Niccolò Machiavelli - Opera Omnia >>  Discursus florentinarum rerum




 

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La cagione perché Firenze ha sempre variato spesso nei suoi governi, è ­stata perché in quella non è stato mai né republica né principato che abbi avute le debite qualità sue: perché non si può chiamar quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che vuole uno e si deliberano con il consenso di molti; né si può credere quella republica esser per durare, dove non si satisfà a quelli umori, a' quali non si satisfacendo, le republiche rovinano. E che questo sia il vero si può conoscere per li stati che ha avuti quella città dal 1393 in qua. E cominciandosi dalla riforma fatta in detto tempo da messer Maso degli Albizzi, si vedrà come allora le volleno dar forma di republica governata da ottimati; e come in essa fu tanti difetti, che la non passò quaranta anni, e sarebbe durata meno, se le guerre dei Visconti non fussino seguite, le quali la tenevano unita; i difetti furono, intra gli altri fare gli squittinii per lungo tempo, dove si poteva fare fraude facilmente e dove la elezione poteva essere non buona: perché, mu­tandosi gli uomini facilmente e diventando di buoni tristi, e dall’altro canto, dandosi e gradi a’ cittadini per più tempo, poteva facilmente occorrere che la elezione fosse stata buona e la tratta trista. Oltre di questo, non vi era constituito un timore agli uomini grandi che non potessero far sètte, le quali sono la rovina di uno stato. Aveva ancora la Signoria poca riputazione e troppa autorità, potendo disporre senza appello della vita e della roba dei cittadini, e potendo chiamare il popolo a parlamento. In modo che la veniva ad essere non defensitrice dello stato, ma instrumento di farlo perdere, qualunque volta un cit­tadino reputato la potessi o comandare o aggirare. Aveva d’altro canto come si è detto, poca reputazione, perché, sendo in quella spesso uomini abietti e giovani e per poco tempo, e non facendo faccende gravi, non poteva avere reputazione.

Era ancora in quello stato un disordine non di poca importanza; era che gli uomini privati si trovavano nei consigli delle cose publiche: il che manteneva la reputazione agli uomini privati e la le­vava a' publici, e veniva a levare autorità e reputazione a' magistrati: la qual cosa è contro ad ogni ordine civile. A' quali disordini se ne aggiungeva un altro, che importava il tutto, il quale era che il po­polo non vi aveva dentro la parte sua. Le quali cose tutte insieme facevano infiniti disordini; e se, come ho detto, le guerre esterne non l'avessino tenuta ferma, la rovinava più presto che la non rovinò. Surse, dopo questo, lo stato di Cosimo, el quale pendé più verso il prin­cipato che verso la republica; e se durò più tempo che l’altro, ne furno cagione dua cose: l’una, esser fatto con il favor del popolo; l’altra, esser governato dalla prudenza di dua uomini, quali furono Cosimo e Lorenzo suo nipote. Non di meno gli arrecava tanta debo­lezza lo aversi a deliberare per assai quello che Cosimo voleva con­durre, che portò più volte pericolo di perderlo: donde nacquono gli spessi parlamenti e gli spessi esilii, che durante quello stato si feciono; e infine dipoi, in su l’accidente della passata del re Carlo, si perdé. Dopo il quale, la città volle pigliare forma di republica, e non si oppose ad appigliarla in modo che fussi durabile, perché quegli ordini non satisfacevano a tutti gli umori dei cittadini; e dall’altra parte non gli poteva gastigare. Ed era tanto manco e discosto da una vera re­publica che un gonfaloniere a vita, s’egli era savio e tristo, facilmente si poteva far principe; s’egli era buono e debole, facilmente ne poteva esser cacciato, con la rovina di tutto quello stato.

E perché sarebbe lunga materia allegarne tutte le ragioni, ne dirò solo una: la quale è che il gonfaloniere non aveva intorno chi lo potessi difendere, sendo buono; né chi, sendo tristo, o frenare o cor­reggere. La cagione perché tutti questi governi sono stati defettivi è che le riforme di quegli sono state fatte non a satisfazione del bene comune, ma a corroborazione e securtà della parte: la quale securtà non si è anche trovata, per esservi sempre stata una parte malcontenta, la quale è stata un gagliardissimo instrumento a chi ha desiderato variare.

Restaci ora a discorrere quale sia stato lo stato dal '12 a questo tempo, e quali debolezze o gagliardie sieno state le sue; ma per esser cosa fresca e saperlo ciascuno, non ne parlerò. Vero è che, essendo venuta la cosa in termine, come è, per la morte del duca, che si ha da ragionare di nuovi modi di governi, mi pare, per mostrare la fede mia verso la Santità Vostra, non potere errare a dire quello mi occorre. E prima dirò l’opinione di molti altri, secondo che mi pare avere sentito ragionare; dipoi soggiungendo l’opinione mia, nella quale, se io errassi, Vostra Santità me ne scusi per più amorevole che prudente.

Dico adunque come alcuni giudicano non si potere ordinare il più certo governo che quello che fu ne’ tempi di Cosimo e di Lorenzo; alcuni altri lo desiderarebbono più largo. Dicono pertanto coloro che vorrebbono il governo simile a quello di Cosimo, come le cose facil­mente ritornano nella natura loro; e per questo, sendo naturale ai cittadini fiorentini l'onorare la vostra casa, godere quelle grazie che da lei procedevano, amare quelle cose che da lei erano amate, e fattone di questo abito per sessant’anni, non è possibile che, vedendo i medesimi modi, e' non ritorni loro il medesimo animo; e credono che ne possa restar pochi di animo contrario, e quelli pochi per un con­trario abito facilmente spegnersi. E aggiungono a queste ragioni la necessità, mostrando come Firenze non può star senza capo; e avendo ad averlo, è molto meglio che sia di quella casa che sogliono adorare che, o non avendolo, vivere in confusione o, avendolo, pigliarlo d’altronde, dove fussi meno riputazione e meno contezza in ciascuno.

Contro a questa opinione si risponde come uno stato così fatto è pericoloso non per altro che per esser debole. Perché se lo stato di Cosimo aveva in quelli tempi tante debolezze quante di sopra sono allegate, in questi tempi un simile stato le raddoppia, perché la città, i cittadini, e tempi sono difformi da quello che egli erano allora: intanto che gli è impossibile creare uno stato in Firenze che possa stare e sia simile a quello.

La prima cosa, quello stato aveva per amico l'universale; e questo l’ha inimico. Quelli cittadini non avevano mai trovato in Fi­renze stato che paressi più universale di quello; e questi ne hanno trovato uno che pare loro più civile, e dove e' si contentano più. In Italia non era allora né armi né potenza, che i Fiorentini non potes­sino colle loro armi, etiam rimanendo soli, sostenere; ed ora, sendoci Spagna e Francia, conviene loro essere amici d'uno di quelli; e occorrendo che quel tale perda, subito restano preda del vincitore: il che allora non interveniva. Erano i cittadini consueti a pagare assai gravezze; ora, o per impotenza o per dissuetudine, se ne sono divezzi: e a volergli avvezzare, è cosa odiosa e pericolosa. E Medici che governavano allora, per essere nutriti ed allevati con li loro cittadini, si governavano con tanta familiarità, che la faceva loro grazia: ora sono tanto divenuti grandi, che passando ogni civiltà, non vi può esser quella domestichezza e per conseguente quella grazia. Tale che, considerata questa disformità di tempi e d'uomini, non può essere maggiore inganno che credere, in tanta disformità di materia, potere imprimere una medesima forma. E se allora, come di sopra si disse, ogni dieci anni portorno pericolo di perdere lo stato, ora lo perderebbono. Né credino che sia vero che gli uomini facilmente ritor­nino al modo dcl vivere vecchio e consueto, perché questo si verifica quando il vivere vecchio piacesse più del nuovo; ma quando e’ piace meno, non vi si torna se non forzato: e tanto vi si vive quanto dura quella forza.

Oltre di questo, benché sia vero che Firenze non può restare senza capo, e che quando si avessi a giudicare da capo privato a capo privato, ella amassi più un capo della casa dei Medici, che d'alcun'altra casa: nondimanco, quando si giudichi da capo a capo publico, sempre piacerà più il capo publico, tratto di qualunque luogo che il capo privato.

Giudicano alcuni non si poter perder lo stato senza l'assalto di fuora, e credono potere esser sempre in tempo a fare amicizia con chi gli assaltassi. Di che s'ingannano forte: perché il più delle volte non si fa amicizia con chi può più, ma con quello che ha allora più comodità di offenderti o che più l'animo e la fantasia t'inchina ad amare: e facilmente può occorrere che quel tuo amico perda e, per­dendo, rimanga a discrezione del vincitore; e che quello non voglia accordo teco, o per non avere più tempo a chiederlo, o per odio che egli abbia contratto contro di te mediante l’amicizia avevi con gli nimici suoi.

Avrebbe Lodovico duca di Milano fatto accordo con il re Luigi XII di Francia, se lo avessi potuto avere. Averebbelo fatto con quel medesimo il re Federigo, se lo avessi trovato; e l’uno e l’altro perdé lo stato per non potere accordare: perché nascano mille casi che t'im­pediscano tali accordi. In modo che, discorso tutto, non si può chia­mare tale stato né sicuro né stabile, avendo tante cagioni d’instabilità: talmente che alla Vostra Santità, né agli amici di quella, non debbe poter piacere.

Quanto a quelli che vorrebbono il governo più largo di questo, dico che se non si allarga in modo che diventi una republica bene ordinata, tale larghezza è per farlo rovinare più presto. E se loro particularmente dicessino come e' volessino che fussi fatto, io parti­cularmente ci risponderei; ma stando in su e generali, io non posso rispondere se non generalmente. Solo voglio che questa risposta mi basti. E quanto al confutare lo stato di Cosimo, e questo, che nessuno stato si può ordinare che sia stabile, se non è o vero principato o vera republica, perché tutti i governi posti in tra questi dua sono defettivi, la ragione è chiarissima: perché il principato ha solo una via alla sua resoluzione, la quale è scendere verso la republica; e così la republica ha solo una via da resolversi, la quale è salire verso il principato. Gli stati di mezzo hanno due vie, potendo salire verso il principato o scendere verso la republica: donde nasce la loro instabilità.

Non può pertanto la Santità Vostra, se la desidera fare in Firenze uno stato stabile per gloria sua e per salute degli amici suoi, ordinarvi altro che un principato vero o una republica che abbi le parti sue. Tutte le altre cose sono vane e di brevissima vita. E quanto al prin­cipato, io non lo discorrerò particularmente, sì per le difficultà che ci sarebbono a farlo, sì per esser mancato lo instrumento. E ha ad intendere questo Vostra Santità, che in tutte le città dove è grande equalità di cittadini, non vi si può ordinare principato se non con massima difficultà, e in quelle città dove è grande inequalità di citta­dini non si può ordinare republica; perché, a voler creare una republica in Milano, dove è grande inequalità di cittadini, bisognerebbe spegnere tutta quella nobiltà e ridurla a una equalità con gli altri: perché tra di loro sono tanto estraordinarii, che le leggi non bastano a reprimerli, ma vi bisogna una voce viva ed una potestà regia che li reprima. E pcr il contrario, a volere un principato in Firenze, dove è una grandissima equalità, sarebbe necessario ordinarvi prima inequalità e farvi assai nobili di castella e ville, i quali insieme con el principe tenessino con l’armi e con l’aderenzie loro suffocata la città e tutta la provincia. Perché un principe solo, spogliato di nobiltà, non può sostenere il pondo del principato: però è necessario che infra lui e l’uni­versale sia un mezzo che l'aiuti sostenerlo. Vedesi questo in tutti gli stati di principe, e massime nel regno di Francia, come e gentiluo­mini signoreggiano i popoli, i principi e gentiluomini, e il re i prin­cipi. Ma perché fare principato dove starebbe bene republica e repu­blica dove starebbe bene principato, è cosa difficile, inumana e indegna di qualunque desidera essere tenuto pietoso e buono, io lascerò il ragionare più del principato e parlerò della republica: sì perché Fi­renze è subietto attissimo da pigliare questa forma, sì perché s'in­tende la Santità Vostra esserci dispostissima; e si crede che ella diffe­risca il farlo, perché quella desiderarebbe trovare un ordine dove l’autorità sua rimanesse in Firenze grande e gli amici vi vivessino securi. E parendomi averlo pensato, ho voluto che la Santità Vostra intenda questo mio pensiero; acciò che se ci è cosa veruna di buono, se ne serva, e possa ancora mediante quello conoscere quale sia la mia servitù verso di lei. E vedrà come in questa mia republica la sua autorità non solamente si mantiene, ma si accresce; e gli amici sua vi restano onorati e securi; e l’altra universalità di cittadini ha cagione evidentissima di contentarsi.

Prego bene con reverenza Vostra Santità che non biasimi e non laudi questo mio discorso, se prima non lo ha letto tutto: e similmente la prego che non la sbigottisca qualche alterazione di magistrati; perché, dove le cose non sono bene ordinate, quanto meno vi resta del vecchio, tanto meno vi resta del cattivo.

Coloro che ordinano una repuhlica debbono dare luogo a tre di­verse qualità di uomini, che sono in tutte le città: cioè, primi, mezzani e ultimi. E benché in Firenze sia quella equalità che di sopra si dice, nondimeno sono in quella alcuni che sono di animo elevato, e pare loro meritare di precedere agli altri: a' quali è necessario nell’ordi­nare la republica satisfare; né per altra cagione rovinò lo stato passato che per non si essere a tale umore satisfatto.

A questi così fatti non è possibile satisfare, se non si dà maestà a' primi gradi della republica, la quale maestà sia sostenuta dalle per­sone loro.

Non è possibile dare questa maestà a' primi gradi dello stato di Firenze, mantenendo la Signoria e i Collegi nel termine che sono stati per lo addietro: perché, non potendo sedere in quelli, rispetto al modo che si creano, uomini gravi e di reputazione se non di rado, conviene questa maestà dello stato o collocarla più basso ed in luoghi transversali o volgerla agli uomini privati: il che è contro ad ogni ordine politico. E però è necessario correggere questo modo e insieme, con tale correzione, satisfare alla più alta ambizione che sia nella città. E 'l modo è questo.

Annullare la Signoria, gli Otto della pratica e i dodici Buoni uomini, ed in cambio di quelli per dare maestà al governo, creare sessantacinque cittadini di quarantacinque anni forniti: cinquantatré per la maggiore e dodici per la minore; e quali stessino a vita nel governo nello infrascritto modo.

Creare un gonfaloniere di giustizia per due o tre anni, quando non paressi farlo a vita; ed i sessantaquattro cittadini che restassino, si dividessino in due parti: l'una parte governassi insieme col gon­faloniere un anno, e l'altra parte l'altro anno; e così successivamente si scambiassino, tenendo l’infrascritto ordine: e tutti insieme si chia­massino la Signoria.

Che li trentadue si dividessino in quattro parti, otto per parte; e ciascuna parte facessi presidenzia con il gonfaloniere tre mesi in pa­lazzo e pigliassi il magistrato con le cerimonie consuete e facessi le faccende che fa oggi la Signoria sola, e dipoi insieme con gli altri compagni de' trentadue avessi tutta quella autorità e facessi tutte quelle faccende che fanno oggi la Signoria, gli Otto della pratica e i Collegi, che di sopra si annullano: e questo, come ho detto, fusse il primo capo e il primo membro dello stato. Il quale ordine, se si considererà bene, si conoscerà per esso essersi renduto la maestà e la reputazione al capo dello stato: e si vedrà come gli uomini gravi e d’autorità sempre sederebbono nei primi gradi; non sarebbono neces­sarie le pratiche degli uomini privati, il che io dico di sopra essere pernizioso in una republica: perché gli trentadue che non fussino quel­l'anno in magistrato potriano servire per consultare e praticare. E po­trehbe la Santità Vostra mettere in questa prima elezione, come di sotto si dirà, tutti gli amici e confidenti sua. Ma vegnamo ora al secondo grado dello stato.

Io credo che sia necessario, sendo tre qualità di uomini, come di sopra si dice, che siano ancora tre gradi in una republica; e non più. Però credo sia bene levare una confusione di Consigli, che sono stati un tempo nella vostra città: i quali sono stati fatti non perché fussino necessarii al vivere civile, ma per pascere con quelli più cit­tadini; e pascerli di cosa che in fatto non importava cosa alcuna al bene essere della città: perché tutti per via di sètte si potevano corrompere.

Volendo adunque ridurre una republica appunto con tre membra, mi pare da annullare i Settanta, il Cento e il Consiglio del popolo e del comune; e in cambio di tutti questi creare un Consiglio di dugento, di quaranta anni forniti: quaranta per la minore e centosessanta per la maggiore, non ne potendo essere nessuno dei sessanta­cinque; e stessino a vita, e fussi chiamato il Consiglio degli scelti. Il quale Consiglio insieme con i sessantacinque nominati facessi tutte quelle cose e avessi tutta quella autorità che hanno oggi e soprascritti Consigli, che fussino per virtù di questo annullati; e questo fussi il secondo grado dello stato: e tutti fussino eletti da Vostra Santità. Onde, per far questo e per mantenere e regolare e soprascritti ordini e quelli che di sotto si diranno, e per securtà dell'autorità vostra e degli amici di Vostra Santità, si dessi alla Santità Vostra e al cardinale reverendissimo de' Medici, per la balìa, tanta autorità, durante la vita d'ambidua, quanta ha tutto il popolo di Firenze.

Che il magistrato degli Otto di guardia e balìa si creassi per autorità di Vostra Santità, di tempo in tempo.

Ancora, per più sicurtà dello stato e degli amici di Vostra San­tità, si dividessi l’ordinanza delle fanterie in due bande; alle quali Vostra Santità di sua autorità deputassi ogni anno dua commissarii: un commissario per banda.

Vedesi per le sopradette cose come si e satisfatto a dua qualità di uomini, e come e si è corroborata la vostra autorità in quella città, e quella de’ suoi amici: avendo l’armi e la giustizia criminale in mano, le leggi in petto, ed i capi dello stato tutti sua.

Resta ora satisfare al terzo ed ultimo grado degli uomini, il quale è tutta la universalità dei cittadini: a' quali non si satisferà mai (e chi crede altrimenti non è savio), se non si rende loro o promette di render la loro autorità. E perché al renderla tutta ad un tratto, non ci sarebbe la sicurtà degli amici vostri, né il mantenimento del­l'autorità della Santità Vostra, è necessario parte renderla e parte pro­mettere di renderla, in modo che siano al tutto certi di averla a riavere: e però giudico che sia necessario di riaprire la sala del Con­siglio de' mille, o almeno dei seicento cittadini, e quali distribuissino, in quel modo che già distribuivano, tutti gli offizi e magistrati, eccetto che i prenominati Sessantacinque, Dugento e Otto di balìa; e quali durante la vita di Vostra Santità e del cardinale fussino deputati da voi. E perchè gli vostri amici fussino certi, andando a partito del Consiglio, d’essere imborsati, deputassi Vostra Santità otto accop­piatori, che stando al secreto, potessino dare el partito a chi e' volessino, e non lo potessino tòrre ad alcuno. E perché l’universale credesse che fussino imborsati quelli che lui vincessi, si permettesse che il Consiglio mandassi al securo due cittadini squittinati da lui per essere testimoni delle imborsazioni.

Senza satisfare all'universale, non si fece mai alcuna republica stabile. Non si satisferà mai all'universale dei cittadini fiorentini, se non si riapre la sala: però conviene, al volere fare una republica in Firenze, riaprire questa sala e rendere questa distribuzione all'uni­versale, e sappia Vostra Santità, che qualunque penserà di tòrle lo stato, penserà innanzi ad ogni altra cosa di riaprirla. E però è partito migliore che quella l'apra con termini e modi sicuri, e che la tolga questa occasione a chi fussi suo nemico di riaprirla con dispiacere suo e destruzione e rovina de' suoi amici.

Ordinando così lo stato, quando la Santità Vostra e monsignore reverendissinio avesse a vivere sempre, non sarebbe necessario prov­vedere ad altro; ma avendo a mancare e volendo che rimanga una republica perfetta e che sia corroborata da tutte le debite parti e che ciascuno vegga e intenda ch'egli abbia ad essere così, acciò che l'universale (e per quello che se gli rende e per quello che se gli promette) si contenti, è necessario, di più, ordinare:

Che gli sedici gonfalonieri delle compagnie del popolo si creino nel modo e per il tempo che si sono creati fino ad ora; facendogli o d'autorità di Vostra Santità, o lasciandogli creare al Consiglio, come a quella piacesse; solo accrescendo e divieti, acciò si allargassino più per la città: ed ordinassi che non ne potesse essere alcuno de' sessantacinque cittadini. Creati che fussino, si traessi di loro quattro pro­posti, che stessino un mese: tale ch'alla fine del tempo fussino stati tutti proposti; di questi quattro se ne traesse uno, il quale facessi residenza una settimana in palazzo con gli nove Signori residenti: tale che alla fine del mese avessino fatto residenza tutti quattro. Non potessino detti Signori residenti in palazzo fare cosa alcuna lui as­sente; e quello non avessi a rendere partito, ma solo essere testimone delle azioni loro: potesse bene impedire loro e deliberare una causa e demandarla a tutti e trentadue insieme. Così medesimamente non potessino e trentadue deliberare cosa alcuna senza la presenza di dua de' detti proposti: e loro non vi avessino altra autorità che fer­mare una deliberazione che si trattassi infra loro, e demandarla al Consiglio degli scelti; né il Consiglio dei dugento potesse fare cosa alcuna, se non vi fusse almeno sei de' sedici co' dua proposti: dove non potessino fare alcuna altra cosa che levare da quel Consiglio una causa e demandarla al Consiglio grande, quando fussino tre di loro d'accordo a farlo. Non si potessi ragunare el Consiglio grande senza dodici de' detti gonfalonieri, senza infra loro almeno tre proposti; dove potessino rendere il partito come gli altri cittadini.

Questo ordine di questi Collegi così fatto è necessario dopo la vita di Vostra Santità e di monsignore reverendissimo, per dua cose: l’una, perché la Signoria o l’altro Consiglio, non deliberando una cosa per disunione, o praticando cose contra al bene comune per malizia, abbia appresso chi le tolga quella autorità e demandila ad un altro; perché e' non è bene che una sorte di magistrato o di Con­siglio possa fermare un'azione senza esservi chi possa a quella mede­sima provvedere. Non è anche bene che e cittadini che hanno lo stato in mano non abbino chi gli osservi e che gli facci astenere dal­l'opere non buone, togliendo loro quella autorità che li usassino male. L'altra ragione è, che togliendo all'universalità de' cittadini, levando la Signoria come si fa oggi, il potere essere dei Signori, è necessario restituirgli un grado che somigli quello che se gli toglie: e questo è tale, ch'egli è maggiore, più utile alla republica e più onorevole che quello. E per al presente, sarebbe da creare questi gonfalonieri per mettere la città negli ordini suoi, ma non permettere facessino l’uffizio loro senza licenza di Vostra Santità; la quale se ne potrebbe servire per farsi riferire le azioni di quegli ordini per conto dell’autorità e stato suo.

Oltra di questo, per dare perfezione alla republica dopo la vita di Vostra Santità e di monsignore reverendissimo, acciò non le man­cassi parte alcuna, è necessario ordinare un ricorso agli Otto di guar­dia e balia, di trenta cittadini, da trarsi dalla borsa de' dugento e de' sessantacinque insieme: il qual ricorso potessi chiamare l'ac­cusatore e il reo infra certo tempo. Il quale ricorso durante le vite vostre non lo lasceresti usare senza vostra licenza.

È necessario in una republica questo ricorso, perché li pochi cittadini non hanno ardire di punire gli uomini grandi: e perciò bisogna che a tale effetto concorressino assai cittadini, acciò che il giudicio si nasconda e, nascondendosi, ciascuno si possa scusare. Ser­virebbe ancora tale ricorso, durante le vite vostre, a fare che gli Otto spedissino le cause e facessino giustizia: perché, per paura che voi non permettessi il ricorso, giudicarebbono più rettamente. E perché non si ricorressi d’ogni cosa, si potrebbe ordinare che non si potessi ricorrere per cosa pertinente alla fraude, che non importassi almeno cinquanta ducati; né per cosa pertinente a violenza, che non vi fossi seguito o frattura d’osso o eflusione di sangue o ascendessi il danno alla somma di ducati cinquanta.

Parci, considerato tutto questo ordine come republica, e senza la vostra autorità, che non le manchi cosa alcuna, secondo che di sopra si è a lungo disputato e discorso; ma se si considera vivente la Santità Vostra e monsignore reverendissimo, ella è una monarchia: perché voi comandate all'armi, comandate a' giudici criminali, avete le leggi in petto; né so più quello che più si possa desiderare uno in una città. Non si vede ancora, di quello che i vostri amici, che sono buoni e che vogliano vivere del loro, abbino da temere; rimanendo Vostra Santità con tanta autorità e trovandosi a sedere ne' primi gradi del governo. Non veggiamo ancora come la universalità dei cittadini non si avessi a contentare, veggendosi rendute parte delle distribuzioni, e l’altre vedendo a poco a poco cadersi in mano: perché Vostra Santità potrebbe qualche volta lasciare fare al Consiglio qualcuno dei sessanta­cinque che mancassino, e cosi dei dugento; e alcuni farne lei secondo i tempi: e sono certo che in poco tempo, mediante l’autorità di Vostra Santità, che timoneggerebbe tutto, che questo stato presente si con­vertirebbe in modo in quello e quello in questo, che diventerebbe una medesima cosa e tutto un corpo, con pace della città e fama perpetua di Vostra Santità; perché sempre l’autorità di quella potrebbe soc­correre a' difetti che surgessino.

Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che volontariamente è loro dato dalla loro patria: credo che il maggiore bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltra di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti reformato le republiche e i regni: questi sono, dopo quegli che sono stati Iddii, i primi laudati. E perché e’ sono stati pochi che abbino avuto occasione di farlo, e pochissimi quelli che lo abbino sa­puto fare, sono piccolo numero quelli che lo abbino fatto; e è stata stimata tanto questa gloria dagli uomini che non hanno mai atteso ad altro che a gloria, che non avendo possuto fare una republica in atto, l'hanno fatta in iscritto: come Aristotile, Platone e molti altri; e quali hanno voluto mostrare al mondo che se, come Solone e Licurgo, non hanno potuto fondare un vivere civile, non è mancato dalla ignoranza loro, ma dalla impotenza di metterlo in atto.

Non dà adunque il cielo maggiore dono ad uno uomo, né gli può mostrare più gloriosa via di questa. E infra tante felicità che ha dato Iddio alla casa vostra e alla persona di Vostra Santità, è questa la maggiore, di darle potenza e subietto da farsi immortale e superare di lunga per questa via la paterna e la avita gloria. Consideri dunque Vostra Santità in prima come nel tenere la Città di Firenze in questi presenti termini, vi si corre, venendo accidenti, mille pericoli; e avanti che venghino, la Vostra Santità ha da sopportare mille fastidii insop­portabili a qualunque uomo: dei quali fastidii vi farà fede la reve­rendissima signoria del cardinale, sendo stato questi mesi passati in Firenze. E quali nascono parte da molti cittadini che sono nel chie­dere prosuntuosi e insopportabili; parte da molti a' quali non parendo, stando così, vivere sicuri, non fanno altro che ricordare che si pigli ordine al governo: e chi dice che si allarghi e chi che si restringa, e nessuno viene ai particolari del modo del restringere o dell'allar­gare, perché sono tutti confusi, e non parendo loro vivere sicuri nel modo che si vive, come lo vorrebbono acconciare non sanno, a chi sapessi non credono: tale che con la confusione loro sono atti a confondere ogni regolato cervello.

Per volere adunque fuggire tutti questi fastidi, non ci sono se non dua modi: o ritirarsi con l'audienze e non dare loro animo ne di chiedere, etiam ordinariamente, nè di parlare se non sono doman­dati, come faceva la illustre memoria del duca; ovvero ordinare lo stato in modo, che per se medesimo si amministri e ch'alla Santità Vostra basti tenervi la metà di un occhio volto. Dei quali modi, questo ultimo vi libera dai pericoli e da' fastidii; quell'altro vi libera solo dai fastidii. Ma per tornare a' pericoli che si portano stando così, io voglio fare un pronostico: che, sopravvenendo un accidente, e la città non sia altrimenti riordinata, e' si farà una delle due cose o tutte a due insieme: o e' si farà un capo tumultuario e subitaneo, che con le armi e con violenza defenda lo stato; o una parte correrà ad aprire la sala del Consiglio e darà in preda l’altra. E qualunque di queste due cose segua (che Dio guardi), pensi Vostra Santità quante morti, quanti esilii, quante estorsioni ne seguirebbe, da fare ogni cru­delissimo uomo, non che Vostra Santità, che è pietosissima, morire di dolore. Né ci è altra via da fuggire questi mali, che fare in modo che gli ordini della città per loro medesimi possino stare fermi: e staranno sempre fermi quando ciascheduno vi averà sopra le mani; e quando ciascuno saperrà quello ch'egli abbi a fare e in che gli abbi a confidare, e che nessuno grado di cittadino, o per paura di sé o per ambizione, abbi a desiderare innovazione.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Opere di Niccolò Machiavelli", a cura di Ezio Raimondi, Ugo Mursia editore, Milano, 1966







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