a terra
nave da l'onde combattuta e vinta,
quando la gente di pietà depinta
su per la riva a ringraziar s'atterra;

né lieto piú del carcer si diserra
chi 'ntorno al collo ebbe la corda avinta,
di me, veggendo quella spada scinta
che fece al segnor mio sí lunga guerra.

E tutti voi ch'Amor laudate in rima,
al buon testor de gli amorosi detti
rendete onor, ch'era smarrito in prima:

ché piú gloria è nel regno degli eletti
d'un spirito converso, e più s'estima,
che di novantanove altri perfetti.

 

XXVII
 

Il successor di Carlo, che la chioma
co la corona del suo antiquo adorna,
prese à già l'arme per fiaccar le corna
a Babilonia, e chi da lei si noma;

e 'l vicario de Cristo colla soma
de le chiavi e del manto al nido torna,
sí che s'altro accidente no'l distorna,
vedrà Bologna, e poi la nobil Roma.

La mansueta vostra e gentil agna
abbatte i fieri lupi: e cosí vada
chiunque amor legitimo scompagna.

Consolate lei dunque ch'ancor bada,
e Roma che del suo sposo si lagna;
e per Iesú cingete omai la spada.

 

XXVIII
 

O aspettata in ciel beata e bella
anima che di nostra umanitade
vestita vai, non come l'altre carca,
perché ti sian men dure omai le strade,
a Dio diletta, obediente ancella,
onde al suo regno di qua giú si varca,
ecco novellamente a la tua barca,
ch'al cieco mondo à già volte le spalle
per gir al miglior porto,
d'un vento occidental dolce conforto;
lo qual per mezzo questa oscura valle,
ove piangiamo il nostro e l'altrui torto,
la condurrà de' lacci antichi sciolta
per drittissimo calle,
al verace oriente ov'ella è volta.

Forse i devoti e gli amorosi preghi
e le lagrime sante de' mortali
son giunte inanzi a la pietà superna;
e forse non fur mai tante né tali,
che per merito lor punto si pieghi
fuor de suo corso la giustitia eterna.
Ma quel benigno re che 'l ciel governa,
al sacro loco ove fo posto in croce
gli occhi per grazia gira;
onde nel petto al novo Carlo spira
la vendetta ch'a noi tardata nòce,
sí che molt'anni Europa ne sospira;
cosí soccorre a la sua amata sposa
tal che sol de la voce
fa tremar Babilonia e star pensosa.

Chiunque alberga tra Garona e 'l monte
e 'ntra 'l Rodano e 'l Reno e l'onde salse
le 'nsegne cristianissime accompagna;
ed a cui mai di vero pregio calse,
dal Pireneo a l'ultimo orizonte
con Aragon lassarà vòta Ispagna;
Inghilterra con l'isole che bagna
l'Occeano intra 'l Carro e le Colonne,
in fin là dove sona
dottrina del santissimo Elicona,
varie di lingue e d'arme e de le gonne,
a l'alta impresa caritate sprona.
Deh! qual amor sí licito o sí degno,
qua' figli mai, qua' donne
furon materia a sí giusto disdegno?

Una parte del mondo è che si giace
mai sempre in ghiaccio e in gelate nevi,
tutta lontana dal camin del sole,
là sotto i giorni nubilosi e brevi,
nemica natural mente di pace,
nasce una gente a cui il morir non dole.
Questa se, piú devota che non sòle,
col tedesco furor la spada cigne,
Turchi, Arabi e Caldei
con tutti quei che speran nelli Dei
di qua dal mar che fa l'onde sanguigne,
quanto sian da prezzar, conoscer dèi:
popolo ignudo, paventoso e lento,
che ferro mai non strigne,
ma tutti colpi suoi commette al vento.

Dunque ora è 'l tempo da ritrare il collo
dal giogo antico, e da squarciare il velo
ch'è stato avolto intorno agli occhi nostri;
e che 'l nobile ingegno, che dal cielo
per grazia tien' de l'immortale Apollo,
e l'eloquenzia sua vertú qui mostri
or con la lingua, or co' laudati incostri;
perché, di Orfeo leggendo e d'Anfione
se non ti meravigli,
assai men fia ch' Italia co' suoi figli
si desti al suon del tuo chiaro sermone,
tanto che per Iesù la lancia pigli:
che s'al ver mira questa antica madre,
in nulla sua tenzione
fur mai cagion sí belle o sí leggiadre.

Tu ch'ài, per arricchir d'un bel tesauro,
volte le antiche e le moderne carte,
volando al ciel colla terrena soma,
sai, da l'imperio del figliuol de Marte
al grande Augusto, che di verde lauro
tre volte triunfando ornò la chioma,
ne l'altrui ingiurie del suo sangue Roma
spesse fiate quanto fu cortese;
ed or perché non fia
cortese no, ma conoscente e pia
a vendicar le dispietate offese,
col figliuol glorioso di Maria?
Che dunque la nemica parte spera
ne l'umane difese,
se Cristo sta da la contraria schiera?

Pon' mente al temerario ardir di Serse,
che fece, per calcare i nostri liti,
di novi ponti oltraggio a la marina,
e vedrai ne la morte de' mariti
tutte vestite a brun le donne perse
e tinto in rosso il mar di Salamina.
E non pur questa misera ruina
del popol infelice d'oriente
victoria t' empromette,
ma Maratona e le mortali strette
che difese il Leon con poca gente,
e altre mille ch' ài ascoltate e lette.
Per che inchinare a Dio molto convene
le ginocchia e la mente,
che gli anni tuoi riserva a tanto bene.

Tu vedrai Italia e l'onorata riva,
canzon, ch'agli occhi miei cela e contende
non mar, non poggio o fiume,
ma solo Amor, che del suo altero lume
piú m'invaghisce dove piú m'incende:
né natura può star contra 'l costume.
Or movi, non smarrir l'altre compagne,
ché non pur sotto bende
alberga Amor, per cui si ride e piagne.

 

XXIX
 

Verdi panni, sanguigni oscuri o persi
non vestí donna unquanco,
né d'or capelli in bionda treccia attorse,
sí bella come questa che mi spoglia
d'arbitrio, e dal camin de libertade
seco mi tira sí ch'io non sostegno
alcun giogo men grave.

E se pur s'arma talor a dolersi
l'anima a cui vien manco
consiglio, ove 'l martir l'adduce in forse,
rappella lei da la sfrenata voglia
subita vista, ché del cor mi rade
ogni delira impresa, ed ogni sdegno
fa 'l veder lei soave.

Di quanto per amor già mai soffersi,
ed aggio a soffrir anco
fin che mi sani 'l cor colei che 'l morse,
rubella di mercé, che pur l'envoglia,
vendetta fia: sol che, contra umiltade,
orgoglio e ira il bel passo ond'io vegno
non chiuda e non inchiave.

Ma l'ora e 'l giorno ch' io le luci apersi
nel bel nero e nel bianco
che mi scacciar di là dove Amor corse,
novella d'esta vita che m'addoglia
furon radice, e quella in cui l'etade
nostra si mira, la qual piombo o legno
vedendo è chi non pave.

Lagrima dunque che dagli occhi versi,
per quelle, che nel manco
lato mi bagna chi primier s'accorse,
quadrella, dal voler mio non mi svoglia,
ché 'n giusta parte la sentenzia cade;
per lei sospira l'alma, ed ella è degno
che le sue piaghe lave.

Da me son fatti i miei pensier' diversi:
tal già, qual io mi stanco,
l'amata spada in se stessa contorse;
né quella prego che però mi scioglia,
ché men son dritte al ciel tutt'altre strade
e non s'aspira al glorioso regno
certo in piú salda nave.

Benigne stelle che compagne fersi
al fortunato fianco,
quando 'l bel parto giú nel mondo scorse!
ch'è stella in terra, e come in lauro foglia
conserva verde il pregio d'onestade;
ove non spira folgore, né indegno
vento mai che l'aggrave.

So io ben ch'a voler chiuder in versi
suo' laudi, fora stanco
chi piú degna la mano a scriver porse:
qual cella è di memoria in cui s'accoglia
quanta vede vertú, quanta beltade
chi gli occhi mira, d'ogni valor segno,
dolce del mio cor chiave?

Quanto il sol gira, Amor piú caro pegno,
Donna, di voi non ave.

 

XXX
 

Giovene donna sotto un verde lauro
vidi più bianca e piú fredda che neve
non percossa dal sol molti e molt'anni;
e 'l suo parlare e 'l bel viso e le chiome
mi piacquen sí ch' i' l' ò dinanzi agli occhi
ed avrò sempre ov' io sia, in poggio o 'n riva.

Allor saranno i miei pensier a riva
che foglia verde non si trovi in lauro;
quando avrò queto il core, asciutti gli occhi,
vedrem ghiacciare il foco, arder la neve:
non ò tanti capelli in queste chiome
quanti vorrei quel giorno attender anni.

Ma perché vola il tempo e fuggon gli anni
sí ch'a la morte in un punto s'arriva
o colle brune o colle bianche chiome
seguirò l'ombra di quel dolce lauro
per lo piú ardente sole e per la neve,
fin che l'ultimo dí chiuda quest'occhi.

Non fur già mai veduti sí begli occhi,
o ne la nostra etade o ne' prim' anni,
che mi struggon cosí come 'l sol neve:
onde procede lagrimosa riva,
ch' Amor conduce a piè del duro lauro
ch' à i rami di diamante e d' or le chiome.

I' temo di cangiar pria volto e chiome,
che con vera pietà mi mostri gli occhi
l'idolo mio scolpito in vivo lauro:
ché s'al contar non erro, oggi à sett' anni
che sospirando vo di riva in riva
la notte e 'l giorno, al caldo ed a la neve.

Dentro pur foco e for candida neve,
sol con questi pensier', con altre chiome,
sempre piangendo andrò per ogni riva,
per far forse pietà venir ne gli occhi
di tal che nascerà dopo mill'anni;
se tanto viver pò ben colto lauro.

L'auro e i topacii al sol sopra la neve
vincon le bionde chiome presso a gli occhi
che menan gli anni miei sí tosto a riva.

 

XXXI
 

Questa anima gentil che si diparte
anzi tempo chiamata a l'altra vita,
se lassuso è quanto esser de' gradita,
terrà del ciel la piú beata parte;

s'ella riman fra 'l terzo lume e Marte,
fia la vista del sole scolorita,
poi ch'a mirar sua bellezza infinita
l'anime degne intorno a lei fien sparte;

se si posasse sotto al quarto nido,
ciascuna de le tre saria men bella
ed essa sola avria la fama e 'l grido;

nel quinto giro non abitrebbe ella;
ma se vola piú alto, assai mi fido
che con Giove sia vinta ogni altra stella.

 

XXXII
 

Quanto piú m'avicino al giorno estremo
che l'umana miseria suol far breve,
piú veggio il tempo andar veloce e leve
e 'l mio di lui sperar fallace e scemo.

I' dico a' miei pensier': « Non molto andremo
d'amor parlando omai, ché 'l duro e greve
terreno incarco come fresca neve,
si va struggendo; onde noi pace avremo;

perché co lui cadrà quella speranza
che ne fe' vaneggiar sí lungamente,
e 'l riso e 'l pianto, e la paura e l'ira;

sí vedrem chiaro poi come sovente
per le cose dubbiose altri s'avanza,
e come spesso indarno si sospira ».

 

XXXIII
 

Già fiammeggiava l'amorosa stella
per l'oriente, e l'altra, che Giunone
suol far gelosa, nel settentrione
rotava i raggi suoi lucente e bella;

levata era a filar la vecchiarella,
discinta e scalza, e desto avea 'l carbone,
e gli amanti pungea quella stagione
che per usanza a lagrimar gli appella:

quando mia speme già condutta al verde
giunse nel cor, non per l'usata via,
che 'l sonno tenea chiusa e 'l dolor molle;

quanto cangiata, oimè, da quel di pria!
e parea dir: « Perché tuo valor perde?
Veder quest'occhi ancor non ti si tolle ».

 

XXXIV
 

Apollo, s'ancor vive il bel desio
che t'infiammava a le tesaliche onde,
e se non ài l'amate chiome bionde,
volgendo gli anni, già poste in oblio;

dal pigro gielo e dal tempo aspro e rio,
che dura quanto 'l tuo viso s'asconde,
difendi or l'onorata e sacra fronde
ove tu prima, e poi fu' invescato io;

e per vertú de l'amorosa speme
che ti sostenne ne la vita acerba,
di queste impression l'aere disgombra.

Sí vedrem poi per meraviglia inseme
seder la Donna nostra sopra l'erba
e far de le sue braccia a se stessa ombra.

 

XXXV
 

Solo e pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l'arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d'alegrezza spenti
di fuor si legge com'io dentro avampi;

sí ch'io mi credo omai che monti e piagge
e fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch'è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so, ch' Amor non venga sempre
ragionando con meco, ed io co lui.

 

XXXVI
 

S'io credesse per morte essere scarco
del pensiero amoroso che m'atterra,
colle mie mani avrei già posto in terra
queste mie membra noiose e quello incarco;

ma perch'io temo che sarrebbe un varco
di pianto in pianto, e d'una in altra guerra,
di qua dal passo ancor che mi si serra,
mezzo rimango, lasso, e mezzo il varco.

Tempo ben fora omai d'avere spinto
l'ultimo stral la dispietata corda,
ne l'altrui sangue già bagnato e tinto;

ed io ne prego Amore, e quella sorda
che mi lassò de' suoi color' depinto,
e di chiamarmi a sé non le ricorda.

 

XXXVII
 

Sí è debile il filo a cui s'attene
la gravosa mia vita,
che, s'altri non l'aita,
ella fia tosto di suo corso a riva,
però che dopo l'empia dipartita
che dal dolce mio bene
feci, sol una spene
è stato infin a qui cagion ch'io viva,
dicendo: « Perché priva
sia de l'amata vista,
mantienti, anima trista:
che sai s'a miglior tempo anco ritorni?
ed a piú lieti giorni?
o se 'l perduto ben mai si racquista? »
Questa speranza mi sostenne un tempo;
or vien mancando, e troppo in lei m'attempo.

Il tempo passa, e l'ore son sí pronte
a fornire il viaggio,
ch'assai spacio non aggio
pur a pensar com'io corro a la morte;
a pena spunta in oriente un raggio
di sol, ch'a l'altro monte
de l'avverso orizonte
giunto il vedrai per vie lunghe e distorte.
Le vite son sí corte,
sí gravi i corpi e frali
degli uomini mortali,
che quando io mi ritrovo dal bel viso
cotanto esser diviso,
col desio non possendo mover l'ali,
poco m'avanza del conforto usato,
né so quant'io mi viva in questo stato.

Ogni loco m'atrista ov'io non veggio
quei begli occhi soavi
che portaron le chiavi
de' miei dolci pensier', mentre a Dio piacque;
e perché 'l duro essilio piú m'aggravi,
s'io dormo o vado o seggio,
altro già mai non cheggio,
e ciò ch'i' vidi dopo lor mi spiacque.
Quante montagne ed acque,
quanto mar, quanti fiumi
m'ascondon que' duo lumi,
che quasi un bel sereno a mezzo 'l die
fer le tenebre mie,
a ciò che 'l rimembrar piú mi consumi!
e quanto era mia vita allor gioiosa,
m'insegni la presente aspra e noiosa!

Lasso, se ragionando si rinfresca
quell'ardente desio
che nacque il giorno ch'io
lassai di me la miglior parte a dietro,
e s'Amor se ne va per lungo oblio,
chi mi conduce a l'esca
onde 'l mio dolor cresca?
E perché pria, tacendo, non m'impetro?
Certo, cristallo o vetro
non mostrò mai di fore
nascosto altro colore,
che l'alma sconsolata assai non mostri
piú chiari i pensier' nostri,
e la fera dolcezza ch' è nel core,
per gli occhi che di sempre pianger vaghi
cercan dí e notte pur chi glien'appaghi.

Novo piacer che ne gli umani ingegni
spesse volte si trova
d'amar qual cosa nova
piú folta schiera di sospiri accoglia!
Ed io son un di quei che 'l pianger giova;
e par ben ch'io m'ingegni
che di lagrime pregni
sien gli occhi miei, sí come 'l cor di doglia.
E perché a ciò m'invoglia
ragionar de' begli occhi,
né cosa è che mi tocchi
o sentir mi si faccia cosí a dentro,
corro spesso e rientro
colà donde piú largo il duol trabocchi,
e sien col cor punite ambe le luci
ch' a la strada d'Amor mi furon duci.

Le treccie d'or che devrien fare il sole
d'invidia molta ir pieno,
e 'l bel guardo sereno
ove i raggi d'Amor sí caldi sono
che mi fanno anzi tempo venir meno,
e l'accorte parole,
rade nel mondo, o sole,
che mi fer già di sé cortese dono,
mi son tolte; e perdono
piú lieve ogni altra offesa
che l'essermi contesa
quella benigna angelica salute,
che 'l mio cor a vertute
destar solea con una voglia accesa:
tal ch' io non penso udir cosa già mai
che mi conforte ad altro ch' a trar guai.

E, per pianger ancor con piú diletto,
le man bianche sottili,
e le braccia gentili,
e gli atti suoi soavemente alteri,
e i dolci sdegni alteramente umili,
e 'l bel giovenil petto,
torre d'alto intelletto,
mi celan questi luoghi alpestri e feri;
e non so s'io mi speri
vederla anzi ch'io mora;
però ch' ad ora ad ora
s'erge la speme e poi non sa star ferma;
ma ricadendo afferma
di mai non veder lei che 'l ciel onora,
ov' alberga onestade e cortesia,
e dov' io prego che 'l mio albergo sia.

Canzon, s' al dolce loco
la Donna nostra vedi,
credo ben che tu credi
ch' ella ti porgerà la bella mano
ond' io son sí lontano:
non la toccar, ma reverente ai piedi
le di' ch' io sarò là tosto ch' io possa,
o spirto ignudo od uom di carne e d'ossa.

 

XXXVIII
 

Orso, e' non furon mai fiumi né stagni,
né mare ov'ogni rivo si disgombra,
né di muro o di poggio o di ramo ombra,
né nebbia che 'l ciel copra e 'l mondo bagni;

né altro impedimento, ond' io mi lagni,
qualunque piú l'umana vista ingombra,
quanto d'un vel che due begli occhi adombra,
e par che dica: « Or ti consuma e piagni ».

E quel lor inchinar ch' ogni mia gioia
spegne, o per umiltate o per argoglio,
cagion sarà che 'nanzi tempo i' moia.

E d'una bianca mano anco mi doglio,
ch' è stata sempre accorta a farmi noia,
e contra gli occhi miei s'è fatta scoglio.

 

XXXIX
 

Io temo sí de' begli occhi l'assalto,
ne' quali Amore e la mia morte alberga,
ch' i' fuggo lor come fanciul la verga;
e gran tempo è ch' i' presi il primier salto.

Da ora inanzi faticoso od alto
loco non fia dove 'l voler non s'erga,
per no scontrar chi miei sensi disperga,
lassando, come suol, me freddo smalto.

Dunque, s' a veder voi tardo mi volsi,
per non ravvicinarmi a chi mi strugge,
fallir forse non fu di scusa indegno.

Piú dico, che 'l tornare a quel ch'uom fugge
e 'l cor che di paura tanta sciolsi
fur de la mia fede non leggier pegno.

 

XL
 

S'amore o morte non dà qualche stroppio
a la tela novella ch' ora ordisco,
e s'io mi svolvo dal tenace visco,
mentre che l'un coll'altro vero accoppio,

i' farò forse un mio lavor sí doppio
tra lo stil de' moderni e 'l sermon prisco
che, paventosamente a dirlo ardisco,
infin a Roma n'udirai lo scoppio.

Ma però che mi manca a fornir l'opra
alquanto de le fila benedette
ch' avanzaro a quel mio diletto padre,

perché tien' verso me le man' sí strette
contra tua usanza? I' prego che tu l'opra,
e vedrai riuscir cose leggiadre.

 

XLI
 

Quando dal proprio sito si rimove
l'arbor ch'amò già Febo in corpo umano,
sospira e suda a l'opera Vulcano
per rinfrescar l'aspre saette a Giove;

il qual or tona, or nevica ed or piove,
senza onorar piú Cesare che Giano;
la terra piange, e 'l sol ci sta lontano
ché la sua cara amica ved' altrove.

Allor riprende ardir Saturno e Marte,
crudeli stelle, ed Orione armato
spezza a' tristi nocchier governi e sarte;

Eolo a Nettuno ed a Giunon turbato
fa sentire, ed a noi, come si parte
il bel viso dagli angeli aspettato.

 

XLII
 

Ma poi che 'l dolce riso umile e piano
piú non asconde sue bellezze nove,
le braccia a la fucina indarno move
l'antiquissimo fabbro ciciliano;

ch' a Giove tolte son l'arme di mano
temprate in Mongibello a tutte prove,
e sua sorella par che si rinove
nel bel guardo d'Apollo a mano a mano.

Del lito occidental si move un fiato
che fa securo il navigar senz'arte,
e desta i fior tra l'erba in ciascun prato.

Stelle noiose fuggon d'ogni parte,
disperse dal bel viso inamorato,
per cui lagrime molte son già sparte.

 

XLIII
 

Il figliuol di Latona avea già nove
volte guardato dal balcon sovrano,
per quella ch'alcun tempo mosse in vano
i suoi sospiri, ed or gli altrui commove.

Poi che, cercando, stanco non seppe ove
s'albergasse, da presso o di lontano,
mostrossi a noi qual uom per doglia insano,
che molto amata cosa non ritrove.

E cosí tristo standosi in disparte
tornar non vide il viso, che laudato
sarà, s'io vivo, in piú di mille carte;

e pietà lui medesmo avea cangiato
sí che' begli occhi lagrimavan parte:
però l'aere ritenne il primo stato.

 

XLIV
 

Que' che 'n Tesaglia ebbe le man sí pronte
a farla del civil sangue vermiglia
pianse morto il marito di sua figlia
raffigurato a le fatezze conte;

e 'l pastor ch' a Golia ruppe la fronte
pianse la ribellante sua famiglia,
e sopra 'l buon Saul cangiò le ciglia,
ond' assai può dolersi il fiero monte.

Ma voi, che mai pietà non discolora,
e ch'avete gli schermi sempre accorti
contra l'arco d'Amor che 'ndarno tira,

mi vedete straziare a mille morti;
né lagrima però discese ancora
da' be' vostr' occhi, ma disdegno ed ira.

 

XLV
 

Il mio avversario, in cui veder solete
gli occhi vostri, ch' Amore e 'l ciel onora,
colle non sue bellezze v' innamora,
piú che 'n guisa mortal soavi e liete.

Per consiglio di lui, Donna, m' avete
scacciato del mio dolce albergo fora:
misero esilio! avegna ch' i' non fora
d'abitar degno ove voi sola siete.

Ma s'io v'era con saldi chiovi fisso
non devea specchio farvi per mio danno,
a voi stessa piacendo, aspra e superba;

certo, se vi rimembra di Narcisso,
questo e quel corso ad un termino vanno:
benché di sí bel fior sia indegna l'erba.

 

XLVI
 

L'oro e le perle, e i fior vermigli e i bianchi,
che 'l verno devria far languidi e secchi,
son per me acerbi e velenosi stecchi
ch' io provo per lo petto e per li fianchi;

però i dí miei fien lagrimosi e manchi,
ché gran duol rade volte aven che 'nvecchi
ma piú ne colpo i micidiali specchi,
che 'n vagheggiar voi stessa avete stanchi.

Questi poser silenzio al signor mio,
che per me vi pregava; ond' ei si tacque
veggendo in voi finir vostro desio.

Questi fuor fabbricati sopra l'acque
d'abisso, e tinti ne l'eterno oblio;
onde 'l principio de mia morte nacque.

 

XLVII
 

Io sentia dentr' al cor già venir meno
gli spirti che da voi ricevon vita,
e, perché naturalmente s' aita
contra la morte ogni animal terreno,

largai 'l desio, che i' teng' or molto a freno,
e misi 'l per la via quasi smarrita;
però che dí e notte indi m'invita,
ed io contra sua voglia altronde 'l meno.

E mi condusse vergognoso e tardo
a riveder gli occhi leggiadri, ond' io,
per non esser lor grave, assai mi guardo.

Vivrommi un tempo omai, ch' al viver mio
tanta virtute à sol un vostro sguardo,
e poi morrò, s' io non credo al desio.

 

XLVIII
 

Se mai foco per foco non si spense,
né fiume fu già mai secco per pioggia
ma sempre l'un per l'altro simil poggia
e spesso l'un contrario l'altro accense,

Amor, tu che' pensier' nostri dispense,
ai qual un'alma in duo corpi s'appoggia,
perché fai in lei con disusata foggia
men, per molto voler, le voglie intense?

Forse, sí come 'l Nil d'alto caggendo
col gran suono i vicin d'intorno assorda,
e 'l sole abbaglia chi ben fiso 'l guarda,

cosí 'l desio, che seco non s'accorda,
ne lo sfrenato obietto vien perdendo;
e per troppo spronar la fuga è tarda.

 

XLIX
 

Perch' io t'abbia guardato di menzogna
a mio podere, ed onorato assai,
ingrata lingua, già però non m' ài
renduto onor, ma fatto ira e vergogna;

ché quando piú 'l tuo aiuto mi bisogna
per dimandar mercede, allor ti stai
sempre piú fredda, e, se parole fai,
son imperfette e quasi d'uom che sogna.

Lagrime triste, e voi tutte le notti
m'accompagnate, ov' io vorrei star solo,
poi fuggite dinanzi a la mia pace;

e voi, sí pronti a darmi angoscia e duolo,
sospiri, allor traete lenti e rotti;
sola la vista mia del cor non tace.

 

L
 

Ne la stagion che 'l ciel rapido inchina
verso occidente e che 'l dí nostro vola
a gente che di là forse l'aspetta,
veggendosi in lontan paese sola
la stanca vecchiarella pellegrina
raddoppia i passi, e piú e piú s'affretta;
e poi cosí soletta
al fin di sua giornata
talora è consolata
d'alcun breve riposo, ov'ella oblia
la noia e 'l mal de la passata via.
Ma, lasso, ogni dolor che 'l dí m'adduce
cresce qualor s'invia
per partirsi da noi l'eterna luce.

Come 'l sol volge le 'nfiammate rote
per dar luogo a la notte, onde discende
dagli altissimi monti maggior l'ombra,
l'avaro zappador l'arme riprende,
e con parole e con alpestri note
ogni gravezza del suo petto sgombra:
e poi la mensa ingombra
di povere vivande,
simili a quelle ghiande,
le qua' fuggendo tutto 'l mondo onora.
Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora,
ch' i' pur non ebbi ancor, non dirò lieta,
ma riposata un'ora,
né per volger di ciel né di pianeta.

Quando vede 'l pastor calare i raggi
del gran pianeta al nido ov'egli alberga
e 'mbrunir le contrade d'oriente,
drizzasi in piedi e co l'usata verga,
lassando l'erba e le fontane e i faggi,
move la schiera sua soavemente;
poi lontan da la gente,
o casetta o spelunca
di verdi frondi ingiunca;
ivi senza pensier' s'adagia e dorme.
Ai crudo Amor! ma tu allor piú m'informe
a seguir d'una fera che mi strugge
la voce e i passi e l'orme,
e lei non stringi che s'appiatta e fugge.

E i naviganti in qualche chiusa valle
gettan le menbra, poi che 'l sol s'asconde,
sul duro legno e sotto a l'aspre gonne.
Ma io, perché s'attuffi in mezzo l'onde,
e lasci Ispagna dietro a le sue spalle
e Granata e Marrocco e le Colonne,
e gli uomini e le donne
e 'l mondo e gli animali
aquetino i lor mali,
fine non pongo al mio obstinato affanno
e duolmi ch'ogni giorno arroge al danno:
ch' i' son già, pur crescendo in questa voglia,
ben presso al decim' anno,
né poss'indovinar chi me ne scioglia.

E perché un poco nel parlar mi sfogo,
veggio la sera i buoi tornare sciolti
da le campagne e da' solcati colli.
I miei sospiri a me perché non tolti
quando che sia? perché no 'l grave giogo?
perché dí e notte gli occhi miei son molli?
Misero me, che volli,
quando primier sí fiso
gli tenni nel bel viso,
per iscolpirlo, imaginando, in parte
onde mai né per forza né per arte
mosso sarà, fin ch' i' sia dato in preda
a chi tutto diparte!
Né so ben anco che di lei mi creda.

Canzon, se l'esser meco
dal matino a la sera
t'à fatto di mia schiera,
tu non vorrai mostrarti in ciascun loco,
e d'altrui loda curerai sí poco,
ch' assai ti fia pensar di poggio in poggio
come m'à concio 'l foco
di questa viva petra, ov' io m'appoggio.

 

LI
 

Poco era ad appressarsi agli occhi miei
la luce che da lunge gli abbarbaglia,
che, come vide lei cangiar Tesaglia,
cosí cangiato ogni mia forma avrei:

e s'io non posso transformarmi in lei
piú ch' i' mi sia (non ch' a mercé mi vaglia),
di qual petra piú rigida s'intaglia
pensoso ne la vista oggi sarei,

o di diamante o d'un bel marmo bianco
per la paura forse, o d'un diaspro,
pregiato poi dal vulgo avaro e sciocco;

e sarei fuor del grave giogo ed aspro,
per cui i' ò invidia di quel vecchio stanco
che fa con le sue spalle ombra a Marrocco.

 

LII
 

Non al suo amante piú Diana piacque
quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,

ch' a me la pastorella alpestra e cruda
posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch' a l'aura il vago e biondo capel chiuda;

tal che mi fece, or quand'egli arde 'l cielo,
tutto tremar d'un amoroso gielo.

 

LIII
 

Spirto gentil, che quelle membra reggi
dentro a le qua' peregrinando alberga
un signor valoroso accorto e saggio,
poi che se' giunto a l'onorata verga
colla qual Roma e suoi erranti correggi,
e la richiami al suo antiquo viaggio:
io parlo a te, però ch'altrove un raggio
non veggio di vertú ch' al mondo è spenta,
né trovo chi di mal far si vergogni.
Che s' aspetti non so, né che s'agogni
Italia, che suoi guai non par che senta:
vecchia, oziosa e lenta,
dormirà sempre, e non fia chi la svegli?
Le man' l'avess' io avolto entro' capegli!

Non spero che già mai dal pigro sonno
mova la testa, per chiamar ch' uom faccia,
sí gravemente è oppressa e di tal soma:
ma non senza destino a le tue braccia,
che scuoter forte e sollevarla ponno,
è or commesso il nostro capo, Roma.
Pon man in quella venerabil chioma
securamente, e ne le treccie sparte,
sí che la neghittosa esca del fango.
I' che dí e notte del suo strazio piango,
di mia speranza ò in te la maggior parte:
ché, se 'l popol di Marte
devesse al proprio onore alzar mai gli occhi,
parmi pur ch' a' tuoi dí la grazia tocchi.

L'antiche mura, ch'ancor teme ed ama
e trema 'l mondo, quando si rimembra
del tempo andato e 'ndietro si rivolve:
e i sassi, dove fur chiuse le membra
di ta' che non saranno senza fama
se l'universo pria non si dissolve,
e tutto quel ch' una ruina involve,
per te spera saldar ogni suo vizio.
O grandi Scipioni, o fedel Bruto,
quanto v' aggrada, s' egli è ancor venuto
romor là giú del ben locato officio!
Come cre' che Fabrizio
si faccia lieto udendo la novella,
e dice: « Roma mia sarà ancor bella ».

E se cosa di qua nel ciel si cura,
l'anime che lassú son citadine
e ànno i corpi abandonati in terra,
del lungo odio civil ti pregan fine,
per cui la gente ben non s'assecura,
onde 'l camin a' lor tetti si serra;
che fur già sí devoti, ed ora in guerra
quasi spelunca di ladron son fatti,
tal ch' a' buon' solamente uscio si chiude,
e tra gli altari e tra le statue ignude
ogni impresa crudel par che se tratti.
Deh, quanto diversi atti!
Né senza squille s'incomincia assalto,
che per Dio ringraciar fur poste in alto.

Le donne lagrimose, e 'l vulgo inerme
de la tenera etate, e i vecchi stanchi,
ch' ànno sé in odio e la soverchia vita,
e i neri fraticelli e i bigi e i bianchi,
coll'altre schiere travagliate e 'nferme,
gridan: « O signor nostro, aita, aita »;
e la povera gente sbigottita
ti scopre le sue piaghe a mille a mille,
ch' Anibale, non ch'altri, farian pio;
e se ben guardi a la magion di Dio,
ch' arde oggi tutta, assai poche faville
spegnendo, fien tranquille
le voglie che si mostran sí 'nfiammate:
onde fien l'opre tue nel ciel laudate.

Orsi, lupi, leoni, aquile e serpi
ad una gran marmorea colonna
fanno noia sovente, ed a sé danno:
di costor piange quella gentil donna
che t'à chiamato, a ciò che di lei sterpi
le male piante che fiorir non sanno.
Passato è già piú che 'l millesimo anno
che 'n lei mancâr quell'anime leggiadre
che locata l'avean là dov' ell'era.
Ai nova gente oltra misura altera,
irreverente a tanta ed a tal madre!
Tu marito, tu padre:
ogni soccorso di tua man s'attende,
ché 'l maggior padre ad altr'opera intende.

Rade volte adiven ch' a l'alte imprese
fortuna ingiuriosa non contrasti,
ch' a gli animosi fatti mal s' accorda.
Ora, sgombrando 'l passo onde tu intrasti,
famisi perdonar molt' altre offese,
ch' almen qui da se stessa si discorda:
però che, quanto 'l mondo si ricorda,
ad uom mortal non fu aperta la via
per farsi, come a te, di fama eterno:
che puoi drizzar, s' i' non falso discerno,
in stato la piú nobil monarchia.
Quanta gloria ti fia
dir: « Gli altri l'aitar giovene e forte,
questi in vecchiezza la scampò da morte! »

Sopra 'l monte Tarpeio, canzon, vedrai
un cavalier ch'Italia tutta onora,
pensoso piú d'altrui che di se stesso.
Digli: « Un che non ti vide ancor da presso
se non come per fama uom s'innamora,
dice che Roma ognora,
con gli occhi di dolor bagnati e molli,
ti chier mercé da tutti sette i colli ».

 

LIV
 

Perch' al viso d'amor portava insegna
mosse una pellegrina il mio cor vano,
ch'ogni altra mi parea d'onor men degna:

e lei seguendo su per l'erbe verdi
udí' dir alta voce di lontano:
« Ai, quanti passi per la selva perdi! »

Allor mi strinsi a l'ombra d'un bel faggio,
tutto pensoso; e rimirando intorno
vidi assai periglioso il mio viaggio:
e tornai in dietro quasi a mezzo 'l giorno.

 

LV
 

Quel foco ch' i' pensai che fosse spento
dal freddo tempo e da l'età men fresca,
fiamma e martir ne l'anima rinfresca.

Non fur mai tutte spente, a quel ch' i' veggio,
ma ricoperte alquanto le faville,
e temo no 'l secondo error sia peggio.
Per lagrime ch' i' spargo a mille a mille
conven che 'l duol per gli occhi si distille
dal cor ch'à seco le faville e l'esca;
non pur qual fu, ma pare a me che cresca.

Qual foco non avrian già spento e morto
l'onde che gli occhi tristi versan sempre?
Amor, avegna mi sia tardi accorto,
vol che tra duo contrari mi distempre;
e tende lacci in sí diverse tempre,
che, quand'ò piú speranza che 'l cor n'esca,
allor piú nel bel viso mi rinvesca.

 

LVI
 

Se col cieco desir che 'l cor distrugge,
contando l'ore no m'inganno io stesso,
ora, mentre ch'io parlo, il tempo fugge
ch' a me fu insieme ed a mercé promesso.

Qual ombra è sí crudel che 'l seme adugge
ch' al disiato frutto era sí presso?
e dentro dal mio ovil qual fera rugge?
tra la spiga e la man qual muro è messo?

Lasso, nol so, ma sí conosco io bene
che per far piú dogliosa la mia vita
Amor m'addusse in sí gioiosa spene:

ed or di quel ch' i' ò letto mi sovene,
che 'nanzi al dí de l'ultima partita
uom beato chiamar non si convene.

 

LVII
 

Mie venture al venir son tarde e pigre,
la speme incerta, e 'l desir monta e cresce,
onde e 'l lassare e l'aspettar m' incresce:
e poi al partir son piú levi che tigre.

Lasso, le nevi fien tepide e nigre,
e 'l mar senz' onda, e per l'alpe ogni pesce,
e corcherassi il sol là oltre ond'esce
d'un medesimo fonte Eufrate e Tigre;

prima ch' i' trovi in ciò pace né triegua,
o Amore o madonna altr'uso impari,
che m'ànno congiurato a torto incontra:

e s'i' ò alcun dolce, è dopo tanti amari,
che per disdegno il gusto si dilegua;
altro mai di lor grazie non m'incontra.

 

LVIII
 

La guancia che fu già piangendo stanca
riposate su l'un, signor mio caro,
e siate ormai di voi stesso piú avaro
a quel crudel che' suoi seguaci imbianca;

coll'altro richiudete da man manca
la strada a' messi suoi ch' indi passaro,
mostrandovi un d'agosto e di genaro,
perch' a la lunga via tempo ne manca;

e co 'l terzo bevete un suco d'erba
che purghe ogni pensier che 'l cor afflige,
dolce a la fine, e nel principio acerba.

Me riponete ove 'l piacer si serba,
tal ch' i' non tema del nocchier di Stige:
se la preghiera mia non è superba.

 

LIX
 

Perché quel che mi trasse ad amar prima,
altrui colpa mi toglia,
del mio fermo voler già non mi svoglia.

Tra le chiome de l'or nascose il laccio,
al qual mi strinse, Amore,
e da' begli occhi mosse il freddo ghiaccio,
che mi passò nel core
con la vertú d'un subito splendore,
che d'ogni altra sua voglia,
sol rimembrando, ancor l'anima spoglia.

Tolta m'è poi di que' biondi capelli,
lasso, la dolce vista,
e 'l volger de' duo lumi onesti e belli
col suo fuggir m'atrista:
ma perché ben morendo onor s'acquista,
per morte né per doglia
non vo' che da tal nodo Amor mi scioglia.

 

LX
 

L'arbor gentil che forte amai molt'anni,
mentre i bei rami non m' ebber a sdegno
fiorir faceva il mio debile ingegno
a la sua ombra, e crescer negli affanni.

Poi che, securo me di tali inganni,
fece di dolce sé spietato legno,
i' rivolsi i pensier' tutti ad un segno,
che parlan sempre de' lor tristi danni.

Che porà dir chi per amor sospira,
s'altra speranza le mie rime nove
gli avesser data, e per costei la perde?

Né poeta ne colga mai né Giove
la privilegi, ed al sol venga in ira,
tal che si secchi ogni sua foglia verde.

 

LXI
 

Benedetto sia 'l giorno e 'l mese e l'anno
e la stagione e 'l tempo e l'ora, e 'l punto
e 'l bel paese e 'l loco ov'io fui giunto
da' duo begli occhi che legato m'ànno;

e benedetto il primo dolce affanno
ch' i' ebbi ad esser con Amor congiunto,
e l'arco e le saette ond' i' fui punto,
e le piaghe che 'nfin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch' io
chiamando il nome de mia Donna ò sparte,
e i sospiri e le lagrime e 'l desio;

e benedette sian tutte le carte
ov' io fama l'acquisto, e 'l pensier mio,
ch' è sol di lei, sí ch' altra non v'à parte.

 

LXII
 

Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
dopo le notti vaneggiando spese
con quel fero desio ch' al cor s'accese,
mirando gli atti per mio mal sí adorni,

piacciati omai, col tuo lume, ch' io torni
ad altra vita e a piú belle imprese,
sí ch' avendo le reti indarno tese,
il mio duro avversario se ne scorni.

Or volge, Signor mio, l'undecimo anno
ch' i' fui sommesso al dispietato giogo
che sopra i piú soggetti è piú feroce:

miserere del mio non degno affanno;
reduci i pensier' vaghi a miglior luogo;
ramenta lor come oggi fusti in croce.

 

LXIII
 

Volgendo gli occhi al mio novo colore,
che fa di morte rimembrar la gente,
pietà vi mosse: onde, benignamente
salutando, teneste in vita il core.

La fraile vita, ch'ancor meco alberga,
fu de' begli occhi vostri aperto dono
e de la voce angelica soave;
da lor conosco l'esser ov' io sono;

che, come suol pigro animal per verga,
cosí destaro in me l'anima grave.
Del mio cor, Donna, l'una e l'altra chiave

avete in mano, e di ciò son contento,
presto di navigare a ciascun vento:
ch' ogni cosa da voi m' è dolce onore.

 

LXIV
 

Se voi poteste per turbati segni,
per chinar gli occhi o per piegar la testa,
o per esser piú d'altra al fuggir presta,
torcendo 'l viso a' preghi onesti e degni,

uscir già mai, o ver per altri ingegni,
del petto ove dal primo lauro innesta
Amor piú rami, i' direi ben che questa
fosse giusta cagione a' vostri sdegni:

ché gentil pianta in arido terreno
par che si disconvenga, e però lieta
naturalmente quindi si diparte;

ma, poi vostro destino a voi pur vieta
l'essere altrove, provedete almeno
di non star sempre in odiosa parte.

 

LXV
 

Lasso, che mal accorto fui da prima
nel giorno ch' a ferir mi venne Amore,
ch' a passo a passo è poi fatto signore
de la mia vita, e posto in su la cima.

Io non credea, per forza di sua lima,
che punto di fermezza o di valore
mancasse mai ne l'indurato core:
ma cosí va chi sopra 'l ver s'estima.

Da ora inanzi ogni difesa è tarda,
altra che di provar s'assai o poco
questi preghi mortali Amore sguarda.

Non prego già, né puote aver piú loco
che mesuratamente il mio cor arda;
ma che sua parte abbi costei del foco.

 

LXVI
 

L'aere gravato e l'importuna nebbia,
compressa intorno da rabbiosi venti,
tosto conven che si converta in pioggia;
e già son quasi di cristallo i fiumi,
e 'n vece de l'erbetta per le valli
non se ved'altro che pruine e ghiaccio.

Ed io nel cor via piú freddo che ghiaccio,
ò di gravi pensier' tal una nebbia,
qual si leva talor di queste valli,
serrate incontra agli amorosi venti
e circundate di stagnanti fiumi,
quando cade dal ciel piú lenta pioggia.

In picciol tempo passa ogni gran pioggia,
e 'l caldo fa sparir le nevi e 'l ghiaccio
di che vanno superbi in vista i fiumi;
né mai nascose il ciel sí folta nebbia,
che sopragiunta dal furor di venti
non fugisse dai poggi e da le valli.

Ma, lasso, a me non val fiorir de valli,
anzi piango al sereno ed a la pioggia,
ed a' gelati ed a' soavi venti:
ch'allor fia un dí Madonna senza 'l ghiaccio
dentro, e di for senza l'usata nebbia,
ch'io vedrò secco il mare e' laghi e i fiumi.

Mentre ch' al mar descenderanno i fiumi
e le fiere ameranno ombrose valli,
fia dinanzi a' begli occhi quella nebbia
che fa nascer d' i miei continua pioggia,
e nel bel petto l'indurato ghiaccio
che tra' del mio sí dolorosi venti.

Ben debbo io perdonare a tutti venti,
per amor d'un che 'n mezzo di duo fiumi
mi chiuse tra 'l bel verde e 'l dolce ghiaccio,
tal ch' i' depinsi poi per mille valli
l'ombra ov'io fui, ché né calor né pioggia
né suon curava di spezzata nebbia.

Ma non fuggío già mai nebbia per venti,
come quel dí, né mai fiumi per pioggia
né ghiaccio quando 'l sole apre le valli.

 

LXVII
 

Del mar tirreno a la sinistra riva,
dove rotte dal vento piangon l'onde,
subito vidi quella altera fronde
di cui conven che 'n tante carte scriva.

Amor, che dentro a l'anima bolliva,
per rimembranza de le treccie bionde
mi spinse, onde in un rio che l'erba asconde
caddi, non già come persona viva.

Solo ov'io era, tra boschetti e colli,
vergogna ebbi di me, ch'al cor gentile
basta ben tanto, ed altro spron non volli.

Piacemi almen d'aver cangiato stile
dagli occhi a' pie', se del lor esser molli
gli altri asciugasse un piú cortese aprile.

 

LXVIII
 

L'aspetto sacro de la terra vostra
mi fa del mal passato tragger guai,
gridando: « Sta' su, misero: che fai? »
e la via de salir al ciel mi mostra.

Ma con questo pensier un altro giostra,
e dice a me: « Perché fuggendo vai?
Se ti rimembra, il tempo passa omai
di tornar a veder la Donna nostra ».

I' che 'l suo ragionar intendo, allora
m' agghiaccio dentro, in guisa d' uom ch' ascolta
novella che di subito l'accora.

Poi torna il primo, e questo dà la volta:
qual vincerà, non so; ma 'nfino ad ora
combattuto ànno, e non pur una volta.

 

LXIX
 

Ben sapeva io che natural consiglio,
Amor, contra di te già mai non valse:
tanti lacciuol', tante impromesse false,
tanto provato avea 'l tuo fiero artiglio.

Ma novamente, ond'io mi meraviglio,
(diro 'l come persona a cui ne calse,
e che 'l notai là sopra a l'acque salse,
tra la riva toscana e l'Elba e Giglio)

i' fuggia le tue mani, e per camino,
agitandom' i venti e 'l ciel e l'onde,
m'andava sconosciuto e pellegrino:

quando ecco i tuoi ministri, i' non so donde,
per darmi a diveder ch' al suo destino
mal chi contrasta, e mal chi si nasconde.

 

LXX
 

Lasso me, ch' i' non so in qual parte pieghi
la speme ch' è tradita omai più volte!
Ché se non è chi con pietà m'ascolte,
perché sparger al ciel sí spessi preghi?
Ma s' egli aven ch' ancor non mi si nieghi
finir anzi 'l mio fine
queste voci meschine,
non gravi al mio signor perch'io il ripreghi
di dir libero un dí tra l'erba e i fiori:
« Drez et rayson es qu' ieu ciant e m' demori ».

Ragione è ben ch' alcuna volta io canti,
però ch' ò sospirato sí gran tempo
che mai non incomincio assai per tempo
per adequar col riso i dolor' tanti.
E s'io potesse far ch' agli occhi santi
porgesse alcun diletto
qualche dolce mio detto,
o me beato sopra gli altri amanti!
Ma piú quand'io dirò senza mentire:
« Donna mi priega, per ch' io voglio dire ».

Vaghi pensier' che cosí passo passo
scorto m'avete a ragionar tant' alto,
vedete che Madonna à 'l cor di smalto
sí forte ch'io per me dentro nol passo.
Ella non degna di mirar sí basso
che di nostre parole
curi, ché 'l ciel non vole,
al qual pur contrastando i' son già lasso:
onde come nel cor m'induro e 'naspro
« così nel mio parlar voglio esser aspro ».

Che parlo? o dove sono? e chi m'inganna
altri ch'io stesso e 'l desiar soverchio?
Già s' i'trascorro il ciel di cerchio in cerchio,
nessun pianeta a pianger mi condanna;
se mortal velo il mio veder appanna,
che colpa è de le stelle
o de le cose belle?
Meco si sta chi dí e notte m' affanna,
poi che del suo piacer mi fe' gir grave
« la dolce vista e 'l bel guardo soave ».

Tutte le cose di che 'l mondo è adorno
uscir buone de man del mastro eterno;
ma me, che cosí a dentro non discerno,
abbaglia il bel che mi si mostra intorno,
e s' al vero splendor già mai ritorno
l'occhio non pò star fermo:
cosí l'à fatto infermo
pur la sua propria colpa, e non quel giorno
ch' i' volsi in ver l'angelica beltade
« nel dolce tempo de la prima etade ».

 

LXXI
 

Perché la vita è breve
e l'ingegno paventa a l'alta impresa,
né di lui né di lei molto mi fido;
ma spero che sia intesa
là dov'io bramo e là dove esser deve
la doglia mia, la qual tacendo i' grido.
Occhi leggiadri, dove Amor fa nido,
a voi rivolgo il mio debile stile,
pigro da sé, ma 'l gran piacer lo sprona;
e chi di voi ragiona,
tien dal soggetto un abito gentile,
che con l'ale amorose
levando il parte d'ogni pensier vile:
con queste alzato vengo a dire or cose,
ch' ò portate nel cor gran tempo ascose.

Non perch' io non m'aveggia
quanto mia laude è 'ngiuriosa a voi;
ma contrastar non posso al gran desio,
lo quale è 'n me da poi
ch' i' vidi quel che pensier non pareggia,
non che l'avagli altrui parlar o mio.
Principio del mio dolce stato rio,
altri che voi so ben che non m'intende;
quando agli ardenti rai neve divegno,
vostro gentile sdegno
forse ch' allor mia indignitate offende.
Oh, se questa temenza
non temprasse l'arsura che m' incende,
beato venir men! ché 'n lor presenza
m' è più caro il morir che 'l viver senza.

Dunque, ch' i' non mi sfaccia
sí frale oggetto a sí possente foco,
non è proprio valor che me ne scampi;
ma la paura un poco,
che 'l sangue vago per le vene agghiaccia,
risalda 'l cor perché piú tempo avampi.
O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi,
o testimon de la mia grave vita,
quante volte m' udiste chiamar morte!
Ai dolorosa sorte!
lo star mi strugge e 'l fuggir non m' aita.
Ma se maggior paura
non m' affrenasse, via corta e spedita
trarrebbe a fin questa aspra pena e dura;
e la colpa è di tal che non à cura.

Dolor, perché mi meni
fuor di camin a dir quel ch' i' non voglio?
sostien ch' io vada ove 'l piacer mi spigne.
Già di voi non mi doglio,
occhi sopra 'l mortal corso sereni,
né di lui ch' a tal nodo mi distrigne;
vedete ben quanti color' depigne
Amor sovente in mezzo del mio volto,
e potrete pensar qual dentro fammi,
là 've dí e notte stammi
a dosso col poder ch' à in voi raccolto,
luci beate e liete,
se non che 'l veder voi stesse v'è tolto:
ma quante volte a me vi rivolgete,
conoscete in altrui quel che voi siete.

S'a voi fosse sí nota
la divina incredibile bellezza
di ch' io ragiono, come a chi la mira,
misurata allegrezza
non avria 'l cor: però forse è remota
dal vigor natural che v' apre e gira.
Felice l'alma che per voi sospira,
lumi del ciel, per li quali io ringrazio
la vita che per altro non m'è a grado.
Oimè, perché sí rado
mi date quel dond' io mai non son sazio?
perché non piú sovente
mirate qual Amor di me fa strazio?
e perché mi spogliate immantanente
del ben ch' ad ora ad or l' anima sente?

Dico ch' ad ora ad ora,
vostra mercede, i' sento in mezzo l'alma
una dolcezza inusitata e nova;
la qual ogni altra salma
di noiosi pensier' disgombra allora,
sí che di mille un sol vi si ritrova:
quel tanto a me, non piú, del viver giova.
E, se questo mio ben durasse alquanto,
nullo stato aguagliarse al mio porrebbe;
ma forse altrui farrebbe
invido, e me superbo, l'onor tanto;
però, lasso, convensi
che l'estremo del riso assaglia il pianto,
e 'nterrompendo quelli spirti accensi
a me ritorni, e di me stesso pensi.

L'amoroso pensero
ch' alberga dentro, in voi mi si discopre
tal che mi tra' del cor ogni altra gioia;
onde parole ed opre
escon di me sí fatte allor, ch' i' spero
farmi immortal, perché la carne moia.
Fugge al vostro apparire angoscia e noia,
e nel vostro partir tornano insieme;
ma perché la memoria innamorata
chiude lor poi l'entrata,
di là non vanno da le parti estreme.
Onde s' alcun bel frutto
nasce di me, da voi vien prima il seme;
io per me son quasi un terreno asciutto
colto da voi, e 'l pregio è vostro in tutto.

Canzon, tu non m' acqueti, anzi m'infiammi
a dir di quel ch' a me stesso m' invola:
però sia certa de non esser sola.

 

LXXII
 

Gentil mia donna, i' veggio
nel mover de' vostr'occhi un dolce lume
che mi mostra la via ch' al ciel conduce;
e per lungo costume,
dentro là dove sol con Amor seggio,
quasi visibilmente il cor traluce.
Questa è la vista ch' a ben far m' induce
e che mi scorge al glorioso fine;
questa sola dal vulgo m' allontana.
Né già mai lingua umana
contar poria quel che le due divine
luci sentir mi fanno,
e quando 'l verno sparge le pruine,
e quando poi ringiovenisce l'anno,
qual era al tempo del mio primo affanno.

Io penso: « Se là suso,
onde 'l motor eterno de le stelle
degnò mostrar del suo lavoro in terra,
son l'altr' opre sí belle,
aprasi la pregione ov' io son chiuso,
e che 'l camino a tal vita mi serra ».
Poi mi rivolgo a la mia usata guerra,
ringraziando natura e 'l dí ch'io nacqui,
che reservato m' ànno a tanto bene,
e lei ch' a tanta spene
alzò il mio cor; ché 'nsin allor io giacqui
a me noioso e grave;
da quel dí inanzi a me medesmo piacqui,
empiendo d'un pensier alto e soave
quel core ond' ànno i begli occhi la chiave.

Né mai stato gioioso
Amor o la volubile Fortuna
dieder a chi piú fur nel mondo amici,
ch' i' no 'l cangiassi ad una
rivolta d'occhi, ond' ogni mio riposo
vien come ogni arbor vien da sue radici.
Vaghe faville angeliche, beatrici
de la mia vita, ove 'l piacer s'accende
che dolcemente mi consuma e strugge,
come sparisce e fugge
ogni altro lume dove 'l vostro splende,
cosí de lo mio core,
quando tanta dolcezza in lui discende,
ogni altra cosa, ogni penser va fore,
e solo ivi con voi rimanse Amore.

Quanta dolcezza unquanco
fu in cor d'aventurosi amanti, accolta
tutta in un loco, a quel ch'i' sento è nulla,
quando voi alcuna volta
soavemente tra 'l bel nero e 'l bianco
volgete il lume in cui Amor si trastulla:
e credo da le fasce e da la culla
al mio imperfetto, a la fortuna avversa,
questo rimedio provedesse il cielo.
Torto mi face il velo,
e la man che sí spesso s'atraversa
fra 'l mio sommo diletto
e gli occhi, onde dí e notte si rinversa
il gran desio per isfogare il petto,
che forma tien dal variato aspetto.

Perch'io veggio, e mi spiace,
che natural mia dote a me non vale
né mi fa degno d'un sí caro sguardo,
sforzomi d'esser tale
qual a l'alta speranza si conface
ed al foco gentil ond'io tutto ardo.
S'al ben veloce, ed al contrario tardo,
dispregiator di quanto 'l mondo brama,
per solicito studio posso farme,
porrebbe forse aitarme
nel benigno iudicio una tal fama;
certo il fin de' miei pianti,
che non altronde il cor doglioso chiama,
ven da' begli occhi al fin dolce tremanti,
ultima speme de' cortesi amanti.

Canzon, l'una sorella è poco inanzi,
e l'altra sento in quel medesmo albergo
apparechiarsi: ond'io piú carta vergo.

 

LXXIII
 

Poi che per mio destino
a dir mi sforza quell'accesa voglia
che m'à sforzato a sospirar mai sempre,
Amor, ch'a ciò m'invoglia,
sia la mia scorta e 'nsignimi 'l camino,
e col desio le mie rime contempre;
ma non in guisa che lo cor si stempre
di soverchia dolcezza, com'io temo,
per quel ch'i' sento ov'occhio altrui non giugne:
ché 'l dir m' infiamma e pugne,
né per mi' 'ngegno, ond'io pavento e tremo,
sí come talor sòle,
trovo 'l gran foco de la mente scemo;
anzi mi struggo al suon de le parole
pur com'io fusse un uom di ghiaccio al sole.

Nel cominciar credia
trovar parlando al mio ardente desire
qualche breve riposo e qualche triegua;
questa speranza ardire
mi porse a ragionar quel ch' i' sentia;
or m'abbandona al tempo e si dilegua.
Ma pur conven che l'alta impresa segua
continuando l'amorose note,
sí possente è 'l voler che mi trasporta;
e la ragione è morta,
che tenea 'l freno, e contrastar no 'l pote.
Mostrimi almen ch'io dica
Amor in guisa che, se mai percote
gli orecchi de la dolce mia nemica,
non mia, ma di pietà la faccia amica.

Dico: « Se 'n quella etate
ch' al vero onor fur gli animi sí accesi,
l'industria d'alquanti uomini s'avolse
per diversi paesi,
poggi ed onde passando, e l'onorate
cose cercando, e 'l più bel fior ne colse:
poi che Dio e Natura e Amor volse
locar compitamente ogni virtute
in quei be' lumi, ond'io gioioso vivo,
questo e quell'altro rivo
non conven ch'i' trapasse, e terra mute ».
A lor sempre ricorro,
come a fontana d'ogni mia salute,
e quando a morte disiando corro
sol di lor vista al mio stato soccorro.

Come a forza di venti
stanco nocchier di notte alza la testa
a' duo lumi ch'à sempre il nostro polo,
cosí ne la tempesta
ch'i' sostengo d'amor, gli occhi lucenti
sono il mio segno e 'l mio conforto solo.
Lasso, ma troppo è piú quel ch'io ne 'nvolo
or quinci or quindi, come Amor m'informa,
che quel che ven da grazioso dono;
e quel poco ch'i' sono
mi fa di lor una perpetua norma:
poi ch'io li vidi in prima,
senza lor a ben far non mossi un'orma:
cosí gli ò di me posti in su la cima
che 'l mio valor per sé falso s'estima.

I' non poria già mai
imaginar, non che narrar, gli effetti
che nel mio cor gli occhi soavi fanno;
tutti gli altri diletti
di questa vita ò per minori assai,
e tutte altre bellezze indietro vanno.
Pace tranquilla senza alcuno affanno,
simile a quella ch'è nel ciel eterna,
move da lor inamorato riso.
Cosí vedess'io fiso
come Amor dolcemente gli governa,
sol un giorno da presso,
senza volger già mai rota superna,
né pensasse d' altrui né di me stesso,
e 'l batter gli occhi miei non fosse spesso!

Lasso, che disiando
vo quel ch'esser non puote in alcun modo,
e vivo del desir fuor di speranza.
Solamente quel nodo
ch'Amor cerconda a la mia lingua, quando
l'umana vista il troppo lume avanza,
fosse disciolto, i' prenderei baldanza
di dir parole in quel punto sí nove,
che farian lagrimar chi le 'ntendesse;
ma le ferite impresse
volgon per forza il cor piagato altrove;
ond' io divento smorto
e 'l sangue si nasconde i' non so dove,
né rimango qual era, e sonmi accorto
che questo è 'l colpo di che Amor m'à morto.

Canzone, i' sento già stancar la penna
del lungo e del dolce ragionar co lei,
ma non di parlar meco i pensier' mei.

 

LXXIV
 

Io son già stanco di pensar sí come
i miei pensier' in voi stanchi non sono,
e come vita ancor non abbandono
per fuggir de' sospir' sí gravi some;

e come a dir del viso e de le chiome
e de' begli occhi ond' io sempre ragiono
non è mancata omai la lingua e 'l suono,
dí e notte chiamando il vostro nome;

e che' pie' non son fiaccati e lassi
a seguir l'orme vostre in ogni parte
perdendo inutilmente tanti passi;

ed onde vien l'enchiostro, onde le carte
ch'i' vo empiendo di voi; se 'n ciò fallassi,
colpa d' Amor, non già defetto d' arte.

 

LXXV
 

I begli occhi ond' i' fui percosso in guisa
ch' e' medesmi porian saldar la piaga,
e non già vertú d' erbe o d'arte maga
o di pietra dal mar nostro divisa,

m'ànno la via sí d'altro amor precisa
ch' un sol dolce penser l'anima appaga;
e, se la lingua di seguirlo è vaga,
la scorta pò, non ella, esser derisa.

Questi son que' begli occhi che l'imprese
del mio signor vittoriose fanno
in ogni parte, e piú sovra 'l mio fianco;

questi son que' begli occhi che mi stanno
sempre nel cor colle faville accese:
perch'io di lor parlando non mi stanco.

 

LXXVI
 

Amor con sue promesse lusingando
mi ricondusse a la prigione antica,
e diè le chiavi a quella mia nemica
ch' ancor me di me stesso tene in bando.

Non me n' avidi, lasso, se non quando
fui in lor forza, ed or con gran fatica
(chi 'l crederà, perché giurando i' 'l dica?)
in libertà ritorno sospirando;

e come vero pregioniero afflitto
de le catene mie gran parte porto,
e 'l cor negli occhi e ne la fronte ò scritto.

Quando sarai del mio colore accorto,
dirai: « S' i' guardo e giudico ben dritto,
questi avea poco andare ad esser morto ».

 

LXXVII
 

Per mirar Policleto a prova fiso,
con gli altri ch' ebber fama di quell'arte,
mill' anni, non vedrian la minor parte
della beltà che m'ave il cor conquiso;

ma certo il mio Simon fu in paradiso,
onde questa gentil donna si parte;
ivi la vide e la ritrasse in carte,
per far fede qua giú del suo bel viso.

L' opra fu ben di quelle che nel cielo
si ponno imaginar, non qui tra noi,
ove le membra fanno a l' alma velo.

Cortesia fe', né la potea far poi
che fu disceso a provar caldo e gelo,
e del mortal sentiron gli occhi suoi.

 

LXXVIII
 

Quando giunse a Simon l' alto concetto
ch' a mio nome gli pose in man lo stile,
s' avesse dato a l'opera gentile
colla figura voce ed intelletto,

di sospir' molti mi sgombrava il petto
che ciò ch' altri à piú caro, a me fan vile,
però che 'n vista ella si mostra umile
promettendomi pace ne l' aspetto.

Ma, poi ch' i' vengo a ragionar co lei,
benignamente assai par che m' ascolte:
se risponder savesse a' detti miei!

Pigmalion, quanto lodar ti dei
de l'imagine tua, se mille volte
n' avesti quel ch' i' sol una vorrei!

 

LXXIX
 

S' al principio risponde il fine e 'l mezzo
del quartodecimo anno ch' io sospiro,
piú non mi pò scampar l'aura né 'l rezzo,
sí crescer sento 'l mio ardente desiro.

Amor, con cui pensier mai non amezzo,
sotto 'l cui giogo già mai non respiro,
tal mi governa ch' i' non son già mezzo,
per gli occhi ch' al mio mal sí spesso giro.

Cosí mancando vo di giorno in giorno,
sí chiusamente ch' i' sol me n' accorgo
e quella che guardando il cor mi strugge.

A pena infin a qui l'anima scorgo,
né so quanto fia meco il mio soggiorno;
ché la morte s' appressa e 'l viver fugge.

 

LXXX
 

Chi è fermato di menar sua vita
su per l' onde fallaci e per li scogli,
scevro da morte, con un picciol legno,
non pò molto lontan esser dal fine:
però sarrebbe da ritrarsi in porto
mentre al governo ancor crede la vela.

L'aura soave, a cui governo e vela
commisi entrando a l' amorosa vita
e sperando venire a miglior porto,
poi mi condusse in piú di mille scogli;
e le cagion del mio doglioso fine
non pur dintorno avea, ma dentro al legno.

Chiuso gran tempo in questo cieco legno
errai, senza levar occhio a la vela,
ch' anzi al mio dí mi trasportava al fine;
poi piacque a lui che mi produsse in vita
chiamarme tanto indietro da li scogli,
ch' almen da lunge m' apparisse il porto.

Come lume di notte in alcun porto
vide mai d' alto mar nave né legno,
se non gliel tolse o tempestate o scogli,
cosí di su da la gonfiata vela
vid' io le 'nsegne di quell'altra vita:
ed allor sospirai verso 'l mio fine.

Non perch' io sia securo ancor del fine:
ché volendo col giorno esser a porto
è gran viaggio in cosí poca vita;
poi temo, ché mi veggio in fraile legno,
e piú che non vorrei piena la vela
del vento che mi pinse in questi scogli.

S' io esca vivo de' dubbiosi scogli
ed arrive il mio esilio ad un bel fine,
ch'i' sarei vago di voltar la vela,
e l'ancore gittar in qualche porto!
Se non ch' i' ardo come acceso legno,
sí m'è duro a lassar l' usata vita.

Signor de la mia fine e de la vita,
prima ch' i' fiacchi il legno tra li scogli
drizza a buon porto l' affannata vela.

 

LXXXI
 

Io son sí stanco sotto 'l fascio antico
de le mie colpe e de l'usanza ria
ch' i' temo forte di mancar tra via
e di cader in man del mio nemico.

Ben venne a dilivrarmi un grande amico,
per somma e ineffabil cortesia;
poi volò fuor de la veduta mia
sí ch'a mirarlo indarno m'affatico.

Ma la sua voce ancor qua giú rimbomba:
« O voi che travagliate, ecco 'l camino;
venite a me, se 'l passo altri non serra ».

Qual grazia, qual amore o qual destino
mi darà penne in guisa di colomba,
ch' i' mi riposi e levimi da terra?

 

LXXXII
 

Io non fu' d' amar voi lassato unquanco,
Madonna, né sarò mentre ch' io viva;
ma d'odiar me medesmo giunto a riva
e del continuo lagrimar so' stanco,

e voglio anzi un sepolcro bello e bianco,
che 'l vostro nome a mio danno si scriva
in alcun marmo, ove di spirto priva
sia la mia carne, che pò star seco anco.

Però, s' un cor pien d' amorosa fede
può contentarve, senza farne stracio,
piacciavi omai di questo aver mercede;

se 'n altro modo cerca d' esser sacio
vostro sdegno, erra, e non fia quel che crede:
di che Amor e me stesso assai ringracio.

 

LXXXIII
 

Se bianche non son prima ambe le tempie
ch' a poco a poco par che 'l tempo mischi,
securo non sarò, ben ch'io m' arrischi
talor ov' Amor l' arco tira ed empie.

Non temo già che piú mi strazi o scempie,
né mi ritenga, perch' ancor m' invischi,
né m' apra il cor, perché di fuor l'incischi
con sue saette velenose ed empie.

Lagrime omai da gli occhi uscir non ponno,
ma di gire infin là sanno il viaggio
sí ch' a pena fia mai chi 'l passo chiuda;

ben mi pò riscaldare il fiero raggio,
non sí ch' i' arda, e può turbarmi il sonno,
ma romper no, l'imagine aspra e cruda.

 

LXXXIV
 

« Occhi piangete; accompagnate il core,
che di vostro fallir morte sostene ».
« Cosí sempre facciamo; e ne convene
lamentar piú l'altrui che 'l nostro errore ».

« Già prima ebbe per voi l'entrata Amore
là onde ancor come in suo albergo vene ».
« Noi gli aprimmo la via per quella spene
che mosse d'entro da colui che more ».

« Non son, come a voi par, le ragion pari,
ché pur voi foste ne la prima vista
del vostro e del suo mal cotanto avari ».

« Or questo è quel che piú ch' altro n'atrista;
che' perfetti giudicii son sí rari
e d' altrui colpa altrui biasmo s' acquista ».

 

LXXXV
 

Io amai sempre, ed amo forte ancora,
e son per amar piú di giorno in giorno
quel dolce loco, ove piangendo torno
spesse fiate, quando Amor m'accora.

E son fermo d'amare il tempo e l'ora
ch' ogni vil cura mi levar dintorno,
e più colei, lo cui bel viso adorno
di ben far co' suoi essempli m'innamora.

Ma chi pensò veder mai tutti insieme,
per assalirmi il core or quindi or quinci,
questi dolci nemici, ch' i' tant' amo?

Amor, con quanto sforzo oggi mi vinci!
e se non ch' al desio cresce la speme,
i' cadrei morto, ove più viver bramo.

 

LXXXVI
 

Io avrò sempre in odio la fenestra
onde Amor m' aventò già mille strali,
perch'alquanti di lor non fur mortali:
ch' è bel morir mentre la vita è destra.

Ma 'l sovrastar ne la pregion terrestra
cagion m' è, lasso, d' infiniti mali,
e piú mi duol che fien meco immortali,
poi che l'alma dal cor non si scapestra.

Misera, che devrebbe esser accorta
per lunga esperienzia omai, che 'l tempo
non è chi 'ndietro volga o chi l'affreni!

Piú volte l'ò con ta' parole scorta:
« Vattene, trista, ché non va per tempo
chi dopo lassa i suoi dí piú sereni ».

 

LXXXVII
 

Sí tosto come aven che l'arco scocchi,
buon sagittario di lontan discerne
qual colpo è da sprezzare e qual d'averne
fede ch' al destinato segno tocchi;

similmente il colpo de' vostr' occhi,
Donna, sentiste a le mie parti interne
dritto passare, onde conven ch'eterne
lagrime per la piaga il cor trabocchi;

e certo son che voi diceste allora:
« Misero amante! a che vaghezza il mena?
Ecco lo strale onde Amor vol ch'e' mora ».

Ora, veggendo come 'l duol m' affrena,
quel che mi fanno i miei nemici ancora
non è per morte, ma per piú mia pena.

 

LXXXVIII
 

Poi che mia speme è lunga a venir troppo,
e de la vita il trappassar sí corto,
vorreimi a miglior tempo esser accorto
per fuggir dietro piú che di galoppo;

e fuggo ancor cosí debile e zoppo
da l'un de' lati, ove 'l desio m'à storto,
securo omai, ma pur nel viso porto
segni ch' i' ò presi a l'amoroso intoppo.

Ond' io consiglio: « Voi che siete in via,
volgete i passi, e voi ch'Amore avampa
non v' indugiate su l'estremo ardore:

ché, perch' io viva, de mille un no scampa.
Era ben forte la nemica mia,
e lei vid' io ferita in mezzo 'l core! »

 

LXXXIX
 

Fuggendo la pregione ove Amor m' ebbe
molt' anni a far di me quel ch' a lui parve,
donne mie, lungo fora a ricontarve
quanto la nova libertà m' increbbe.

Diceami il cor che per sé non saprebbe
viver un giorno, e poi tra via m' apparve
quel traditore in sí mentite larve
che piú saggio di me inganato avrebbe.

Onde piú volte sospirando indietro,
dissi: « Oimè, il giogo e le catene e i ceppi
eran piú dolci che l'andare sciolto;

misero me, che tardo il mio mal seppi,
e con quanta fatica oggi mi spetro
de l'errore, ov'io stesso m' era involto! »

 

XC
 

Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi ch'or ne son sí scarsi;

e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di súbito arsi?

Non era l'andar suo cosa mortale
ma d'angelica forma, e le parole
sonavan altro che pur voce umana;

uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch' i' vidi; e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.

 

XCI
 

La bella donna che cotanto amavi
subitamente s' è da noi partita,
e, per quel ch' io ne speri, al ciel salita,
sí furon gli atti suoi dolci soavi.

Tempo è da ricovrare ambe le chiavi
del tuo cor, ch' ella possedeva in vita,
e seguir lei per via dritta espedita:
peso terren non sia piú che t' aggravi.

Poi che se' sgombro de la maggior salma,
l'altre puoi giuso agevolmente porre,
salendo quasi un pellegrino scarco:

ben vedi omai sí come a morte corre
ogni cosa creata, e quanto a l' alma
bisogna ir lieve al periglioso varco.

 

XCII
 

Piangete, donne, e con voi pianga Amore,
piangete, amanti, per ciascun paese,
poi ch' è morto collui che tutto intese
in farvi mentre visse al mondo onore.

Io per me prego il mio acerbo dolore,
non sian da lui le lagrime contese,
e mi sia di sospir' tanto cortese
quanto bisogna a disfogare il core.

Piangan le rime ancor, piangano i versi,
perché 'l nostro amoroso messer Cino
novellamente s' è da noi partito.

Pianga Pistoia e i cittadin' perversi,
che perduto ànno sí dolce vicino;
e rallegresi il cielo, ov'ello è gito.

 

XCIII
 

Più volte Amor m' avea già detto: « Scrivi,
scrivi quel che vedesti in lettre d'oro,
sí come i miei seguaci discoloro,
e 'n un momento gli fo morti e vivi;

un tempo fu che 'n te stesso 'l sentivi
volgare essemplo a l'amoroso coro;
poi di man mi ti tolse altro lavoro;
ma già ti raggiuns' io mentre fuggivi:

e se' begli occhi ond' io me ti mostrai
e là dove era il mio dolce ridutto
quando ti ruppi al cor tanta durezza,

mi rendon l'arco ch' ogni cosa spezza,
forse non avrai sempre il viso asciutto:
ch' i' mi pasco di lagrime, e tu 'l sai ».

 

XCIV
 

Quando giugne per gli occhi al cor profondo
l'imagin donna, ogni altra indi si parte,
e le vertú che l'anima comparte
lascian le menbra, quasi immobil pondo;

e del primo miracolo il secondo
nasce talor, ché la scacciata parte,
da se stessa fuggendo, arriva in parte
che fa vendetta e 'l suo essilio giocondo;

quinci in duo volti un color morto appare,
perché 'l vigor che vivi gli mostrava
da nessun lato è piú là dove stava.

E di questo in quel dí mi ricordava,
ch' i' vidi duo amanti trasformare
e far qual io mi soglio in vista fare.

 

XCV
 

Cosí potess'io ben chiudere in versi
i miei pensier' come nel cor gli chiudo,
ch' animo al mondo non fu mai sí crudo
ch' i' non facessi per pietà dolersi.

Ma voi, occhi beati, ond' io soffersi
quel colpo ove non valse elmo né scudo,
di for e dentro mi vedete ignudo,
ben che 'n lamenti il duol non si riversi.

Poi che vostro vedere in me risplende
come raggio di sol traluce in vetro,
basti dunque il desio, senza ch' io dica.

Lasso, non a Maria, non nocque a Pietro
la fede ch' a me sol tanto è nemica:
e so ch' altri che voi nessun m' intende.

 

XCVI
 

Io son de l'aspettar omai sí vinto
e de la lunga guerra de' sospiri,
ch' i' aggio in odio la speme e i desiri
ed ogni laccio ond'è 'l mio core avinto.

Ma 'l bel viso leggiadro, che depinto
porto nel petto e veggio ove ch' io miri,
mi sforza; onde ne' primi empi martiri
pur son contra mia voglia risospinto.

Allor errai quando l'antica strada
di libertà mi fu precisa e tolta,
ché mal si segue ciò ch' agli occhi agrada;

allor corse al suo mal libera e sciolta,
ora a posta d' altrui conven che vada
l'anima che peccò sol una volta.

 

XCVII
 

Ai, bella libertà, come tu m' ài,
partendoti da me, mostrato quale
era 'l mio stato quando il primo strale
fece la piaga ond' io non guerrò mai!

Gli occhi invaghiro allor sí de' lor guai
che 'l fren de la ragione ivi non vale,
perch' ànno a schifo ogni opera mortale:
lasso, cosí da prima gli avezzai!

Né mi lece ascoltar chi non ragiona
de la mia morte; e solo del suo nome
vo empiendo l'aere, che sí dolce sona;

Amor in altra parte non mi sprona,
né i pie' sanno altra via né le man come
lodar si possa in carte altra persona.

 

XCVIII
 

Orso, al vostro destrier si pò ben porre
un fren che di suo corso indietro il volga,
ma 'l cor chi legherà che non si sciolga,
se brama onore e 'l suo contrario aborre?

Non sospirate: a lui non si pò torre
suo pregio, perch' a voi l'andar si tolga,
ché, come fama publica divolga,
egli è già là, ché null' altro il precorre;

basti che si ritrove in mezzo 'l campo
al destinato dí, sotto quell'arme
che gli dà il tempo, amor, vertute e 'l sangue,

gridando: « D' un gentil desire avampo
col signor mio, che non pò seguitarme,
e del non esser qui si strugge e langue ».

 

XCIX
 

Poi che voi ed io piú volte abbiam provato
come 'l nostro sperar torna fallace,
dietro a quel sommo ben che mai non spiace
levate il core a piú felice stato.

Questa vita terrena è quasi un prato,
che 'l serpente tra' fiori e l'erba giace,
e s' alcuna sua vista agli occhi piace,
è per lassar piú l' animo invescato.

Voi dunque, se cercate aver la mente
anzi l' estremo dí queta già mai,
seguite i pochi, e non la volgar gente.

Ben si può dire a me: « Frate, tu vai
mostrando altrui la via, dove sovente
fosti smarrito, ed or se' piú che mai ».

 

C
 

Quella fenestra ove l' un sol si vede
quando a lui piace, e l'altro in su la nona;
e quella dove l' aere freddo suona
ne' brevi giorni, quando borrea 'l fiede;

e 'l sasso ove a' gran dí pensosa siede
Madonna, e sola seco si ragiona;
con quanti luoghi sua bella persona
coprí mai d'ombra o disegnò col piede;

e 'l fiero passo ove m' agiunse Amore,
e la nova stagion che d' anno in anno
mi rinfresca in quel dí l' antiche piaghe;

e 'l volto e le parole che mi stanno
altamente confitte in mezzo 'l core,
fanno le luci mie di pianger vaghe.

 

CI
 

Lasso, ben so che dolorose prede
di noi fa quella ch' a nullo uom perdona,
e che rapidamente n' abandona
il mondo, e picciol tempo ne tien fede.

Veggio a molto languir poca mercede,
e già l'ultimo dí nel cor mi tuona:
per tutto questo Amor non mi spregiona,
che l'usato tributo agli occhi chiede.

So come i dí, come i momenti e l' ore
ne portan gli anni, e non ricevo inganno,
ma forza assai maggior che d' arti maghe.

La voglia e la ragion combattuto ànno
sette e sette anni; e vincerà il migliore,
s' anime son qua giú del ben presaghe.

 

CII
 

Cesare, poi che 'l traditor d' Egitto
li fece il don de l' onorata testa,
celando l' allegrezza manifesta,
pianse per gli occhi fuor, sí come è scritto;

e Anibàl, quando a l'imperio afflitto
vide farsi Fortuna sí molesta,
rise fra gente lagrimosa e mesta,
per isfogare il suo acerbo despitto;

e cosí aven che l'animo ciascuna
sua passion sotto 'l contrario manto
ricopre co la vista or chiara or bruna.

Però s' alcuna volta io rido o canto,
facciol perch' i' non ò se non quest' una
via da celare il mio angoscioso pianto.

 

CIII
 

Vinse Anibal, e non seppe usar poi
ben la vittoriosa sua ventura;
però, signor mio caro, aggiate cura
che similmente non avegna a voi.

L'orsa, rabbiosa per gli orsacchi suoi
che trovaron di maggio aspra pastura,
rode sé dentro e i denti e l' unghie endura
per vendicar suoi danni sopra noi.

Mentre 'l novo dolor dunque l'accora,
non riponete l' onorata spada;
anzi seguite là dove vi chiama

vostra fortuna dritto per la strada,
che vi può dar, dopo la morte ancora
mille e mille anni, al mondo onor e fama.

 

CIV
 

L'aspettata vertù che 'n voi fioriva
quando Amor cominciò darvi bataglia,
produce or frutto, che quel fiore aguaglia
e che mia speme fa venire a riva.

Però mi dice il cor ch'io in carte scriva
cosa onde 'l vostro nome in pregio saglia,
ché 'n nulla parte sí saldo s'intaglia
per far di marmo una persona viva.

Credete voi che Cesare o Marcello
o Paolo od Affrican fossin cotali
per incude già mai né per martello?

Pandolfo mio, quest'opere son frali
al lungo andar, ma 'l nostro studio è quello
che fa per fama gli uomini immortali.

 

CV
 

Mai non vo' piú cantar com'io soleva,
ch'altri no m'intendeva: ond' ebbi scorno;
e puossi in bel soggiorno esser molesto.
Il sempre sospirar nulla releva.
Già su per l'alpi neva d'ogn'intorno;
e è già presso al giorno, ond'io son desto.
Un atto dolce onesto è gentil cosa,
ed in donna amorosa ancor m'aggrada
che 'n vista vada altera e disdegnosa,
non superba e ritrosa:
Amor regge suo imperio senza spada.
Chi smarrita à la strada torni indietro;
chi non à albergo posisi in sul verde;
chi non à l'auro o 'l perde,
spenga la sete sua con un bel vetro.

I' diè in guarda a san Pietro: or non piú, no;
intendami chi pò, ch'i' m' intend' io.
Grave soma è un mal fio a mantenerlo;
quanto posso mi spetro, e sol mi sto.
Fetonte odo che 'n Po cadde e morio:
e già di là dal rio passato è 'l merlo.
Deh, venite a vederlo. Or i' non voglio:
non è gioco uno scoglio in mezzo l' onde,
e 'ntra le fronde il visco. Assai mi doglio
quando un soverchio orgoglio
molte vertuti in bella donna asconde.
Alcun è che risponde a chi no 'l chiama;
altri, chi 'l prega, si delegua e fugge;
altri al ghiaccio si strugge;
altri dí e notte la sua morte brama.

Proverbio « ama chi t' ama» è fatto antico.
I' so ben quel ch' io dico: or lass' andare;
ché conven ch' altri impare a le sue spese.
Un'umil donna grama un dolce amico;
mal si conosce il fico; a me pur pare
senno a non cominciar tropp' alte imprese:
e per ogni paese è bona stanza.
L' infinita speranza occide altrui,
ed anch' io fui alcuna volta in danza.
Quel poco che m' avanza
fia chi no 'l schifi, s' i' 'l vo' dare a lui.
I' mi fido in colui che 'l mondo regge
e che' seguaci suoi nel bosco alberga,
che con pietosa verga
mi meni a passo omai tra le sue gregge.

Forse ch' ogni uom che legge non s' intende,
e la rete tal tende che non piglia;
e chi troppo assotiglia si scavezza.
Non fia zoppa la legge ov' altri attende.
Per bene star si scende molte miglia.
Tal par gran meraviglia, e poi si sprezza;
una chiusa bellezza è piú soave.
Benedetta la chiave che s' avvolse
al cor, e sciolse l' alma, e scossa l'ave
di catena sí grave,
e 'nfiniti sospir' del mio sen tolse!
Là dove piú mi dolse, altri si dole,
e dolendo adolcisse il mio dolore:
ond'io ringrazio Amore
che piú no 'l sento, ed è non men che suole.

In silenzio parole accorte e sagge,
e 'l suon che mi sottragge ogni altra cura,
e la pregione oscura ov' è 'l bel lume;
le notturne viole per le piagge,
e le le fere selvagge entr' a le mura,
e la dolce paura e 'l bel costume,
e di duo fonti un fiume, in pace vòlto
dov' io bramo, e raccolto ove che sia,
amor e gelosia m' ànno il cor tolto;
e i segni del bel volto
che mi conducon per piú piana via
a la speranza mia al fin degli affanni.
O riposto mio bene, e quel che segue,
or pace or guerra or triegue,
mai non m'abbandonate in questi panni.

De' passati miei danni piango e rido,
perché molto mi fido in quel ch' i' odo;
del presente mi godo e meglio aspetto,
e vo contando gli anni, e taccio e grido;
e 'n bel ramo m' annido ed in tal modo,
ch' i' ne ringratio e lodo il gran disdetto
che l'indurato affetto alfine à vinto,
e ne l'alma depinto: « I sare' udito
e mostratone a dito », e ànne estinto
(tanto inanzi son pinto
ch' i' 'l pur dirò): « Non fostú tant' ardito! »,
chi m'à 'l fianco ferito e chi 'l risalda
per cui nel cor via piú che 'n carta scrivo,
chi mi fa morto e vivo,
chi 'n un punto m'agghiaccia e mi riscalda.

 

CVI
 

Nova angeletta sovra l' ale accorta
scese dal cielo in su la fresca riva
là 'nd'io passava sol per mio destino.

Poi che senza compagna e senza scorta
mi vide, un laccio che di seta ordiva
tese fra l'erba ond' è verde il camino.

Allor fui preso, e non mi spiacque poi,
sí dolce lume uscìa degli occhi suoi.

 

CVII
 

Non veggio ove scampar mi possa omai,
sí lunga guerra i begli occhi mi fanno,
ch' i' temo, lasso, no 'l soverchio affanno
distruga 'l cor che triegua non à mai.

Fuggir vorrei, ma gli amorosi rai,
che dí e notte ne la mente stanno,
risplendon sí ch' al quintodecimo anno
m'abbaglian piú che 'l primo giorno assai;

e l' imagine lor son sí cosparte,
che volver non mi posso ov'io non veggia
o quella o simil indi accesa luce.

Solo d'un lauro tal selva verdeggia,
che 'l mio avversario con mirabil arte
vago fra i rami, ovunque vuol, m'adduce.

 

CVIII
 

Aventuroso piú d'altro terreno,
ov' Amor vidi già fermar le piante,
ver' me volgendo quelle luci sante
che fanno intorno a sé l'aere sereno,

prima poria per tempo venir meno
un' imagine salda di diamante,
che l'atto dolce non mi stia davante,
del qual ò la memoria e 'l cor sí pieno;

né tante volte ti vedrò già mai,
ch' i' non m' inchini a ricercar de l'orme
che 'l bel piè fece in quel cortese giro.

Ma se 'n cor valoroso Amor non dorme,
prega Sennuccio mio, quand 'l vedrai,
di qualche lagrimetta, o d' un sospiro.

 

CIX
 

Lasso, quante fiate Amor m' assale,
che fra la notte e 'l dí son piú di mille,
torno dov' arder vidi le faville
che 'l foco del mio cor fanno immortale.

Ivi m' acqueto e son condotto a tale,
ch' a nona, a vespro, a l'alba ed a le squille
le trovo nel pensier tanto tranquille
che di null'altro mi rimembra o cale.

L' aura soave che dal chiaro viso
move col suon de le parole accorte
per far dolce sereno ovunque spira,

quasi un spirto gentil di paradiso
sempre in quell' aere par che mi conforte,
sí che 'l cor lasso altrove non respira.

 

CX
 

Persequendomi Amor al luogo usato,
ristretto in guisa d' uom ch' aspetta guerra,
che si provede e i passi intorno serra,
de' miei antichi pensier' mi stava armato.

Volsimi e vidi un' ombra che da lato
stampava il sole, e riconobbi in terra
quella che se 'l giudicio mio non erra
era piú degna d' immortale stato.

I' dicea fra mio cor: « Perché paventi? »
ma non fu prima dentro il penser giunto,
che i raggi, ov'io mi struggo, eran presenti:

come col balenar tona in un punto,
cosí fu' io de' begli occhi lucenti
e d'un dolce saluto inseme aggiunto.

 

CXI
 

La Donna che 'l mio cor nel viso porta,
là dove sol fra bei pensier' d' amore
sedea, m'apparve; ed io per farle onore
mossi con fronte reverente e smorta.

Tosto che del mio stato fussi accorta,
a me si volse in sí novo colore,
ch' avrebbe a Giove nel maggior furore
tolto l' arme di mano, e l' ira morta.

I' mi riscossi; ed ella oltra, parlando,
passò, che la parola i' non soffersi,
né 'l dolce sfavillar degli occhi suoi.

Or mi ritrovo pien di sí diversi
piaceri, in quel saluto ripensando,
che duol non sento, né sentí ma' poi.

 

CXII
 

Sennuccio, i' vo' che sapi in qual manera
trattato sono e qual vita è la mia:
ardomi e struggo ancor com' io solia,
l'aura mi volve, e son pur quel ch' i' m' era.

Qui tutta umile e qui la vidi altera,
or aspra, or piana, or dispietata, or pia;
or vestirsi onestate, or leggiadria,
or mansueta, or disdegnosa e fera.

Qui cantò dolcemente, e qui s' assise,
qui si rivolse, e qui rattenne il passo,
qui co' begli occhi mi trafisse il core;

qui disse una parola, e qui sorrise,
qui cangiò il viso. In questi pensier', lasso,
notte e dí tiemmi il signor nostro Amore.

 

CXIII
 

Qui dove mezzo son, Sennuccio mio,
(cosí ci foss' io intero, e voi contento)
venni fuggendo la tempesta e 'l vento
ch' ànno súbito fatto il tempo rio.

Qui son securo, e vo' vi dir perch' io
non come soglio il folgorar pavento;
e perché mitigato non che spento,
né mica trovo il mio ardente desio.

Tosto che giunto a l' amorosa reggia
vidi onde nacque l' aura dolce e pura
ch' acqueta l' aere e mette i tuoni in bando,

Amor ne l'alma, ov' ella signoreggia,
raccese 'l foco e spense la paura:
che farei dunque gli occhi suoi guardando?

 

CXIV
 

De l' empia Babilonia ond' è fuggita
ogni vergogna, ond' ogni bene è fori,
albergo di dolor, madre d' errori,
son fuggito io per allungar la vita.

Qui mi sto solo; e come Amor m' invita
or rime e versi, or colgo erbette e fiori,
seco parlando, ed a tempi migliori
sempre pensando; e questo sol m' aita.

Né del vulgo mi cal né di fortuna,
né di me molto né di cosa vile,
né dentro sento né di fuor gran caldo;

sol due persone cheggio, e vorrei l' una
col cor ver' me pacificato umile,
l' altro col piè, sí come mai fu, saldo.

 

CXV
 

In mezzo di duo amanti onesta altera
vidi una donna, e quel signor co lei
che fra gli uomini regna e fra li dei;
e da l' un lato il sole, io da l'altro era.

Poi che s' accorse chiusa da la spera
de l' amico piú bello, a gli occhi miei
tutta lieta si volse, e ben vorrei
che mai non fosse inver' di me piú fera.

Súbito in alleggrezza si converse
la gelosia che 'n su la prima vista
per sí alto avversario al cor mi nacque.

A lui la faccia lagrimosa e trista
un nuviletto intorno ricoverse:
cotanto l' esser vinto li dispiacque!

 

CXVI
 

Pien di quella ineffabile dolcezza
che del bel viso trassen gli occhi miei
nel dí che volentier chiusi gli avrei
per non mirar già mai minor bellezza,

lassai quel ch' i' piú bramo, ed ò sí avezza
la mente a contemplar sola costei,
ch' altro non vede, e ciò che non è lei
già per antica usanza odia e disprezza.

In una valle chiusa d' ogn' intorno,
ch'è refrigerio de' sospir' miei lassi,
giunsi sol con Amor, pensoso e tardo;

ivi non donne, ma fontane e sassi,
e l' imagine trovo di quel giorno
che 'l pensier mio figura, ovunque io sguardo.

 

CXVII
 

Se 'l sasso ond' è piú chiusa questa valle,
di che 'l suo proprio nome si deriva,
tenesse volto per natura schiva
a Roma il viso ed a Babel le spalle,

i miei sospiri piú benigno calle
avrian per gire ove lor spene è viva;
or vanno sparsi, e pur ciascuno arriva
là dov' io il mando, ché sol un non falle;

e son di là sí dolcemente accolti,
com' io m' accorgo, che nessun mai torna:
con tal diletto in quelle parti stanno.

De gli occhi è 'l duol; che, tosto che s' aggiorna,
per gran desio de' be' luoghi a lor tolti,
dànno a me pianto, ed a' pie' lassi affanno.

 

CXVIII
 

Rimansi a dietro il sestodecimo anno
de' miei sospiri, ed io trapasso inanzi
verso l' estremo; e parmi che pur dianzi
fosse 'l principio di cotanto affanno.

L'amar m' è dolce, ed util il mio danno,
e 'l viver grave; e prego ch'egli avanzi
l' empia fortuna; e temo no chiuda anzi
morte i begli occhi che parlar mi fanno.

Or qui son, lasso, e voglio esser altrove;
e vorrei piú volere, e piú non voglio;
e per piú non poter, fo quant' io posso;

e d' antichi desir' lagrime nove
provan com' io son pur quel ch' i' mi soglio,
né per mille rivolte ancor son mosso.

 

CXIX
 

Una donna piú bella assai che 'l sole
e piú lucente e d' altrettanta etade,
con famosa beltade,
acerbo ancor mi trasse a la sua schiera.
Questa in penseri, in opre ed in parole
(però ch' è de le cose al mondo rade),
questa per mille strade
sempre inanzi mi fu leggiadra altera.
Solo per lei tornai da quel ch' i' era,
poi ch' i' soffersi gli occhi suoi da presso;
per suo amor m' er' io messo
a faticosa impresa assai per tempo;
tal che s' i' arrivo al disiato porto,
spero per lei gran tempo
viver, quand'altri mi terrà per morto.

Questa mia donna mi menò molt' anni
pien di vaghezza giovenile ardendo,
sí come ora io comprendo,
sol per aver di me piú certa prova,
mostrandomi pur l' ombra o 'l velo o' panni
talor di sé, ma 'l viso nascondendo;
ed io, lasso, credendo
vederne assai, tutta l' età mia nova
passai contento, e 'l rimembrar mi giova,
poi ch' alquanto di lei veggi' or piú inanzi.
I' dico che pur dianzi,
qual io non l' avea vista infin allora
mi si scoverse; onde mi nacque un ghiaccio
nel core, ed evvi ancora
e sarà sempre fin ch' i' le sia in braccio.

Ma non mel tolse la paura o 'l gelo
che pur tanta baldanza al mio cor diedi
ch' i' le mi strinsi a' piedi
per piú dolcezza trar de gli occhi suoi;
ed ella, che remosso avea già il velo
dinanzi a' miei, mi disse: « Amico, or vedi
com' io son bella, e chiedi
quanto par si convenga agli anni tuoi ».
« Madonna », dissi « già gran tempo in voi
posi 'l mio amor ch' i' sento or sí infiammato,
ond' a me in questo stato
altro voler o disvoler m' è tolto ».
Con voce allor di sí mirabil tempre
rispose, e con un volto
che temer e sperar mi farà sempre:

« Rado fu al mondo, fra cosí gran turba,
ch' udendo ragionar del mio valore
non si sentisse al core
per breve tempo almen qualche favilla;
ma l'avversaria mia che 'l ben perturba,
tosto la spegne, ond' ogni vertú more,
e regna altro signore
che promette una vita piú tranquilla.
De la tua mente Amor, che prima aprilla,
mi dice cose veramente ond' io
veggio che 'l gran desio
pur d'onorato fin ti farà degno;
e come già se' de' miei rari amici,
donna vedrai per segno
che farà gli occhi tuoi via piú felici ».

I' volea dir: « Quest' è impossibil cosa »,
quand' ella: « Or mira (e leva' gli occhi un poco
in piú riposto loco)
donna ch' a pochi si mostrò già mai ».
Ratto inchinai la fronte vergognosa
sentendo novo dentro maggior foco,
ed ella il prese in gioco,
dicendo: « I' veggio ben dove tu stai:
sí come 'l sol con suoi possenti rai
fa subito sparire ogni altra stella,
cosí par or men bella
la vista mia cui maggiore luce preme;
ma io però da' miei non ti diparto,
ché questa e me d' un seme,
lei davanti e me poi, produsse un parto ».

Ruppesi intanto di vergogna il nodo
ch' a la mia lingua era distretto intorno
su nel primiero scorno
allor quand' io del suo accorger m' accorsi,
e 'ncominciai: « S'egli è ver quel ch' i' odo,
beato il padre e benedetto il giorno
ch' à di voi il mondo adorno
e tutto 'l tempo ch' a vedervi io corsi!
e se mai da la via dritta mi torsi,
duolmene forte assai piú ch' i' non mostro,
ma se de l'esser vostro
fossi degno udir piú, del desir ardo ».
Pensosa mi rispose, e cosí fiso
tenne il suo dolce sguardo
ch' al cor mandò co le parole il viso.

« Sí come piacque al nostro eterno padre,
ciascuna di noi due nacque immortale.
Miseri, a voi che vale?
Me' v' era che da noi fosse il defetto.
Amate, belle, gioveni e leggiadre
fummo alcun tempo; ed or siam giunte a tale,
che costei batte l' ale
per tornar a l' antico suo ricetto;
i' per me sono un' ombra. Ed or t' ò detto
quanto per te sí breve intender puossi ».
Poi che i piè suoi fur mossi,
dicendo: « Non temer ch' i' mi allontani »,
di verde lauro una ghirlanda colse,
la qual co le sue mani
intorno intorno a le mie tempie avolse.

Canzon, chi tua ragion chiamasse oscura,
di': « Non ò cura, perché tosto spero
ch' altro messaggio il vero
farà in piú chiara voce manifesto.
I' venni sol per isvegliare altrui,
se chi m' impose questo
non m' inganò, quand' io partí' da lui ».

 

CXX
 

Quelle pietose rime in ch' io m' accorsi
di vostro ingegno e del cortese affetto,
èbben tanto vigor nel mio conspetto
che ratto a questa penna la man porsi,

per far voi certo che gli estremi morsi
di quella ch' io con tutto 'l mondo aspetto
mai non sentí', ma pur senza sospetto
infin a l'uscio del suo albergo corsi;

poi tornai indietro, perch' io vidi scritto
di sopra 'l limitar che 'l tempo ancora
non era giunto al mio viver prescritto,

bench' io non vi legessi il dí né l'ora.
Dunque s' acqueti omai 'l cor vostro afflitto
e cerchi uom degno, quando sí l'onora.

 

CXXI
 

Or vedi, Amor, che giovenetta donna
tuo regno sprezza, e del mio mal non cura,
e tra duo ta' nemici è sí secura.

Tu se' armato, ed ella in treccie e 'n gonna
si siede e scalza in mezzo i fiori e l'erba,
ver me spietata e 'ncontr' a te superba.

I' son pregion; ma se pietà ancor serba
l' arco tuo saldo e qualcuna saetta,
fa di te e di me, Signor, vendetta.

 

CXXII
 

Dicesette anni à già rivolto il cielo
poi che 'mprima arsi, e già mai non mi spensi;
ma quando avèn ch' al mio stato ripensi,
sento nel mezzo de le fiamme un gielo.

Vero è 'l proverbio, ch' altri cangia il pelo
anzi che 'l vezzo, e per lentar i sensi
gli umani affetti non son meno intensi:
ciò ne fa l'ombra ria del grave velo.

Oimè lasso! e quando fia quel giorno
che mirando il fuggir de gli anni miei
esca del foco e di sí lunghe pene?

Vedrò mai il dí che pur quant' io vorrei
quel' aria dolce del bel viso adorno
piaccia a quest' occhi, e quanto si convene?

 

CXXIII
 

Quel vago impallidir che 'l dolce riso
d' un' amorosa nebbia ricoperse,
con tanta maiestade al cor s' offerse
che li si fece incontr' a mezzo 'l viso.

Conobbi allor sí come in paradiso
vede l' un l' altro, in tal guisa s' aperse
quel pietoso penser, ch' altri non scerse;
ma vidil io, ch' altrove non m' affiso.

Ogni angelica vista, ogni atto umile,
che già mai in donna ov' amor fosse apparve,
fora uno sdegno a lato a quel ch' i' dico.

Chinava a terra il bel guardo gentile
e tacendo dicea, come a me parve:
« Chi m' allontana il mio fedele amico? »

 

CXXIV
 

Amor, Fortuna e la mia mente schiva
di quel che vede, e nel passato volta,
m' affligon sí ch' io porto alcuna volta
invidia a quei che son su l'altra riva.

Amor mi strugge 'l cor, Fortuna il priva
d' ogni conforto: onde la mente stolta
s'adira e piange, e cosí in pena molta
sempre conven che combattendo viva.

Né spero i dolci dí tornino indietro,
ma pur di male in peggio quel ch' avanza;
e di mio corso ò già passato 'l mezzo.

Lasso, non di diamante, ma d'un vetro
veggio di man cadermi ogni speranza,
e tutti miei pensier' romper nel mezzo.

 

CXXV
 

Se 'l pensier che mi strugge,
com' è pungente e saldo
cosí vestisse d' un color conforme,
forse tal m' arde e fugge,
ch' avria parte del caldo,
e desteriasi Amor là dov' or dorme;
men solitarie l' orme
foran de' miei pie' lassi
per campagne e per colli,
men gli occhi ad ognor molli,
ardendo lei che come un ghiaccio stassi
e non lascia in me dramma
che non sia foco e fiamma.

Però ch' Amor mi sforza
e di saver mi spoglia,
parlo in rime aspre e di dolcezza ignude;
ma non sempre a la scorza
ramo né in fior né 'n foglia
mostra di for sua natural vertude.
Miri ciò che 'l cor chiude
Amor e que' begli occhi
ove si siede a l' ombra.
Se 'l dolor che si sgombra
aven che 'n pianto o in lamentar trabocchi,
l' un a me noce, e l'altro
altrui, ch' io non lo scaltro.

Dolci rime leggiadre
che nel primiero assalto
d'Amor usai quand'io non ebbi altr' arme,
chi verrà mai che squadre
questo mio cor di smalto,
ch' almen, com' io solea, possa sfogarme?
Ch' aver dentro a lui parme
un che Madonna sempre
depinge e de lei parla:
a voler poi ritrarla
per me non basto, e par ch' io me ne stempre;
lasso, cosí m' è scorso
lo mio dolce soccorso!

Come fanciul ch' a pena
volge la lingua e snoda,
che dir non sa, ma 'l piú tacer gli è noia,
così 'l desir mi mena
a dire, e vo' che m' oda
la dolce mia nemica anzi ch' io moia.
Se forse ogni sua gioia
nel suo bel viso è solo,
e di tutt' altro è schiva,
odil tu, verde riva,
e presta a' miei sospir' sí largo volo
che sempre si ridica
come tu m' eri amica.

Ben sai che sí bel piede
non tocchò terra unquanco
come quel dí che già segnata fosti;
onde 'l cor lasso riede
col tormentoso fianco
a partir teco i lor pensier' nascosti.
Cosí avestú riposti
de' be' vestigi sparsi
ancor tra' fiori e l' erba,
che la mia vita acerba
lagrimando trovasse ove acquetarsi!
Ma come pò s' appaga
l' alma dubbiosa e vaga.

Ovunque gli occhi volgo
trovo un dolce sereno
pensando: « Qui percosse il vago lume ».
Qualunque erba o fior colgo
credo che nel terreno
aggia radice, ov' ella ebbe in costume
gir fra le piagge e 'l fiume,
e talor farsi un seggio
fresco, fiorito e verde.
Cosí nulla se 'n perde,
e piú certezza averne fora il peggio.
Spirto beato, quale
se' quando altrui fai tale?

O poverella mia, come se' rozza!
credo che tel conoschi:
rimanti in questi boschi.

 

CXXVI
 

Chiare, fresche e dolci acque
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse
co l'angelico seno;
aere sacro sereno
ove Amor co' begli occhi il cor m' aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

S' egli è pur mio destino,
e 'l cielo in ciò s' adopra,
ch' Amor quest' occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra
e torni l' alma al proprio albergo ignuda;
la morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo,
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l'ossa.

Tempo verrà ancor forse
ch' a l' usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là 'v' ella mi scorse
nel benedetto giorno
volga la vista disiosa e lieta,
cercandomi; ed o pietà!
già terra infra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m' impetre,
e faccia forza al cielo
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da' be' rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l' amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch' oro forbito e perle
eran quel dí a vederle;
qual si posava in terra e qual su l' onde,
qual con un vago errore
girando parea dir: « Qui regna Amore ».

Quante volte diss' io
allor pien di spavento:
« Costei per fermo nacque in paradiso! »
Cosí carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e 'l dolce riso
m' aveano, e sí diviso
da l' imagine vera,
ch' i' dicea sospirando:
« Qui come venn' io o quando? »
credendo esser in ciel, non là dov' era.
Da indi in qua mi piace
quest'erba sí ch' altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant' ài voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco e gir infra la gente.

 

CXXVII
 

In quella parte dove Amor mi sprona
conven ch' io volga le dogliose rime,
che son seguaci de la mente afflitta.
Quai fien ultime, lasso, e qua' fien prime?
Collui che del mio mal meco ragiona
mi lascia in dubbio, sí confuso ditta.
Ma pur quanto l' istoria trovo scritta
in mezzo 'l cor (che sí spesso rincorro)
co la sua propria man, de' miei martiri,
dirò, perché i sospiri
parlando àn triegua ed al dolor soccorro.
Dico che, perch' io miri
mille cose diverse attento e fiso,
sol una Donna veggio, e 'l suo bel viso.

Poi che la dispietata mia ventura
m' à dilungato dal maggior mio bene,
noiosa, inesorabile e superba,
Amor col rimembrar sol mi mantene:
onde s' io veggio in giovenil figura
incominciarsi il mondo a vestir d' erba,
parmi vedere in quella etate acerba
la bella giovenetta ch' ora è donna;
poi che sormonta riscaldando il sole
parmi qual esser sòle
fiamma d' amor che 'n cor alto s' endonna;
ma quando il dí si dole
di lui che passo passo a dietro torni,
veggio lei giunta a' suoi perfetti giorni.

In ramo fronde over viole in terra
mirando a la stagion che 'l freddo perde
e le stelle miglior' acquistan forza,
ne gli occhi ò pur le violette e 'l verde
di ch' era nel principio de mia guerra
Amor armato sí ch' ancor mi sforza,
e quella dolce leggiadretta scorza
che ricopria le pargolette membra
dove oggi alberga l' anima gentile,
ch' ogni altro piacer vile
sembiar mi fa: sí forte mi rimembra
del portamento umile
ch' allor fioriva e poi crebbe anzi agli anni,
cagion sola e riposo de' miei affanni.

Qualor tenera neve per li colli
dal sol percossa veggio di lontano,
come 'l sol neve, mi governa Amore,
pensando nel bel viso piú che umano,
che pò da lunge gli occhi miei far molli,
ma da presso gli abbaglia, e vince il core:
ove fra 'l bianco e l' aureo colore
sempre si mostra quel che mai non vide
occhio mortal, ch'io creda, altro che 'l mio;
e del caldo desio,
ch'è quando sospirando ella sorride,
m' infiamma sí che oblio
niente aprezza, ma diventa eterno:
né state il cangia né lo spegne il verno.

Non vidi mai dopo notturna pioggia
gir per l' aere sereno stelle erranti
e fiammeggiar fra la rugiada e 'l gielo,
ch' i' non avesse i begli occhi davanti
ove la stanca mia vita s' appoggia,
quali io gli vidi a l' ombra d'un bel velo;
e sí come di lor bellezze il cielo
splendea quel dí, così bagnati ancora
li veggio sfavillare, ond' io sempre ardo.
Se 'l sol levarsi sguardo
sento il lume apparir che m' innamora;
se tramontarsi al tardo,
parmel veder quando si volge altrove
lassando tenebroso onde si move.

Se mai candide rose con vermiglie
in vasel d' oro vider gli occhi miei
allor allor da vergine man colte,
veder pensaro il viso di colei
ch' avanza tutte l' altre meraviglie,
con tre belle eccellenzie in lui raccolte:
le bionde treccie sopra 'l collo sciolte
ov' ogni latte perderia sua prova,
e le guancie ch' adorna un dolce foco.
Ma pur che l' òra un poco
fior bianchi e gialli per le piaggie mova,
torna a la mente il loco
e 'l primo dí ch' i' vidi a l' aura sparsi
i capei d' oro, ond' io sí subito arsi.

Ad una ad una annoverar le stelle
e 'n picciol vetro chiuder tutte l'acque
forse credea, quando in sí poca carta
novo penser di ricontar mi nacque
in quante parti il fior de l'altre belle,
stando in se stessa, à la sua luce sparta
a ciò che mai da lei non mi diparta:
né farò io; e se pur talor fuggo,
in cielo e 'n terra m' à rachiuso i passi,
perch' agli occhi miei lassi
sempre è presente, ond' io tutto mi struggo;
e cosí meco stassi
ch' altra non veggio mai né veder bramo,
né 'l nome d' altra ne' sospir' miei chiamo.

Ben sai, canzon, che quant' io parlo è nulla
al celato amoroso mio pensero
che dí e notte ne la mente porto,
solo per cui conforto
in cosí lunga guerra anco non pèro;
ché ben m' avria già morto
la lontananza del mio cor piangendo,
ma quinci da la morte indugio prendo.

 

CXXVIII
 

Italia mia, benché 'l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che' miei sospir' sian quali
spera 'l Tevero e l'Arno
e 'l Po, dove doglioso e grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che ti condusse in terra
ti volga al tuo diletto almo paese:
vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion che crudel guerra;
e i cor, che 'ndura e serra
Marte superbo e fero,
apri tu, Padre, e 'ntenerisci e snoda;
ivi fa che 'l tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s' oda.

Voi cui fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché 'l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete e parvi veder molto,
ché 'n cor venale amor cercate o fede:
qual piú gente possede,
colui è piú da suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n' avene, or chi fia che ne scampi?

Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l' Alpi schermo
pose fra noi e la tedesca rabbia;
ma 'l desir cieco e 'ncontra 'l suo ben fermo
s' è poi tanto ingegnato,
ch' al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge e mansuete gregge
s'annidan sí, che sempre il miglior geme;
ed è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí 'l fianco
che memoria de l' opra anco non langue,
quando assetato e stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.

Cesare taccio, che per ogni piaggia
fece l' erbe sanguigne
di lor vene, ove 'l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che 'l cielo in odio n' aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la piú bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, e le fortune afflitte e sparte
perseguire, e 'n disparte
cercar gente e gradire
che sparga 'l sangue e venda l' alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d' altrui, né per disprezzo.

Né v' accorgete ancor per tante prove
del bavarico inganno
ch' alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che 'l danno.
Ma 'l vostro sangue piove
piú largamente, ch' altr' ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, e vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano, senza soggetto;
ché 'l furor de lassú, gente ritrosa,
vincerne d' intelletto,
peccato è nostro, e non natural cosa.

Non è questo 'l terren ch' i' toccai pria?
non è questo il mio nido,
ove nudrito fui sí dolcemente?
non è questa la patria in ch' io mi fido,
madre benigna e pia,
che copre l' un e l'altro mio parente?
Per Dio, questo la mente
talor vi mova, e con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; e pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l'arme, e fia 'l combatter corto:
ché l'antiquo valore
ne l' italici cor non è ancor morto.

Signor', mirate come 'l tempo vola
e sí come la vita
fugge, e la morte n' è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l' alma ignuda e sola
conven ch' arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giú l' odio e lo sdegno,
venti contrari a la vita serena,
e quel che 'n altrui pena
tempo si spende, in qualche atto piú degno
o di mano o d' ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche onesto studio si converta;
cosí qua giú si gode
e la strada del ciel si trova aperta.

Canzone, io t'ammonisco
che tua ragion cortesemente dica
perché fra gente altera ir ti convene,
e le voglie son piene
già de l' usanza pessima ed antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra' magnanimi pochi a chi 'l ben piace;
di' lor: « Chi m' assicura?
I' vo gridando: Pace, pace, pace ».

 

CXXIX
 

Di pensier in pensier, di monte in monte
mi guida Amor, ch' ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
Se 'n solitaria piaggia, rivo o fonte,
se 'nfra duo poggi siede ombrosa valle,
ivi s' acqueta l' alma sbigottita;
e come Amor l'envita,
or ride or piange, or teme or s'assecura;
e 'l volto che lei segue ov' ella il mena
si turba e rasserena,
ed in un esser picciol tempo dura;
onde a la vista uom di tal vita esperto
diria: « Questo arde, e di suo stato è incerto ».

Per alti monti e per selve aspre trovo
qualche riposo: ogni abitato loco
è nemico mortal de gli occhi miei.
A ciascun passo nasce un penser novo
de la mia donna, che sovente in gioco
gira 'l tormento ch' i' porto per lei;
ed a pena vorrei
cangiar questo mio viver dolce amaro
ch' i' dico: « Forse ancor ti serva Amore
ad un tempo migliore;
forse a te stesso vile, altrui se' caro »;
ed in questa trapasso sospirando:
« Or porrebbe esser vero? or come? or quando? »

Ove porge ombra un pino alto od un colle,
talor m' arresto, e pur nel primo sasso
disegno co la mente il suo bel viso.
Poi ch' a me torno, trovo il petto molle
de la pietate, ed alor dico: « Ai lasso,
dove se' giunto! ed onde se' diviso! »
Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier la mente vaga,
e mirar lei ed obliar me stesso,
sento Amor sí da presso
che del suo proprio error l' alma s' appaga:
in tante parti e sí bella la veggio,
che, se l' error durasse, altro non cheggio.

I' l' ò piú volte (or chi fia che m' il creda?)
ne l' acqua chiara e sopra l'erba verde
veduto viva, e nel troncon d' un faggio,
e 'n bianca nube, sí fatta che Leda
avria ben detto che sua figlia perde
come stella che 'l sol copre col raggio;
e quanto in piú selvaggio
loco mi trovo e 'n piú deserto lido,
tanto piú bella il mio pensier l' adombra.
Poi quando il vero sgombra
quel dolce error, pur lí medesmo assido
me freddo, pietra morta in pietra viva,
in guisa d' uom che pensi e pianga e scriva.

Ove d' altra montagna ombra non tocchi
verso 'l maggiore e 'l piú espedito giogo,
tirar mi suol un desiderio intenso.
Indi i miei danni a misurar con gli occhi
comincio, e 'ntanto lagrimando sfogo
di dolorosa nebbia il cor condenso,
allor ch' i' miro e penso
quanta aria dal bel viso mi diparte,
che sempre m' è sí presso e sí lontano.
Poscia fra me pian piano:
« Che sai tu, lasso? forse in quella parte
or di tua lontananza si sospira »;
ed in questo penser l'alma respira.

Canzone, oltra quell'alpe,
là dove il ciel è piú sereno e lieto,
mi rivedrai sovr'un ruscel corrente,
ove l'aura si sente
d'un fresco ed odorifero laureto:
ivi è 'l mio cor, e quella che 'l m'invola;
qui veder pòi l' imagine mia sola.

 

CXXX
 

Poi che 'l cammin m' è chiuso di mercede,
per desperata via son dilungato
dagli occhi ov' era, i' non so per qual fato,
riposto il guidardon d'ogni mia fede.

Pasco 'l cor di sospir', ch' altro non chiede,
e di lagrime vivo, a pianger nato;
né di ciò duolmi, perché in tale stato
è dolce il pianto piú ch' altri non crede.

E sol ad una imagine m' attegno,
che fe' non Zeusi o Prasitele o Fidia,
ma miglior mastro e di piú alto ingegno.

Qual Scizia m' assicura o qual Numidia,
s'ancor non sazia del mio essilio indegno
cosí nascosto mi ritrova Invidia?

 

CXXXI
 

Io canterei d'Amor sí novamente
ch' al duro fianco il dí mille sospiri
trarrei per forza, e mille alti desiri
raccenderei ne la gelata mente;

e 'l bel viso vedrei cangiar sovente,
e bagnar gli occhi, e piú pietosi giri
far, come suol chi degli altrui martiri
e del suo error, quando non val, si pente;

e le rose vermiglie in fra le neve
mover da l'òra, e discovrir l'avorio
che fa di marmo chi da presso 'l guarda;

e tutto quel per che nel viver breve
non rincresco a me stesso, anzi mi glorio,
d'esser servato a la stagion piú tarda.

 

CXXXII
 

S'amor non è, che dunque è quel ch' io sento?
ma s'egli è amor, per Dio, che cosa e quale?
se bona, ond' è l'effetto aspro mortale?
se ria, ond' è sí dolce ogni tormento?

S'a mia voglia ardo, ond' è 'l pianto e lamento?
s'a mal mio grado, il lamentar che vale?
O viva morte, o dilettoso male,
come puoi tanto in me, s' io nol consento?

E s' io 'l consento, a gran torto mi doglio.
Fra sí contrari venti in frale barca
mi trovo in alto mar senza governo,

sí lieve di saver, d'error sí carca,
ch'i' medesmo non so quel ch' io mi voglio,
e tremo a mezza state, ardendo il verno.

 

CXXXIII
 

Amor m' à posto come segno a strale,
come al sol neve, come cera al foco
e come nebbia al vento; e son già roco,
Donna, mercé chiamando, e voi non cale.

Dagli occhi vostri uscío 'l colpo mortale
contra cui non mi val tempo né loco;
da voi sola procede, e parvi un gioco,
il sole e 'l foco e 'l vento ond' io son tale.

I pensier' son saette, e 'l viso un sole,
e 'l desir foco; e 'nseme con quest'arme
mi punge Amor, m'abbaglia e mi distrugge;

e l'angelico canto e le parole,
col dolce spirto ond' io non posso aitarme,
son l'aura inanzi a cui mia vita fugge.

 

CXXXIV
 

Pace non trovo e non ò da far guerra,
e temo e spero; ed ardo e son un ghiaccio;
e volo sopra 'l cielo e giaccio in terra;
e nulla stringo, e tutto 'l mondo abbraccio.

Tal m' à in pregion, che non m'apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
e non m'ancide Amore e non mi sferra,
né mi vuol vivo né mi trae d' impaccio.

Veggio senza occhi e non ò lingua e grido;
e bramo di perir e cheggio aita;
ed ò in odio me stesso ed amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
in questo stato son, Donna, per voi.

 

CXXXV
 

Qual piú diversa e nova
cosa fu mai in qualche stranio clima,
quella, se ben s' estima,
piú mi rasembra: a tal son giunto, Amore.
Là onde il dí vèn fore
vola un augel, che sol, senza consorte,
di volontaria morte
rinasce e tutto a viver si rinova;
cosí sol si ritrova
lo mio voler, e cosí in su la cima
de' suoi alti pensieri al sol si volve,
e cosí si risolve,
e cosí torna al suo stato di prima:
arde e more e riprende i nervi suoi
e vive poi con la fenice a prova.

Una petra è sí ardita
là per l' indico mar, che da natura
tragge a sé il ferro, e 'l fura
dal legno in guisa che' navigi affonde.
Questo prov' io fra l'onde
d'amaro pianto, ché quel bello scoglio
à col suo duro argoglio
condutta ove affondar conven mia vita;
cosí l'alm' à sfornita
(furando 'l cor che fu già cosa dura,
e me tenne un, ch' or son diviso e sparso)
un sasso, a trar piú scarso
carne che ferro. O cruda mia ventura,
che 'n carne essendo veggio trarmi a riva
ad una viva dolce calamita!

Né l'estremo occidente
una fera è soave e queta tanto
che nulla piú, ma pianto
e doglia e morte dentro agli occhi porta;
molto convene accorta
esser qual vista mai ver lei si giri:
pur che gli occhi non miri,
l'altro puossi veder securamente.
Ma io incauto, dolente,
corro sempre al mio male, e so ben quanto
n' ò sofferto e n'aspetto; ma l'engordo
voler, ch' è cieco e sordo,
sí mi trasporta, che 'l bel viso santo
e gli occhi vaghi fien cagion ch' io pera,
di questa fera angelica, innocente.

Surge nel mezzogiorno
una fontana e tien nome dal sole,
che per natura sòle
bollir le notti e 'n sul giorno esser fredda;
e tanto si raffredda
quanto 'l sol monta e quanto è piú da presso.
Cosí aven a me stesso,
che son fonte di lagrime e soggiorno:
quando 'l bel lume adorno,
ch' è 'l mio sol, s'allontana, e triste e sole
son le mie luci e notte oscura è loro,
ardo allor; ma se l'oro
e i rai veggio apparir del vivo sole,
tutto dentro e di for sento cangiarme
e ghiaccio farme, cosí freddo torno.

Un'altra fonte à Epiro,
di cui si scrive ch'essendo fredda ella,
ogni spenta facella
accende, e spegne qual trovasse accesa.
L'anima mia, ch' offesa
ancor non era d'amoroso foco,
appressandosi un poco
a quella fredda, ch' io sempre sospiro,
arse tutta, e martiro
simil già mai né sol vide né stella,
ch' un cor di marmo a pietà mosso avrebbe;
poi che 'nfiammata l' ebbe,
rispensela vertú gelata e bella.
Cosí piú volte à 'l cor racceso e spento:
i' 'l so, che 'l sento, e spesso me n'adiro.

Fuor tutti nostri lidi,
ne l' isole famose di Fortuna,
due fonti à: chi de l' una
bee, mor ridendo; e chi de l'altra, scampa.
Simil fortuna stampa
mia vita, che morir poria ridendo
del gran piacer ch' io prendo,
se nol temprassen dolorosi stridi.
Amor, ch'ancor mi guidi
pur a l'ombra di fama occulta e bruna,
tacerem questa fonte, ch' ognor piena
ma con piú larga vena
veggiam quando col Tauro il sol s' aduna:
cosí gli occhi miei piangon d'ogni tempo,
ma piú nel tempo che Madonna vidi.

Chi spiasse, canzone,
quel ch' i' fo, tu pòi dir: « Sotto un gran sasso
in una chiusa valle ond'esce Sorga,
si sta: né chi lo scorga
v' è, se no Amor, che mai nol lascia un passo,
e l' imagine d' una che lo strugge:
ché per sé fugge tutt' altre persone ».

 

CXXXVI
 

Fiamma dal ciel su le tue treccie piova,
malvagia, che dal fiume e da le ghiande
per l' altrui impoverir se' ricca e grande,
poi che di mal oprar tanto ti giova;

nido di tradimenti, in cui si cova
quanto mal per lo mondo oggi si spande:
de vin serva, di letti e di vivande,
in cui Lussuria fa l' ultima prova.

Per le camere tue fanciulle e vecchi
vanno trescando, e Belzebub in mezzo
co' mantici e col foco e co li specchi.

Già non fustú nudrita in piume al rezzo,
ma nuda al vento e scalza fra gli stecchi:
or vivi sí ch' a Dio ne venga il lezzo.

 

CXXXVII
 

L' avara Babilonia à colmo il sacco
d' ira di Dio e di vizii empi e rei
tanto che scoppia, ed à fatti suoi dei
non Giove e Palla, ma Venere e Bacco.

Aspettando ragion mi struggo e fiacco;
ma pur novo soldan veggio per lei,
lo qual farà, non già quand' io vorrei,
sol una sede, e quella fia in Baldacco.

Gl' idoli suoi sarranno in terra sparsi
e le torre superbe, al ciel nemiche,
e i suoi torrer' di for come dentro arsi.

Anime belle e di virtute amiche
terranno il mondo; e poi vedrem lui farsi
aureo tutto e pien de l' opre antiche.

 

CXXXVIII
 

Fontana di dolore, albergo d' ira,
scola d' errori e templo d' eresia
già Roma, or Babilonia falsa e ria,
per cui tanto si piange e si sospira;

o fucina d' inganni, o pregion dira
ove 'l ben more e 'l mal si nutre e cria,
di vivi inferno, un gran miracol fia
se Cristo teco alfine non s' adira.

Fondata in casta e umil povertate
contra tuoi fondatori alzi le corna,
putta sfacciata: e dove ài posto spene?

Negli adúlteri tuoi, ne le mal nate
ricchezze tante? Or Constantin non torna;
ma tolga il mondo tristo che 'l sostene.

 

CXXXIX
 

Quanto piú disiose l' ali spando
verso di voi, o dolce schiera amica,
tanto fortuna con piú visco intrica
il mio volare e gir mi face errando.

Il cor che mal suo grado a torno mando,
è con voi sempre in quella valle aprica,
ove 'l mar nostro piú la terra implica;
l' altr' ier da lui partimmi lagrimando.

I' da man manca, e' tenne il camin dritto,
i' tratto a forza, ed e' d'Amore scorto,
egli in Ierusalem, ed io in Egitto.

Ma sofferenza è nel dolor conforto,
ché per lungo uso già fra noi prescritto
il nostro esser insieme è raro e corto.

 

CXL
 

Amor, che nel penser mio vive e regna
e 'l suo seggio maggior nel mio cor tene,
talor armato ne la fronte vène;
ivi si loca ed ivi pon sua insegna.

Quella ch' amare e sofferir ne 'nsegna,
e vol che 'l gran desio, l' accesa spene,
ragion, vergogna e reverenza affrene,
di nostro ardir fra se stessa si sdegna.

Onde Amor paventoso fugge al core,
lasciando ogni sua impresa, e piange e trema;
ivi s' asconde e non appar piú fore.

Che poss' io far, temendo il mio signore,
se non star seco infin a l' ora estrema?
ché bel fin fa chi ben amando more.

 

CXLI
 

Come talora al caldo tempo sòle
semplicetta farfalla al lume avezza
volar negli occhi altrui per sua vaghezza,
onde aven ch' ella more, altri si dole;

cosí sempre io corro al fatal mio sole
de gli occhi onde mi ven tanta dolcezza,
che 'l fren de la ragion Amor non prezza,
e chi discerne è vinto da chi vole.

E veggio ben quant'elli a schivo m' ànno
e so ch' i' ne morrò veracemente,
ché mia vertú non pò contra l' affanno;

ma sí m' abbaglia Amor soavemente
ch' i' piango l' altrui noia, e no 'l mio danno,
e cieca al suo morir l'alma consente.

 

CXLII
 

A la dolce ombra de le belle frondi
corsi fuggendo un dispietato lume,
che' n fin qua giú m' ardea dal terzo cielo;
e disgombrava già di neve i poggi
l' aura amorosa che rinova il tempo
e fiorian per le piagge l' erbe e i rami.

Non vide il mondo sí leggiadri rami
né mosse il vento mai sí verdi frondi
come a me si mostrar quel primo tempo;
tal che temendo de l' ardente lume
non volsi al mio refugio ombra di poggi,
ma de la pianta piú gradita in cielo.

Un lauro mi difese allor dal cielo,
onde piú volte vago de' bei rami
da po' son gito per selve e per poggi;
né già mai ritrovai tronco né frondi
tanto onorate dal superno lume,
che non mutasser qualitate a tempo.

Però piú fermo ognor di tempo in tempo,
seguendo ove chiamar m' udia dal cielo
e scorto d' un soave e chiaro lume,
tornai sempre devoto ai primi rami,
e quando a terra son sparte le frondi
e quando il sol fa verdeggiar i poggi.

Selve sassi campagne fiumi e poggi,
quanto è creato, vince e cangia il tempo;
ond' io cheggio perdono a queste frondi,
se rivolgendo poi molt' anni il cielo,
fuggir disposi gl' invescati rami
tosto ch' i' 'ncominciai di veder lume.

Tanto mi piacque prima il dolce lume
ch' i' passai con diletto assai gran poggi
per poter appressar gli amati rami;
ora la vita breve e 'l loco e 'l tempo
mostranmi altro sentier di gire al cielo
e di far frutto, non pur fior' e frondi.

Altr' amor, altre frondi ed altro lume,
altro salir al ciel per altri poggi
cerco, ché n'é ben tempo, ed altri rami.

 

CXLIII
 

Quando io v' odo parlar sí dolcemente
com' Amor proprio a' suoi seguaci instilla,
l' acceso mio desir tutto sfavilla
tal che 'nfiammar devria l' anime spente.

Trovo la bella Donna allor presente
ovunque mi fu mai dolce o tranquilla
ne l' abito ch' al suon non d' altra squilla
ma di sospir', mi fa destar sovente.

Le chiome a l'aura sparse, e lei conversa
indietro veggio, e cosí bella riede
nel cor come colei che tien la chiave.

Ma 'l soverchio piacer che s' atraversa
a la mia lingua, qual dentro ella siede
di mostrarla in palese ardir non ave.

 

CXLIV
 

Né così bello il sol già mai levarsi
quando 'l ciel fosse piú de nebbia scarco,
né dopo pioggia vidi 'l celeste arco
per l'aere in color tanti variarsi,

in quanti fiammeggiando trasformarsi,
nel dí ch' io presi l' amoroso incarco,
quel viso al quale, e son nel mio dir parco,
nulla cosa mortal pote aguagliarsi.

I' vidi Amor che' begli occhi volgea
soave sí ch' ogni altra vista oscura
da indi in qua m' incominciò apparere.

Sennuccio, i' 'l vidi, e l' arco che tendea;
tal che mia vita poi non fu secura
ed è sí vaga ancor del rivedere.

 

CXLV
 

Ponmi ove 'l sole occide i fiori e l' erba
o dove vince lui il ghiaccio e la neve;
ponmi ov' è il carro suo temprato e leve,
e ov' è chi cel rende o chi cel serba;

ponmi in umil fortuna od in superba,
al dolce aere sereno, al fosco e greve;
ponmi a la notte, al dí lungo ed al breve,
a la matura etate od a l' acerba;

ponmi in cielo od in terra od in abisso,
in alto poggio, in valle ima e palustre,
libero spirto od a' suoi membri affisso;

ponmi con fama oscura o con ilustre:
sarò qual fui, vivrò com' io son visso,
continuando il mio sospir trilustre.

 

CXLVI
 

O d' ardente vertute ornata e calda
alma gentil, cui tante carte vergo;
o sol già d'onestate intero albergo,
torre in alto valor fondata e salda;

o fiamma, o rose sparse in dolce falda
di viva neve, in ch' io mi specchio e tergo;
o piacer onde l' ali al bel viso ergo,
che luce sovra quanti il sol ne scalda;

del vostro nome, se mie rime intese
fossin sí lunge, avrei pien Tyle e Battro,
la Tana e 'l Nilo, Atlante, Olimpo e Calpe.

Poi che portar no 'l posso in tutte e quattro
parti del mondo, udrallo il bel paese
ch' Appennin parte, e 'l mar circonda e l' Alpe.

 

CXLVII
 

Quando 'l voler, che con duo sproni ardenti
e con un duro fren mi mena e regge,
trapassa ad or ad or l' usata legge
per far in parte i miei spirti contenti,

trova chi le paure e gli ardimenti
del cor profondo ne la fronte legge,
e vede Amor, che sue imprese corregge,
folgorar ne' turbati occhi pungenti;

onde, come collui che 'l colpo teme
di Giove irato, si ritragge indietro,
ché gran temenza gran desire affrena.

Ma freddo foco e paventosa speme
de l'alma che traluce come un vetro,
talor sua dolce vista rasserena.

 

CXLVIII
 

Non Tesin, Po, Varo, Arno, Adige e Tebro,
Eufrate, Tigre, Nilo, Ermo, Indo e Gange,
Tana, Istro, Alfeo, Garona e 'l mar che frange,
Rodano, Ibero, Ren, Sena, Albia, Era, Ebro,

non edra, abete, pin, faggio o genebro
poria 'l foco allentar che 'l cor tristo ange,
quant' un bel rio ch' ad ognor meco piange,
co l'arboscel che 'n rime orno e celebro.

Questo un soccorso trovo fra gli assalti
d'Amore, ove conven ch' armato viva
la vita che trapassa a sí gran salti.

Cosí cresca il bel lauro in fresca riva,
e chi 'l piantò pensier' leggiadri ed alti
ne la dolce ombra al suon de l'acque scriva.

 

CXLIX
 

Di tempo in tempo mi si fa men dura
l'angelica figura e 'l dolce riso,
e l'aria del bel viso
e degli occhi leggiadri meno oscura.

Che fanno meco omai questi sospiri
che nascean di dolore
e mostravan di fore
la mia angosciosa e desperata vita?
S'aven che 'l volto in quella parte giri
per acquetare il core,
parmi vedere Amore
mantener mia ragion e darmi aita.
Né però trovo ancor guerra finita
né tranquillo ogni stato del cor mio,
ché piú m'arde 'l desio,
quanto piú la speranza m'assicura.

 

CL
 

« Che fai alma? che pensi? avrem mai pace?
avrem mai tregua? od avrem guerra eterna? »
« Che fia di noi, non so; ma, in quel ch' io scerna,
a' suoi begli occhi il mal nostro non piace ».

« Che pro, se con quelli occhi ella ne face
di state un ghiaccio, un foco quando inverna? »
« Ella non, ma colui che gli governa ».
« Questo ch' è a noi, s' ella sel vede e tace? ».

« Talor tace la lingua, e 'l cor si lagna
ad alta voce, e 'n vista asciutta e lieta
piange dove mirando altri nol vede ».

« Per tutto ciò la mente non s'acqueta,
rompendo il duol che 'n lei s'accoglie e stagna:
ch' a gran speranza uom misero non crede ».

 

CLI
 

Non d'atra e tempestosa onda marina
fuggío in porto già mai stanco nocchiero,
com 'io dal fosco e torbido pensero
fuggo ove 'l gran desio mi sprona e 'nchina.

Né mortal vista mai luce divina
vinse, come la mia quel raggio altero
del bel dolce soave bianco e nero,
in che i suoi strali Amor dora ed affina.

Cieco non già, ma faretrato il veggo;
nudo, se non quanto vergogna il vela;
garzon con ali, non pinto, ma vivo.

Indi mi mostra quel ch' a molti cela;
ch' a parte a parte entro a' begli occhi leggo
quant' io parlo d'Amore e quant' io scrivo.

 

CLII
 

Questa umil fera, un cor di tigre o d'orsa,
che 'n vista umana e 'n forma d'angel vene,
in riso e 'n pianto, fra paura e spene
mi rota sí ch' ogni mio stato inforsa.

Se 'n breve non m'accoglie o non mi smorsa,
ma pur, come suol far, tra due mi tene,
per quel ch' io sento al cor gir fra le vene
dolce veneno, Amor, mia vita è corsa.

Non pò piú la vertú fragile e stanca
tante varietati omai soffrire,
che 'n un punto arde, agghiaccia, arrossa e 'nbianca.

Fuggendo, spera i suoi dolor' finire,
come colei che d'ora in ora manca:
ché ben pò nulla chi non pò morire.

 

CLIII
 

Ite, caldi sospiri, al freddo core,
rompete il ghiaccio che pietà contende,
e se prego mortale al ciel s' intende
morte o mercé sia fine al mio dolore.

Ite, dolci penser', parlando fore
di quello ove 'l bel guardo non s'estende:
se pur sua asprezza o mia stella n'offende
sarem fuor di speranza e fuor d'errore.

Dir se pò ben per voi, non forse a pieno,
che 'l nostro stato è inquieto e fosco,
sí come 'l suo pacifico e sereno.

Gite securi omai, ch'Amor ven vosco,
e ria fortuna pò ben venir meno,
s' ai segni del mio sol l' aere conosco.

 

CLIV
 

Le stelle, il cielo e gli elementi a prova
tutte lor arti ed ogni estrema cura
poser nel vivo lume, in cui natura
si specchia e 'l sol, ch'altrove par non trova.

L'opra è sí altera, sí leggiadra e nova
che mortal guardo in lei non s'assecura,
tanta negli occhi bei, for di misura,
par ch'Amore e dolcezza e grazia piova.

L'aere percosso da' lor dolci rai
s' infiamma d' onestate, e tal diventa
che 'l dir nostro e 'l penser vince d'assai;

basso desir non è ch' ivi si senta,
ma d'onor, di vertute. Or quando mai
fu per somma beltà vil voglia spenta?

 

CLV
 

Non fur ma' Giove e Cesare sí mossi
a folminar collui, questo a ferire,
che pietà non avesse spente l' ire
e lor de l'usate arme ambeduo scossi.

Piangea Madonna, e 'l mio signor ch' i' fossi
volse a vederla e i suoi lamenti a udire,
per colmarmi di doglia e di desire
e ricercarmi le medolle e gli ossi.

Quel dolce pianto mi depinse Amore,
anzi scolpío, e que' detti soavi
mi scrisse entro un diamante in mezzo 'l core:

ove con salde ed ingegnose chiavi
ancor torna sovente a trarne fore
lagrime rare e sospir' lunghi e gravi.

 

CLVI
 

I' vidi in terra angelici costumi
e celesti bellezze al mondo sole,
tal che di rimembrar mi giova e dole,
ché quant' io miro par sogni, ombre e fumi;

e vidi lagrimar que' duo bei lumi
ch' àn fatto mille volte invidia al sole,
e udí' sospirando dir parole
che farian gire i monti e stare i fiumi.

Amor, senno, valor, pietate e doglia
facean piangendo un piú dolce concento
d'ogni altro, che nel mondo udir si soglia;

ed era il cielo a l'armonia sí intento,
che non se vedea in ramo mover foglia:
tanta dolcezza avea pien l'aere e 'l vento!

 

CLVII
 

Quel sempre acerbo ed onorato giorno
mandò sí al cor l' imagine sua viva,
che 'ngegno o stil non fia mai che 'l descriva;
ma spesso a lui co la memoria torno.

L'atto d'ogni gentil pietate adorno
e 'l dolce amaro lamentar ch' i' udiva,
facean dubbiar se morta donna o diva
fosse che 'l ciel rasserenava intorno.

La testa or fino e calda neve il volto,
ebeno i cigli e gli occhi eran due stelle,
onde Amor l'arco non tendeva in fallo;

perle e rose vermiglie, ove l'accolto
dolor formava ardenti voci e belle;
fiamma i sospir', le lagrime cristallo.

 

CLVIII
 

Ove ch' i' posi gli occhi lassi o giri
per quetar la vaghezza che gli spinge,
trovo chi bella donna ivi depinge
per far sempre mai verdi i miei desiri.

Con leggiadro dolor par ch' ella spiri
alta pietà che gentil core stringe:
oltra la vista, agli orecchi orna e 'nfinge
sue voci vive e suoi santi sospiri.

Amor e 'l ver fur meco a dir che quelle
ch' i' vidi eran bellezze al mondo sole,
mai non vedute piú sotto le stelle.

Né sí pietose e sí dolci parole
s' udiron mai, né lagrime sí belle
di sí belli occhi uscir mai vide 'l sole.

 

CLIX
 

In qual parte del ciel, in quale idea
era l'essempio onde natura tolse
quel bel viso leggiadro, in ch' ella volse
mostrar qua giú quanto lassú potea?

Qual nimfa in fonti, in selve mai qual dea
chiome d'oro sí fino a l'aura sciolse?
quando un cor tante in sé vertuti accolse?
benché la somma è di mia morte rea.

Per divina bellezza indarno mira,
chi gli occhi de costei già mai non vide,
come soavemente ella gli gira;

non sa come Amor sana e come ancide
chi non sa come dolce ella sospira
e come dolce parla e dolce ride.

 

CLX
 

Amor ed io sí pien' di meraviglia,
come chi mai cosa incredibil vide,
miriam costei quand' ella parla o ride,
che sol se stessa e nulla altra simiglia.

Dal bel seren de le tranquille ciglia
sfavillan sí le mie due stelle fide
ch' altro lume non è ch'infiammi e guide
chi d'amar altamente si consiglia.

Qual miracolo è quel, quando tra l'erba
quasi un fior siede, over quand'ella preme
col suo candido seno un verde cespo!

Qual dolcezza è ne la stagione acerba
vederla ir sola coi pensier' suoi inseme,
tessendo un cerchio a l'oro terso e crespo!

 

CLXI
 

O passi sparsi, o pensier' vaghi e pronti,
o tenace memoria, o fero ardore,
o possente desire, o debil core,
oi occhi miei, occhi non già, ma fonti;

o fronde, onor de le famose fronti,
o sola insegna al gemino valore;
o faticosa vita, o dolce errore,
che mi fate ir cercando piagge e monti;

o bel viso, ove Amor inseme pose
gli sproni e 'l fren, ond' el mi punge e volve
come a lui piace, e calcitrar non vale;

o anime gentili ed amorose,
s'alcuna à 'l mondo, e voi nude ombre e polve,
deh, ristate a veder quale è 'l mio male.

 

CLXII
 

Lieti fiori e felici, e ben nate erbe
che madonna pensando premer sòle;
piaggia ch'ascolti sue dolci parole
e del bel piede alcun vestigio serbe;

schietti arboscelli e verdi frondi acerbe,
amorosette e pallide viole;
ombrose selve, ove percote il sole,
che vi fa co' suoi raggi alte e superbe;

o soave contrada, o puro fiume
che bagni il suo bel viso e gli occhi chiari,
e prendi qualità dal vivo lume,

quanto v' invidio gli atti onesti e cari!
Non fia in voi scoglio omai che per costume
d'arder co la mia fiamma non impari.

 

CLXIII
 

Amor, che vedi ogni pensero aperto
e i duri passi onde tu sol mi scorgi,
nel fondo del mio cor gli occhi tuoi porgi,
a te palese, a tutt' altri coverto.

Sai quel che per seguirte ò già sofferto:
e tu pur via di poggio in poggio sorgi,
di giorno in giorno, e di me non t' accorgi
che son sí stanco e 'l sentier m' è troppo erto.

Ben veggio io di lontano il dolce lume
ove aspre vie mi sproni e giri,
ma non ò, come tu, da volar piume.

Assai contenti lasci i miei desiri
pur che ben desiando i' mi consume,
né le dispiaccia che per lei sospiri.

 

CLXIV
 

Or che 'l ciel e la terra e 'l vento tace,
e le fere e gli augelli il sonno affrena,
notte il carro stellato in giro mena
e nel suo letto il mar senz' onda giace,

vegghio, penso, ardo, piango, e chi mi sface
sempre m' è inanzi per mia dolce pena:
guerra è 'l mio stato, d' ira e di duol piena,
e sol di lei pensando ò qualche pace.

Cosí sol d'una chiara fonte viva
move 'l dolce e l'amaro ond' io mi pasco;
una man sola mi risana e punge;

e perché 'l mio martir non giunga a riva,
mille volte il dí moro e mille nasco:
tanto da la salute mia son lunge.

 

CLXV
 

Come 'l candido pie' per l'erba fresca
i dolci passi onestamente move,
vertú che 'ntorno i fiori apra e rinove,
de le tenere piante sue par ch'esca.

Amor, che solo i cor leggiadri invesca
né degna di provar sua forza altrove,
da' begli occhi un piacer sí caldo piove
ch' i' non curo altro ben né bramo altr' esca.

E co l'andar e col soave sguardo
s'accordan le dolcissime parole
e l' atto mansueto, umile e tardo.

Di tai quattro faville, e non già sole,
nasce 'l gran foco di ch' io vivo ed ardo:
che son fatto un augel notturno al sole.

 

CLXVI
 

S' i' fussi stato fermo a la spelunca
là dove Apollo diventò profeta,
Fiorenza avria forse oggi il suo poeta,
non pur Verona e Mantoa ed Arunca;

ma perché 'l mio terren piú non s'ingiunca
de l'umor di quel sasso, altro pianeta
conven ch' i' segua e del mio campo mieta
lappole e stecchi co la falce adunca.

L'oliva è secca, ed è rivolta altrove
l'acqua che di Parnaso si deriva,
per cui in alcun tempo ella fioriva.

Cosí sventura over colpa mi priva
d'ogni buon frutto, se l'etterno Giove
de la sua grazia sopra me non piove.

 

CLXVII
 

Quando Amor i belli occhi a terra inchina
e i vaghi spirti in un sospiro accoglie
co le sue mani, e poi in voce gli scioglie
chiara soave angelica divina,

sento far del mio cor dolce rapina
e sí dentro cangiar penseri e voglie,
ch' i' dico: « Or fien di me l'ultime spoglie,
se 'l ciel sí onesta morte mi destina ».

Ma 'l suon che di dolcezza i sensi lega,
col gran desir d'udendo esser beata,
l'anima, al dipartir presta, raffrena.

Cosí mi vivo, e cosí avolge e spiega
lo stame de la vita che m' è data,
questa sola fra noi del ciel sirena.

 

CLXVIII
 

Amor mi manda quel dolce pensero
che secretario anticho è fra noi due,
e mi conforta, e dice che non fue
mai come or presto a quel ch' io bramo e spero.

Io, che talor menzogna e talor vero
ò ritrovato le parole sue,
non so s' il creda, e vivomi intra due:
né sí né no nel cor mi sona intero.

In questa passa 'l tempo e ne lo specchio
mi veggio andar ver la stagion contraria
a sua impromessa, ed a la mia speranza.

Or sia che pò: già sol io non invecchio;
già per etate il mio desir non varia:
ben temo il viver breve che n' avanza.

 

CLXIX
 

Pien d'un vago penser che me desvia
da tutti gli altri e fammi al mondo ir solo,
ad or ad ora a me stesso m' involo,
pur lei cercando che fuggir devria,

e veggiola passar sí dolce e ria
che l'alma trema per levarsi a volo,
tal d'armati sospir' conduce stuolo
questa bella d'Amor nemica e mia!

Ben, s' i' non erro, di pietate un raggio
scorgo fra 'l nubiloso altero ciglio
che 'n parte rasserena il cor doglioso;

allor raccolgo l'alma; e poi ch' i' aggio
di scovrirle il mio mal preso consiglio
tanto gli ò a dir, che 'ncominciar non oso.

 

CLXX
 

Piú volte già dal bel sembiante umano
ò preso ardir co le mie fide scorte
d'assalir con parole oneste accorte
la mia nemica in atto umile e piano.

Fanno poi gli occhi suoi mio penser vano,
per ch' ogni mia fortuna, ogni mia sorte,
mio ben, mio male, e mia vita e mia morte,
quei che solo il pò far, l' à posto in mano.

Ond' io non pote' mai formar parola
ch' altro che da me stesso fosse intesa:
cosí m' à fatto Amor tremante e fioco!

E veggi' or ben che caritate accesa
lega la lingua altrui, gli spirti invola:
chi pò dir com' egli arde, è 'n picciol foco.

 

CLXXI
 

Giunto m' à Amor fra belle e crude braccia
che m' ancidono a torto; e s'io mi doglio
doppia 'l martir: onde pur, com' io soglio,
il meglio è ch' io mi mora amando e taccia;

ché poria questa il Ren, qualor piú agghiaccia,
arder con gli occhi e rompre ogni aspro scoglio,
e à sí egual a le bellezze orgoglio
che di piacer altrui par che le spiaccia.

Nulla posso levar io per mi' 'ngegno
del bel diamante ond' ell' à il cor sí duro;
l'altro è d' un marmo che si mova e spiri;

ned ella a me per tutto 'l suo disdegno
torrà già mai, né per sembiante oscuro,
le mie speranze e i miei dolci sospiri.

 

CLXXII
 

O Invidia nimica di vertute,
ch' a' bei principii volentier contrasti,
per qual sentier cosí tacita intrasti
in quel bel petto e con qual'arti il mute?

Da radice n' ài svelta mia salute:
troppo felice amante mi mostrasti
a quella che miei preghi umili e casti
gradí alcun tempo, or par ch' odi e refute.

Né però che con atti acerbi e rei
del mio ben pianga e del mio pianger rida,
poria cangiar sol un de' pensier' mei;

non perché mille volte il dí m' ancida,
fia ch' io non l' ami e ch' i' non speri in lei:
che s' ella mi spaventa, Amor m' affida.

 

CLXXIII
 

Mirando 'l sol de' begli occhi sereno,
ove è chi spesso i miei depinge e bagna,
dal cor l' anima stanca si scompagna
per gir nel paradiso suo terreno.

Poi trovandol di dolce e d' amar pieno,
quant' al mondo si tesse, opra d' aragna
vede, onde seco e con Amor si lagna
ch' à sí caldi gli spron', sí duro 'l freno.

Per questi estremi duo contrari e misti,
or con voglie gelate or con accese,
stassi cosí fra misera e felice.

Ma pochi lieti e molti penser' tristi,
e 'l piú si pente de l' ardite imprese:
tal frutto nasce di cotal radice.

 

CLXXIV
 

Fera stella, se 'l cielo à forza in noi
quant' alcun crede, fu sotto ch' io nacqui,
e fera cuna dove nato giacqui,
e fera terra ove' pie' mossi poi;

e fera Donna che con gli occhi suoi
e con l'arco a cui sol per segno piacqui,
fe' la piaga onde, Amor, teco non tacqui,
che con quell' arme risaldar la pòi.

Ma tu prendi a diletto i dolor' miei:
ella non già, perché non son piú duri,
e 'l colpo è di saetta e non di spiedo;

pur mi consola che languir per lei
meglio è che gioir d' altra; e tu mel giuri
per l' orato tuo strale, ed io tel credo.

 

CLXXV
 

Quando mi vene inanzi il tempo e 'l loco
ov' i' perdei me stesso, e 'l caro nodo,
ond' Amor di sua man m' avinse in modo
che l' amar mi fe' dolce e 'l pianger gioco,

solfo ed esca son tutto, e 'l cor un foco,
da quei soavi spirti i quai sempre odo
acceso dentro, sí ch' ardendo godo,
e di ciò vivo, e d' altro mi cal poco.

Quel Sol che solo agli occhi mei resplende
coi vaghi raggi ancor indi mi scalda
a vespro tal qual era oggi per tempo;

e cosí di lontan m' alluma e 'ncende,
che la memoria ad ognor fresca e salda
pur quel nodo mi mostra e 'l loco e 'l tempo.

 

CLXXVI
 

Per mezz' i boschi inospiti e selvaggi
onde vanno a gran rischio uomini ed arme,
vo securo io, ché non pò spaventarme
altri che 'l Sol ch' à d' Amor vivo i raggi;

e vo cantando (o penser' miei non saggi!)
lei che 'l ciel non poria lontana farme,
ch' i' l'ò negli occhi; e veder seco parme
donne e donzelle, e son abeti e faggi.

Parme d' udirla, udendo i rami e l' òre
e le frondi, e gli augei lagnarsi, e l' acque
mormorando fuggir per l'erba verde.

Raro un silenzio, un solitario orrore
d' ombrosa selva mai tanto mi piacque;
se non che dal mio Sol troppo si perde.

 

CLXXVII
 

Mille piagge in un giorno e mille rivi
mostrato m' à per la famosa Ardenna
Amor, ch' a' suoi le piante e i cori impenna
per fargli al terzo ciel volando ir vivi.

Dolce m' è sol senz' arme esser stato ivi,
dove armato fier Marte e non acenna;
quasi senza governo e senza antenna
legno in mar, pien di penser' gravi e schivi.

Pur giunto al fin de la giornata oscura,
rimembrando ond' io vegno e con quai piume,
sento di troppo ardir nascer paura;

ma 'l bel paese e 'l dilettoso fiume
con serena accoglienza rassecura
il cor già volto ov' abita il suo lume.

 

CLXXVIII
 

Amor mi sprona in un tempo ed affrena,
assecura e spaventa, arde ed agghiaccia,
gradisce e sdegna, a sé mi chiama e scaccia,
or mi tene in speranza ed or in pena;

or alto or basso il meo cor lasso mena,
onde 'l vago desir perde la traccia
e 'l suo sommo piacer per che li spiaccia:
d' error sí novo la mia mente è piena!

Un amico penser le mostra il vado,
non d' acqua che per gli occhi si resolva,
da gir tosto ove spera esser contenta;

poi quasi maggior forza indi la svolva,
conven ch' altra via segua, e mal suo grado
a la sua lunga e mia morte consenta.

 

CLXXIX
 

Geri, quando talor meco s' adira
la mia dolce nemica, ch' è sí altera,
un conforto m' è dato ch' i' non pera,
solo per cui vertú l' alma respira.

Ovunque ella sdegnando li occhi gira,
(che di luce privar mia vita spera?)
le mostro i miei pien d' umiltà sí vera,
ch' a forza ogni suo sdegno indietro tira.

E ciò non fusse, andrei non altramente
a veder lei, che 'l volto di Medusa
che facea marmo diventar la gente.

Cosí dunque fa tu; ch' i' veggio esclusa
ogni altra aita, e 'l fuggir val niente
dinanzi a l' ali che 'l signor nostro usa.

 

CLXXX
 

Po, ben puo' tu portartene la scorza
di me con tue possenti e rapide onde;
ma lo spirto ch' iv' entro si nasconde
non cura né di tua né d' altrui forza:

lo qual, senz' alternar poggia con orza,
dritto per l'aure suo desir seconde,
battendo l' ali verso l' aurea fronde,
l' acqua e 'l vento e la vela e i remi sforza.

Re degli altri, superbo, altero fiume,
che 'ncontri 'l sol quando e' ne mena 'l giorno,
e 'n ponente abandoni un piú bel lume,

tu te ne vai col mio mortal sul corno;
l' altro, coverto d' amorose piume,
torna volando al suo dolce soggiorno.

 

CLXXXI
 

Amor fra l'erbe una leggiadra rete
d' oro e di perle tese sott' un ramo
dell' arbor sempre verde ch' i' tant' amo,
benché n' abbia ombre piú triste che liete.

L' esca fu 'l seme ch' egli sparge e miete,
dolce ed acerbo, ch' i' pavento e bramo;
le note non fur mai, dal dí ch' Adamo
aperse gli occhi, sí soavi e quete.

E 'l chiaro lume che sparir fa 'l sole
folgorava dintorno, e 'l fune avolto
era a la man ch' avorio e neve avanza.

Cosí caddi a la rete; e qui m' àn colto
gli atti vaghi e l' angeliche parole
e 'l piacer e 'l desire e la speranza.

 

CLXXXII
 

Amor, che 'ncende il cor d' ardente zelo,
di gelata paura il ten constretto,
e qual sia piú fa dubbio a l' intelletto
la speranza o 'l temor, la fiamma o 'l gielo.

Trem' al piú caldo, ard' al piú freddo cielo,
sempre pien di desire e di sospetto,
pur come donna in un vestire schietto
celi un uom vivo o sotto un picciol velo.

Di queste pene è mia propia la prima,
arder dí e notte; e quanto è 'l dolce male,
né 'n penser cape, non che 'n versi o 'n rima:

l' altra non già, ché 'l mio bel foco è tale
ch' ogni uom pareggia; e del suo lume in cima
chi volar pensa, indarno spiega l' ale.

 

CLXXXIII
 

Se 'l dolce sguardo di costei m' ancide,
e le soavi parolette accorte,
e s' Amor sopra me la fa sí forte,
sol quando parla, over quando sorride,

lasso! che fia, se forse ella divide,
o per mia colpa o per malvagia sorte,
gli occhi suoi da mercé, sí che di morte
là dove or m' assicura, allor mi sfide?

Però s' i' tremo, e vo col cor gelato,
qualor veggio cangiata sua figura,
questo temer d' antiche prove è nato.

Femina è cosa mobil per natura;
ond' io so ben ch' un amoroso stato
in cor di donna picciol tempo dura.

 

CLXXXIV
 

Amor, natura e la bella alma umile
ov' ogn' alta vertute alberga e regna,
contra men son giurati; Amor s' ingegna
ch' i' mora a fatto, e 'n ciò segue suo stile;

natura ten costei d'un sí gentile
laccio, che nullo sforzo è che sostegna;
ella è sí schiva ch' abitar non degna
piú ne la vita faticosa e vile.

Cosí lo spirto d'or in or ven meno
a quelle belle care membra oneste,
che specchio eran di vera leggiadria;

e s' a morte pietà non stringe 'l freno,
lasso, ben veggio in che stato son queste
vane speranze ond' io viver solía.

 

CLXXXV
 

Questa fenice de l'aurata piuma
al suo bel collo candido gentile
forma senz' arte un sí caro monile
ch' ogni cor addolcisce e 'l mio consuma:

forma un diadema natural ch' alluma
l' aere dintorno, e 'l tacito focile
d'Amor tragge indi un liquido sottile
foco che m' arde a la piú algente bruma.

Purpurea vesta d' un ceruleo lembo
sparso di rose i belli omeri vela:
novo abito e bellezza unica e sola.

Fama ne l' odorato e ricco grembo
d' arabi monti lei ripone e cela,
che per lo nostro ciel sí altera vola.

 

CLXXXVI
 

Se Virgilio e Omero avessin visto
quel Sole il qual vegg' io con gli occhi miei,
tutte lor forze in dar fama a costei
avrian posto, e l' un stil coll' altro misto:

di che sarebbe Enea turbato e tristo,
Achille, Ulisse e gli altri semidei,
e quel che resse anni cinquantasei
sí bene il mondo, e quel ch' ancise Egisto.

Quel fiore antico di vertuti e d' arme
come sembiante stella ebbe con questo
novo fior d' onestate e di bellezze!

Ennio di quel cantò ruvido carme,
di quest' altro io, ed oh pur non molesto
gli sia il mio ingegno e 'l mio lodar non sprezze!

 

CLXXXVII
 

Giunto Alessandro a la famosa tomba
del fero Achille, sospirando disse:
« O fortunato, che sí chiara tromba
trovasti e chi di te sí alto scrisse! »

Ma questa pura e candida colomba,
a cui non so s' al mondo mai par visse,
nel mio stil frale assai poco rimbomba:
cosí son le sue sorti a ciascun fisse!

Che d' Omero dignissima e d' Orfeo
o del pastor ch' ancor Mantova onora,
ch' andassen sempre lei sola cantando,

stella difforme e fato sol qui reo
commise a tal che 'l suo bel nome adora,
ma forse scema sue lode parlando.

 

CLXXXVIII
 

Almo Sol, quella fronde ch' io sola amo,
tu prima amasti: or sola al bel soggiorno
verdeggia e senza par, poi che l' addorno
suo male e nostro vide in prima Adamo.

Stiamo a mirarla: i' ti pur prego e chiamo,
o sole, e tu pur fuggi, e fai dintorno
ombrare i poggi e te ne porti il giorno,
e fuggendo mi toi quel ch' i' piú bramo.

L'ombra che cade da quel' umil colle
ove favilla il mio soave foco,
ove 'l gran lauro fu picciola verga,

crescendo mentr' io parlo, agli occhi tolle
la dolce vista del beato loco
ove 'l mio cor co la sua Donna alberga.

 

CLXXXIX
 

Passa la nave mia colma d'oblio
per aspro mare, a mezza notte, il verno,
enfra Scilla e Caribdi; ed al governo
siede 'l signore, anzi 'l nimico mio;

a ciascun remo un penser pronto e rio
che la tempesta e 'l fin par ch' abbi a scherno;
la vela rompe un vento umido, eterno
di sospir', di speranze e di desio;

pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
bagna e rallenta le già stanche sarte,
che son d'error con ignoranzia attorto.

Celansi i duo mei dolci usati segni;
morta fra l'onde è la ragion e l'arte:
tal ch' incomincio a desperar del porto.

 

CXC
 

Una candida cerva sopra l' erba
verde m' apparve, con duo corna d' oro,
fra due riviere, all' ombra d' un alloro,
levando 'l sole a la stagione acerba.

Era sua vista sí dolce superba
ch' i' lasciai per seguirla ogni lavoro,
come l'avaro che 'n cercar tesoro
con diletto l' affanno disacerba.

« Nessun mi tocchi » al bel collo d' intorno
scritto avea di diamanti e di topazi,
« libera farmi al mio Cesare parve ».

Ed era 'l sol già volto al mezzo giorno;
gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi,
quand' io caddi ne l'acqua, ed ella sparve.

 

CXCI
 

Sí come eterna vita è veder Dio
né piú si brama né bramar piú lice,
cosí me, Donna, il voi veder, felice
fa in questo breve e fraile viver mio.

Né voi stessa, com'or, bella vid' io
già mai, se vero al cor l'occhio ridice,
dolce del mio penser ora beatrice,
che vince ogni alta speme, ogni desio.

E se non fusse il suo fuggir sí ratto,
piú non demanderei: ché, s' alcun vive
sol d' odore, e tal fama fede acquista,

alcun d' acqua o di foco, e 'l gusto e 'l tatto
acquetan cose d' ogni dolzor prive,
i' perché non de la vostra alma vista?

 

CXCII
 

Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra,
cose sopra natura altere e nove.
Vedi ben quanta in lei dolcezza piove,
vedi lume che 'l cielo in terra mostra.

Vedi quant' arte dora e 'mperla e 'nostra
l' abito eletto e mai non visto altrove,
che dolcemente i piedi e gli occhi move
per questa di bei colli ombrosa chiostra.

L'erbetta verde e i fior di color mille
sparsi sotto quel elce antiqua e negra,
pregan pur che 'l bel pe' li prema o tocchi;

e 'l ciel di vaghe e lucide faville
s' accende intorno, e 'n vista si rallegra
d' esser fatto seren da sí belli occhi.

 

CXCIII
 

Pasco la mente d' un sí nobil cibo
ch' ambrosia e nettar non invidio a Giove;
ché, sol mirando, oblio ne l' alma piove
d' ogni altro dolce, e Lete al fondo bibo.

Talor ch' odo dir cose, e 'n cor describo
per che da sospirar sempre ritrove,
rapto per man d'Amor, né so ben dove,
doppia dolcezza in un volto delibo:

ché quella voce infin al ciel gradita
suona in parole sí leggiadre e care,
che pensar no 'l poria chi non l' à udita.

Allor inseme, in men d'un palmo, appare
visibilmente quanto in questa vita
arte, ingegno e Natura e 'l ciel pò fare.

 

CXCIV
 

L'aura gentil, che rasserena i poggi
destando i fior' per questo ombroso bosco,
al soave suo spirto riconosco,
per cui conven che 'n pena e 'n fama poggi.

Per ritrovar ove 'l cor lasso appoggi
fuggo dal mi' natio dolce aere tosco;
per far lume al penser torbido e fosco,
cerco 'l mio Sole e spero vederlo oggi:

nel qual provo dolcezze tante e tali
ch'Amor per forza a lui mi riconduce;
poi sí m' abbaglia che 'l fuggir m' è tardo.

I' chiedrei a scampar non arme, anzi ali;
ma perir mi dà 'l ciel per questa luce,
ché da lunge mi struggo e da presso ardo.

 

CXCV
 

Di dí in dí vo cangiando il viso e 'l pelo,
né però smorso i dolce inescati ami,
né sbranco i verdi ed invescati rami
de l'arbor che né sol cura né gielo.

Senz' acqua il mare e senza stelle il cielo
fia inanzi ch' io non sempre tema e brami
la sua bell' ombra, e ch' i' non odi ed ami
l' alta piaga amorosa che mal celo.

Non spero del mio affanno aver mai posa,
infin ch' i' mi disosso e snervo e spolpo,
o la nemica mia pietà n' avesse.

Esser pò in prima ogni impossibil cosa,
ch' altri che morte od ella sani 'l colpo
ch'Amor co' suoi belli occhi al cor m'impresse.

 

CXCVI
 

L'aura serena che fra verdi fronde
mormorando a ferir nel volto viemme,
fammi risovenir quand'Amor diemme
le prime piaghe sí dolci profonde;

e 'l bel viso veder, ch' altri m' asconde,
che sdegno o gelosia celato tiemme;
e le chiome or avolte in perle e 'n gemme,
allora sciolte e sovra or terso bionde,

le quali ella spargea sí dolcemente
e raccogliea con sí leggiadri modi
che, ripensando, ancor trema la mente.

Torsele il tempo poi in piú saldi nodi
e strinse 'l cor d' un laccio sí possente
che morte sola fia ch' indi lo snodi.

 

CXCVII
 

L'aura celeste che 'n quel verde lauro
spira, ov' Amor ferí nel fianco Apollo,
e a me pose un dolce giogo al collo,
tal che mia libertà tardi restauro,

pò quello in me che nel gran vecchio mauro
Medusa, quando in selce transformollo;
né posso dal bel nodo omai dar crollo,
là 've il sol perde, non pur l' ambra o l'auro:

dico le chiome bionde e 'l crespo laccio
che sí soavemente lega e stringe
l' alma che d' umiltate e non d' altro armo.

L'ombra sua sola fa 'l mio cor un ghiaccio
e di bianca paura il viso tinge;
ma li occhi ànno vertú di farne un marmo.

 

CXCVIII
 

L' aura soave al sole spiega e vibra
l' auro ch'Amor di sua man fila e tesse
là da' begli occhi, e de le chiome stesse
lega 'l cor lasso e i lievi spirti cribra.

Non ò medolla in osso o sangue in fibra
ch' i' non senta tremar, pur ch' i' m' apresse
dove è chi morte e vita inseme, spesse
volte in frale bilancia appende e libra,

vedendo ardere i lumi ond' io m' accendo
e folgorare i nodi ond' io son preso,
or su l' omero destro ed or sul manco.

I' nol posso ridir, ché nol comprendo,
da ta' due luci è l' intelletto offeso
e di tanta dolcezza oppresso e stanco.

 

CXCIX
 

O bella man che mi destringi 'l core
e 'n poco spazio la mia vita chiudi,
man ov' ogni arte e tutti i lor studi
poser natura e 'l ciel per farsi onore;

di cinque perle oriental' colore,
e sol ne le mie piaghe acerbi e crudi,
diti schietti soavi, a tempo ignudi,
consente or voi, per arricchirme, Amore.

Candido leggiadretto e caro guanto,
che copria netto avorio e fresche rose,
chi vide al mondo mai sí dolci spoglie?

Cosí avess' io del bel velo altrettanto!
O incostanzia de l' umane cose!
Pur questo è furto, e vien chi me ne spoglie.

 

CC
 

Non pur quell' una bella ignuda mano,
che con grave mio danno si riveste,
ma l'altra, e le duo braccia accorte e preste
son a stringere il cor timido e piano.

Lacci Amor mille, e nesun tende invano
fra quelle vaghe nove forme oneste
ch' adornan sí l'alto abito celeste,
ch' agiunger nol pò stil, né 'ngegno umano:

li occhi sereni e le stellanti ciglia,
la bella bocca angelica, di perle
piena e di rose e di dolci parole,

che fanno altrui tremar di meraviglia,
e la fronte, e le chiome, ch' a vederle
di state a mezzo dí vincono il sole.

 

CCI
 

Mia ventura ed Amor m' avean sí adorno
d' un bello aurato e serico trapunto,
ch' al sommo del mio ben quasi era aggiunto,
pensando meco: « A chi fu quest' intorno? »

Né mi riede a la mente mai quel giorno
che mi fe' ricco e povero in un punto,
ch' i' non sia d' ira e di dolor compunto,
pien di vergogna e d' amoroso scorno,

che la mia nobil preda non piú stretta
tenni al bisogno, e non fui piú costante
contra lo sforzo sol d'un' angioletta,

o, fugendo, ale non giunsi a le piante,
per far almen di quella man vendetta
che de li occhi mi trae lagrime tante.

 

CCII
 

D'un bel, chiaro, polito e vivo ghiaccio
move la fiamma che m' incende e strugge,
e sí le vène e 'l cor m' asciuga e sugge
che 'nvisibilmente i' mi disfaccio.

Morte, già per ferire alzato 'l braccio,
come irato ciel tona o leon rugge,
va perseguendo mia vita che fugge,
ed io pien di paura tremo e taccio.

Ben poria ancor pietà con amor mista,
per sostegno di me, doppia colonna
porsi fra l' alma stanca e 'l mortal colpo;

ma io nol credo, né 'l conosco in vista
di quella dolce mia nemica e donna:
né di ciò lei, ma mia ventura incolpo.

 

CCIII
 

Lasso, ch' i' ardo ed altri non me 'l crede;
sí crede ogni uom, se non sola colei
ch' è sovr' ogni altra e ch' i' sola vorrei:
ella non par che 'l creda, e sí sel vede.

Infinita bellezza e poca fede,
non vedete voi 'l cor nelli occhi mei?
Se non fusse mia stella, i' pur devrei
al fonte di pietà trovar mercede.

Quest'arder mio, di che vi cal sí poco,
e i vostri onori in mie rime diffusi,
ne porian infiammar fors' ancor mille;

ch' i' veggio nel penser, dolce mio foco,
fredda una lingua e duo belli occhi chiusi
rimaner, dopo noi, pien' di faville.

 

CCIV
 

Anima, che diverse cose tante
vedi, odi e leggi e parli e scrivi e pensi;
occhi miei vaghi, e tu, fra li altri sensi,
che scorgi al cor l' alte parole sante,

per quanto non vorreste o poscia od ante
esser giunti al cammin che sí mal tiensi,
per non trovarvi i duo bei lumi accensi,
né l'orme impresse de l' amate piante?

Or con sí chiara luce e con tai segni
errar non dêsi in quel breve viaggio
che ne pò far d' eterno albergo degni;

sfòrzati al cielo, o mio stanco coraggio,
per la nebbia entro de' suoi dolci sdegni
seguendo i passi onesti e 'l divo raggio.

 

CCV
 

Dolci ire, dolci sdegni e dolci paci,
dolce mal, dolce affanno e dolce peso,
dolce parlare e dolcemente inteso,
or di dolce òra, or pien di dolci faci.

Alma, non ti lagnar, ma soffra e taci,
e tempra il dolce amaro, che n'à offeso,
col dolce onor che d' amar quella ài preso
a cui io dissi: « Tu sola mi piaci ».

Forse ancor fia chi sospirando dica,
tinto di dolce invidia: « Assai sostenne
per bellissimo amor quest' al suo tempo ».

Altri: « O fortuna agli occhi miei nemica,
perché non la vid' io? perché non venne
ella piú tardi, over io piú per tempo? »

 

CCVI
 

S'i' 'l dissi mai, ch' i' vegna in odio a quella
del cui amor vivo, e senza 'l qual morrei;
s'i' 'l dissi, che miei dí sian pochi e rei
e di vil signoria l' anima ancella;
s'i' 'l dissi, contra me s' arme ogni stella,
e dal mio lato sia
paura e gelosia,
e la nemica mia
piú feroce ver' me sempre e piú bella.

S'i' 'l dissi, Amor l' aurate sue quadrella
spenda in me tutte e l'impiombate in lei;
s'i' 'l dissi, cielo e terra, uomini e Dei
mi sian contrari, ed essa ognor piú fella;
s'i' 'l dissi, chi con sua cieca facella
dritto a morte m' invia,
pur come suol si stia,
né mai piú dolce o pia
ver' me si mostri, in atto od in favella.

S'i' 'l dissi mai, di quel ch' i' men vorrei
piena trovi quest'aspra e breve via;
s'i' 'l dissi, il fero ardor che mi desvia
cresca in me quanto il fier ghiaccio in costei;
s'i' 'l dissi, unqua non veggian li occhi mei
sol chiaro o sua sorella,
né donna né donzella,
ma terribil procella
qual Faraone in perseguir li Ebrei.

S'i' 'l dissi, coi sospir, quant' io mai fei,
sia Pietà per me morta e cortesia;
s'i' 'l dissi, il dir s' innaspri, che s' udia
sí dolce allor che vinto mi rendei;
s'i' 'l dissi, io spiaccia a quella ch'i' torrei,
sol chiuso in fosca cella,
dal dí che la mamella
lasciai, fin che si svella
da me l' alma, adorar: forse e 'l farei.

Ma s' io nol dissi, chi sí dolce apria
meo cor a speme ne l' età novella
regg 'ancor questa stanca navicella
col governo di sua pietà natia,
né diventi altra, ma pur qual solia
quando piú non potei,
che me stesso perdei
(né piú perder devrei):
mal fa chi tanta fé sí tosto oblia.

I' nol dissi già mai, né per dir poria
per oro o per cittadi o per castella;
vinca 'l ver dunque e si rimanga in sella,
e vinta a terra caggia la bugia.
Tu sai in me il tutto, Amor: s' ella ne spia,
dinne quel che dir dei.
I' beato direi
tre volte e quattro e sei
chi, devendo languir, si morí pria.

Per Rachel ò servito, e non per Lia;
né con altra saprei
viver, e sosterrei,
quando 'l ciel ne rappella,
girmen con ella in sul carro de Elia.

 

CCVII
 

Ben mi credea passar mio tempo omai
come passato avea quest' anni a dietro,
senz' altro studio e senza novi ingegni:
or poi che da Madonna i' non impetro
l' usata aita, a che condutto m' ài,
tu 'l vedi, Amor, che tal arte m' insegni.
Non so s' i' me ne sdegni,
che 'n questa età mi fa divenir ladro
del bel lume leggiadro,
senza 'l qual non vivrei in tanti affanni.
Cosí avess' io i primi anni
preso lo stil ch' or prender mi bisogna,
ché 'n giovenil fallir è men vergogna.

Li occhi soavi ond' io soglio aver vita,
de le divine lor alte bellezze
fûrmi in sul cominciar tanto cortesi,
che 'n guisa d' uom cui non proprie ricchezze,
ma celato di for soccorso aita,
vissimi; che né lor né altri offesi.
Or, bench' a me ne pesi,
divento ingiurioso ed importuno:
ché 'l poverel digiuno
ven ad atto talor, che 'n miglior stato
avria in altrui biasmato.
Se le man di Pietà invidia m' à chiuse,
fame amorosa, e 'l non poter, mi scuse.

Ch' i' ò cercate già vie piú di mille
per provar senza lor se mortal cosa
mi potesse tener in vita un giorno.
L'anima, poi ch' altrove non à posa,
corre pur a l' angeliche faville,
ed io, che son di cera, al foco torno;
e pongo mente intorno
ove si fa men guardia a quel ch' i' bramo;
e come augel in ramo
ove men teme ivi piú tosto è colto,
cosí dal suo bel volto
l' involo or uno ed or un altro sguardo;
e di ciò inseme mi nutrico ed ardo.

Di mia morte mi pasco e vivo in fiamme:
stranio cibo e mirabil salamandra!
Ma miracol non è: da tal si vole.
Felice agnello a la penosa mandra
mi giacqui un tempo; or a l'estremo famme
e Fortuna ed Amor pur come sole:
cosí rose e viole
à primavera, e 'l verno à neve e ghiaccio.
Però s' i' mi procaccio
quinci e quindi alimenti al viver curto,
se vol dir che sia furto,
sí ricca Donna deve esser contenta,
s'altri vive del suo, ch' ella nol senta.

Chi nol sa di ch' io vivo e vissi sempre
dal dí che 'n prima que' belli occhi vidi,
che mi fecer cangiar vita e costume?
Per cercar terra e mar da tutti lidi,
chi pò saver tutte l'umane tempre?
L'un vive, ecco, d' odor là sul gran fiume;
io qui di foco e lume
queto i frali e famelici miei spirti.
Amor, e vo' ben dirti,
disconvensi a signor l' esser sí parco:
tu ài li strali e l'arco;
fa di tua man, non pur bramand' io mora,
ch' un bel morir tutta la vita onora.

Chiusa fiamma è piú ardente, e se pur cresce
in alcun modo piú non pò celarsi;
Amor, i 'l so che 'l provo a le tue mani.
Vedesti ben quando sí tacito arsi;
or de' miei gridi a ma medesmo incresce,
che vo noiando e prossimi e lontani.
O mondo, o penser' vani!
O mia forte ventura a che m' adduce!
O di che vaga luce
al cor mi nacque la tenace speme,
onde l' annoda e preme
quella che con tua forza al fin mi mena!
La colpa è vostra, e mio 'l danno e la pena.

Cosí di ben amar porto tormento
e del peccato altrui cheggio perdono;
anzi del mio, che devea torcer li occhi
dal troppo lume, e di sirene al suono
chiuder li orecchi; ed ancor non men pento
che di dolce veleno il cor trabocchi.
Aspett' io pur che scocchi
l' ultimo colpo chi mi diede 'l primo:
e fia, s' i' dritto estimo,
un modo di pietate occider tosto,
non essendo ei disposto
a far altro di me che quel che soglia;
ché ben muor chi morendo esce di doglia.

Canzon mia, fermo in campo
starò, ch'elli è disnor morir fuggendo;
e me stesso reprendo
di tai lamenti, sí dolce è mia sorte,
pianto, sospiri e morte!
Servo d'Amor che queste rime leggi,
ben non à 'l mondo che 'l mio mal pareggi.

 

CCVIII
 

Rapido fiume, che d' alpestra vena
rodendo intorno, onde 'l tuo nome prendi,
notte e dí meco disioso scendi
ov'Amor me, te sol natura mena,

vattene innanzi: il tuo corso non frena
né stanchezza né sonno; e pria che rendi
suo dritto al mar, fiso u' si mostri attendi
l' erba piú verde e l'aria piú serena.

Ivi è quel nostro vivo e dolce sole
ch' addorna e 'nfiora la tua riva manca;
forse (o che spero?) e 'l mio tardar le dole.

Basciale 'l piede, o la man bella e bianca;
dille, e 'l basciar sie 'nvece di parole:
« Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca. »

 

CCIX
 

I dolci colli ov' io lasciai me stesso,
partendo onde partir già mai non posso,
mi vanno innanzi, ed emmi ognor a dosso
quel caro peso ch'Amor m' à commesso.

Meco di me mi meraviglio spesso,
ch' i' pur vo sempre e non son ancor mosso
dal bel giogo piú volte indarno scosso,
ma com piú me n' allungo, e piú m'appresso.

E qual cervo ferito di saetta
col ferro avelenato dentr' al fianco
fugge, e piú duolsi quanto piú s' affretta,

tal io con quello stral dal lato manco,
che mi consuma e parte mi diletta,
di duol mi struggo e di fuggir mi stanco.

 

CCX
 

Non da l' ispano Ibero a l' indo Idaspe
ricercando del mar ogni pendice,
né dal lito vermiglio a l'onde caspe,
né 'n ciel né 'n terra è piú d' una fenice.

Qual destro corvo o qual manca cornice
canti 'l mio fato, o qual Parca l' innaspe?
ché sol trovo Pietà sorda com'aspe,
misero, onde sperava esser felice!

Ch' i' non vo' dir di lei; ma chi la scorge,
tutto 'l cor di dolcezza e d' amor gl' empie:
tanto n' à seco, e tant' altrui ne porge;

e, per far mie dolcezze amare ed empie,
o s' infinge o non cura o non s' accorge
del fiorir queste inanzi tempo tempie.

 

CCXI
 

Voglia mi sprona, Amor mi guida e scorge,
piacer mi tira, usanza mi trasporta,
speranza mi lusinga e riconforta,
e la man destra al cor già stanco porge;

e 'l misero la prende e non s' accorge
di nostra cieca e disleale scorta;
regnano i sensi, e la ragion è morta;
de l' un vago desio l' altro risorge.

Vertute, onor, bellezza, atto gentile,
dolci parole ai be' rami m' àn giunto
ove soavemente il cor s' invesca.

Mille trecento ventisette, a punto
su l'ora prima il dí sesto d' aprile,
nel laberinto intrai, né veggio ond' esca.

 

CCXII
 

Beato in sogno, e di languir contento,
d' abbracciar l' ombre e seguir l' aura estiva,
nuoto per mar che non à fondo o riva,
solco onde, e 'n rena fondo, e scrivo in vento;

e 'l sol vagheggio sí ch'elli à già spento
col suo splendor la mia vertú visiva;
ed una cerva errante e fugitiva
caccio con un bue zoppo e 'nfermo e lento.

Cieco e stanco ad ogni altro ch' al mio danno,
il qual dí e notte palpitando cerco,
sol Amor e Madonna e morte chiamo;

cosí venti anni, grave e lungo affanno,
pur lagrime e sospiri e dolor merco:
in tale stella presi l' esca e l' amo!

 

CCXIII
 

Grazie ch' a pochi il ciel largo destina:
rara vertú, non già d' umana gente,
sotto biondi capei canuta mente,
e 'n umil donna alta beltà divina;

leggiadria singulare e pellegrina,
e 'l cantar che ne l'anima si sente,
l'andar celeste e 'l vago spirto ardente
ch' ogni dur rompe ed ogni altezza inchina;

e que' belli occhi che i cor fanno smalti,
possenti a rischiarar abisso e notti,
e torre l' alme a' corpi e darle altrui;

col dir pien d' intelletti dolci ed alti,
coi sospiri soave mente rotti:
da questi magi transformato fui.

 

CCXIV
 

Anzi tre dí creata era alma in parte
da por sua cura in cose altere e nove,
e dispregiar di quel ch' a molti è 'n pregio;
quest' ancor dubbia del fatal suo corso,
sola, pensando, pargoletta e sciolta,
intrò di primavera in un bel bosco.

Era un tenero fior nato in quel bosco
il giorno avanti, e la radice in parte
ch' appressar nol poteva anima sciolta;
ché v' eran di lacciuo' forme sí nove,
e tal piacer precipitava al corso
che perder libertate ivi era in pregio.

Caro, dolce, alto e faticoso pregio
che ratto mi volgesti al verde bosco,
usato di sviarne a mezzo 'l corso!
Ed ò cerco poi 'l mondo a parte a parte,
se versi o petre o suco d'erbe nove
mi rendesser un dí la mente sciolta.

Ma, lasso, or veggio che la carne sciolta
fia di quel nodo ond' è 'l suo maggior pregio
prima che medicine antiche o nove
saldin le piaghe ch' i' presi in quel bosco
folto di spine, ond' i' ò ben tal parte,
che zoppo n' esco, e 'ntrâvi a sí gran corso.

Pien di lacci e di stecchi un duro corso
aggio a fornire, ove leggera e sciolta
pianta avrebbe uopo e sana d' ogni parte.
Ma tu, Signor, ch' ài di pietate il pregio,
porgimi la man destra in questo bosco;
vinca 'l tuo sol le mie tenebre nove.

Guarda 'l mio stato, a le vaghezze nove,
che 'nterrompendo di mia vita il corso
m' àn fatto abitador d' ombroso bosco;
rendimi, s' esser pò, libera e sciolta
l' errante mia consorte, e fia tuo 'l pregio
s' ancor teco la trovo in miglior parte.

Or ecco in parte le question mie nove:
s' alcun pregio in me vive o 'n tutto è corso,
o l' alma sciolta, o ritenuta al bosco.

 

CCXV
 

In nobil sangue vita umile e queta
ed in alto intelletto un puro core,
frutto senile in sul giovenil fiore
e 'n aspetto pensoso anima lieta,

raccolto à 'n questa Donna il suo pianeta,
anzi 'l Re de le stelle; e 'l vero onore,
le degne lode e 'l gran pregio e 'l valore,
ch' è da stancar ogni divin poeta.

Amor s'è in lei con onestate aggiunto,
con beltà naturale abito adorno,
ed un atto che parla con silenzio,

e non so che nelli occhi, che 'n un punto
pò far chiara la notte, oscuro il giorno,
e 'l mèl amaro ed adolcir l' assenzio.

 

CCXVI
 

Tutto 'l dí piango; e poi la notte, quando
prendon riposo i miseri mortali,
trovomi in pianto, e raddoppiansi i mali;
cosí spendo 'l mio tempo lagrimando.

In tristo umor vo li occhi consumando,
e 'l cor in doglia; e son fra li animali
l' ultimo, sí che li amorosi strali
mi tengon ad ogni or di pace in bando.

Lasso, che pur da l' un a l' altro sole
e da l' una ombra a l' altra ò già 'l piú corso
di questa morte che si chiama vita;

piú l' altrui fallo che 'l mi' mal mi dole:
ché Pietà viva, e 'l mio fido soccorso,
vedem' arder nel foco, e non m'aita.

 

CCXVII
 

Già desiai con sí giusta querela
e 'n sí fervide rime farmi udire,
ch' un foco di pietà fessi sentire
al duro cor ch' a mezza state gela,

e l' empia nube che 'l rafredda e vela
rompesse a l'aura del mi' ardente dire,
o fessi quell'altrui in odio venire,
che' belli, onde mi strugge, occhi mi cela.

Or non odio per lei, per me pietate
cerco, ché quel non vo', questo non posso:
tal fu mia stella e tal mia cruda sorte!

Ma canto la divina sua beltate,
ché, quand' i' sia di questa carne scosso,
sappia 'l mondo che dolce è la mia morte.

 

CCXVIII
 

Tra quantunque leggiadre donne e belle
giunga costei ch' al mondo non à pare
col suo bel viso suol dell' altre fare
quel che fa 'l dí de le minori stelle.

Amor par ch' a l' orecchie mi favelle
dicendo: « Quanto questa in terra appare,
fia 'l viver bello; e poi 'l vedrem turbare,
perir vertuti e 'l mio regno con elle. »

Come natura al ciel la luna e 'l sole,
a l'aere i venti, a la terra erbe e fronde,
a l'uomo e l'intelletto e le parole,

ed al mar ritollesse i pesci e l'onde:
tanto e piú fien le cose oscure e sole,
se morte li occhi suoi chiude ed asconde.

 

CCXIX
 

Il cantar novo e 'l pianger delli augelli
in sul dí fanno retenir le valli,
e 'l mormorar de' liquidi cristalli
giú per lucidi freschi rivi e snelli.

Quella ch' à neve il volto, oro i capelli,
nel cui amor non fur mai inganni né falli,
destami al suon delli amorosi balli,
pettinando al suo vecchio i bianchi velli.

Cosí mi sveglio a salutar l' aurora,
e 'l sol ch' è seco, e piú l' altro ond' io fui
ne' primi anni abagliato, e son ancora;

i' gli ò veduti alcun giorno ambedui
levarsi inseme, e 'n un punto e 'n un' ora
quel far le stelle, e questo sparir lui.

 

CCXX
 

Onde tolse Amor l' oro e di qual vena
per far due trecce bionde? e 'n quali spine
colse le rose, e 'n qual piaggia le brine
tenere e fresche, e diè lor polso e lena?

Onde le perle in ch' ei frange ed affrena
dolci parole, oneste e pellegrine?
onde tante bellezze e sí divine
di quella fronte, piú che 'l ciel serena?

Da quali angeli mosse e di qual spera
quel celeste cantar che mi disface
sí che n' avanza omai da disfar poco?

Di qual sol nacque l' alma luce altera
di que' belli occhi ond' io ò guerra e pace,
che mi cuocono il cor in ghiaccio e 'n foco?

 

CCXXI
 

Qual mio destìn, qual forza o qual inganno
mi riconduce disarmato al campo
là 've sempre son vinto? e s' io ne scampo,
meraviglia n' avrò; s' i' moro, il danno.

Danno non già, ma pro: sí dolci stanno
nel mio cor le faville e 'l chiaro lampo
che l'abbaglia e lo strugge, e 'n ch'io m'avampo
e son già, ardendo, nel vigesimo anno.

Sento i messi di morte, ove apparire
veggio i belli occhi e folgorar da lunge;
poi s' aven ch' appressando a me li gire,

Amor con tal dolcezza m'unge e punge
ch' i' no 'l so ripensar, nonché ridire:
ché né 'ngegno né lingua al vero agiunge.

 

CCXXII
 

« Liete e pensose, accompagnate e sole,
donne, che ragionando ite per via,
ove è la vita, ove la morte mia?
perché non è con voi, com' ella sòle? »

« Liete siam per memoria di quel sole;
dogliose per sua dolce compagnia,
la qual ne toglie invidia e gelosia,
che d' altrui ben, quasi suo mal, si dole ».

« Chi pon freno a li amanti o dà lor legge? »
« Nesun a l' alma; al corpo ira ed asprezza:
questo or in lei, talor si prova in noi.

Ma spesso ne la fronte il cor si legge:
sí vedemmo oscurar l' alta bellezza,
e tutti rugiadosi li occhi suoi ».

 

CCXXIII
 

Quando 'l sol bagna in mar l' aurato carro
e l' aere nostro e la mia mente imbruna,
col cielo e co le stelle e co la luna
un' angosciosa e dura notte innarro;

poi, lasso, a tal che non m' ascolta narro
tutte le mie fatiche ad una ad una,
e col mondo e con mia cieca fortuna,
con Amor, con Madonna e meco garro;

il sonno è 'n bando, e del riposo è nulla;
ma sospiri e lamenti infin a l' alba
e lagrime che l' alma a li occhi invia.

Vien poi l'aurora e l' aura fosca inalba,
me no: ma 'l sol che 'l cor m' arde e trastulla,
quel pò solo adolcir la doglia mia.

 

CCXXIV
 

S' una fede amorosa, un cor non finto,
un languir dolce, un desiar cortese;
s' oneste voglie in gentil foco accese,
un lungo error in cieco laberinto;

se ne la fronte ogni penser depinto
od in voci interrotte a pena intese,
or da paura or da vergogna offese;
s' un pallor di viola e d' amor tinto;

s' aver altrui piú caro che se stesso;
se sospirare e lagrimar mai sempre,
pascendosi di duol, d' ira e d' affanno;

s' arder da lunge ed agghiacciar da presso
son le cagion ch' amando i' mi distempre,
vostro, Donna, 'l peccato, e mio fia 'l danno.

 

CCXXV
 

Dodici donne onestamente lasse,
anzi dodici stelle, e 'n mezzo un sole,
vidi in una barchetta allegre e sole,
qual non so s'altra mai onde solcasse;

simil non credo che Iason portasse
al vello onde oggi ogni uom vestir si vole,
né 'l pastor di ch' ancor Troia si dole;
de' qua' duo tal romor al mondo fasse.

Poi le vidi in un carro triunfale,
Laurea mia con suoi santi atti schifi
sedersi in parte e cantar dolcemente:

non cose umane o vision mortale;
felice Autumedon, felice Tifi,
che conduceste sí leggiadra gente!

 

CCXXVI
 

Passer mai solitario in alcun tetto
non fu quant'io, né fera in alcun bosco,
ch' i' non veggio 'l bel viso, e non conosco
altro sol, né quest' occhi ànn' altro obietto.

Lagrimar sempre è 'l mio sommo diletto,
il rider doglia, il cibo assenzio e tosco,
la notte affanno, e 'l ciel seren m' è fosco,
e duro campo di battaglia il letto.

Il sonno è veramente, qual uom dice,
parente de la morte, e 'l cor sottragge
a quel dolce penser che 'n vita il tene.

Solo al mondo paese almo felice,
verdi rive fiorite, ombrose piagge,
voi possedete, ed io piango, il mio bene.

 

CCXXVII
 

Aura che quelle chiome bionde e crespe
cercondi e movi, e se' mossa da loro,
soavemente, e spargi quel dolce oro
e poi 'l raccogli e 'n bei nodi il rincrespe,

tu stai nelli occhi ond' amorose vespe
mi pungon sí che 'n fin qua il sento e ploro,
e vacillando cerco il mio tesoro,
come animal che spesso adombre e 'ncespe;

ch' or mel par ritrovar, ed or m' accorgo
ch' i' ne son lunge; or mi sollievo, or caggio,
ch' or quel ch' i' bramo or quel ch'è vero scorgo.

Aer felice, col bel vivo raggio
rimanti, e tu, corrente e chiaro gorgo,
ché non poss' io cangiar teco viaggio?

 

CCXXVIII
 

Amor co la man destra il lato manco
m' aperse, e piantòvi entro in mezzo 'l core
un lauro verde, sí che di colore
ogni smeraldo avria ben vinto e stanco.

Vomer di pena, con sospir' del fianco,
e 'l piover giú dalli occhi un dolce umore
l' adornar sì, ch' al ciel n' andò l' odore,
qual non so già se d'altre frondi unquanco.

Fama, onor e vertute e leggiadria,
casta bellezza in abito celeste
son le radici de la nobil pianta.

Tal la mi trovo al petto, ove ch' i' sia,
felice incarco; e con preghiere oneste
l'adoro e 'nchino come cosa santa.

 

CCXXIX
 

Cantai, or piango, e non men di dolcezza
del pianger prendo che del canto presi;
ch' a la cagion, non a l' effetto intesi
son i miei sensi vaghi pur d' altezza.

Indi e mansuetudine e durezza
ed atti feri e umili e cortesi,
porto egualmente; né me gravan pesi,
né l'arme mie punta di sdegni spezza.

Tengan dunque ver' me l' usato stile
Amor, Madonna, il mondo e mia fortuna,
ch' i' non penso esser mai se non felice;

viva o mora o languisca, un piú gentile
stato del mio non è sotto la luna:
sí dolce è del mio amaro la radice.

 

CCXXX
 

I' piansi, or canto, ché 'l celeste lume
quel vivo sole alli occhi mei non cela,
nel qual onesto amor chiaro revela
sua dolce forza e suo santo costume:

onde e' suol trar di lagrime tal fiume
per accorciar del mio viver la tela,
che non pur ponte o guado o remi o vela,
ma scampar non potienmi ale né piume;

sí profondo era e di sí larga vena
il pianger mio, e sí lunge la riva,
ch' i' v' aggiungeva col penser a pena.

Non lauro o palma, ma tranquilla oliva
pietà mi manda, e 'l tempo rasserena,
e 'l pianto asciuga, e vuol ancor ch' i' viva.

 

CCXXXI
 

I' mi vivea di mia sorte contento,
senza lagrime e senza invidia alcuna;
ché s' altro amante à piú destra fortuna,
mille piacer' non vaglion un tormento.

Or quei belli occhi, ond' io mai non mi pento
de le mie pene, e men non ne voglio una,
tal nebbia copre sí gravosa e bruna
che 'l Sol de la mia vita à quasi spento.

O Natura, pietosa e fera madre,
onde tal possa e sí contrarie voglie
di far cose e disfar tanto leggiadre?

D'un vivo fonte ogni poder s' accoglie:
ma tu come 'l consenti, o sommo Padre,
che del tuo caro dono altri ne spoglie?

 

CCXXXII
 

Vincitore Alessandro l'ira vinse
e fe' 'l minore in parte che Filippo:
che li val se Pirgotile e Lisippo
l' intagliar solo, ed Apelle il depinse?

L'ira Tideo a tal rabbia sospinse
che, morendo ei, si rose Menalippo;
l'ira cieco del tutto, non pur lippo,
fatto avea Silla: a l'ultimo l'estinse.

Sal Valentinian, ch' a simil pena
ira conduce, e sal quei che ne more,
Ajace in molti, e poi in se stesso, forte.

Ira è breve furore, e chi nol frena,
è furor lungo, che 'l suo possessore
spesso a vergogna, e talor mena a morte.

 

CCXXXIII
 

Qual ventura mi fu, quando da l'uno
de' duo i piú belli occhi che mai furo,
mirandol di dolor turbato e scuro,
mosse vertú che fe' 'l mio infermo e bruno!

Send' io tornato a solver il digiuno
di veder lei che sola al mondo curo,
fummi il ciel ed Amor men che mai duro,
se tutte altre mie grazie inseme aduno:

ché dal destr' occhio, anzi dal destro sole,
de la mia Donna, al mio destr'occhio venne
il mal che mi diletta e non mi dole;

e pur, com' intelletto avesse e penne,
passò, quasi una stella che 'n ciel vole;
e Natura e Pietate il corso tenne.

 

CCXXXIV
 

O cameretta che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie diurne,
fonte se' or di lagrime notturne,
che 'l dí celate per vergogna porto.

O letticciuol, che requie eri e conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor con quelle mani eburne,
solo ver' me crudeli a sí gran torto.

Né pur il mio secreto e 'l mio riposo
fuggo, ma piú me stesso e 'l mio pensero,
che, seguendol talor, levommi a volo;

e 'l vulgo, a me nemico ed odioso,
(ch 'l pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo.

 

CCXXXV
 

Lasso, Amor mi trasporta ov' io non voglio,
e ben m' accorgo che 'l dever si varca,
onde a chi nel mio cor siede monarca
sono importuno assai piú ch' i' non soglio.

Né mai saggio nocchier guardò da scoglio
nave di merci preciose carca
quant' io sempre la debile mia barca
da le percosse del suo duro orgoglio.

Ma lagrimosa pioggia e fieri venti
d' infiniti sospiri or l' ànno spinta,
ch' è nel mio mare orribil notte e verno,

ov' altrui noie, a sé doglie e tormenti
porta, e non altro, già da l' onde vinta,
disarmata di vele e di governo.

 

CCXXXVI
 

Amor, io fallo, e veggio il mio fallire,
ma fo sí com' uom ch' arde e 'l foco à 'n seno;
ché 'l duol pur cresce, e la ragion ven meno
ed è già quasi vinta dal martire;

solea frenare il mio caldo desire
per non turbare il bel viso sereno:
non posso piú, di man m' ài tolto il freno,
e l' alma desperando à preso ardire;

però, s'oltra suo stile ella s' aventa,
tu 'l fai, che sí l' accendi e sí la sproni,
ch' ogni aspra via per sua salute tenta;

e piú 'l fanno i celesti e rari doni
ch'à in sé madonna: or fa' almen ch'ella il senta
e le mie colpe a se stessa perdoni.

 

CCXXXVII
 

Non à tanti animali il mar fra l' onde,
né lassú sopra 'l cerchio de la luna
vide mai tante stelle alcuna notte,
né tanti augelli albergan per li boschi
né tant' erbe ebbe mai il campo né piaggia
quant' à 'l io mio cor pensier' ciascuna sera.

Di dí in dí spero omai l' ultima sera
che scevri in me dal vivo terren l'onde
e mi lasci dormire in qualche piaggia;
ché tanti affanni uom mai sotto la luna
non sofferse quant' io: sannolsi i boschi
che sol vo ricercando giorno e notte.

I' non ebbi già mai tranquilla notte,
ma sospirando andai matino e sera,
poi ch'Amor femmi un cittadin de' boschi;
ben fia, prima ch' i' posi, il mar senz' onde
e la sua luce avrà 'l sol da la luna
e i fior d'april morranno in ogni piaggia.

Consumando mi vo di piaggia in piaggia
el dí, pensoso, poi piango la notte,
né stato ò mai se non quanto la luna;
ratto, come imbrunir veggio la sera,
sospir del petto e de li occhi escono onde
da bagnar l' erbe e da crollare i boschi.

Le città son nemiche, amici i boschi
a' miei pensier', che per quest' alta piaggia
sfogando vo col mormorar de l' onde
per lo dolce silenzio de la notte:
tal ch' io aspetto tutto 'l dí la sera,
che 'l sol si parta e dia luogo a la luna.

Deh or foss'io col vago de la luna
addormentato in qua' che verdi boschi,
e questa, ch' anzi vespro a me fa sera,
con essa e con Amor in quella piaggia
sola venisse a starsi ivi una notte,
e 'l dí si stesse e 'l sol sempre ne l' onde.

Sovra dure onde al lume de la luna,
canzon, nata di notte in mezzo i boschi,
ricca di piaggia vedrai deman da sera.

 

CCXXXVIII
 

Real natura, angelico intelletto,
chiara alma, pronta vista, occhio cerviero,
providenzia veloce, alto pensero
e veramente degno di quel petto:

sendo di donne un bel numero eletto
per adornar il dí festo ed altero,
súbito scorse il buon giudicio intero
fra tanti, e sí bei, volti il piú perfetto.

L' altre maggior' di tempo o di fortuna
trarsi in disparte comandò con mano
e caramente accolse a sé quell' una;

li occhi e la fronte con sembiante umano
basciolle sí che rallegrò ciascuna:
me empié d' invidia l' atto dolce e strano.

 

CCXXXIX
 

Là ver' l' aurora, che sí dolce l' aura
al tempo novo suol movere i fiori,
e li augelletti incominciar lor versi,
sí dolcemente i pensier' dentro a l' alma
mover mi sento a' chi li à tutti in forza,
che ritornar convenmi a le mie note.

Temprar potess' io in sí soavi note
i miei sospiri ch' addolcissen Laura,
facendo a lei ragion, ch' a me fa forza!
Ma pria fia 'l verno la stagion de' fiori
ch'amor fiorisca in quella nobil alma,
che non curò già mai rime né versi.

Quante lagrime, lasso, e quanti versi
ò già sparti al mio tempo, e 'n quante note
ò riprovato umiliar quell' alma!
Ella si sta com' aspr' alpe a l' aura
dolce, la qual ben move frondi e fiori,
ma nulla pò se 'ncontra maggior forza.

Omini e dei solea vincer per forza
Amor, come si legge in prose e 'n versi,
ed io 'l provai in sul primo aprir de' fiori;
ora né 'l mio signor, né le sue note,
né 'l pianger mio né i preghi pon far Laura
trarre o di vita o di martir quest' alma.

A l'ultimo bisogno, o misera alma,
accampa ogni tuo ingegno, ogni tua forza,
mentre fra noi di vita alberga l'aura.
Nulla al mondo è che non possano i versi:
e li aspidi incantar sanno in lor note,
non che 'l gielo adornar con novi fiori.

Ridon or per le piagge erbette e fiori:
esser non pò che quella angelica alma
non senta il suon de l' amorose note;
se nostra ria fortuna è di piú forza,
lagrimando e cantando i nostri versi
e col bue zoppo andrem cacciando l'aura.

In rete accolgo l'aura, e 'n ghiaccio i fiori,
e 'n versi tento sorda e rigida alma,
che né forza d'Amor prezza né note.

 

CCXL
 

I' ò pregato Amor, e 'l ne riprego,
che mi scusi appo voi, dolce mia pena,
amaro mio diletto, se con piena
fede dal dritto mio sentier mi piego.

I' nol posso negar, Donna, e no 'l nego,
che la ragion, ch' ogni bona alma affrena,
non sia dal voler vinta, ond' ei mi mena
talor in parte ov' io per forza il sego.

Voi, con quel cor, che di sí chiaro ingegno,
di sí alta vertute il cielo alluma,
quanto mai piovve da benigna stella,

devete dir, pietosa e senza sdegno:
« Che pò questi altro? Il mio volto il consuma:
ei perché ingordo, ed io perché sí bella? »

 

CCXLI
 

L'alto signor, dinanzi a cui non vale
nasconder, né fuggir, né far difesa,
di bel piacer m' avea la mente accesa
con un ardente ed amoroso strale;

e benche 'l primo colpo aspro e mortale
fossi da sé, per avanzar sua impresa
una saetta di pietate à presa,
e quinci e quindi il cor punge ed assale.

L' una piaga arde, e versa foco e fiamma,
lagrime l' altra, che 'l dolor distilla
per li occhi mei, del vostro stato rio;

né per duo fonti sol una favilla
rallenta de l' incendio che m' infiamma:
anzi per la pietà cresce 'l desio.

 

CCXLII
 

Mira quel colle, o stanco mio cor vago:
ivi lasciammo ier lei ch' alcun tempo ebbe
qualche cura di noi, e le ne 'ncrebbe;
or vorria trar de li occhi nostri un lago.

Torna tu in là, ch'io d' esser sol m'appago;
tenta se forse ancor tempo sarebbe
da scemar nostro duol, che 'nfin qui crebbe,
o del mio mal participe e presago.

Or tu ch' ài posto te stesso in oblio,
e parli al cor pur come e' fusse or teco,
miser e pien di pensier' vani e sciocchi!

ch' al dipartir dal tuo sommo desio,
tu te n' andasti, e' si rimase seco,
e si nascose dentro a' suoi belli occhi.

 

CCXLIII
 

Fresco ombroso fiorito e verde colle,
ov' or pensando ed or cantando siede,
e fa qui de' celesti spirti fede
quella ch' a tutto 'l mondo fama tolle,

il mio cor che per lei lasciar mi volle,
(e fe' gran senno, e piú se mai non riede)
va or contando ove da quel bel piede
segnata è l'erba, e da quest' occhi è molle;

seco si stringe, e dice a ciascun passo:
« Deh fusse or qui quel miser pur un poco,
ch' è già di pianger e di viver lasso ».

Ella sel ride, e non è pari il gioco:
tu paradiso, i' senza cor un sasso,
o sacro aventuroso e dolce loco!

 

CCXLIV
 

Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio,
al qual veggio sí larga e piana via,
ch' i' son intrato in simil frenesia
e con duro penser teco vaneggio,

né so se guerra o pace a Dio mi cheggio,
ché 'l danno è grave e la vergogna è ria.
Ma perché piú languir? di noi pur fia
quel ch' ordinato è già nel sommo seggio.

Ben ch' i' non sia di quel grand' onor degno
che tu mi fai, ché te n' inganna Amore
che spesso occhio ben san fa veder torto,

pur d' alzar l'alma a quel celeste regno
è il mio consiglio, e di spronare il core:
perché 'l camin è lungo e 'l tempo è corto.

 

CCXLV
 

Due rose fresche e colte in paradiso
l' altr' ier, nascendo il dí primo di maggio,
bel dono e d' un amante antiquo e saggio
tra duo minori egualmente diviso,

con sí dolce parlar e con un riso
da far innamorare un uom selvaggio,
di sfavillante ed amoroso raggio
e l' un e l' altro fe' cangiare il viso.

« Non vede un simil par d' amanti il sole »
dicea ridendo e sospirando inseme;
e stringendo ambedue, volgeasi a torno.

Cosí partia le rose e le parole,
onde 'l cor lasso ancor s' allegra e teme:
o felice eloquenzia! o lieto giorno!

 

CCXLVI
 

L' aura, che 'l verde lauro e l' aureo crine
soavemente sospirando move,
fa con sue viste leggiadrette e nove
l'anime da' lor corpi pellegrine.

Candida rosa nata in dure spine,
quando fia chi sua pari al mondo trove,
gloria di nostra etate? O vivo Giove,
manda, prego, il mio in prima che 'l suo fine;

sí ch' io non veggia il gran publico danno,
e 'l mondo remaner senza 'l suo Sole,
né li occhi miei che luce altra non ànno;

né l' alma, che pensar d' altro non vole,
né l' orecchie, ch' udir altro non sanno
senza l' oneste sue dolci parole.

 

CCXLVII
 

Parrà forse ad alcun che 'n lodar quella
ch' i' adoro in terra, errante sia 'l mio stile,
faccendo lei sovr' ogni altra gentile,
santa, saggia, leggiadra, onesta e bella.

A me par il contrario, e temo ch' ella
non abbia a schifo il mio dir troppo umile,
degna d' assai piú alto e piú sottile:
e chi nol crede venga egli a vedella.

Sí dirà ben: « Quello ove questi aspira
è cosa da stancare Atene, Arpino,
Mantova e Smirna, e l' una e l' altra lira. »

Lingua mortale al suo stato divino
giunger non pote: Amor la spinge e tira,
non per elezion ma per destino.

 

CCXLVIII
 

Chi vuol veder quantunque pò natura
e 'l ciel tra noi, venga a mirar costei,
ch' è sola un sol, non pur a li occhi mei,
ma al mondo cieco, che vertú non cura;

e venga tosto, perché morte fura
prima i migliori e lascia star i rei:
questa, aspettata al regno delli dei,
cosa bella mortal passa, e non dura.

Vedrà, s' arriva a tempo, ogni vertute,
ogni bellezza, ogni real costume
giunti in un corpo con mirabil' tempre;

allor dirà che mie rime son mute,
l' ingegno offeso dal soverchio lume:
ma se piú tarda, avrà da pianger sempre.

 

CCXLIX
 

Qual paura ò, quando mi torna a mente
quel giorno ch' i' lasciai grave e pensosa
madonna, e 'l mio cor seco! e non è cosa
che sí volentier pensi, e sí sovente.

I' la riveggio starsi umilemente
tra belle donne, a guisa d' una rosa
tra minor fior'; né lieta né dogliosa,
come chi teme, ed altro mal non sente.

Deposta avea l'usata leggiadria,
le perle e le ghirlande e i panni allegri
e 'l riso e 'l canto e 'l parlar dolce umano.

Cosí in dubbio lasciai la vita mia:
or tristi auguri e sogni e penser' negri
mi danno assalto, e piaccia a Dio che 'nvano.

 

CCL
 

Solea lontana in sonno consolarme
con quella dolce angelica sua vista
madonna, or mi spaventa e mi contrista,
né di duol né di tema posso aitarme;

ché spesso nel suo volto veder parme
vera pietà con grave dolor mista,
ed udir cose onde 'l cor fede acquista
che di gioia e di speme si disarme.

« Non ti soven di quella ultima sera »
dice ella « ch' i' lasciai li occhi tuoi molli,
e sforzata dal tempo me n'andai?

I' non tel potei dir allor né volli;
or tel dico per cosa esperta e vera:
non sperar di vedermi in terra mai ».

 

CCLI
 

O misera ed orribil visione!
É dunque ver che 'nnanzi tempo spenta
sia l'alma luce che suol far contenta
mia vita in pene ed in speranze bone?

Ma come è che sí gran romor non sone
per altri messi, e per lei stessa il senta?
Or già Dio e natura nol consenta,
e falsa sia mia trista opinione.

A me pur giova di sperare ancora
la dolce vista del bel viso adorno,
che me mantene e 'l secol nostro onora.

Se per salir a l' eterno soggiorno
uscita è pur del bel'albergo fora,
prego non tardi il mio ultimo giorno.

 

CCLII
 

In dubbio di mio stato, or piango or canto,
e temo e spero, ed in sospiri e 'n rime
sfogo il mio incarco; Amor tutte sue lime
usa sopra 'l mio core, afflitto tanto.

Or fia già mai che quel bel viso santo
renda a quest'occhi le lor luci prime?
(lasso, non so che di me stesso estime)
o li condanni a sempiterno pianto?

E per prender il ciel debito a lui
non curi che si sia di loro in terra,
di ch'egli è il sole, e non veggiono altrui?

In tal paura e 'n sí perpetua guerra
vivo, ch' i' non so piú quel che già fui:
qual chi per via dubbiosa teme ed erra.

 

CCLIII
 

O dolci sguardi, o parolette accorte,
or fia mai il dí ch' i' vi riveggia ed oda?
o chiome bionde, di che 'l cor m' annoda
Amor, e cosí preso il mena a morte;

o bel viso a me dato in dura sorte,
di ch' io sempre pur pianga e mai non goda;
o chiuso inganno ed amorosa froda,
darmi un piacer che sol pena m'apporte!

E se talor da' belli occhi soavi,
ove mia vita e 'l mio pensero alberga,
forse mi ven qualche dolcezza onesta,

subito, a ciò ch' ogni mio ben disperga
e m'allontane, or fa cavalli or navi
Fortuna, ch' al mio mal sempre è sí presta.

 

CCLIV
 

I' pur ascolto, e non odo novella
de la dolce ed amata mia nemica,
né so ch' i' me ne pensi o ch' i' mi dica,
sí 'l cor tema e speranza mi puntella.

Nocque ad alcuna già l'esser sí bella:
questa piú d'altra è bella e piú pudica:
forse vuol Dio tal di vertute amica
torre a la terra e 'n ciel farne una stella,

anzi un sole; e se questo è, la mia vita,
i miei corti riposi e i lunghi affanni
son giunti al fine. O dura dipartita,

perché lontan m' ài fatto da' miei danni?
La mia favola breve è già compita
e fornito il mio tempo a mezzo gli anni.

 

CCLV
 

La sera desiare, odiar l'aurora
soglion questi tranquilli e lieti amanti:
a me doppia la sera e doglia e pianti,
la matina è per me piú felice ora;

ché spesso in un momento apron allora
l'un sole e l'altro quasi duo levanti,
di beltade e di lume sí sembianti,
ch' anco il ciel de la terra s' innamora,

come già fece allor che' primi rami
verdeggiar, che nel cor radice m'ànno,
per cui sempre altrui piú che me stesso ami.

Cosí di me due contrarie hore fanno,
e chi m' acqueta è ben ragion ch' i' brami,
e tema ed odi' chi m' adduce affanno.

 

CCLVI
 

Far potess' io vendetta di colei
che guardando e parlando mi distrugge,
e per piú doglia poi s'asconde e fugge,
celando li occhi a me sí dolci e rei;

cosí li afflitti e stanchi spirti mei
a poco a poco consumando sugge,
e 'n sul cor quasi fiero leon rugge
la notte, allor quand' io posar devrei.

L'alma, cui morte del suo albergo caccia,
da me si parte, e di tal nodo sciolta
vassene pur a lei che la minaccia;

meravigliomi ben s'alcuna volta
mentre le parla e piange e poi l' abbraccia
non rompe il sonno suo, s' ella l'ascolta.

 

CCLVII
 

In quel bel viso ch' i' sospiro e bramo,
fermi eran li occhi desiosi e 'ntensi,
quando Amor porse, quasi a dir « Che pensi? »
quella onorata man che second' amo.

Il cor preso ivi come pesce a l' amo,
onde a ben far per vivo essempio viensi,
al ver non volse li occupati sensi,
o come novo augello al visco in ramo.

Ma la vista privata del suo obietto,
quasi sognando, si facea far via
senza la qual è 'l suo bene imperfetto;

l'alma, tra l'una e l'altra gloria mia,
qual celeste non so novo diletto
e qual strania dolcezza si sentia.

 

CCLVIII
 

Vive faville uscian de' duo bei lumi
ver me sí dolcemente folgorando,
e parte d' un cor saggio sospirando
d' alta eloquenzia sí soavi fiumi,

che pur il rimembrar par mi consumi
qualor a quel dí torno, ripensando
come venieno i miei spirti mancando
al variar de' suoi duri costumi.

L' alma nudrita sempre in doglia e 'n pene
(quanto è 'l poder d' una prescritta usanza!),
contra 'l doppio piacer sí 'nferma fue,

ch' al gusto sol del disusato bene,
tremando or di paura or di speranza,
d' abandonarme fu spesso entra due.

 

CCLIX
 

Cercato ò sempre solitaria vita
(le rive il sanno e le campagne e i boschi)
per fuggir questi ingegni sordi e loschi,
che la strada del cielo ànno smarrita;

e se mia voglia in ciò fusse compita,
fuor del dolce aere de' paesi toschi
ancor m' avria tra' suoi bei colli foschi
Sorga, ch' a pianger e cantar m' aita.

Ma mia fortuna, a me sempre nemica,
mi risospigne al loco ov' io mi sdegno
veder nel fango il bel tesoro mio.

A la man ond'io scrivo è fatta amica
a questa volta, e non è forse indegno:
Amor sel vide, e sa 'l Madonna ed io.

 

CCLX
 

In tale stella duo belli occhi vidi,
tutti pien d' onestate e di dolcezza,
che presso a quei d'Amor leggiadri nidi
il mio cor lasso ogni altra vista sprezza.

Non si pareggi a lei qual piú s' aprezza,
in qual ch' etade, in quai che strani lidi:
non chi recò con sua vaga bellezza
in Grecia affanni, in Troia ultimi stridi,

no la bella romana che col ferro
apre il suo casto e disdegnoso petto,
non Polissena, Isifile ed Argia.

Questa eccellenzia è gloria, s' i' non erro,
grande a Natura, a me sommo diletto,
ma che ven tardo, e súbito va via.

 

CCLXI
 

Qual donna attende a gloriosa fama
di senno, di valor, di cortesia,
miri fiso nelli occhi a quella mia
nemica, che mia Donna il mondo chiama.

Come s' acquista onor, come Dio s' ama,
come è giunta onestà con leggiadria
ivi s' impara, e qual è dritta via
di gir al ciel, che lei aspetta e brama;

ivi 'l parlar che nullo stile aguaglia
e 'l bel tacere e quei cari costumi
che 'ngegno uman non pò spiegar in carte.

L' infinita belleza ch' altrui abbaglia
non vi s' impara: ché quei dolci lumi
s' acquistan per ventura e non per arte.

 

CCLXII
 

« Cara la vita, e dopo lei mi pare
vera onestà, che 'n bella donna sia ».
« L'ordine volgi: e' non fur, madre mia,
senza onestà mai cose belle o care;

e qual si lascia di suo onor privare
né donna è piú né viva; e se qual pria
appare in vista, è tal vita aspra e ria
via piú che morte, e di piú pene amare.

Né di Lucrezia mi meravigliai
se non come a morir le bisognasse
ferro, e non le bastasse il dolor solo ».

Vengan quanti filosofi fur mai
a dir di ciò: tutte lor vie fien basse,
e quest' una vedremo alzarsi a volo.

 

CCLXIII
 

Arbor vittoriosa, triunfale,
onor d' imperadori e di poeti,
quanti m' ài fatto dí dogliosi e lieti
in questa breve mia vita mortale!

Vera Donna, ed a cui di nulla cale
se non d' onor, che sovr' ogni altra mieti;
né d'Amor visco temi o lacci o reti,
né 'nganno altrui contra 'l tuo senno vale.

Gentileza di sangue e l' altre care
cose tra noi, perle e robini ed oro,
quasi vil soma, egualmente dispregi;

l' alta beltà, ch' al mondo non à pare,
noia t' è, se non quanto il bel tesoro
di castità par ch' ella adorni e fregi.

 

CCLXIV
 

I' vo pensando, e nel penser m' assale
una pietà sí forte di me stesso,
che mi conduce spesso
ad altro lagrimar ch' i' non soleva;
ché vedendo ogni giorno il fin piú presso,
mille fiate ò chieste a Dio quell'ale
co le quai del mortale
carcer nostr'intelletto al ciel si leva:
ma infin a qui niente mi releva
prego o sospiro o lagrimar ch' io faccia;
e cosí per ragion conven che sia,
ché chi, possendo star, cadde tra via
degno è che mal suo grado a terra giaccia.
Quelle pietose braccia
in ch' io mi fido, veggio aperte ancora;
ma temenza m'accora
per gli altrui essempli, e del mio stato tremo;
ch' altri mi sprona e son forse a l'estremo.

L' un penser parla co la mente e dice:
« Che pur agogni? onde soccorso attendi?
misera, non intendi
con quanto tuo disnore il tempo passa?
Prendi partito accortamente, prendi,
e del cor tuo divelli ogni radice
del piacer, che felice
no 'l pò mai fare, e respirar no 'l lassa.
Se già è gran tempo fastidita e lassa
se' di quel falso dolce fuggitivo
che 'l mondo traditor può dare altrui,
a che ripon piú la speranza in lui,
che d' ogni pace e di fermezza è privo?
Mentre che 'l corpo è vivo
ài tu 'l freno in bailia de' penser' tuoi:
deh stringilo or che pòi,
ché dubbioso è 'l tardar, come tu sai,
e 'l cominciar non fia per tempo omai.

Già sai tu ben quanta dolcezza porse
agli occhi tuoi la vista di colei,
la qual anco vorrei
ch' a nascer fosse per piú nostra pace.
Ben ti ricordi, e ricordar ten déi,
de l' imagine sua, quand' ella corse
al cor, là dove forse
non potea fiammma intrar per altrui face.
Ella l' accese, e se l' ardor fallace
durò molt' anni in aspettando un giorno
che per nostra salute unqua non vene,
or ti solleva a piú beata spene
mirando 'l ciel che ti si volve intorno
immortal ed addorno:
ché dove del mal suo qua giú sí lieta
vostra vaghezza acqueta
un mover d' occhi, un ragionar, un canto,
quanto fia quel piacer, se questo è tanto? »

Da l'altra parte un pensier dolce ed agro
con faticosa e dilettevol salma
sedendosi entro l'alma,
preme 'l cor di desio, di speme il pasce;
che sol per fama gloriosa ed alma
non sente quand' io agghiaccio o quand' io flagro,
s' i' son pallido o magro;
e s' io l'occido, piú forte rinasce.
Questo d' allor ch' i' m' addormiva in fasce
venuto è di dí in dí crescendo meco,
e temo ch' un sepolcro ambeduo chiuda.
Poi che fia l' alma de le membra ignuda,
non pò questo desio piú venir seco.
Ma se 'l latino e 'l greco
parlan di me dopo la morte, è un vento:
ond' io, perché pavento
adunar sempre quel ch' un' ora sgombre,
vorre' 'l ver abbracciar, lassando l' ombre.

Ma quell'altro voler di ch' i'son pieno
quanti press' a lui nascon par ch' adugge,
e parte il tempo fugge
che scrivendo d' altrui di me non calme;
e 'l lume de' begli occhi, che mi strugge
soavemente al suo caldo sereno,
mi ritien con un freno
contra cui nullo ingegno o forza valme.
Che giova dunque perché tutta spalme
la mia barchetta, poi che 'nfra li scogli
è ritenuta ancor da ta' duo nodi?
Tu che dagli altri che 'n diversi modi
legano 'l mondo in tutto mi disciogli,
signor mio, ché non togli
omai dal volto mio questa vergogna?
Che 'n guisa d' uom che sogna,
aver la morte inanzi gli occhi parme,
e vorrei far difesa, e non ò l' arme.

Quel ch' i' fo, veggio, e non m' inganna il vero
mal conosciuto, anzi mi sforza Amore,
che la strada d' onore
mai nol lassa seguir chi troppo il crede;
e sento ad ora ad or venirmi al core
un leggiadro disegno, aspro e severo,
ch' ogni occulto pensero
tira in mezzo la fronte, ov' altri 'l vede;
ché mortal cosa amar con tanta fede
quanta a Dio sol per debito convensi,
piú si disdice a chi piú pregio brama.
E questo ad alta voce anco richiama
la ragione sviata dietro ai sensi;
ma, perch' ell' oda e pensi
tornare, il mal costume oltre la spigne,
ed agli occhi depigne
quella che sol per farmi morir nacque,
perch' a me troppo ed a se stessa piacque.

Né so che spazio mi si desse il cielo
quando novellamente io venni in terra
a soffrir l' aspra guerra
che 'ncontra me medesmo seppi ordire:
né posso il giorno, che la vita serra,
antiveder per lo corporeo velo;
ma variarsi il pelo
veggio e dentro cangiarsi ogni desire.
Or ch' i' mi credo al tempo del partire
esser vicino o non molto da lunge,
come chi 'l perder face accorto e saggio,
vo ripensando ov' io lassai 'l viaggio
de la man destra, ch' a buon porto aggiunge:
e da l' un lato punge
vergogna e duol, che 'ndietro mi rivolve;
dall' altro non m'assolve
un piacer per usanza in me sí forte,
ch' a patteggiar n' ardisce co la morte.

Canzon, qui sono, ed ò 'l cor via piú freddo
de la paura che gelata neve,
sentendomi perir senz' alcun dubbio,
ché pur deliberando ò volto al subbio
gran parte omai de la mia tela breve;
né mai peso fu greve
quanto quel ch' i' sostengo in tale stato:
ché co la morte a lato
cerco del viver mio novo consiglio;
e veggio 'l meglio, ed al peggior m' appiglio.

 

CCLXV
 

Aspro core e selvaggio e cruda voglia
in dolce, umile, angelica figura,
se l' impreso rigor gran tempo dura,
avran di me poco onorata spoglia;

ché quando nasce e mor fior, erba e foglia,
quando è 'l dí chiaro e quando è notte oscura,
piango ad ogni or. Ben ò di mia ventura,
di madonna e d'Amore onde mi doglia.

Vivo sol di speranza, rimembrando
che poco umor già per continua prova
consumar vidi marmi e pietre salde:

non è sí duro cor che lagrimando,
pregando, amando, talor non si smova,
né sí freddo voler, che non si scalde.

 

CCLXVI
 

Signor mio caro, ogni pensier mi tira
devoto a veder voi, cui sempre veggio;
la mia fortuna (or che mi pò far peggio?)
mi tene a freno, e mi travolge e gira;

poi quel dolce desio ch'Amor mi spira
menami a morte ch' i' non me n' aveggio;
e mentre i miei duo lumi indarno cheggio,
dovunque io son, dí e notte si sospira.

Carità di signore, amor di donna
son le catene ove con molti affanni
legato son perch' io stesso mi strinsi;

un lauro verde, una gentil colonna,
quindeci l' una, e l' altro diciotto anni,
portato ò in seno, e già mai non mi scinsi.

 

CCLXVII
 

Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo,
oimè il leggiadro portamento altero!
Oimè il parlar ch' ogni aspro ingegno e fero
facevi umile ed ogni uom vil gagliardo!

Ed oimè il dolce riso, onde uscío 'l dardo
di che morte, altro bene omai non spero!
Alma real, dignissima d' impero
se non fossi fra noi scesa sí tardo!

Per voi conven ch' io arda e 'n voi respire,
ch' i' pur fui vostro, e se di voi son privo
via men d' ogni sventura altra mi dole.

Di speranza m' empieste e di desire
quand' io parti' dal sommo piacer vivo:
ma 'l vento ne portava le parole.

 

CCLXVIII
 

Che debb'io far, che mi consigli, Amore?
Tempo è ben di morire
ed ò tardato piú ch' i' non vorrei:
Madonna è morta ed à seco il mio core,
e volendol seguire
interromper conven quest' anni rei;
perché mai veder lei
di qua non spero, e l' aspettar m' è noia:
poscia ch' ogni mia gioia
per lo suo dipartire in pianto è volta,
ogni dolcezza de mia vita è tolta.

Amor, tu 'l senti, ond' io teco mi doglio,
quant' è il danno aspro e grave;
e so che del mio mal ti pesa e dole,
anzi del nostro, perch' ad uno scoglio
avem rotto la nave
ed in un punto n' è scurato il sole.
Qual ingegno a parole
poria aguagliare il mio doglioso stato?
Ai! orbo mondo, ingrato,
gran cagion ài di dever pianger meco,
ché quel bel ch' era in te perduto ài seco.

Caduta è la tua gloria, e tu nol vedi,
né degno eri, mentr'ella
visse qua giú, d' aver sua conoscenza,
né d' esser tocco da' suoi santi piedi,
perché cosa sí bella
devea 'l ciel adornar di sua presenza.
Ma io, lasso, che senza
lei né vita mortal né me stesso amo,
piangendo la richiamo:
questo m' avanza di cotanta spene,
e questo solo ancor qui mi mantene.

Oimè, terra è fatto il suo bel viso,
che solea far del cielo
e del ben di lassú fede fra noi;
l'invisibil sua forma è in paradiso,
disciolta di quel velo
che qui fece ombra al fior degli anni suoi,
per rivestirsen poi
un' altra volta e mai piú non spogliarsi:
quando alma e bella farsi
tanto piú la vedrem quanto piú vale
sempiterna bellezza che mortale.

Piú che mai bella e piú leggiadra donna
tornami inanzi, come
là dove piú gradir sua vista sente;
questa è del viver mio l' una colonna,
l' altra è 'l suo chiaro nome
che sona nel mio cor sí dolcemente.
Ma, tornandomi a mente
che pur morta è la mia speranza, viva
allor ch' ella fioriva,
sa ben Amor qual io divento, e (spero)
vedel colei ch'è or sí presso al vero.

Donne, voi che miraste sua beltate
e l' angelica vita
con quel celeste portamento in terra,
di me vi doglia, e vincavi pietate:
non di lei, ch' è salita
a tanta pace, e m' à lassato in guerra,
tal che, s' altri mi serra
lungo tempo il camin da seguitarla,
quel ch'Amor meco parla
sol mi ritien ch' io non recida il nodo;
ma e' ragiona dentro in cotal modo:

« Pon freno al gran dolor che ti trasporta;
ché per soverchie voglie
si perde 'l cielo ove 'l tuo core aspira,
dove è viva colei ch' altrui par morta,
e di sue belle spoglie
seco sorride e sol di te sospira;
e sua fama che spira
in molte parti ancor per la tua lingua,
prega che non estingua,
anzi la voce al suo nome rischiari,
se gli occhi suoi ti fur dolci né cari ».

Fuggi 'l sereno e 'l verde,
non t' appressare ove sia riso o canto,
canzon mia no, ma pianto:
non fa per te di star fra gente allegra,
vedova, sconsolata, in vesta negra.

 

CCLXIX
 

Rotta è l'alta colonna e 'l verde lauro
che facean ombra al mio stanco pensero:
perduto ò quel che ritrovar non spero
dal borrea a l' austro, o dal mar indo al mauro.

Tolto m'ài, morte, il mio doppio tesauro
che mi fea viver lieto e gire altero,
e ristorar nol pò terra né impero,
né gemma oriental né forza d'auro.

Ma se consentimento è di destino,
che posso io piú se no aver l' alma trista,
umidi gli occhi sempre, e 'l viso chino?

O nostra vita ch' è sí bella in vista,
com' perde agevolmente in un matino
quel che 'n molti anni a gran pena s' acquista!

 

CCLXX
 

Amor, se vuo' ch' i' torni al giogo antico,
come par che tu mostri, un' altra prova
meravigliosa e nova,
per domar me, conventi vincer pria.
Il mio amato tesoro in terra trova,
che m' è nascosto, ond' io son sí mendico,
e 'l cor saggio pudico
ove suol albergar la vita mia;
e s' egli è ver che tua potenzia sia
nel ciel sí grande, come si ragiona,
e ne l' abisso (perché qui fra noi
quel che tu val' e puoi,
credo che 'l sente ogni gentil persona)
ritogli a morte quel ch' ella n' à tolto
e ripon le tue insegne nel bel volto.

Riponi entro 'l bel viso il vivo lume
ch' era mia scorta e la soave fiamma
ch' ancor, lasso, m' infiamma
essendo spenta: or che fea dunque ardendo?
E' non si vide mai cervo né damma
con tal desio cercar fonte né fiume
qual io il dolce costume
onde ò già molto amaro e piú n' attendo;
se ben me stesso e mia vaghezza intendo
che mi fa vaneggiar sol del pensero
e gire in parte ove la strada manca,
e co la mente stanca
cosa seguir che mai giugner non spero.
Or al tuo richiamar venir non degno
ché segnoria non ài fuor del tuo regno.

Fammi sentir de quell'aura gentile
di for sí come dentro ancor si sente;
la qual era possente
cantando d'acquetar li sdegni e l' ire,
di serenar la tempestosa mente
e sgombrar d' ogni nebbia oscura e vile,
ed alzava il mio stile
sovra di sé, dove or non poria gire.
Aguaglia la speranza col desire,
e, poi che l' alma è in sua ragion piú forte,
rendi agli occhi, agli orecchi il proprio oggetto
senza qual imperfetto
è lor oprare e 'l mio vivere è morte.
Indarno or sovra me tua forza adopre
mentre 'l mio primo amor terra ricopre.

Fa ch' io riveggia il bel guardo, ch' un sole
fu sopra 'l ghiaccio ond' io solea gir carco;
fa ch' i' ti trovi al varco
onde senza tornar passò 'l mio core;
prendi i dorati strali e prendi l' arco,
e facciamisi udir, sí come sòle,
col suon de le parole
ne le quali io imparai che cosa è amore;
movi la lingua ov' erano a tutt' ore
disposti gli ami ov' io fui preso, e l' esca
ch' i' bramo sempre, e i tuoi lacci nascondi
fra i capei crespi e biondi,
ché 'l mio voler altrove non s' invesca;
spargi co le tue man le chiome al vento,
ivi mi lega, e puo' mi far contento.

Dal laccio d' or non sia mai chi me scioglia
negletto ad arte e 'nnanellato ed irto,
né de l' ardente spirto
de la sua vista dolcemente acerba,
la qual dí e notte più che lauro o mirto
tenea in me verde l' amorosa voglia,
quando si veste e spoglia
di fronde il bosco e la campagna d' erba.
Ma poi che Morte è stata sí superba
che spezzò il nodo ond' io temea scampare,
né trovar pòi, quantunque gira il mondo,
di che ordischi 'l secondo,
che giova, Amor, tuoi ingegni ritentare?
Passata è la stagion, perduto ài l' arme
di ch'io tremava: ormai che puoi tu farme?

L' arme tue furon gli occhi onde l' accese
saette uscivan d' invisibil foco,
e ragion temean poco
ché 'ncontra 'l ciel non val difesa umana;
il pensar e 'l tacer, il riso e 'l gioco,
l'abito onesto e 'l ragionar cortese,
le parole che 'ntese
avrian fatto gentil d' alma villana,
l'angelica sembianza umile e piana
ch' or quinci or quindi udia tanto lodarsi;
e 'l sedere e lo star, che spesso altrui
poser in dubbio a cui
devesse il pregio di piú laude darsi.
Con quest' armi vincevi ogni cor duro:
or se' tu disarmato, i' son securo.

Gli animi ch' al tuo regno il cielo inchina
leghi ora in uno ed ora in altro modo,
ma me sol ad un nodo
legar potèi, ché 'l ciel di piú non volse.
Quell' uno è rotto, e 'n libertà non godo
ma piango, e grido: « Ai nobil pellegrina,
qual sentenzia divina
me legò inanzi e te prima disciolse?
Dio, che sí tosto al mondo ti ritolse
ne mostrò tanta e sí alta virtute
solo per infiammar nostro desio ».
Certo omai non tem' io,
Amor, de la tua man nove ferute;
indarno tendi l' arco, a voito scocchi:
sua virtú cadde al chiuder de' begli occhi.

Morte m' à sciolto, Amor, d' ogni tua legge:
quella che fu mia Donna al ciel è gita,
lasciando trista e libera mia vita.

 

CCLXXI
 

L' ardente nodo ov' io fui d' ora in ora,
contando, anni ventuno interi, preso,
morte disciolse, né già mai tal peso
provai, né credo ch' uom di dolor mora.

Non volendomi Amor perdere ancora,
ebbe un altro lacciuol fra l'erba teso,
e di nova esca un altro foco acceso
tal ch' a gran pena indi scampato fora.

E se non fosse esperienzia molta
de' primi affanni, i' sarei preso ed arso
tanto piú quanto son men verde legno.

Morte m' à liberato un' altra volta,
e rotto 'l nodo, e 'l foco à spento e sparso;
contra la qual non val forza né 'ngegno.

 

CCLXXII
 

La vita fugge e non s' arresta un' ora
e la morte vien dietro a gran giornate
e le cose presenti e le passate
mi danno guerra, e le future ancora;

e 'l rimembrare e l' aspettar m' accora
or quinci or quindi, sí che 'n veritate,
se non ch' i' ò di me stesso pietate
i' sarei già di questi pensier' fora.

Tornami avanti s' alcun dolce mai
ebbe 'l cor tristo; e poi da l' altra parte
veggio al mio navigar turbati i venti;

veggio fortuna in porto, e stanco omai
il mio nocchier, e rotte arbore e sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.

 

CCLXXIII
 

Che fai? che pensi? che pur dietro guardi
nel tempo che tornar non pote omai,
anima sconsolata? che pur vai
giungnendo legno al foco ove tu ardi?

Le soavi parole e i dolci sguardi,
ch' ad un ad un descritti e depinti ài,
son levati de terra, ed è, ben sai,
qui ricercarli intempestivo e tardi.

Deh non rinovellar quel che n'ancide,
non seguir piú penser vago, fallace,
ma saldo e certo ch' a buon fin ne guide;

cerchiamo 'l ciel, se qui nulla ne piace,
ché mal per noi quella beltà si vide
se viva e morta ne devea tor pace.

 

CCLXXIV
 

Datemi pace, o duri miei pensieri:
non basta ben ch' Amor, Fortuna e Morte
mi fanno guerra intorno e 'n su le porte,
senza trovarmi dentro altri guerreri?

E tu, mio cor, ancor se' pur qual eri,
disleal a me sol, ché fere scorte
vai ricettando e se' fatto consorte
de' miei nemici sí pronti e leggieri?

In te i secreti suoi messaggi Amore,
in te spiega Fortuna ogni sua pompa
e Morte la memoria di quel colpo

che l' avanzo di me conven che rompa;
in te i vaghi pensier' s'arman d' errore:
per che d' ogni mio mal te solo incolpo.

 

CCLXXV
 

Occhi miei, oscurato è 'l nostro Sole,
anzi è salito al cielo ed ivi splende:
ivi il vedremo ancora, ivi n' attende,
e di nostro tardar forse li dole.

Orecchie mie, l' angeliche parole
sonano in parte ove è chi meglio intende;
pie' miei, vostra ragion là non si stende
ov' è colei ch' essercitar vi sole.

Dunque perché mi date questa guerra?
Già di perdere a voi cagion non fui
vederla, udirla e ritrovarla in terra;

Morte biasmate, anzi laudate Lui
che lega e scioglie, e 'n un punto apre e serra,
e dopo 'l pianto sa far lieto altrui.

 

CCLXXVI
 

Poi che la vista angelica, serena,
per súbita partenza in gran dolore
lasciato à l'alma e 'n tenebroso orrore,
cerco parlando d' allentar mia pena.

Giusto duol certo a lamentar mi mena;
sassel chi n' è cagione, e sallo Amore,
ch' altro rimedio non avea 'l mio core
contra i fastidi onde la vita è piena.

Questo un, Morte, m' à tolto la tua mano;
e tu che copri e guardi ed ài or teco,
felice terra, quel bel viso umano,

me dove lasci sconsolato e cieco,
poscia che 'l dolce ed amoroso e piano
lume degli occhi miei non è piú meco?

 

CCLXXVII
 

S' Amor novo consiglio non n' apporta,
per forza converrà che 'l viver cange,
tanta paura e duol l' alma trista ange
che 'l desir vive e la speranza è morta:

onde si sbigottisce e si sconforta
mia vita in tutto, e notte e giorno piange,
stanca, senza governo in mar che frange
e 'n dubbia via senza fidata scorta.

Imaginata guida la conduce,
ché la vera è sotterra, anzi è nel cielo,
onde piú che mai chiara al cor traluce:

agli occhi no, ch' un doloroso velo
contende lor la disiata luce
e me fa sí per tempo cangiar pelo.

 

CCLXXVIII
 

Ne l'età sua piú bella e piú fiorita,
quando aver suol Amor in noi piú forza,
lasciando in terra la terrena scorza
è l' aura mia vital da me partita

e viva e bella e nuda al ciel salita:
indi mi signoreggia, indi mi sforza.
Deh perché me del mio mortal non scorza
l' ultimo dí, ch' è primo a l' altra vita?

Ché come i miei pensier' dietro a lei vanno,
cosí leve, espedita, e lieta l' alma
la segua, ed io sia fuor di tanto affanno;

ciò che s' indugia è proprio per mio danno,
per far me stesso a me piú grave salma:
o che bel morir era, oggi è terzo anno!

 

CCLXXIX
 

Se lamentar augelli, o verdi fronde
mover soavemente a l' aura estiva,
o roco mormorar di lucide onde
s' ode d' una fiorita e fresca riva,

là 'v' io seggia d' amor pensoso e scriva;
lei che 'l ciel ne mostrò, terra n' asconde,
veggio e odo ed intendo, ch' ancor viva
di sí lontano a' sospir' miei risponde:

« Deh perché inanzi 'l tempo ti consume? »
mi dice con pietate « a che pur versi
degli occhi tristi un doloroso fiume?

Di me non pianger tu, ché miei dí fersi
morendo eterni, e ne l' interno lume,
quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi ».

 

CCLXXX
 

Mai non fui in parte ove sí chiar vedessi
quel che veder vorrei, poi ch' io no 'l vidi,
né dove in tanta libertà mi stessi
né 'mpiessi il ciel de sí amorosi stridi;

né già mai vidi valle aver sí spessi
luoghi da sospirar riposti e fidi;
né credo già ch' Amor in Cipro avessi
o in altra riva sí soavi nidi.

L'acque parlan d' amore e l' òra e i rami
e gli augelletti e i pesci e i fiori e l'erba,
tutti inseme pregando ch' i' sempre ami.

Ma tu, ben nata che dal ciel mi chiami,
per la memoria di tua morte acerba
preghi ch'i' sprezzi 'l mondo e i suoi dolci ami.

 

CCLXXXI
 

Quante fiate, al mio dolce ricetto
fuggendo altrui, e, s' esser pò, me stesso
vo con gli occhi bagnando l' erba e 'l petto,
rompendo co' sospir' l' aere da presso!

Quante fiate sol, pien di sospetto,
per luoghi ombrosi e foschi mi son messo
cercando col penser l' alto diletto
che Morte à tolto, ond' io la chiamo spesso!

Or in forma di ninfa o d' altra diva
che del piú chiaro fondo di Sorga esca
e pongasi a sedere in su la riva,

or l' ò veduto su per l' erba fresca
calcare i fior' com' una donna viva,
mostrando in vista che di me le 'ncresca.

 

CCLXXXII
 

Alma felice che sovente torni
a consolar le mie notti dolenti
con gli occhi tuoi, che morte non à spenti
ma sovra 'l mortal modo fatti adorni,

quanto gradisco che' miei tristi giorni
a rallegrar de tua vista consenti!
Cosí comincio a ritrovar presenti
le tue bellezze a' suoi usati soggiorni.

Là 've cantando andai di te molt' anni,
or, come vedi, vo di te piangendo:
di te piangendo no, ma de' miei danni.

Sol un riposo trovo in molti affanni:
che, quando torni, te conosco e 'ntendo
a l'andar, a la voce, al volto, a' panni.

 

CCLXXXIII
 

Discolorato ài, Morte, il piú bel volto
che mai si vide e i piú begli occhi spenti;
spirto piú acceso di vertuti ardenti
del piú leggiadro e più bel nodo ài sciolto.

In un momento ogni mio ben m' ài tolto,
post' ài silenzio a' piú soavi accenti
che mai s'udiro, e me pien di lamenti:
quant' io veggio m' è noia e quant'io ascolto.

Ben torna a consolar tanto dolore
Madonna, ove pietà la riconduce;
né trovo in questa vita altro soccorso.

E se come ella parla e come luce
ridir potessi, accenderei d' amore,
non dirò d' uom, un cor di tigre o d' orso.

 

CCLXXXIV
 

Sí breve è 'l tempo e 'l penser sí veloce
che mi rendon Madonna cosí morta,
ch' al gran dolor la medicina è corta;
pur, mentr' io veggio lei, nulla mi noce.

Amor, che m' à legato e tienmi in croce,
trema quando la vede in su la porta
de l' alma ove m' ancide, ancor sí scorta,
sí dolce in vista e sí soave in voce.

Come donna in suo albergo altera vene,
scacciando de l' oscuro e grave core
co la fronte serena i pensier' tristi.

L'alma, che tanta luce non sostene,
sospira e dice: « O benedette l' ore
del dí che questa via con li occhi apristi! »

 

CCLXXXV
 

Né mai pietosa madre al caro figlio
né donna accesa al suo sposo diletto
diè con tanti sospir', con tal sospetto,
in dubbio stato sí fedel consiglio,

come a me quella che 'l mio grave essiglio
mirando dal suo eterno alto ricetto
spesso a me torna co l' usato affetto,
e di doppia pietate ornata il ciglio,

or di madre or d' amante; or teme or arde
d' onesto foco, e nel parlar mi mostra
quel che 'n questo viaggio fugga o segua,

contando i casi de la vita nostra,
pregando ch' a levar l' alma non tarde:
e sol quant'ella parla ò pace o tregua.

 

CCLXXXVI
 

Se quell'aura soave de' sospiri,
ch' i' odo di colei che qui fu mia
Donna, or è in cielo ed ancor par qui sia,
e viva e senta e vada ed ami e spiri,

ritrar potessi, or che caldi desiri
movrei parlando! sí gelosa e pia
torna ov' io son, temendo non fra via
mi stanchi, o 'ndietro o da man manca giri.

Ir dritto alto m' insegna; ed io che 'ntendo
le sue caste lusinghe e i giusti preghi
col dolce mormorar pietoso e basso,

secondo lei conven mi regga e pieghi
per la dolcezza che del suo dir prendo,
ch' avria vertú di far piangere un sasso.

 

CCLXXXVII
 

Sennuccio mio, benché doglioso e solo
m' abbi lasciato, i' pur mi riconforto
perché del corpo, ov' eri preso e morto,
alteramente se' levato a volo.

Or vedi inseme l' un e l' altro polo,
le stelle vaghe e lor viaggio torto,
e vedi il veder nostro quanto è corto:
onde col tuo gioir tempro 'l mio duolo.

Ma ben ti prego che 'n la terza spera
Guitton saluti e messer Cino e Dante,
Franceschin nostro e tutta quella schiera;

a la mia Donna puoi ben dire in quante
lagrime io vivo e son fatt' una fera,
membrando il suo bel viso e l' opre sante.

 

CCLXXXVIII
 

I' ò pien di sospir' quest' aere tutto,
d' aspri colli mirando il dolce piano
ove nacque colei, ch' avendo in mano
meo cor in sul fiorire e 'n sul far frutto,

è gita al cielo, ed àmmi a tal condutto
col súbito partir, che di lontano
gli occhi miei stanchi, lei cercando invano,
presso di sé non lassan loco asciutto.

Non è sterpo né sasso in questi monti,
non ramo o fronda verde in queste piagge,
non fiore in queste valli o foglia d' erba,

stilla d' acqua non ven di queste fonti,
né fiere àn questi boschi sí selvagge,
che non sappian quanto è mia pena acerba.

 

CCLXXXIX
 

L' alma mia fiammma oltra le belle bella,
ch' ebbe qui 'l ciel sí amico e sí cortese,
anzi tempo per me nel suo paese
è ritornata, ed a la par sua stella.

Or comincio a svegliarmi, e veggio ch' ella
per lo migliore al mio desir contese,
e quelle voglie giovenili accese
temprò con una visita dolce e fella.

Lei ne ringrazio e 'l suo alto consiglio,
che col bel viso e co' soavi sdegni
fecemi ardendo pensar mia salute.

O leggiadre arti e lor effetti degni,
l' un co la lingua oprar, l' altra col ciglio,
io gloria in lei, ed ella in me virtute!

 

CCXC
 

Come va 'l mondo! or mi diletta e piace
quel che piú mi dispiaque; or veggio e sento
che per aver salute ebbi tormento
e breve guerra per eterna pace.

O speranza, o desir sempre fallace
e degli amanti piú ben per un cento!
O quant' era il peggior farmi contento
quella ch' or siede in cielo e 'n terra giace!

Ma 'l ceco Amor e la mia sorda mente
mi traviavan sí ch' andar per viva
forza mi convenia dove morte era:

benedetta colei ch' a miglior riva
volse il mio corso e l' empia voglia ardente
lusingando affrenò perch' io non pera!

 

CCXCI
 

Quand' io veggio dal ciel scender l' aurora
co la fronte di rose e co' crin' d' oro,
Amor m' assale, ond' io mi discoloro
e dico sospirando: « Ivi è Laura ora ».

O felice Titon, tu sai ben l'ora
da ricovrare il tuo caro tesoro;
ma io che debbo far del dolce alloro?
ché, se 'l vo' riveder, conven ch' io mora.

I vostri dipartir' non son sí duri,
ch' almen di notte suol tornar colei
che non à schifo le tue bianche chiome:

le mie notti fa triste e i giorni oscuri
quella che n' à portato i penser' miei
né di sè m' à lasciato altro che 'l nome.

 

CCXCII
 

Gli occhi di ch' io parlai sí caldamente,
e le braccia e le mani e i piedi e 'l viso
che m' avean sí da me stesso diviso
e fatto singular da l' altra gente;

le crespe chiome d' or puro lucente
e 'l lampeggiar de l'angelico riso
che solean fare in terra un paradiso,
poca polvere son che nulla sente.

Ed io pur vivo, onde mi doglio e sdegno,
rimaso senza 'l lume ch' amai tanto
in gran fortuna e 'n disarmato legno.

Or sia qui fine al mio amoroso canto:
secca è la vena de l' usato ingegno
e la cetera mia rivolta in pianto.

 

CCXCIII
 

S' io avesse pensato che sí care
fossin le voci de' sospir' miei in rima,
fatte l' avrei dal sospirar mio prima,
in numero piú spesse, in stil piú rare;

morta colei che mi facea parlare
e che si stava de' pensier' miei in cima,
non posso, e non ò piú sí dolce lima,
rime aspre e fosche far soavi e chiare.

E certo ogni mio studio in quel tempo era
pur d' isfogare il doloroso core
in qualche modo, non d' acquistar fama;

pianger cercai, non già del pianto onore:
or vorrei ben piacer, ma quella altera
tacito stanco dopo sé mi chiama.

 

CCXCIV
 

Soleasi nel mio cor star bella e viva,
com' alta donna in loco umile e basso;
or son fatto io, per l'ultimo suo passo,
non pur mortal ma morto, ed ella è diva.

L' alma d' ogni suo ben spogliata e priva,
Amor de la sua luce ignudo e casso
devrian de la pietà romper un sasso;
ma non è chi lor duol riconti o scriva:

ché piangon dentro, ov' ogni orecchia è sorda
se non la mia, cui tanta doglia ingombra
ch' altro che sospirar nulla m' avanza.

Veramente siam noi polvere ed ombra,
veramente la voglia cieca e 'ngorda,
veramente fallace è la speranza.

 

CCXCV
 

Soleano i miei penser' soavemente
di lor oggetto ragionare inseme;
Pietà s' appressa, e del tardar si pente,
forse or parla di noi o spera o teme.

Poi che l' ultimo giorno e l' ore estreme
spogliar di lei questa vita presente,
nostro stato dal ciel vede, ode e sente:
altra di lei non è rimaso speme.

O miracol gentile! o felice alma!
o beltà senza essempio altera e rara,
che tosto è ritornata ond' ella uscío!

Ivi à del suo ben far corona e palma
quella ch' al mondo sí famosa e chiara
fe' la sua gran vertute e 'l furor mio.

 

CCXCVI
 

I' mi soglio accusare ed or mi scuso,
anzi mi pregio e tengo assai piú caro
de l' onesta pregion, del dolce amaro
colpo ch' i' portai già molt' anni chiuso;

invide Parche, sí repente il fuso
troncaste, ch' attorcea soave e chiaro
stame al mio laccio, e quello aurato e raro
strale onde morte piacque oltra nostro uso!

Ché non fu d' allegrezza a suoi dí mai,
di libertà, di vita alma sí vaga
che non cangiasse 'l suo natural modo,

togliendo anzi per lei sempre trar guai
che cantar per qualunque, e di tal piaga
morir contenta, e vivere in tal nodo.

 

CCXCVII
 

Due gran nemiche inseme erano agiunte,
Bellezza ed Onestà, con pace tanta
che mai rebellion l'anima santa
non sentí poi ch' a star seco fur giunte;

ed or per morte son sparse e disgiunte:
l' una è nel ciel che se ne gloria e vanta;
l' altra sotterra, che' begli occhi amanta,
onde uscir già tant' amorose punte.

L' atto soave e 'l parlar saggio umile
che movea d' alto loco, e 'l dolce sguardo
che piagava il mio core (ancor l' acenna),

sono spariti; e s' al seguir son tardo,
forse averrà che 'l bel nome gentile
consecrerò con questa stanca penna.

 

CCXCVIII
 

Quand' io mi volgo indietro a mirar gli anni
ch' ànno fuggendo i miei penseri sparsi,
e spento 'l foco ove agghiacciando io arsi,
e finito il riposo pien d' affanni,

rotta la fe' degli amorosi inganni,
e sol due parti d' ogni mio ben farsi,
l' una nel cielo e l' altra in terra starsi,
e perduto il guadagno de' miei danni;

i' mi riscuoto, e trovomi sí nudo
ch' i' porto invidia ad ogni estrema sorte:
tal cordoglio e paura ò di me stesso.

O mia stella, o fortuna, o fato, o morte,
o per me sempre dolce giorno e crudo,
come m' avete in basso stato messo!

 

CCXCIX
 

Ov' è la fronte che con picciol cenno
volgea il mio core in questa parte e 'n quella?
Ov' è 'l bel ciglio e l' una e l'altra stella
ch' al corso del mio viver lume denno?

Ov' è 'l valor, la conoscenza e 'l senno?
l'accorta onesta umil dolce favella?
ove son le bellezze accolte in ella,
che gran tempo di me lor voglia fenno?

Ov' è l' ombra gentil del viso umano
ch' òra e riposo dava a l' alma stanca,
e là 've i miei pensier' scritti eran tutti?

Ov' è colei che mia vita ebbe in mano?
Quanto al misero mondo, e quanto manca
agli occhi miei che mai non fien asciutti!

 

CCC
 

Quanta invidia io ti porto, avara terra,
ch' abbracci quella cui veder m' è tolto
e mi contendi l' aria del bel volto
dove pace trovai d' ogni mia guerra!

Quanta ne porto al ciel, che chiude e serra
e sí cupidamente à in sé raccolto
lo spirto da le belle membra sciolto
e per altrui sí rado si diserra!

Quanta invidia a quell' anime che 'n sorte
ànno or sua santa e dolce compagnia,
la qual io cercai sempre con tal brama!

Quant' a la dispietata e dura morte,
ch' avendo spento in lei la vita mia,
stassi ne' suoi begli occhi, e me non chiama!

 

CCCI
 

Valle, che de' lamenti miei se' piena,
fiume, che spesso del mio pianger cresci,
fere selvestre, vaghi augelli e pesci
che l' una e l' altra verde riva affrena;

aria, de' miei sospir' calda e serena,
dolce sentier, che sí amaro riesci,
colle che mi piacesti, or mi rincresci,
ov' ancor per usanza Amor mi mena;

ben riconosco in voi l' usate forme,
non, lasso, in me, che da sí lieta vita
son fatto albergo d' infinita doglia.

Quinci vedea 'l mio bene, e per queste orme
torno a veder ond' al ciel nuda è gita,
lasciando in terra la sua bella spoglia.

 

CCCII
 

Levommi il mio penser in parte ov' era
quella ch' io cerco e non ritrovo in terra;
ivi, fra lor che 'l terzo cerchio serra,
la rividi piú bella e meno altera.

Per man mi prese e disse: « In questa spera
sarai ancor meco, se 'l desir non erra:
i' so' colei che ti diè tanta guerra
e compie' mia giornata inanzi sera.

Mio ben non cape in intelletto umano:
te solo aspetto, e quel che tanto amasti
e là giuso è rimaso, il mio bel velo ».

Deh perché tacque, ed allargò la mano?
ch' al suon de' detti sí pietosi e casti
poco mancò ch' io non rimasi in cielo.

 

CCCIII
 

Amor, che meco al buon tempo ti stavi
fra queste rive a' pensier' nostri amiche,
e per saldar le ragion' nostre antiche
meco e col fiume ragionando andavi;

fior' frondi erbe ombre antri onde aure soavi,
valli chiuse, alti colli e piagge apriche,
porto de l' amorose mie fatiche,
de le fortune mie tante e sí gravi;

o vaghi abitator' de' verdi boschi,
o ninfe, e voi che 'l fresco erboso fondo
del liquido cristallo alberga e pasce,

i dí miei fur sí chiari, or son sí foschi,
come Morte che 'l fa: cosí nel mondo
sua ventura à ciascun dal dí che nasce.

 

CCCIV
 

Mentre che 'l cor dagli amorosi vermi
fu consumato e 'n fiammma amorosa arse,
di vaga fera le vestigia sparse
cercai per poggi solitari ed ermi,

ed ebbi ardir, cantando, di dolermi
d' Amor, di lei che sí dura m' apparse;
ma l' ingegno e le rime erano scarse
in quella etate ai pensier' novi e 'nfermi.

Quel foco è morto e 'l copre un picciol marmo:
che se col tempo fossi ito avanzando
(come già in altri) infino a la vecchiezza,

di rime armato, ond' oggi mi disarmo,
con stil canuto avrei fatto, parlando,
romper le pietre e pianger di dolcezza.

 

CCCV
 

Anima bella, da quel nodo sciolta
che piú bel mai non seppe ordir natura,
pon dal ciel mente a la mia vita oscura,
da sí lieti pensieri a pianger volta.

La falsa opinion dal cor s' è tolta
che mi fece alcun tempo acerba e dura
tua dolce vista: omai tutta secura
volgi a me gli occhi e i miei sospiri ascolta.

Mira 'l gran sasso donde Sorga nasce
e vedrâvi un che sol tra l' erbe e l' acque
di tua memoria e di dolor si pasce;

ove giace il tuo albergo, e dove nacque
il nostro amor, vo' ch' abbandoni e lasce,
per non veder ne' tuoi quel ch' a te spiacque.

 

CCCVI
 

Quel sol che mi mostrava il camin destro
di gire al ciel con gloriosi passi,
tornando al sommo sole, in pochi sassi
chiuse 'l mio lume e 'l suo carcer terrestro:

ond' io son fatto un animal silvestro,
che co' pie' vaghi solitarii e lassi
porto 'l cor grave e gli occhi umidi e bassi
al mondo, ch' è per me un deserto alpestro.

Cosí vo ricercando ogni contrada
ov' io la vidi; e sol tu che m' affligi,
Amor, vien' meco e mostrimi ond' io vada.

Lei non trov' io, ma suoi santi vestigi
tutti rivolti a la superna strada
veggio, lunge da' laghi averni e stigi.

 

CCCVII
 

I' pensava assai destro esser su l' ale,
non per lor forza, ma di chi le spiega,
per gir cantando a quel bel nodo eguale
onde Morte m' assolve, Amor mi lega.

Trovaimi a l' opra via piú lento e frale
d' un picciol ramo cui gran fascio piega
e dissi: « A cader va chi troppo sale
né si fa ben per uom quel che 'l ciel nega ».

Mai non poria volar penna d' ingegno,
nonché stil grave o lingua, ove Natura
volò tessendo il mio dolce ritegno;

seguilla Amor con sí mirabil cura
in adornarlo, ch' i' non era degno
pur de la vista: ma fu mia ventura.

 

CCCVIII
 

Quella per cui con Sorga ò cangiato Arno,
con franca povertà serve richezze,
volse in amaro sue sante dolceze,
ond' io già vissi, or me ne struggo e scarno.

Da poi piú volte ò riprovato indarno
al secol che verrà l' alte belleze
pinger cantando, a ciò che l' alme e preze:
né col mio stile il suo bel viso incarno.

Le lode, mai non d' altra e proprie sue
che 'n lei fur come stelle in cielo sparte,
pur ardisco ombreggiare, or una or due;

ma poi ch' i' giungo a la divina parte
ch' un chiaro e breve sole al mondo fue,
ivi manca l' ardir, l'ingegno e l' arte.

 

CCCIX
 

L'alto e novo miracol, ch' a' dí nostri
apparve al mondo, e star seco non volse,
che sol ne mostrò 'l ciel, poi sel ritolse
per adornarne i suoi stellanti chiostri,

vuol ch' i' depinga a chi nol vide e 'l mostri,
Amor, che 'n prima la mia lingua sciolse,
poi mille volte indarno a l' opra volse
ingegno, tempo, penne, carte, enchiostri.

Non son al sommo ancor giunte le rime:
in me il conosco; e proval ben chiunque
è 'nfin a qui che d' amor parli o scriva.

Chi sa pensare, il ver tacito estime,
ch' ogni stil vince, e poi sospire: « Adunque
beati gli occhi che la vider viva! »

 

CCCX
 

Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena
e i fiori e l' erbe, sua dolce famiglia,
e garrir Progne e pianger Filomena,
e primavera candida e vermiglia;

ridono i prati, e 'l ciel si rasserena,
Giove s' allegra di mirar sua figlia;
l' aria e l' acqua e la terra è d' amor piena;
ogni animal d' amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch' al ciel se ne portò le chiavi;

e cantar augelletti e fiorir piagge,
e 'n belle donne oneste atti soavi
sono un deserto, e fere aspre e selvagge.

 

CCCXI
 

Quel rosignuol, che sí soave piagne
forse suoi figli o sua cara consorte,
di dolcezza empie il cielo e le campagne
con tante note sí pietose e scorte,

e tutta notte par che m' accompagne,
e mi rammente la mia dura sorte:
ch' altri che me non ò di chi mi lagne
ché 'n dee non credev' io regnasse Morte.

O che lieve è inganar chi s' assecura!
Que' duo bei lumi assai piú che 'l sol chiari
chi pensò mai veder far terra oscura?

Or cognosco io che mia fera ventura
vuol che vivendo e lagrimando impari
come nulla qua giú diletta e dura.

 

CCCXII
 

Né per sereno ciel ir vaghe stelle,
né per tranquillo mar legni spalmati
né per campagne cavalieri armati,
né per bei boschi allegre fere e snelle;

né d' aspettato ben fresche novelle,
né dir d' amore in stili alti ed ornati,
né tra chiare fontane e verdi prati
dolce cantare oneste donne e belle;

né altro sarà mai ch' al cor m' aggiunga:
sí seco il seppe quella sepellire
che sola agli occhi miei fu lume e speglio.

Noia m' è 'l viver, sí gravosa e lunga
ch' i' chiamo il fine, per lo gran desire
di riveder cui non veder fu 'l meglio.

 

CCCXIII
 

Passato è 'l tempo omai, lasso, che tanto
con refrigerio in mezzo 'l foco vissi;
passato è quella di ch' io piansi e scrissi,
ma lasciato m'à ben la penna e 'l pianto.

Passato è 'l viso sí leggiadro e santo,
ma, passando, i dolci occhi al cor m'à fissi:
al cor già mio, che seguendo partissi
lei ch' avolto l' avea nel suo bel manto.

Ella 'l se ne portò sotterra, e 'n cielo,
ove or triunfa, ornata de l' alloro
che meritò la sua invitta onestate.

Cosí disciolto dal mortal mio velo
ch' a forza mi tien qui, foss' io con loro
fuor de' sospir', fra l' anime beate!

 

CCCXIV
 

Mente mia, che presaga de' tuoi damni,
al tempo lieto già pensosa e trista,
sí 'ntentamente ne l' amata vista
requie cercavi de' futuri affanni,

agli atti, a le parole, al viso, ai panni,
a la nova pietà con dolor mista,
potei ben dir, se del tutto eri avista:
« Questo è l'ultimo dí de' miei dolci anni ».

Qual dolcezza fu quella, o misera alma,
come ardavamo in quel punto ch' i' vidi
gli occhi i quai non devea riveder mai,

quando a lor, come a' duo amici piú fidi,
partendo, in guardia la piú nobil salma,
i miei cari penseri e 'l cor lasciai!

 

CCCXV
 

Tutta la mia fiorita e verde etade
passava, e 'ntepidir sentia già 'l foco
ch' arse il mio core, ed era giunto al loco
ove scende la vita ch' al fin cade.

Già incominciava a prender securtade
la mia cara nemica a poco a poco
de' suoi sospetti e rivolgeva in gioco
mie pene acerbe sua dolce onestade.

Presso era 'l tempo dove Amor si scontra
con Castitate, ed agli amanti è dato
sedersi inseme, e dir che lor incontra.

Morte ebbe invidia al mio felice stato,
anzi a la speme; e feglisi a l' incontra
a mezza via come nemico armato.

 

CCCXVI
 

Tempo era omai da trovar pace o triegua
di tanta guerra, ed erane in via forse,
se non che' lieti passi indietro torse
chi le disaguaglianze nostre adegua.

Ché, come nebbia al vento si dilegua,
cosí sua vita súbito trascorse
quella che già co' begli occhi mi scorse,
e or conven che col penser la segua.

Poco aveva a 'ndugiar, ché gli anni e 'l pelo
cangiavano i costumi, onde sospetto
non fora il ragionar del mio mal seco.

Con che onesti sospiri l' avrei detto
le mie lunghe fatiche, ch' or dal cielo
vede, son certo, e duolsene ancor meco!

 

CCCXVII
 

Tranquillo porto avea mostrato Amore
a la mia lunga e torbida tempesta
fra gli anni de la età matura onesta,
che i vicij spoglia, e vertú veste e onore.

Già traluceva a' begli occhi il mio core,
e l' alta fede non piú lor molesta.
Ai, Morte ria, come a schiantar se' presta
il frutto de molt' anni in sí poche ore!

Pur, vivendo, veniasi ove deposto
in quelle caste orecchie avrei parlando
de' miei dolci pensier' l' antiqua soma;

ed ella avrebbe a me forse resposto
qualche santa parola sospirando,
cangiati i volti, e l' una e l' altra coma.

 

CCCXVIII
 

Al cader d' una pianta che si svelse
come quella che ferro o vento sterpe,
spargendo a terra le sue spoglie eccelse,
mostrando al sol la sua squalida sterpe,

vidi un' altra, ch' Amor obietto scelse,
subietto in me Calliope ed Euterpe,
che 'l cor m' avinse e proprio albergo felse,
qual per trunco o per muro edera serpe.

Quel vivo lauro ove solean far nido
li alti penseri e i miei sospiri ardenti,
che de' bei rami mai non mossen fronda,

al ciel traslato, in quel suo albergo fido
lasciò radici, onde con gravi accenti
è ancor chi chiami, e non è chi responda.

 

CCCXIX
 

I dí miei piú leggier' che nesun cervo,
fuggîr come ombra, e non vider piú bene
ch' un batter d' occhio, e poche ore serene,
ch' amare e dolci ne la mente servo.

Misero mondo, instabile e protervo,
del tutto è cieco chi 'n te pon sua spene:
ché 'n te mi fu 'l cor tolto, ed or sel tene
tal ch' è già terra, e non giunge osso a nervo.

Ma la forma miglior che vive ancora
e vivrà sempre su ne l' alto cielo,
di sue bellezze ogni or piú m' innamora;

e vo, sol in pensar, cangiando il pelo,
quale ella è oggi e 'n qual parte dimora,
qual a vedere il suo leggiadro velo.

 

CCCXX
 

Sento l' aura mia antica, e i dolci colli
veggio apparire, onde 'l bel lume nacque,
che tenne gli occhi mei mentr' al ciel piacque
bramosi e lieti, or li ten tristi e molli.

O caduche speranze, o penser' folli!
Vedove l' erbe e torbide son l' acque,
e voto e freddo 'l nido in ch' ella giacque,
nel qual io vivo e morto giacer volli,

sperando alfin da le soavi piante
e da' belli occhi suoi, che 'l cor m' ànn' arso,
riposo alcun de le fatiche tante.

Ò servito a signor crudele e scarso:
ch' arsi quanto 'l mio foco ebbi davante,
or vo piangendo il suo cenere sparso.

 

CCCXXI
 

È questo 'l nido in che la mia fenice
mise l' aurate e le purpuree penne,
che sotto le sue ali il mio cor tenne,
e parole e sospiri anco ne elice?

O del dolce mio mal prima radice,
ov' è il bel viso onde quel lume venne
che vivo e lieto ardendo mi mantenne?
Sol' eri in terra; or se' nel ciel felice.

E m' ài lasciato qui misero e solo,
tal che pien di duol sempre al loco torno
che per te consecrato onora e colo,

veggendo a' colli oscura notte intorno
onde prendesti al ciel l' ultimo volo,
e dove li occhi tuoi solean far giorno.

 

CCCXXII
 

Mai non vedranno le mie luci asciutte
con le parti de l'animo tranquille
quelle note ov' Amor par che sfaville,
e Pietà di sua man l' abbia construtte.

Spirto già invitto a le terrene lutte,
ch' or su dal ciel tanta dolcezza stille,
ch' a lo stil, onde Morte dipartille,
le disviate rime ài ricondutte,

di mie tenere frondi altro lavoro
cerdea mostrarte: e qual fero pianeta
n' envidiò inseme, o mio nobil tesoro?

Chi 'nnanzi tempo mi t' asconde e vieta,
che col cor veggio e co la lingua onoro,
e 'n te, dolce sospir, l' alma s'acqueta?

 

CCCXXIII
 

Standomi un giorno solo a la fenestra
onde cose vedea tante, e sí nove,
ch' era sol di mirar quasi già stanco,
una fera m' apparve da man destra
con fronte umana da far arder Giove,
cacciata da duo veltri, un nero, un bianco,
che l' un e l' altro fianco
de la fera gentil mordean sí forte
che 'n poco tempo la menaro al passo,
ove, chiusa in un sasso,
vinse molta bellezza acerba morte:
e mi fe' sospirar sua dura sorte.

Indi per alto mar vidi una nave
con le sarte di seta, e d' or la vela,
tutta d' avorio e d' ebeno contesta;
e 'l mar tranquillo, e l' aura era soave,
e 'l ciel qual è se nulla nube il vela;
ella carca di ricca merce onesta;
poi repente tempesta
oriental turbò sí l' aere e l' onde
che la nave percosse ad uno scoglio.
O che grave cordoglio!
Breve ora oppresse, e poco spatio asconde
l' alte ricchezze a nul' altre seconde.

In un boschetto novo, i rami santi
fiorian d' un lauro giovenetto e schietto,
ch' un delli arbor' parea di paradiso,
e di sua ombra uscían sí dolci canti
di vari augelli e tant' altro diletto,
che dal mondo m' avean tutto diviso;
e mirandol io fiso,
cangiossi 'l cielo intorno, e tinto in vista
folgorando 'l percosse, e da radice
quella pianta felice
subito svelse: onde mia vita è trista,
ché simile ombra mai non si racquista.

Chiara fontana in quel medesmo bosco
sorgea d' un sasso, ed acque fresche e dolci
spargea, soavemente mormorando;
al bel seggio, riposto, ombroso e fosco,
né pastori appressavan né bifolci,
ma ninfe e muse, a quel tenor cantando;
ivi m' assisi, e quando
piú dolcezza prendea di tal concento
e di tal vista, aprir vidi uno speco,
e portarsene seco
la fonte e 'l loco: ond' ancor doglia sento
e sol de la memoria mi sgomento.

Una strania fenice, ambedue l' ale
di porpora vestita e 'l capo d' oro,
vedendo per la selva, altera e sola,
veder forma celeste ed immortale
prima pensai, fin ch' a lo svelto alloro
giunse ed al fonte che la terra invola.
Ogni cosa al fin vola:
ché, mirando le frondi a terra sparse
e 'l troncon rotto e quel vivo umor secco,
volse in sé stessa il becco
quasi sdegnando, e 'n un punto disparse:
onde 'l cor di pietate e d' amor m' arse.

Alfin vid' io per entro i fiori e l' erba
pensosa ir sí leggiadra e bella Donna,
che mai no 'l penso ch' i' non arda e treme:
umile in sé, ma 'ncontra Amor superba;
ed avea in dosso sí candida gonna,
sí testa ch' oro e neve parea inseme,
ma le parti supreme
eran avolte d' una nebbia oscura;
punta poi nel tallon d' un picciol angue,
come fior colto langue,
lieta si dipartío, nonché secura.
Ai, nulla, altro che pianto, al mondo dura!
Canzon, tu puoi ben dire:
Queste sei visioni al signor mio
àn fatto un dolce di morir desio.

 

CCCXXIV
 

Amor, quando fioria
mia spene e 'l guidardon di tanta fede,
tolta m' è quella ond' attendea mercede.

Ai, dispietata morte, ai crudel vita!
l' una m' à posto in doglia,
e mie speranze acerbamente à spente;
l' altra mi ten qua giú contra mia voglia,
e lei che se n' è gita
seguir non posso, ch' ella no 'l consente.
Ma pur ognor presente
nel mezzo del meo cor Madonna siede,
e, qual è la mia vita, ella sel vede.

 

CCCXXV
 

Tacer non posso, e temo non adopre
contrario effetto la mia lingua al core,
che vorria far onore
a la sua Donna, che dal ciel n' ascolta.
Come poss' io, se non m' insegni, Amore,
con parole mortali aguagliar l' opre
divine e quel che copre
alta umiltate, in sé stessa raccolta?
Ne la bella pregione, onde or è sciolta,
poco era stato ancor l' alma gentile,
al tempo che di lei prima m' accorsi:
onde subito corsi,
ch' era de l' anno e di mi' etate aprile,
a coglier fiori in quei prati dintorno
sperando a li occhi suoi piacer sí addorno.

Muri eran d' alabastro, e 'l tetto d' oro,
d' avorio uscio e fenestre di zaffiro,
onde 'l primo sospiro
mi giunse al cor, e giugnerà l' estremo;
inde i messi d' Amor armati usciro
di saette e di foco, ond' io di loro,
coronati d' alloro,
pur come or fusse, ripensando tremo.
D' un bel diamante quadro, e mai non scemo,
vi si vedea nel mezzo un seggio altero,
ove sola sedea la bella Donna;
dinanzi una colonna
cristallina, e iv' entro ogni pensero
scritto, e for tralucea sí chiaramente,
che mi fea lieto e sospirar sovente.

A le pungenti, ardenti e lucide arme,
a la vittoriosa insegna verde,
contra cui in campo perde
Giove ed Apollo e Polifemo e Marte,
ov' è 'l pianto ogni or fresco, e si rinverde,
giunto mi vidi, e non possendo aitarme,
preso lassai menarme
ond' or non so d' uscir la via né l' arte.
Ma sí com' uom talor che piange e parte
vede cosa che li occhi e 'l cor alletta,
cosí colei per ch' io son in pregione,
standosi ad un balcone,
che fu sola a suoi dí cosa perfetta,
cominciai a mirar con tal desio
che me stesso e 'l mio mal posi in oblio.

I' era in terra, e 'l cor in paradiso,
dolcemente obliando ogni altra cura,
e mia viva figura
far sentia un marmo e 'mpier di meraviglia,
quando una donna assai pronta e secura,
di tempo antica e giovene del viso,
vedendomi sí fiso
a l' atto de la fronte e de le ciglia:
« Meco » mi disse « meco ti consiglia,
ch' i' son d' altro poder che tu non credi;
e so far lieti e tristi in un momento,
piú leggiera che 'l vento,
e reggo e volvo quando al mondo vedi;
tien pur gli occhi, come aquila, in quel Sole,
parte dà orecchi a queste mie parole.

Il dí che costei nacque, eran le stelle,
che producon fra voi felici effetti,
in luoghi alti ed eletti
l'una ver' l' altra con amor converse:
Venere e 'l padre con benigni aspetti
tenean le parti signorili e belle,
e le luci impie e felle
quasi in tutto del ciel eran disperse;
il sol mai sí bel giorno non aperse,
l' aere e la terra s' allegrava, e l' acque
per lo mar avean pace e per li fiumi.
Fra tanti amici lumi
una nube lontana mi dispiacque,
la qual temo che 'n pianto si resolve
se pietate altramente il ciel non volve.

Com' ella venne in questo viver basso,
ch' a dir il ver non fu degno d' averla,
cosa nova a vederla,
già santissima e dolce ancor acerba,
parea chiusa in or fin candida perla;
e or carpone, or con tremante passo,
legno, acqua, terra o sasso
verde facea, chiara, soave, e l' erba
con le palme o coi pie' fresca e superba,
e fiorir coi belli occhi le campagne,
e acquetar i venti e le tempeste
con voci ancor non preste,
di lingua che dal latte si scompagne:
chiaro mostrando al mondo sordo e cieco
quanto lume del ciel fusse già seco.

Poi che, crescendo in tempo ed in virtute,
giunse a la terza sua fiorita etate,
leggiadria né beltate
tanta non vide 'l sol, credo, già mai:
li occhi pien' di letizia e d' onestate
e 'l parlar di dolcezza e di salute.
Tutte lingue son mute
a dir di lei quel che tu sol ne sai.
Sí chiaro à 'l volto di celesti rai,
che vostra vista in lui non pò fermarse;
e da quel suo bel carcere terreno
di tal foco ài 'l cor pieno,
ch' altro piú dolcemente mai non arse;
ma parmi che sua súbita partita
tosto ti fia cagion d' amara vita ».

Detto questo, a la sua volubil rota
si volse, in ch' ella fila il nostro stame,
trista e certa indivina de' miei danni;
ché dopo non molt' anni
quella per ch' io ò di morir tal fame,
canzon mia, spense Morte acerba e rea,
che piú bel corpo occider non potea.

 

CCCXXVI
 

Or ài fatto l' estremo di tua possa,
o crudel Morte; or ài 'l regno d' Amore
impoverito; or di bellezza il fiore
e 'l lume ài spento, e chiuso in poca fossa;

or ài spogliata nostra vita e scossa
d' ogni ornamento e del sovran suo onore;
ma la fama e 'l valor che mai non more
non è in tua forza: abbiti ignude l' ossa;

ché l'altro à 'l cielo, e di sua chiaritate
quasi d' un piú bel sol s' allegra e gloria,
e fi' al mondo de' buon' sempre in memoria.

Vinca 'l cor vostro in sua tanta vittoria,
angel novo, lassú di me pietate,
come vinse qui 'l mio vostra beltate.

 

CCCXXVII
 

L' aura e l'odore e 'l refrigerio e l'ombra
del dolce lauro e sua vista fiorita,
lume e riposo di mia stanca vita,
tolto à colei che tutto 'l mondo sgombra.

Come a noi il sol, se sua soror l' adombra,
cosí, l' alta mia luce a me sparita,
i' cheggio a Morte incontra Morte aita,
di sí scuri penseri Amor m' ingombra.

Dormit' ài, bella Donna, un breve sonno:
or se' svegliata fra li spirti eletti,
ove nel suo fattor l' alma s' interna;

e, se mie rime alcuna cosa ponno,
consecrata fra i nobili intelletti
fia del tuo nome qui memoria eterna.

 

CCCXXVIII
 

L'ultimo, lasso, de' miei giorni allegri,
che pochi ò visto in questo viver breve,
giunto era, e fatto 'l cor tepida neve,
forse presago de' dí tristi e negri.

Qual à già i nervi e i polsi e i penser' egri
cui domestica febbre assalir deve,
tal mi sentia non sappiend' io che leve
venisse 'l fin de' miei ben' non integri.

Li occhi belli, or in ciel chiari e felici
del lume onde salute e vita piove,
lasciando i miei qui miseri e mendici,

dicean lor con faville oneste e nove:
« Rimanetevi in pace, o cari amici.
Qui mai piú no, ma rivedrenne altrove ».

 

CCCXXIX
 

O giorno, o ora, o ultimo momento,
o stelle congiurate a 'mpoverirme!
o fido sguardo, or che volei tu dirme,
partend' io per non esser mai contento?

Or conosco i miei danni, or mi risento;
ch' i' credeva (ai credenze vane e 'nfirme!)
perder parte, non tutto, al dipartirme:
quante speranze se ne porta il vento!

Ché già 'l contrario era ordinato in cielo,
spegner l' almo mio lume ond' io vivea,
e scritto era in sua dolce amara vista;

ma 'nnanzi agli occhi m' era post' un velo
che mi fea non veder quel ch' i' vedea,
per far mia vita subito piú trista.

 

CCCXXX
 

Quel vago, dolce, caro, onesto sguardo
dir parea: « To' di me quel che tu pòi,
ché mai piú qui non mi vedrai, da poi
ch' avrai quinci il pe' mosso, a mover tardo ».

Intelletto veloce piú che pardo,
pigro in antivedere i dolor' tuoi,
come non vedestú nelli occhi suoi
quel che ved' ora, ond' io mi struggo ed ardo?

Taciti, sfavillando oltra lor modo,
dicean: « O lumi amici, che gran tempo
con tal dolcezza feste di noi specchi,

il ciel n' aspetta; a voi parrà per tempo,
ma chi ne strinse qui, dissolve il nodo,
e 'l vostro, per farv' ira, vuol che 'nvecchi ».

 

CCCXXXI
 

Solea da la fontana di mia vita
allontanarme e cercar terre e mari,
non mio voler, ma mia stella seguendo;
e sempre andai, tal Amor diemmi aita,
in quelli essilii quanto e' vide amari,
di memoria e di speme il cor pascendo.
Or lasso, alzo la mano e l'arme rendo
a l' empia e violenta mia fortuna,
che privo m' à di sí dolce speranza;
sol memoria m' avanza
e pasco 'l gran desir sol di quest' una:
onde l' alma vien men, frale e digiuna.

Come a corrier tra via, se 'l cibo manca,
conven per forza rallentare il corso,
scemando la vertù che 'l fea gir presto;
cosí, mancando a la mia vita stanca
quel caro nutrimento in che di morso
diè chi 'l mondo fa nudo e 'l mio cor mesto,
il dolce acerbo, e 'l bel piacer molesto
mi si fa d' ora in ora: onde 'l camino
sí breve non fornir spero e pavento.
Nebbia o polvere al vento,
fuggo per piú non esser pellegrino:
e così vada, s'è pur mio destino.

Mai questa mortal vita a me non piacque
(sassel' Amor con cui spesso ne parlo),
se non per lei che fu 'l suo lume e 'l mio;
poi che 'n terra morendo, al ciel rinacque
quello spirto ond' io vissi, a seguitarlo
(licito fusse) è 'l mi' sommo desio.
Ma da dolermi ò ben sempre, perch' io
fui mal accorto a proveder mio stato,
ch' Amor mostrommi sotto quel bel ciglio
per darmi altro consiglio:
ché tal morí già tristo e sconsolato
cui poco inanzi era 'l morir beato.

Nelli occhi ov' abitar solea 'l mio core,
finché mia dura sorte invidia n' ebbe,
che di sí ricco albergo il pose in bando,
di sua man propria avea descritto Amore
con lettre di pietà quel ch' averrebbe
tosto del mio sí lungo ir desiando.
Bello e dolce morire era allor quando,
morend' io, non moria mia vita inseme,
anzi vivea di me l' ottima parte:
or mie speranza sparte
à Morte, e poca terra il mio ben preme;
e vivo; e mai no 'l penso ch' i' non treme.

Se stato fusse il mio poco intelletto
meco al bisogno, e non altra vaghezza
l' avesse disviando altrove volto,
ne la fronte a Madonna avrei ben letto:
« Al fin se' giunto d' ogni tua dolcezza
ed al principio del tuo amaro molto ».
Questo intendendo, dolcemente sciolto
in sua presenzia del mortal mio velo
e di questa noiosa e grave carne,
potea inanzi lei andarne
a veder preparar sua sedia in cielo:
or l' andrò dietro, omai, con altro pelo.

Canzon, s'uom trovi in suo amor viver queto,
di': « Muor mentre se' lieto,
ché Morte al tempo è non duol, ma refugio;
e chi ben pò morir, non cerchi indugio ».

 

CCCXXXII
 

Mia benigna fortuna e 'l viver lieto,
i chiari giorni e le tranquille notti
e i soavi sospiri, e 'l dolce stile
che solea resonare in versi e 'n rime,
volti subitamente in doglia e 'n pianto,
odiar Vita mi fanno e bramar Morte.

Crudel, acerba, inesorabil Morte,
cagion mi dài di mai non esser lieto,
ma di menar tutta mia vita in pianto,
e i giorni oscuri e le dogliose notti;
i mei gravi sospir' non vanno in rime
e 'l mio duro martir vince ogni stile.

Ove è condutto il mio amoroso stile?
a parlar d' ira, a ragionar di morte.
U' sono i versi, u' son giunte le rime
che gentil cor udia pensoso e lieto?
ove 'l favoleggiar d' amor le notti?
Or non parl' io, né penso, altro che pianto.

Già mi fu col desir sí dolce il pianto,
che condia di dolcezza ogni agro stile,
e vegghiar mi facea tutte le notti;
or m' è 'l pianger amaro piú che morte,
non sperando mai 'l guardo onesto e lieto,
alto sogetto a le mie basse rime.

Chiaro segno Amor pose a le mie rime
dentro a' belli occhi, ed or l' à posto in pianto,
con dolor rimembrando il tempo lieto:
ond' io vo col penser cangiando stile
e ripregando te, pallida Morte,
che mi sottragghi a sí penose notti.

Fuggito è 'l sonno a le mie crude notti
e 'l suono usato a le mie roche rime,
che non sanno trattar altro che morte;
cosí è 'l mio cantar converso in pianto:
non à 'l regno d' Amor sí vario stile,
ch' è tanto or tristo quanto mai fu lieto.

Nesun visse già mai piú di me lieto,
nesun vive piú tristo e giorni e notti;
e doppiando 'l dolor, doppia lo stile,
che trae del cor sí lacrimose rime.
Vissi di speme, or vivo pur di pianto,
né contra Morte spero altro che morte.

Morte m'à morto, e sola pò far Morte
ch' i' torni a riveder quel viso lieto
che piacer mi facea i sospiri e 'l pianto,
l' aura dolce e la pioggia a le mie notti
quando i penseri eletti tessea in rime,
Amor alzando il mio debile stile.

Or avess' io un sí pietoso stile
che Laura mia potesse torre a Morte
come Euridice Orfeo sua senza rime,
ch' i' viverei ancor piú che mai lieto!
S' esser non pò, qualchuna d' este notti
chiuda omai queste due fonti di pianto.

Amor, i' ò molti e molt' anni pianto
mio grave danno in doloroso stile,
né da te spero mai men fere notti;
e però mi son mosso a pregar Morte
che mi tolla di qui, per farme lieto,
ove è colei ch' i' canto e piango in rime.

Se sí alto pon gir mie stanche rime
ch' agiungan lei ch' è fuor d' ira e di pianto
e fa 'l ciel or di sue bellezze lieto,
ben riconoscerà 'l mutato stile
che già forse le piacque, anzi che Morte
chiaro a lei giorno, a me fesse atre notti.

O voi che sospirate a miglior' notti,
ch' ascoltate d' Amore o dite in rime,
pregate non mi sia piú sorda Morte,
porto de le miserie e fin del pianto;
muti una volta quel suo antiquo stile
ch' ogni uom attrista, e me pò far sí lieto.

Far mi pò lieto in una o 'n poche notti:
e 'n aspro stile e 'n angosciose rime
prego che 'l pianto mio finisca Morte.

 

CCCXXXIII
 

Ite, rime dolenti, al duro sasso
che 'l mio caro tesoro in terra asconde;
ivi chiamate chi dal ciel risponde,
benché 'l mortal sia in loco oscuro e basso.

Ditele ch' i' son già di viver lasso,
del navigar per queste orribili onde;
ma, ricogliendo le sue sparte fronde,
dietro le vo pur cosí passo passo,

sol di lei ragionando viva e morta,
anzi pur viva, ed or fatta immortale
a ciò che 'l mondo la conosca ed ame.

Piacciale al mio passar esser accorta,
ch' è presso omai: siami a l' incontro, e quale
ella è nel cielo a sé mi tiri e chiame.

 

CCCXXXIV
 

S' onesto amor pò meritar mercede
e se Pietà ancor pò quant' ella suole,
mercede avrò, ché piú chiara che 'l sole
a Madonna ed al mondo è la mia fede.

Già di me paventosa, or sa (no 'l crede)
che quello stesso ch' or per me si vole
sempre si volse; e, s' ella udia parole
o vedea 'l volto, or l' animo e 'l cor vede;

ond' i' spero che 'nfin al ciel si doglia
di miei tanti sospiri, e cosí mostra,
tornando a me sí piena di pietate;

e spero ch' al por giú di questa spoglia
venga per me con quella gente nostra,
vera amica di Cristo e d' onestate.

 

CCCXXXV
 

Vidi fra mille donne una già tale,
ch' amorosa paura il cor m' assalse,
mirandola in imagini non false
a li spirti celesti in vista eguale.

Niente in lei terreno era o mortale
sí come a cui del ciel, non d' altro calse;
l'alma, ch' arse per lei sí spesso ed alse,
vaga d' ir seco, aperse ambedue l'ale.

Ma tropp' era alta al mio peso terrestre,
e poco poi n' uscì in tutto di vista,
di che pensando ancor m' aghiaccio e torpo.

O belle ed alte e lucide fenestre
onde colei che molta gente attrista
trovò la via d' entrare in sí bel corpo!

 

CCCXXXVI
 

Tornami a la mente, anzi v'è dentro, quella
ch' indi per Lete esser non pò sbandita,
qual io la vidi in su l' età fiorita
tutta accesa de' raggi di sua stella.

Sí nel mio primo occorso onesta e bella
veggiola, in sé raccolta e sí romita,
ch' i' grido: « Ell' è ben dessa, ancor è in vita »,
e 'n don le cheggio sua dolce favella.

Talor risponde, e talor non fa motto;
i', come uom ch' erra e poi piú dritto estima,
dico a la mente mia: « Tu se' 'ngannata:

sai che 'n mille trecento quarantotto,
il dí sesto d' aprile, in l' ora prima,
del corpo uscío quell' anima beata ».

 

CCCXXXVII
 

Quel che d' odore e di color vincea
l' odorifero e lucido oriente,
frutti fiori erbe e frondi, onde 'l ponente
d' ogni rara eccellenzia il pregio avea,

dolce mio lauro, ove abitar solea
ogni bellezza, ogni vertute ardente,
vedeva a la sua ombra onestamente
il mio signor sedersi e la mia dea.

Ancor io il nido di penseri eletti
posi in quell'alma pianta; e 'n foco e 'n gielo
tremando, ardendo, assai felice fui.

Pieno era il mondo de' suoi onor' perfetti,
allor che Dio per adornarne il cielo
la si ritolse: e cosa era da lui.

 

CCCXXXVIII
 

Lasciato ài, Morte, senza sole il mondo,
oscuro e freddo, Amor cieco ed inerme,
leggiadria ignuda, le bellezze inferme,
me sconsolato ed a me grave pondo,

cortesia in bando ed onestate in fondo;
dogliom' io sol, né sol ò da dolerme,
ché svelt' ài di vertute il chiaro germe:
spento il primo valor, qual fia il secondo?

Pianger l' aer e la terra e 'l mar devrebbe
l' uman legnaggio, che senz' ella è quasi
senza fior prato, o senza gemma anello.

Non la conobbe il mondo mentre l' ebbe:
conobbil' io, ch' a pianger qui rimasi,
e 'l ciel che del mio pianto or si fa bello.

 

CCCXXXIX
 

Conobbi, quanto il ciel li occhi m' aperse,
quanto studio ed Amor m' alzaron l' ali,
cose nove e leggiadre, ma mortali
che 'n un soggetto ogni stella cosperse.

L' altre tante, sí strane e sí diverse
forme altere celesti ed immortali,
perché non furo a l' intelletto eguali,
la mia debil vista non sofferse.

Onde quant' io di lei parlai né scrissi,
ch' or per lodi anzi a Dio preghi mi rende,
fu breve stilla d' infiniti abissi:

ché stilo oltra l' ingegno non si stende;
e, per aver uom li occhi nel sol fissi,
tanto si vede men quanto piú splende.

 

CCCXL
 

Dolce mio caro e precioso pegno
che natura mi tolse, e 'l ciel mi guarda,
deh come è tua pietà ver' me sí tarda,
o usato di mia vita sostegno?

Già suo' tu far il mio sonno almen degno
de la tua vista, ed or sostien ch' i' arda
senz' alcun refrigerio: e chi 'l retarda?
Pur lassú non alberga ira né sdegno,

onde qua giuso un ben pietoso core
talor si pasce delli altrui tormenti,
sí ch' elli è vinto nel suo regno Amore.

Tu che dentro mi vedi, e 'l mio mal senti,
e sola puoi finir tanto dolore,
con la tua ombra acqueta i miei lamenti.

 

CCCXLI
 

Deh qual pietà, qual angel fu sí presto
a portar sopra 'l cielo il mio cordoglio?
ch' ancor sento tornar pur come soglio
Madonna in quel suo atto dolce onesto

ad acquetare il cor misero e mesto,
piena sí d' umiltà, vota d' argoglio,
e 'nsomma tal ch' a morte i' mi ritoglio
e vivo, e 'l viver piú non m' è molesto.

Beata s' è, che pò beare altrui
co la sua vista o ver co le parole
intellette da noi soli ambedui:

« Fedel mio caro, assai di te mi dole,
ma pur per nostro ben dura ti fui »
dice, e cos' altre d' arrestare il sole.

 

CCCXLII
 

Del cibo onde 'l signor mio sempre abonda,
lagrime e doglia, il cor lasso nudrisco,
e spesso tremo e spesso impallidisco,
pensando a la sua piaga aspra e profonda.

Ma chi né prima simil né seconda
ebbe al suo tempo, al letto in ch'io languisco
vien, tal ch' a pena a rimirar l' ardisco,
e pietosa s' asside in su la sponda.

Con quella man che tanto desiai
m' asciuga li occhi e col suo dir m' apporta
dolcezza ch' uom mortal non sentí mai.

« Che val » dice « a saver, chi si sconforta?
Non pianger piú, non m' ài tu pianto assai?
Ch' or fostú vivo, com' io non son morta! »

 

CCCXLIII
 

Ripensando a quel ch' oggi il cielo onora
soave sguardo, al chinar l' aurea testa,
al volto, a quella angelica modesta
voce, che m' adolciva ed or m' accora,

gran meraviglia ò com' io viva ancora:
né vivrei già, se chi tra bella e onesta,
qual fu piú lasciò in dubbio, non sí presta
fusse al mio scampo, là verso l' aurora.

O che dolci accoglienze e caste e pie!
e come intentamente ascolta e nota
la lunga istoria de le pene mie!

Poi che 'l dí chiaro par che la percota,
tornasi al ciel, ché sa tutte le vie,
umida gli occhi e l' una e l' altra gota.

 

CCCXLIV
 

Fu forse un tempo dolce cosa amore,
non perch' i' sappia il quando: or è sí amara
che nulla piú; ben sa 'l ver chi l' impara
com' ò fatt' io con mio grave dolore.

Quella che fu del secol nostro onore,
or è del ciel che tutto orna e rischiara,
fe' mia requie a' suoi giorni e breve e rara:
or m' à d' ogni riposo tratto fore.

Ogni mio ben crudel Morte m' à tolto:
né gran prosperità il mio stato avverso
pò consolar di quel bel spirto sciolto.

Piansi e cantai: non so piú mutar verso;
ma dí e notte il duol ne l' alma accolto
per la lingua e per li occhi sfogo e verso.

 

CCCXLV
 

Spinse amor e dolor ove ir non debbe
la mia lingua aviata a lamentarsi,
a dir di lei per ch' io cantai ed arsi
quel che, se fusse ver, torto sarebbe;

ch' assai 'l mio stato rio quetar devrebbe
quella beata, e 'l cor racconsolarsi,
vedendo tanto lei domesticarsi
con colui che vivendo in cor sempre ebbe.

E ben m' acqueto, e me stesso consolo;
né vorrei rivederla in questo inferno,
anzi voglio morire e viver solo:

ché piú bella che mai con l'occhio interno
con li angeli la veggio alzata a volo
a pie' del suo e mio Signore eterno.

 

CCCXLVI
 

Li angeli eletti e l'anime beate
cittadine del cielo, il primo giorno
che madonna passò, le fur intorno
piene di meraviglia e di pietate.

« Che luce è questa e qual nova beltate? »
dicean tra lor « perch' abito sí adorno
dal mondo errante a quest' alto soggiorno
non salí mai in tutta questa etate ».

Ella contenta aver cangiato albergo
si paragona pur coi piú perfetti,
e parte ad or ad or si volge a tergo

mirando s' io la seguo, e par ch' aspetti:
ond' io voglie e pensier' tutti al ciel ergo
perch' i' l' odo pregar pur ch' i' m' affretti.

 

CCCXLVII
 

Donna, che lieta col principio nostro
ti stai, come tua vita alma rechiede,
assisa in alta e gloriosa sede
e d'altro ornata che di perle o d' ostro,

o de le donne altero e raro mostro,
or nel volto di Lui che tutto vede
vedi 'l mio amore e quella pura fede,
per ch' io tante versai lagrime e 'nchiostro,

e senti che ver' te 'l mio core in terra
tal fu qual ora è in cielo, e mai non volsi
altro da te che 'l sol de li occhi tuoi.

Dunque per amendar la lunga guerra,
per cui dal mondo a te sola mi volsi,
prega ch' i' venga tosto a star con voi.

 

CCCXLVIII
 

Da' piú belli occhi e dal piú chiaro viso
che mai splendesse, e da' piú bei capelli
che facean l' oro e 'l sol parer men belli,
dal piú dolce parlare e dolce riso,

da le man, da le braccia che conquiso
senza moversi avrian quai piú rebelli
fur d' Amor mai, da' piú bei piedi snelli,
da la persona fatta in paradiso

prendean vita i miei spirti: or n' à diletto
il re celeste, i suoi alati corrieri;
ed io son qui rimaso ignudo e cieco.

Sol un conforto a le mie pene aspetto:
ch' ella che vede tutti miei penseri
m' impetre grazia ch' i' possa esser seco.

 

CCCXLIX
 

E' mi par d' or in ora udire il messo
che Madonna mi mande a sé chiamando;
cosí dentro e di for mi vo cangiando
e sono in non molt' anni sí dimesso,

ch' a pena riconosco omai me stesso;
tutto 'l viver usato ò messo in bando;
sarei contento di sapere il quando,
ma pur devrebbe il tempo esser da presso.

O felice quel dí che, del terreno
carcere uscendo lasci rotta e sparta
questa mia grave e frale e mortal gonna,

e da sí folte tenebre mi parta,
volando tanto su nel bel sereno
ch' i' veggia il mio Signore e la mia Donna!

 

CCCL
 

Questo nostro caduco e fragil bene
ch' è vento ed ombra ed à nome beltate,
non fu già mai se non in questa etate
tutto in un corpo, e ciò fu per mie pene:

ché natura non vol, né si convene
per far ricco un, por li altri in povertate:
or vèrso in ogni sua largitate
(perdonimi qual è bella o si tene).

Non fu simil bellezza antica o nova,
né sarà, credo; ma fu sí converta
ch' a pena se n'accorse il mondo errante.

Tosto disparve: onde 'l cangiar mi giova
la poca vista a me dal cielo offerta
sol per piacer a le sue luci sante.

 

CCCLI
 

Dolci durezze, e placide repulse
piene di casto amore e di pietate;
leggiadri sdegni che le mie infiammate
voglie tempraro (or me n' accorgo) e 'nsulse;

gentil parlar, in cui chiaro refulse
con somma cortesia somma onestate;
fior di vertú, fontana di beltate
ch' ogni basso penser del cor m' avulse;

divino sguardo da far l' uom felice,
or fiero in affrenar la mente ardita
a quel che giustamente si disdice,

or presto a confortar mia frale vita:
questo bel variar fu la radice
di mia salute, ch' altramente era ita.

 

CCCLII
 

Spirto felice che sí dolcemente
volgei quelli occhi piú chiari che 'l sole,
e formavi i sospiri e le parole
vive ch' ancor mi sonan ne la mente,

già ti vid' io, d' onesto foco ardente
mover i pie' fra l' erbe e le viole,
non come donna, ma com' angel sole,
di quella ch' or m' è piú che mai presente;

la qual tu poi, tornando al tuo Fattore,
lasciasti in terra, e quel soave velo
che per alto destin ti venne in sorte.

Nel tuo partir partí nel mondo Amore
e Cortesia, e 'l sol cadde del cielo,
e dolce incominciò farsi la Morte.

 

CCCLIII
 

Vago augelletto che cantando vai,
o ver piangendo, il tuo tempo passato,
vedendoti la notte e 'l verno a lato
e 'l dí dopo le spalle e i mesi gai,

se, come i tuoi gravosi affanni sai,
cosí sapessi il mio simile stato,
verresti in grembo a questo sconsolato
a partir seco i dolorosi guai.

I' non so se le parti sarian pari,
ché quella cui tu piangi è forse in vita,
di ch' a me Morte e 'l ciel son tanto avari;

ma la stagion e l' ora men gradita,
col membrar de' dolci anni e de li amari,
a parlar teco con pietà m' invita.

 

CCCLIV
 

Deh porgi mano a l' affannato ingegno,
Amor, ed a lo stile stanco e frale,
per dir di quella ch' è fatta immortale
e cittadina del celeste regno;

dammi, Signor, che 'l mio dir giunga al segno
de le sue lode, ove per sé non sale,
se vertú, se beltà non ebbe eguale
il mondo, che d' aver lei non fu degno.

Responde: « Quanto 'l ciel ed io possiamo,
e i buon consigli e 'l conversar onesto,
tutto fu in lei, di che noi Morte à privi;

forma par non fu mai dal dí ch'Adamo
aperse li occhi in prima, e basti or questo:
piangendo i' 'l dico, e tu piangendo scrivi ».

 

CCCLV
 

O tempo, o ciel volubil, che fuggendo
inganni i ciechi e miseri mortali,
o dí veloci piú che vento e strali,
ora ab experto vostre frodi intendo.

Ma scuso voi e me stesso riprendo,
ché natura a volar v' aperse l' ali,
a me diede occhi, ed io pur ne' miei mali
li tenni, onde vergogna e dolor prendo;

e sarebbe ora, ed è passata omai,
di rivoltarli in piú secura parte
e poner fine a li 'nfiniti guai.

Né dal tuo giogo, Amor, l' alma si parte,
ma dal suo mal: con che studio, tu 'l sai;
non a caso è vertute, anzi è bell' arte.

 

CCCLVI
 

L' aura mia sacra al mio stanco riposo
spira sí spesso, ch' i' prendo ardimento
di dirle il mal ch' i' ò sentito e sento,
che vivendo ella non sarei stat' oso.

I' incomincio da quel guardo amoroso
che fu principio a sí lungo tormento,
poi seguo come misero e contento
di dí in dí, d' ora in ora Amor m'à roso.

Ella si tace, e di pietà depinta
fiso mira pur me; parte sospira
e di lagrime oneste il viso adorna:

onde l' anima mia dal dolor vinta,
mentre piangendo allor seco s' adira,
sciolta dal sonno a sé stessa ritorna.

 

CCCLVII
 

Ogni giorno mi par piú di mill' anni
ch' i' segua la mia fida e cara duce
che mi condusse al mondo, or mi conduce,
per miglior via, a vita senza affanni;

e non mi posson ritener l'inganni
del mondo, ch' i' 'l conosco; e tanta luce
dentro al mio core infin dal ciel traluce
ch' i' 'ncomincio a contar il tempo e i danni.

Né minaccie temer debbo di morte,
che 'l Re sofferse con piú grave pena,
per farme a seguitar constante e forte,

ed or novellamente in ogni vena
intrò di lei, che m' era data in sorte,
e non turbò la sua fronte serena.

 

CCCLVIII
 

Non pò far Morte il dolce viso amaro,
ma 'l dolce viso dolce pò far Morte;
che bisogn' a morir ben altre scorte?
quella mi scorge ond' ogni ben imparo;

e Quei che del suo sangue non fu avaro,
che col pe' ruppe le tartaree porte,
col suo morir par che mi riconforte.
Dunque vien, Morte: il tuo venir m' è caro.

E non tardar, ch' egli è ben tempo omai;
e se non fusse, e' fu 'l tempo in quel punto
che Madonna passò di questa vita.

D' allor innanzi un dí non vissi mai:
seco fui in via e seco al fin son giunto,
e mia giornata ò co' suoi pie' fornita.

 

CCCLIX
 

Quando il soave mio fido conforto,
per dar riposo a la mia vita stanca,
ponsi del letto in su la sponda manca
con quel suo dolce ragionare accorto,
tutto di pietà e di paura smorto
dico: « Onde vien tu ora, o felice alma? »
Un ramoscel di palma
ed un di lauro trae del suo bel seno
e dice: « Dal sereno
ciel empireo e di quelle sante parti
mi mossi e vengo sol per consolarti ».

In atto ed in parole la ringrazio
umilemente e poi demando: « Or donde
sai tu il mio stato? » Ed ella: « Le triste onde
del pianto di che mai tu non se' sazio,
coll'aura de' sospir', per tanto spazio
passano al cielo e turban la mia pace;
sí forte ti dispiace
che di questa miseria sia partita
e giunta a miglior vita;
che piacer ti devria, se tu m' amasti
quanto in sembianti e ne' tuoi dir' mostrasti ».

Rispondo: « Io non piango altro che me stesso
che son rimaso in tenebre e 'n martíre,
certo sempre del tuo al ciel salire
come di cosa ch' uom vede da presso.
Come Dio e natura avrebben messo
in un cor giovenil tanta vertute,
se l'eterna salute
non fusse destinata al tuo ben fare,
o de l' anime rare,
ch' altamente vivesti qui tra noi
e che súbito al ciel volasti poi?

Ma io che debbo altro che pianger sempre,
misero e sol, che senza te son nulla?
Ch' or fuss' io spento al latte ed a la culla,
per non provar de l' amorose tempre! »
Ed ella: « A che pur piangi e ti distempre?
Quanto era meglio alzar da terra l' ali,
e le cose mortali
e queste dolci tue fallaci ciance
librar con giusta lance
e seguir me, s' è ver che tanto m' ami,
cogliendo omai qualcun di questi rami! »

« I' volea demandar » respond' io allora
« che voglion importar quelle due frondi? »
Ed ella: « Tu medesmo ti rispondi,
tu la cui non penna tanto l' una onora:
palma è vittoria, ed io, giovene ancora,
vinsi il mondo e me stessa; il lauro segna
triunfo, ond' io son degna
mercé di quel Signor che mi diè forza.
Or tu, s' altri ti sforza,
a lui ti volgi, a lui chiedi soccorso,
sí che siam seco al fine del tuo corso ».

« Son questi i capei biondi e l' aureo nodo »
dich' io « ch' ancor mi stringe, e quei belli occhi
che fur mio sol? » « Non errar con li sciocchi,
né parlar » dice « o creder a lor modo:
spirito ignudo sono, e 'n ciel mi godo;
quel che tu cerchi è terra già molt' anni;
ma per trarti d' affanni
m' è dato a parer tale; ed ancor quella
sarò, piú che mai bella,
a te piú cara, sí selvaggia e pia,
salvando inseme tua salute e mia ».

I' piango; ed ella il volto
co le sue man' m' asciuga, e poi sospira
dolcemente, e s' adira
con parole che i sassi romper ponno:
e dopo questo si parte ella, e 'l sonno.

 

CCCLX
 

Quel' antiquo mio dolce empio signore,
fatto citar dinanzi a la reina
che la parte divina
tien di natura nostra e 'n cima sede,
ivi, com' oro che nel foco affina,
mi rappresento cerco di dolore,
di paura e d' orrore,
quasi uom che teme morte e ragion chiede;
e 'ncomincio: « Madonna, il manco piede
giovenetto pos' io nel costui regno,
ond' altro ch' ira e sdegno
non ebbi mai; e tanti e sí diversi
tormenti ivi soffersi,
ch' alfine vinta fu quell' infinita
mia patienzia e 'n odio ebbi la vita.

Cosí 'l mio tempo infin qui trapassato
è in fiamma e 'n pene: e quante utili oneste
vie sprezzai, quante feste,
per servir questo lusinghier crudele!
E qual ingegno à sí parole preste
che stringer possa 'l mio infelice stato
e le mie d' esto ingrato
tanto e sí gravi e sí giuste querele?
O poco mèl, molto aloè con fele!
in quanto amaro à la mia vita avezza
con sua falsa dolcezza,
la qual m' atrasse a l' amorosa schiera!
Che, s' i' non m' inganno, era
disposto a sollevarmi alto da terra:
e' mi tolse di pace e pose in guerra.

Questi m' à fatto men amare Dio
ch' i' non deveva, e men curar me stesso:
per una Donna ò messo
egualmente in non cale ogni pensero.
Di ciò m' è stato consiglier sol esso,
sempr' aguzzando il giovenil desio
a l' empia cote, ond' io
sperai riposo al suo giogo aspro e fero.
Misero! a che quel chiaro ingegno altero
e l' altre doti a me date dal cielo?
Ché vo cangiando 'l pelo,
né cangiar posso l' ostinata voglia:
cosí in tutto mi spoglia
di libertà questo crudel ch' i' accuso,
ch' amaro viver m' à volto in dolce uso.

Cercar m'à fatto deserti paesi,
fiere e ladri rapaci, ispidi dumi,
dure genti e costumi
ed ogni error che' pellegrini intrica;
monti, valli, paludi e mari e fiumi,
mille lacciuoli in ogni parte tesi,
e 'l verno in strani mesi
con pericol presente e con fatica;
né costui né quell' altra mia nemica
ch' i' fuggía, mi lasciavan sol un punto:
onde, s' i' non son giunto
anzi tempo da morte acerba e dura,
pietà celeste à cura
di mia salute, non questo tiranno,
che del mio duol si pasce e del mio danno.

Poi che suo fui non ebbi ora tranquilla,
né spero aver, e le mie notti il sonno
sbandiro, e piú non ponno
per erbe o per incanti a sé ritrarlo.
Per inganni e per forza è fatto donno
sovra miei spirti; e no sonò poi squilla,
ov' io sia in qualche villa,
ch' i' non l'udisse. Ei sa che 'l vero parlo;
ché legno vecchio mai non rose tarlo,
come questi 'l mio core, in che s' annida
e di morte lo sfida;
quinci nascon le lagrime e i martiri,
le parole e i sospiri,
di ch' io mi vo stancando, e forse altrui.
Giudica tu, che me conosci e lui. »

Il mio avversario con agre rampogne
comincia: « O Donna, intendi l' altra parte,
ché 'l vero, onde si parte
quest'ingrato, dirà senza defetto.
Questi in sua prima età fu dato a l' arte
da vender parolette, anzi menzogne:
né par che si vergogne,
tolto da quella noia al mio diletto,
lamentarsi di me, che puro e netto,
contra 'l desio che spesso il suo mal vole,
lui tenni, ond' or si dole,
in dolce vita, ch' ei miseria chiama,
salito in qualche fama
solo per me, che 'l suo intelletto alzai
ov' alzato per sé non fora mai.

Ei sa che 'l grande Atride e l' alto Achille
ed Anibàl al terren vostro amaro
e di tutti il piú chiaro
un altro e di vertute e di fortuna,
com' a ciascun le sue stelle ordinaro,
lasciai cader in vil amor d' ancille:
ed a costui di mille
donne elette, eccellenti, n'elessi una,
qual non si vedrà mai sotto la luna
benché Lucrezia ritornasse a Roma;
e sí dolce idioma
le diedi e un cantar tanto soave,
che penser basso o grave
non poté mai durar dinanzi a lei.
Questi fur con costui li 'nganni mei.

Questo fu il fel, questi li sdegni e l' ire,
piú dolci assai che di null' altra il tutto.
Di bon seme mal frutto
mieto: e tal merito à chi 'ngrato serve.
Sí l' avea sotto l' ali mie condutto,
ch' a donne e cavalier' piacea il suo dire;
e sí alto salire
il feci, che tra' caldi ingegni ferve
il suo nome e de' suoi detti conserve
si fanno con diletto in alcun loco;
ch' or saria forse un roco
mormorador di corti, un uom del vulgo:
i' l'esalto e divulgo
per quel ch' elli 'mparò ne la mia scola
e da colei che fu nel mondo sola.

E per dir a l'estremo il gran servigio,
da mille atti inonesti l' ò ritratto,
ché mai per alcun patto
a lui piacer non poteo cosa vile:
giovene schivo e vergognoso in atto
ed in penser, poi che fatto era uom ligio
di lei, ch'alto vestigio
l' impresse al core e fecel suo simile;
quanto à del pellegrino e del gentile,
da lei tene e da me, di cui si biasma.
Mai notturno fantasma
d' error non fu sí pien, com' ei ver' noi;
ch' è in grazia, da poi
che ne conobbe, a Dio ed a la gente:
di ciò il superbo si lamenta e pente.

Ancor, e questo è quel che tutto avanza,
da volar sopra 'l ciel li avea dat' ali
per le cose mortali
che son scala al Fattor, chi ben l' estima:
ché, mirando ei ben fiso quante e quali
eran vertuti in quella sua speranza,
d' una in altra sembianza
potea levarsi a l' alta cagion prima:
ed ei l' à detto alcuna volta in rima.
Or m' à posto in oblio con quella Donna
ch' i' li die' per colonna
de la sua frale vita ». A questo,un strido
lagrimoso alzo,e grido:
« Ben me la diè, ma tosto la ritolse ».
Responde: « Io no, ma chi per sé la volse ».

Alfin ambo conversi al giusto seggio,
i' con tremanti, ei con voci alte e crude,
ciascun per sé conclude:
« Nobile donna, tua sentenzia attendo ».
Ella allor sorridendo:
« Piacemi aver vostre questioni udite;
ma piú tempo bisogna a tanta lite ».

 

CCCLXI
 

Dicemi spesso il mio fidato speglio,
l'animo stanco, e la cangiata scorza
e la scemata mia destrezza e forza:
« Non ti nasconder piú, tu se' pur veglio;

obedir a natura in tutto è il meglio,
ch' a contender con lei 'l tempo ne sforza ». -
Súbito allor, com' acqua 'l foco amorza,
d' un lungo e grave sonno mi risveglio,

e veggio ben che 'l nostro viver vola
e ch' esser non si pò piú d'una volta;
e 'n mezzo 'l cor mi sona una parola

di lei ch' è or dal suo bel nodo sciolta,
ma ne' suoi giorni al mondo fu sí sola,
ch' a tutte, s' i' non erro, fama à tolta.

 

CCCLXII
 

Volo con l'ali de' pensieri al cielo
sí spesse volte, che quasi un di loro
esser mi par ch' àn ivi il suo tesoro,
lasciando in terra lo squarciato velo.

Talor mi trema 'l cor d' un dolce gelo,
udendo lei per ch' io mi discoloro
dirmi: « Amico, or t' am' io e or t' onoro
perch' à' i costumi variati e 'l pelo ».

Menami al suo Signor; allor m' inchino,
pregando umilemente che consenta
ch' i' stia a veder e l' uno e l' altro volto.

Responde: « Egli è ben fermo il tuo destino;
e per tardar ancor vent' anni o trenta
parrà a te troppo, e non fia però molto ».

 

CCCLXIII
 

Morte à spento quel sol ch' abagliar suolmi
e 'n tenebre son gli occhi interi e saldi;
terra è quella ond' io ebbi e freddi e caldi;
spenti son i miei lauri, or querce e olmi:

di ch' io veggio 'l mio ben, e parte duolmi.
Non è chi faccia e paventosi e baldi
i miei penser', né chi li agghiacci e scaldi,
né chi gl' empia di speme e di duol colmi.

Fuor di man di colui che punge e molce,
che già fece di me sí lungo strazio,
mi trovo in libertate amara e dolce;

e al Signor ch' i' adoro e ch' i' ringrazio,
che pur col ciglio il ciel governa e folce,
torno stanco di viver, nonché sazio.

 

CCCLXIV
 

Tennemi Amor anni ventuno ardendo,
lieto nel foco e nel duol pien di speme;
poi che Madonna e 'l mio cor seco inseme
saliro al ciel, dieci altri anni piangendo.

Omai son stanco, e mia vita reprendo
di tanto error, che di vertute il seme
à quasi spento, e le mie parti estreme,
alto Dio, a te devotamente rendo,

pentito e tristo de' miei sí spesi anni
che spender si deveano in miglior uso,
in cercar pace ed in fuggir affanni.

Signor che 'n questo carcer m' ài rinchiuso,
tràmene, salvo da li eterni danni,
ch' i' conosco 'l mio fallo, e non lo scuso.

 

CCCLXV
 

I' vo piangendo i miei passati tempi
i quai posi in amar cosa mortale,
senza levarmi a volo, abbiend' io l' ale,
per dar forse di me non bassi essempi.

Tu che vedi i miei mali indegni ed empi,
Re del cielo, invisibile, immortale,
soccorri a l' alma disviata e frale,
e 'l suo defetto di tua grazia adempi;

sí che, s' io vissi in guerra ed in tempesta,
mora in pace ed in porto; e se la stanza
fu vana, almen sia la partita onesta.

A quel poco di viver che m' avanza
ed al morir, degni esser tua man presta:
tu sai ben che 'n altrui non ò speranza.

 

CCCLXVI
 

Vergin bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sí che 'n te sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole;
ma non so 'ncominciar senza tu' aita
e di Colui ch' amando in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose,
chi la chiamò con fede.
Vergine, s' a mercede
miseria estrema de l' umane cose
già mai ti volse, al mio prego t' inchina;
soccorri a la mia guerra,
ben ch' i' sia terra, e tu del ciel regina.

Vergine saggia, e del bel numero una
de le beate vergini prudenti,
anzi la prima, e con piú chiara lampa;
o saldo scudo de l'afflitte genti
contra colpi di Morte e di Fortuna,
sotto 'l qual si triunfa, non pur scampa;
o refrigerio al cieco ardor ch' avampa
qui fra i mortali sciocchi;
Vergine, que' belli occhi
che vider tristi la spietata stampa
ne' dolci membri del tuo caro figlio,
volgi al mio dubio stato
che sconsigliato a te ven per consiglio.

Vergine pura, d' ogni parte intera,
del tuo parto gentil figliola e madre,
ch' allumi questa vita e l'altra adorni,
per te il tuo figlio e quel del sommo Padre,
o fenestra del ciel lucente altera,
venne a salvarne in su li estremi giorni;
e fra tutti terreni altri soggiorni
sola tu fosti eletta,
Vergine benedetta,
che 'l pianto d' Eva in allegrezza torni.
Fammi, ché puoi, de la sua grazia degno,
senza fine o beata,
già coronata nel superno regno.

Vergine santa, d'ogni grazia piena,
che per vera e altissima umiltate
salisti al ciel onde miei preghi ascolti,
tu partoristi il fonte di pietate
e di giustizia il sol, che rasserena
il secol pien d' errori oscuri e folti:
tre dolci e cari nomi ài in te raccolti,
madre, figliuola e sposa,
Vergina gloriosa,
donna del Re che nostri lacci à sciolti
e fatto 'l mondo libero e felice,
ne le cui sante piaghe
prego ch' appaghe il cor, vera beatrice.

Vergine sola al mondo, senza essempio,
che 'l ciel di tue bellezze innamorasti,
cui né prima fu simil, né seconda,
santi penseri, atti pietosi e casti
al vero Dio sacrato e vivo tempio
fecero in tua verginità feconda.
Per te pò la mia vita esser ioconda,
s' a' tuoi preghi, o Maria,
Vergine dolce e pia,
ove 'l fallo abondò la grazia abonda.
Con le ginocchia de la mente inchine,
prego che sia mia scorta
e la mia torta via drizzi a buon fine.

Vergine chiara e stabile in eterno,
di questo tempestoso mare stella,
d' ogni fedel nocchier fidata guida,
pon mente in che terribile procella
i' mi ritrovo sol, senza governo,
ed ò già da vicin l' ultime strida.
Ma pur in te l' anima mia si fida,
peccatrice, i' nol nego,
Vergine; ma ti prego
che 'l tuo nemico del mio mal non rida.
Ricorditi che fece il peccar nostro
prender Dio, per scamparne,
umana carne al tuo virginal chiostro.

Vergine, quante lagrime ò già sparte,
quante lusinghe e quanti preghi indarno,
pur per mia pena e per mio grave danno!
Da poi ch' i' nacqui in su la riva d'Arno,
cercando or questa ed or quel' altra parte,
non è stata mia vita altro ch' affanno:
mortal bellezza, atti e parole m' ànno
tutta ingombrata l'alma.
Vergine sacra ed alma,
non tardar, ch' i' son forse a l' ultimo anno:
i dí miei, piú correnti che saetta,
fra miserie e peccati
sonsen' andati, e sol morte n' aspetta.

Vergine, tale è terra, e posto à in doglia
lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne,
e de mille miei mali un non sapea;
e per saperlo pur quel che n' avenne
fora avenuto, ch' ogni altra sua voglia
era a me morte, ed a lei fama rea.
Or tu, Donna del ciel, tu nostra Dea,
(se dir lice e convensi),
Vergine d' alti sensi,
tu vedi il tutto; e quel che non potea
far altri, è nulla a la tua gran vertute,
por fine al mio dolore;
ch' a te onore ed a me fia salute.

Vergine, in cui ò tutta mia speranza
che possi e vogli al gran bisogno aitarme,
non mi lasciare in su l' estremo passo;
non guardar me, ma chi degnò crearme;
no 'l mio valor, ma l'alta sua sembianza
ch' è in me, ti mova a curar d'uom sí basso.
Medusa e l' error mio m' àn fatto un sasso
d'umor vano stillante:
Vergine, tu di sante
lagrime e pie adempi 'l meo cor lasso,
ch' almen l' ultimo pianto sia devoto,
senza terrestro limo
come fu 'l primo non d'insania voto.

Vergine umana e nemica d' orgoglio,
del comune principio amor t' induca:
miserere d' un cor contrito, umile,
ché se poca mortal terra caduca
amar con sí mirabil fede soglio,
che devrò far di te, cosa gentile?
Se dal mio stato assai misero e vile
per le tue man resurgo,
Vergine, i' sacro e purgo
al tuo nome e pensieri e 'ngegno e stile,
la lingua e 'l cor, le lagrime e i sospiri:
scorgimi al miglior guado
e prendi in grado i cangiati desiri.

Il dí s' appressa, e non pote esser lunge,
sí corre il tempo e vola,
Vergine unica e sola,
e 'l cor or coscienzia or morte punge:
raccomandami al tuo Figliuol, verace
omo e verace Dio,
ch' accolga 'l mio spirto ultimo in pace.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Opere di Francesco Petrarca", a cura di Emilio Bigi, Ugo Mursia editore, Milano, 1963







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