Critica - Opera Omnia >>  Machiavelli e la sua dottrina politica




 

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Sommario


§ 1. Gran numero ed uniformità de' lavori critici che si hanno intorno al Machiavelli.

§ 2. Svariata fecondità dell'ingegno di questo scrittore. Sue opere principali sono le Politiche. Varietà de' giudizii e delle conghietture intorno alle medesime.

§ 3. Opinioni de' più recenti critici.

§ 4. Mancanza di lavori di critica filosofica intorno alla Politica del Machiavelli e loro bisogno.

§ 5. Intendimento dell'autore di questo Saggio: ricercare quello che al Machiavelli debbano le politiche discipline e dedurre dalle sue opere un concetto sistematico della sua teoria politica. Utilità di un simile studio.

§ 6. Condizioni generali del sapere ne' tempi anteriori al Machiavelli: la scienza, e specialmente la Politica, schiava dell'autorità religiosa. Vocazione del secolo XVI.

§ 7. La emancipazione delle scienze dal giogo teologico si deve agl'Italiani. Machiavelli inizia e compie per sè solo una tale impresa rispetto alla Politica, che rende indipendente.

§ 8. Condizioni individuali del Machiavelli nel farsi a comporre il libro del Principe. Quali lavori politici anteriori abbiano potuto apprestargli guida e soccorso.

§ 9. Linguaggio riverente del Machiavelli verso la religione. Ma nel sistema delle sue dottrine, anziché subordinare ad essa la Politica, mostra potersi quella usare anche come mezzo di questa sua estimazione della influenza politica della potestà temporale del Papato sulle sorti dell'Italia.

§ 10. Tolta la Politica alla sua dipendenza dalla religione, per qual cagione Machiavelli non l'abbia collocata sotto l'impero della filosofia e della morale.

§ 11. Machiavelli fa della Politica una dottrina sperimentale, ed è il primo ad applicare alla medesima esclusivamente il metodo storico.

§ 12. Ciò si conferma ed attesta dallo stesso scrittore,

§ 13. Differenza con cui il Machiavelli e le scuole posteriori applicano alle scienze sociali il metodo storico.

§ 14. Il Machiavelli non eleva il fatto a dritto, ma esclude il problema morale e giuridico dal campo e dall'ufficio della Politica, la quale per tal guisa nel suo sistema rimane completamente separata dalla filosofia de' costumi e dalla scienza del dritto.

§ 15. Egli non si propone di esprimere gludizii di moralità e di giustizia, e molto meno commenda come bene il male morale, ma riguarda que' giudizii estranei alla Politica siccome vien da lui considerata.

§ 16. Efficacia di questo criterio a dare unità e facile spiegazione alle dottrine politiche del Machiavelli.

§ 17. Massime di alta moralità e giustizia estratte dalle Opere del Machiavelli.

§ 18. Fatta astrazione dalla bontà de' fini e dal problema morale come appartenente ad una scienza diversa, egli tratta la Politica come uno studio ed una esplorazione de' rapporti di certi mezzi e cause con certi fini ed effetti.

§ l9. Maravigliosi risultamenti degli studii sperimentali e delle applicazioni storiche del Machiavelli in questo campo.

§ 20. I lavori politici del Machiavelli appartengono piuttosto all'Arte Politica che alla Scienza. - L'Arte politica, secondo Platone ed Aristotile, S. Tommaso, Egidio Colonna, ed i pubblicisti moderni.

§ 21. In che consista la versatilità delle opinioni politiche del Machiavelli, e come non nuoccia alla unità e coerenza del suo sistema.

§ 22. Applicazione del criterio sistematico innanzi additato alla quistione del Principato ed al libro del Principe.

§ 23. La esposizione de' mezzi atti a reggere un governo ingiusto e tirannico è la parte meno originale degli scritti politici del Machiavelli. Dottrine conformi di Aristotile e di S. Tommaso.

§ 24. Qual sia la forma ottima di reggimento pel Machiavelli: è la mista.

§ 25. Se il Machiavelli consigli il principato tirannico, o il civile e giusto.

§ 26. Transizione ipotetica, che in lui si trova, alla esposizione de' mezzi necessarii a sostenere un mal governo.

§ 27. Obbiezione tratta dall'avere Aristotile e S. Tommaso esposti quei mezzi immorali come proprii della Tirannide e non del Principato. Si risponde. Il Machiavelli estende ad ogni Principato Assoluto quello che Aristotile e S. Tommaso avevano detto della Tirannide. In ciò consiste la originalità della sua dottrina ed il suo principal merito verso la causa della libertà.

§ 28. Come nondimeno nel suo sistema anche le buone ed oneste massime di governo abbiano largo tra i mezzi di sostenere il Principato.

§ 29. Corrispondenza inavvertita delle opinioni pe' più grandi uomini che abbiano giudicato il Machiavelli con questi concetti dell'autore del Saggio.

§ 30. Errore fondamentale della dottrina del Machiavelli: impotenza del suo sistema.

§ 31. Conseguenze da ricavarsi da questo esame filosofico della sua dottrina: condanna dell'Utilità Politica come principio, dell'esclusiva applicazione del Metodo Storico come criterio, della Monarchia Assoluta come forma di governo.


 

§ 1.

Gran numero ed uniformità de' lavori critici che si hanno intorno al Machiavelli.

Son tre secoli da che Machiavelli e le sue opere porgono agl'intenditori delle politiche dottrine materia di giudizi cotanto varii e difformi e di così larga copia di comenti e di critiche conghietture, che il cedere all'invito di aggiungere ancora oggidì un nuovo scritto su questo argomento da tanti ed in tante guise esplorato, e proporsi di non cader nel biasimo dovuto a chi grettamente ripeta cose da altri dette e segua le vie comunemente battute, nonchè ardua, presuntuosa impresa può à molti ragionevolmente parere.

E pure chi facciasi a discorrere quanto intorno a' libri di questo grande uomo fu scritto e ragionato, non potrà rimanersi dall'avvertire la monotona uniformità che è nell'indole e nello scopo di tutti i precedenti studii e delle ricerche sino ad ora istituite intorno a' documenti che quel sovrano intelletto lasciò della sua mirabile potenza.


§ 2.

Svariata fecondità dell'ingegno di questo scrittore. Sue opere principali sono le Politiche. Varietà de' giudizii e delle conghietture intorno alle medesime.

Veramente il vigore e la fecondità del genio di Machiavelli riuniscono quasi in lui molti uomini, e dirò pure molti grandi ed originali pensatori: il sommo pubblicista, l'accorto politico pratico, il comentatore di Aristotile, di Tito Livio e di S. Tommaso, l'insuperabile storico, il primo moderno precettore della strategia e dell'arte della guerra, il profondo negoziatore diplomatico, l'osservatore giudizioso delle usanze, degli avvenimenti o de' paesi importanti dell'Europa ne' suoi tempi, ed insieme il rigeneratore della commedia, il giocoso novelliere, il poeta erotico e satirico, il modello degli scrittori epistolari. Un intelletto che si estrinseca in tanta ricchezza ed eccellenza di forme è l'ornamento e la meraviglia di qualunque età in cui apparisca; ma collocato tra ultimi anni del secolo XV ed il primo quarto del secolo XVI, quando le menti de' contemporanei ingombre ancora da un resto delle tenebre del medio evo non osavano scuotere il doppio giogo della teologia e della scolastica, è negli ordini del vero un miracoloso sforzo della natura italiana, che essa sola in quel medesimo secolo una seconda volta ripeteva in Michelangelo per gli ordini del bello.

Ma in mezzo a tanta varietà di opere le dottrine politiche del Machiavelli sono come il centro de' suoi svariati lavori e come lo spirito che tutti l'informa e li coordina più o meno visibilmente ad una pratica unità di scopo. Se non che quando un intelletto dell'altezza di quello del Machiavelli si volge a meditare sopra un argomento qualunque non sa contenersi nel campo delle applicazioni particolari, ma sdegnando i limiti di luogo e di tempo, si eleva ad un sistema di verità generali e scrive per tutte le età e per tutti i paesi. Così il Principe, i Discorsi sopra la prima deca di T. Livio, ed altri suoi minori scritti composero in breve agli occhi dell'Europa intera un grande sistema di politica e come una formula della dottrina dell'epoca e dell'autore, intorno al quale esagerati apologisti ed implacabili oppugnatori iniziarono da quel tempo una fiera ed ostinata contesa, che a' dì nostri ancor è lontana dall'aver termine.

Tanto può la passione delle parti religiose e politiche far velo alla sincerità de' giudizi, che il Giovio trasportavasi ad affermare il Machiavelli ignorante affatto di greche e latine lettere, non ostante la luminosa contraria testimonianza delle sue stesse opere; nè mancò presumesse in lui riprendere, nonchè detestabili empietà, puranche volgari errori e triviali stoltezze. Per l'opposto uomini del valore di Alberico Gentile, di Bacone, di Lipsio, di Conringio, del Genovesi, dell'Alfieri non trovarono parole di lode che bastassero ad onorare l'eminente pensatore ed il robusto scrittore: e quanto a' suoi trattati politici, mentre al di là delle alpi il celebre Giovanni de Müller rileggendoli non rattenevasi dall'esclamare, nulla trovarsi in essi che non fosse oro puro; l'italiano Algarotti nella corte di Federigo di Prussia, quasi per rivendicare il suo sapiente concittadino dalle acerbe ed ipocrite censure del coronato autore dell'Anti-Machiavello, usciva nella sentenza, che quegli veramente fosse nella Politica e nelle cose di stato ciò che Newton fu nella cognizione delle scienze fisiche e de' segreti della natura.

Non fu minore il contrasto intorno al valor morale delle dottrine del politico fiorentino. I protestanti francesi, i quali in Caterina de' Medici odiavano una concittadina è, com'essi pretendevano, una discepola del Machiavelli, furono i primi a vituperarne la memoria ed a morderne acerbamente ed ignavamente (1) gli scritti: ma presto ad essi si aggiunsero e nell'animosa guerra li superarono i gesuiti cattolici ed i più sviscerati clienti di Roma. Intanto dall'opposta parte una tradizione, che risale a' con temporanei e compatriotti del Machiavelli, poichè il cardinale Reginaldo Polo lasciò scritto di averla trovata fin dal secolo XVI nelle bocche degli uomini fiorentini, secondo la quale l'autore del Principe avrebbe fatto non l'apologia ma la satira de' tiranni, o secondo altri, avrebbe dato a Lorenzo de' Medici con simulato ossequio esiziali consigli per ispingerlo alla sua rovina, si conservò e si trasmise di età in età fino a' nostri giorni; e pochi grandi uomini ottennero da penne liberali altrettante espressioni di ammirazione e di encomio, quante ne ebbe uno scrittore le cui dottrine non osavano accettare le penne più devote al potere ed alla causa della libertà men propizie, qualificandole per troppo immorali lezioni di despotismo.


§ 3.

Opinioni de' più recenti critici.

Questa lunga e dotta polemica sparse appunto un colore uniforme ed impresse una direzione sempre eguale e costante agli studii politici fatti sul Machiavelli, proponendosi del pari i suoi difensori ed i detrattori d'intendere e spiegare a proprio talento le dottrine da lui professate e di ricercare se mai egli ne avesse una sola; o due differenti, l'una vera e l'altra simulata, se fosse dato discoprir le tracce di questa contraddizione nel confronto del Principe e de' Discorsi, la maniera di conciliare l'autor del primo con quello dei secondi, ed altre cose somiglianti. Il Machiavelli più che un mirabile esempio ed un classico genio degno di richiamare alte meditazioni scientifiche, è per la numerosa schiera dei suoi illustratori una specie di enigma politico proposto alla critica letteraria. I più recenti lavori critici che videro la luce, l'uno dell'inglese Macaulay nella Rivista di Edimburgo, l'altro dell'italiano professore Zambelli (senza parlare di un articolo del Foscolo, quasi semplicemente bibliografico, ed inferiore al certo al valore di questo autore), si ostinano a rimanere in cotesta linea di osservazione. Se il primo crede spiegar Machiavelli, facendone il rappresentante della più corrotta tra le nazioni; l'altro giudica compiere opera benemerita all'Italia estendendo quell'accusa a tutte quante le nazioni più potenti di Europa, e gli basta far di Machiavelli l'espressione della vita politica del suo secolo. Ma per entrambi il grande scrittore manca di un sistema di politica governato da principii fissi, anzi rimane abbassato alla condizione di un uomo di circostanze, oggi repubblicano, domani fautore e piaggiatore de' tiranni alla guisa degli animi più spregevoli ed abbietti, e che guidato da un volgarissimo sentimento di ambizione personale, continuamente varia col variar di quelle, ed accomoda i consigli agli eventi accidentali e mutabili che ne' suoi tempi venivano succedendosi. Nè altrimenti testè giudicavalo ancora l'insigne Cesare Balbo nel suo Sommario della Storia d'Italia, troppo in ciò dilungandosi da un altro illustre storico subalpino, il Botta. Se questo concetto degli ultimi apologisti ed ammiratori del Machiavelli e di uno dei più autorevoli nostri storici politici viventi fosse capace di collocare altamente nella onoranza degli studiosi delle scienze sociali le opere del primo Politico che si abbiano avuto l'Italia e l'Europa, è superfluo che si dica: ma che un tal giudizio intorno al sistema complessivo della dottrina politica del Segretario fiorentino fosse giusto e conforme al vero, questo a noi pare dover risolutamente negare.


§ 4.

Mancanza di lavori di critica filosofica intorno alla Politica del Machiavelli e loro bisogno.

 Intanto è un fatto che niuno finora, per quanto da noi si sappia, si propose d'imprendere sul Machiavelli un'altra specie di studi, non per accusarlo o per difenderlo, nè per mostrar la corrispondenza delle sue massime particolari e pratiche coi costumi della sua nazione o del suo secolo, ma fuori del campo della polemica o della storia, collocandosi da un punto di vista più elevato e puramente scientifico, per discernere quali peculiari obblighi abbiano verso di lui le discipline politiche ed in che egli veramente le abbia innalzate e giovate, per dedurre dalle varie sue opere un concetto sistematico delle sue idee fondamentali in politica, e per esaminare qual posto convenga assegnare a' suoi scritti nella storia delle scienze sociali e nella filiazione de' sistemi e delle teorie razionali applicate alla politica, e sotto qual ordine di principii ed in qual generazione di lavori d'intelletto sia uopo collocarli.

Egli è tempo che la critica laboriosa e tuttavia sterile, di che tanto si compiacquero le età trascorse, quella critica che pazientemente applicavasi ad indagare ciò che vi fosse di più minuto, di relativo e di particolare nelle opere e nelle intenzioni de' grandi scrittori per alimentare una erudita e riverente curiosità, ceda alfine il campo ad una critica più ardita e fruttuosa, la quale in vece si applichi a porre in luce ciò che in essi v'ha di più generale e comprensivo, ciò che più li appropinqua o li discosta dalla verità assoluta della scienza, l'elemento ideale che propriamente può manifestare il loro rapporto con le radici prime d'ogni umana cognizione e civiltà; la quale spiritualizzi, per dir così, un sistema dominato da principii certi le loro varie e talvolta in apparenza contraddicenti dottrine e le molte opinioni particolari e concrete; e che in somma studii questi eccelsi esemplari non con l'occhio dell'amatore che si diletta di contemplare in una statua le locali bellezze, gl'ingegnosi artifizii e la squisita perfettezza delle imitazioni, ma con quello dell'artista che da essa si eleva alle grandi leggi della estetica ed agli ordini ideali del bello. Non v'ha dubbio che assai men facili sono i lavori critici di questa natura, a' quali è necessaria preparazione l'esercizio della mente negli alti veri della filosofia; ma l'età presente ha ormai troppa copia e sazietà delle facili e comode scritture di compilazione e di comunale erudizione, alle quali non v'ha mediocrità d'ingegno che non basti, nè il moltiplicarle ancora può nudrire i forti desiderii e satisfare le superiori tendenze degli odierni studii.


§ 5.

Intendimento dell'autore di questo Saggio: ricercare quello che al Machiavelli debbano le politiche discipline e dedurre dalle sue opere un concetto sistematico della sua teoria politica. Utilità di un simile studio.

Benchè io sappia le mie forze inferiori all'altezza di un simile tentativo, non per ciò mi riterrò dallo esporre alcune osservazioni di questa natura sulle opere politiche del Machiavelli, non fosse per altro scopo che per quello di eccitare più vigorosi intelletti a versare in un tal genere di studii intorno uno scrittore, al quale non si potrebbe senza ingiustizia negare il nome di padre ed instauratore delle moderne politiche discipline.

Io mi propongo di esaminare (se brevi cenni possono togliere il titolo di esame), in quali condizioni queste discipline fossero avanti il Machiavelli e ciò che egli alle medesime aggiugnesse: qual metodo alla loro trattazione applicasse qual carattere e scopo generico assegnar si debba ai suoi scritti politici per rettamente giudicarli senza ingiuria e senza favore: a qual sistema di principii e d'idee generali essi possano collegarsi, perchè rappresentino una serie coordinata di dottrine teoriche: e finalmente a che si riducano i corollarii essenziali di politica pratica a cui le dottrine medesime riescono.

Un simile ordine di ricerche è per sè di manifesta importanza. Esse, quando fossero istituite con frutto, varrebbero meglio di tutte le apologie a dar ragione della potente influenza esercitata dal Machiavelli sopra gli studi politici delle età posteriori, e della grande celebrità ch'egli ottenne, e che finora non iscapitò, anzi crebbe: conferirebbero a rischiarare e fors'anche a rettificare la storia delle scienze morali e politiche degli ultimi tre secoli: probabilmente aiuterebbero, assai più felicemente che tutte le precedenti divinazioni, a far palese alla per posterità il profondo disegno che informa le opere del Machiavelli, ed a risolvere l'enimma delle contraddizioni e del dualismo scientifico che generalmente si crede ravvisare tra alcuna di esse e le rimanenti, in che finora si esercitò cotanto l'acume de' suoi critici: ma sopra tutto gioverebbero a far apprezzare la bontà comparativa de' vari principii e metodi di filosofare in politica, potendosi con sicurezza sentenziare fallaci ed impotenti quelli che applicati da un genio superiore come il Machiavelli pur si rimasero infecondi di buone e salutari conseguenze.


§ 6.

Condizioni generali del sapere ne' tempi anteriori al Machiavelli: la scienza, e specialmente la Politica, schiava dell'autorità religiosa. Vocazione del secolo XVI.

Le umane generazioni non ricompensano mai di una fama grande ed immortale negli ordini dello scibile se non coloro i quali abbiano il merito di alcuna ardita e feconda innovazione in essi operata ed appresso di loro rimasta. Quali sono adunque le innovazioni che han dovuto procacciare al Machiavelli così immensa rinomanza appo la posterità negli studi della Politica ?

Esprimeremo in due parole qual fosse in que' tempi la condizione in generale del sapere. La religione da tiranna sospettosa ed oppressiva ne dominava tutte le parti. Le stesse discipline filosofiche, fatte per assicurare all'intelligenza la guida indipendente della ragione, sopportavano docili e silenziose questo giogo umiliante. Invano si erano ridestati in Italia gli studii platonici; Marsilio Ficino, i due Pichi della Mirandola, Nicola di Gusa ed i più celebri filosofi dall'epoca lungi dal domandare la indipendenza della filosofia, reputavano avventuroso e desiderabile il suo assorbimento ne' dommi della chiesa, che riguardavano come una ripruova di verità ed un pegno di sicurezza e di protezione per la scienza. I moralisti più famosi non erano che teologi; l'Etica di Aristotile dopo le felici fatiche ed i memorabili comentarii di S. Tommaso trovavasi di già così incarnata nelle somme e belle raccolte di sentenze de' frati tomisti e scotisti, che faceva co' precetti religiosi un solo ed inseparabil corpo di dottrine, e più non riscuoteva venerazione se non sotto la veste talare de' dottori in divinità e sotto le aride e compassate forme della scolastica. E la Politica stessa non poteva sottrarsi alla sorte comune: comentata anch'essa da S. Tommaso dal punto di vista religioso, trattata ormai come una casuistica di coscienza, e tenuta in ceppi da' papi mercè la comoda teoria che estendendo la lor potestà in ogni materia fin dove potessero incontrarsi la colpa ed il peccato, apriva larghissimo campo alle loro voglie di universal dominazione, e col favore della popolare ignoranza li faceva in Europa dispensatori e ritoglitori de' regni ed arbitri del reggimento interiore degli Stati; la Politica mon era che un'umile ancella della religione, e rassegnata per forza e tutte le dure, leggi che in quell'augusto nome le s'imponevano. Anche gli spiriti amanti di libertà, impazienti della corruzione e preconizzatori di politiche riforme, non osavano né potevano altrimenti raccomandar l'opera loro che alla efficacia del misticismo religioso, delle rivelazioni bibliche e delle stesse ispirazioni profetiche, come appunto in Firenze qualche anno innanzi alla comparsa del Machiavelli nel mondo scientifico ne aveva dato fresco esempio il Savonarola. In tal guisa poteva ben dirsi allora che lo Stato e la Scuola fossero nella Chiesa: il codice di morale e di politica per l'Europa intera poteva dirsi racchiuso nelle collezioni de' canoni, espressione abbastanza degenerata del cristianesimo: sulla base della loro potestà poteva considerarsi sorretto il colossale sistema del medio-evo.

Ma il secolo XVI di cui spuntavano gli albori aveva la vocazione di rinnovare il mondo scuotendo questa base fin allora venerata ed intatta, di emancipare la intelligenza, di rendere alla ragione un'attività libera ed indipendente e di scioglierla dalle catene che fino a quel tempo le avevano impedito di procedere dietro il proprio impulso e con le naturali sue forze alla ricerca ed alla conquista del vero. Allo sterile atto di fede della timida ignoranza doveva sostituirsi la feconda arditezza del dubbio e la spontanea adesione a veri conosciuti e dimostrati, all'autorità la discussione, alla sociale immutabilità la perfettibilità. Non era sperabile che la chiesa cedendo all'istinto de tempi abdicasse di buon grado quella suprema assoluta balia sulla scienza, di cui aveva un antico possesso, in certa guisa legittimato ancora da' servigi che nella notte della universal barbarie i suoi ministri avevanle renduto con la conservazione e propagazione de' documenti del sapere dell'antichità: alla schiava non rimaneva dunque che ribellarsi e lottare per ricuperare a viva forza la sua libertà. La religione e la scienza, per quanto la missione dell'una a quella dell'altra sovrastasse, dovevano ormai muoversi in due distinte orbite, perchè lo spirito umano non rimanesse condannato ad una perpetua immobilità; tal'era la condizione prima e fondamentale di ogni possibile progresso dell'umanità: questa lo sentì, e con intelligente gratitudine consacrò all'immortalità i nomi de' grandi intelletti che ne' varii rami della sapienza alla difficile impresa l'aiutarono, e dell'immenso benefizio la fecero lieta e sicura.


§ 7.

La emancipazione delle scienze dal giogo teologico si deve agl'Italiani. Machiavelli inizia e compie per sè solo una tale impresa rispetto alla Politica, che rende indipendente.

Anche questa volta fu l'Italia la prima a comprendere la necessità di questa grande rivoluzione, e la prima a tentarla per opera de suoi figli. È in Italia che Pomponaccio e Telesio emancipano dalla teologia la Filosofia, Galileo la Fisica, e Machiavelli la Politica. Sono tre parti di una opera sola e contemporanea, a continuar la quale non mancano appresso di loro numerosi discepoli e seguaci. Per apprezzarne il merito bisognerebbe potersi trasportare in ispirito nell'epoca in cui questo tentativo fu intrapreso, vivere nel pensiero e nel sentimento generale di quei tempi, fingersi il riflesso delle opinioni allora comuni e dominanti anche tra i più sapienti, misurare le ardue difficoltà ed i terribili pericoli che convenne sfidare e vincere. Senza questo felice ardimento pochi nostri grandi concittadini, strumenti sublimi di una missione provvidenziale, chi potrà dirci che sarebbe mai addivenuto dell'Europa? Essi erano ben lontani dal veder tutte le conseguenze di quel primo passo; i loro disegni si trovavano più che oltrepassati da ciò che indi a mezzo secolo compievasi. Ma senza questa prima insurrezione di alcune individualità italiane, il principio della libertà di coscienza e di vita civile avrebbe potuto così rapidamente fare il giro del mondo, e la guerra alle dottrine ed alle istituzioni oppressive manifestarsi ed invigorirsi successivamente nelle rivoluzioni religiose e politiche dell'Alemagna e de' Paesi Bassi in quel secolo medesimo, dell'Inghilterra nel secolo XVII, della Francia e delle colonie oltreatlantiche nel XVIII, ed ormai di tutta l'Europa e l'America nel XIX ?


§ 8.

Condizioni individuali del Machiavelli nel farsi a comporre il libro del Principe. Quali lavori politici anteriori abbiano potuto apprestargli guida e soccorso.

Per restringerci in particolare al nostro subbietto, egli è in mezzo a quelle condizioni di tempi e di studii che il Machiavelli, ricco della lezione delle antiche istorie e de' frutti della personale esperienza, prese a scrivere di Politica. Dopo essere stato l'anima de' consigli della repubblica fiorentina sotto il debole governo del Soderini, dopo aver acquistato profonda cognizione degli uomini e delle passioni loro, dopo aver sostenuto importanti e difficili ambascerie a' monarchi più potenti ed illustri, i Medici restituiti in patria lo avevano scacciato dall'uffizio di segretario, interdetto dal mettere più piede in palazzo, allontanato da Firenze, e più tardi come sospetto di aver congiurato a loro danno lo avevano imprigionato, ed al pari di ogni volgare inquisito senza pietà sottoposto a' dolori della tortura. Liberato da Leone X nella sua elevazione al pontificato, erasi il Machiavelli ridotto alla sua villa di San Casciano, dove ritirato dagli affari e nella solitudine della campagna, « sfogava la malignità della sua sorte, sendo contento di esserne calpestato per vedere se la se ne vergognasse ». Malcontento di sè e divorato non da ambizione di onori ma da bisogno di attività, dopo aver consumato la giornata alla caccia, a sovraintendere al taglio di un suo bosco ed a giuocare in un'osteria, usando a rappaciare le risse de' tagliatori e villani quell'abilità diplomatica che più non poteva esercitare nelle corti; la sera tornando a casa ed entrando nel suo scrittoio si spogliava in sull'uscio (com'egli stesso scriveva spiritosamente al Vettori) « la vesta contadina piena di fango e di loto, e si metteva panni reali e curiali, e rivestito decentemente entrava nelle antiche corti degli antichi uomini; dove da loro ricevuto amorevolmente si pasceva di quel cibo che solum era suo e pel quale era nato; dove non si vergognava parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, e quelli per la loro umanità gli rispondevano; e non sentiva per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimenticava ogni affanno, nè più temeva la povertà, nè lo sbigottiva la morte: e tutto si trasferiva in loro: e notava quello di che per la loro conversazione faceva capitale, e componeva un opuscolo De Principatibus, dove egli si profondava quanto poteva nelle cogitazioni di questo subbietto, disputando che cosa fosse Principato, di quali specie e' fossero, com' ei si acquistassero, come e' si mantenessero, perchè e' si perdessero ». Machiavelli allora (nel 1513) aveva 44 anni, era nel vigore dell'età. Egli non cercava in tali studi che un conforto alle sventure ed un mezzo di dar pruova del suo valore a' nuovi signori di Firenze; non sapeva che ne avrebbe raccolto una fama ed una guerra immortale.

Le confidenze intime di questa lettera fanno sorgere desiderio di conoscere quali esser potessero questi uomini antichi, dalla conversazione de' quali egli chiedesse soccorso nella composizione del suo prima lavoro di politica. E senza parlare de' puri teologi e moralisti, di Livio e Tacito fra gli storici, e de' più illustri tra i greci, latini ed italiani filosofi e poeti, quali esempi ei potè recarsi innanzi di lavori precedenti che più da presso si conformassero al disegno che accingevasi ad incarnare? Il bel dialogo di Senofonte che ha per titolo Jerone o la vita del Tiranno (2), la Politica di Aristotile, il comentario fattone da S. Tommaso, ed il suo manuale della Erudizione de' Principi, il libro De Regimine Principum falsamente attribuito al medesimo Aquinate (3), quello sotto lo stesso titolo di Fra Egidio Colonna dedicato al primogenito di Filippo il Bello re di Francia; i trattati del Bartolo della Tirannide e del Reggimento della Città, il libro della Monarchia di Dante (4), un altro trattato De recto regimine ovvero il Rectore (che trovasi pure commendato in quel secolo) dettato da un Fra Paolino pel veneziano Badoaro duca di Candia (5): ecco a dato sicuro la parte migliore, se non la intera scientifica suppellettile, di cui potesse, esser provveduto un cultore di questi studii ne' primi anni del secolo XVI. Possiamo col pensiero figurarci introdotti nella silenziosa biblioteca del Machiavelli ed affermare senza tema di cadere in inganno che di questi libri egli fosse circondato (6): le opere di Erasmo, di Bacone, di Moro, di Montesquieu non ancora esistevano.


§ 9.

Linguaggio riverente del Machiavelli verso la religione. Ma nel sistema delle sue dottrine, anziché subordinare ad essa la Politica, mostra potersi quella usare anche come mezzo di questa  sua estimazione della influenza politica della potestà temporale del Papato sulle sorti dell'Italia.

Tuttavia, malgrado lo scarso sussidio di così pochi ed imperfetti esemplari, la Politica, il dì innanzi schiava, sotto la penna del Machiavelli si eleva in un tratto all'apice della sua indipendenza; questo gran fatto segna il cominciamento di una nuova dottrina e la compiuta sovversione delle antiche relazioni che esistevano fra il domma religioso e l' autorità de' canoni, e la politica istessa.

Non è già che Machiavelli sia ateo o dispregiatore della religione; benchè egli l'abbia veduta contaminata da cattivi pontefici, non la confonde già con gli abusi del papato e della sua temporale potenza malgrado la corruzione della corte di Leone X, lo spirito turbolento ed ambizioso di Giulio II ed i costumi scellerati di Alessandro VI, il Segretario fiorentino non parla della Religione che con quella sincera venerazione alla quale gl'intelletti veramente sapienti non possono rinunziare. Ecco un saggio delle opinioni religiose del Machiavelli:

« Questa provincia ( l'Italia) ha perduta ogni divozione ed ogni religione, il che si tira dietro infiniti disordini; perchè così come dove è religione, si presuppone ogni bene, così dove ella manca si presuppone ogni male (7)» ...
« Nessun maggiore indizio si puote avere della rovina d'una provincia, che vedervi dispregiato il culto divino (8) » ...
« La qual religione se ne' principii della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore di essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche cristiane più unite e più felici assai che esse non sono ».

Indi prosegue con un presentimento, che ha qualche cosa di profetico alla vigilia della riforma e della predicazione di Lutero:

« E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello. » (9)
« Debbono dunque i principi di una repubblica o di un regno i fondamenti di una religione che essi tengono, mantenergli; e fatto questo, sarà loro facil cosa mantenere la loro repubblica religiosa, e per conseguente buona ed unita. E debbono tutte le cose che nascono in favore di quella, comechè le giudicassino false, favorirle e accrescerle (10) ».

Ma con tutto queste rispetto della Religione, egli non consente che seguiti a venirle commesso il governo della Politica, ma pone i problemi di questa come affatto indipendenti, come relativi ad una dottrina che non ha bisoguno di appoggiarsi ad autorità veruna, ma che trae dalle sue stesse forze i propri principii. Essa domina e si svolge da sè, ha fine e disegno proprio, e la legittimità de' suoi mezzi sta nella loro efficacia a conseguirlo. In tal modo la Politica non è più un tessuto di leggi divine e d'influenze sacerdotali, ma si riduce a fini ed a mezzi puramente umani; che anzi con inaudita temerità essa ardisce guardare la religione stessa da un punto superiore di vista, cioè considerarla come uno de' suoi mezzi, come un appoggio ed un istrumento di governo. Lo Stato, fino a quel tempo tolto a tutela dalla religione e fatto inviolabile dall'obedite praepositis vestris, confisca in suo profitto la religione e ne fa sgabello alla sua sicurezza. Lo scettro cade dalle mani della Chiesa; è il potere civile che lo raccoglie e si asside maestoso sul trono, dal quale a nome della religione era stato da lungo tempo scacciato.

Leggasi in fatti, come il Machiavelli paragona la diversa influenza che sulle sorti della libertà politica esercitarono il paganesimo ed il cristianesiino, per aver quest'ultima religione glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi, e posto il sommo bene non nella potenza, nella grandezza d'animo e nella gloria, ma nella abbiezione, nel dispregio delle cose umane e nella pazienza. Se non che indi (sempre sotto il medesimo aspetto guardando la religione) prosegue:

«E benchè paia che sia effemminato il mondo e disarmato il cielo, nasce più senza dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la nostra religione secondo l'ozio, e non secondo la virtù. PERCHÈ SE CONSIDERASSINO COME ELLA PERMETTE LA ESALTAZIONE. E LA DIFESA DELLA PATRIA, vedrebbono come ella vuole CHE NOI L'AMIAMO ED ONORIAMO, E PREPARIAMOCI AD ESSERE TALI CHE NOI LA POSSIAMO DIFENDERE (11) ».

Ed altrove:

« Come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse: perchè dove manca il timore di Dio, conviene che o quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore di un principe che supplisca a' difetti della religione (12) ».

E più particolarmente fa vedere gli effetti politici delle istituzioni religiose in quel capo, che ha per titolo. Di quanta importanza sia tenere conto della religione, e come la Italia, per esserne mancata mediante la Chiesa Romana, è rovinata. Dove due ragioni, che egli chiama potentissime, oppone a coloro che pensavano il benessere delle cose d'Italia dipendere dalla Chiesa di Roma. La prima, che per gli esempi rei della corte di Roma, i popoli ad essa più propinqui sentissero meno religione degli altri:

« Abbiamo dunque (egli diceva) con la Chiesa e co' preti noi italiani questo primo obbligo, d'essere diventati senza religione e cattivi; ma ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra provincia divisa. E veramente alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta all'ubbidienza d'una repubblica o d'un principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, nè abbia anche ella o una repubblica o un principe che la governi, è solamente la Chiesa, perchè avendovi abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente, nè di tal virtù che l'abbia potuto occupare il restante d'Italia e farsene principe, e non è stata dall'altra parte sì debile, che per paura di non perdere il dominio delle cose temporali, la non abbia potuto convocare un potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente; come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando mediante Carlo Magno la ne cacciò i lombardi, ch'erano già quasi re di tutta Italia; e quando ne' tempi nostri ella tolse la potenza a' veneziani con l'aiuto di Francia; dipoi ne cacciò i francesi con l'aiuto de' svizzeri. Non essendo dunque stata la Chiesa potente da potere occupare l'Italia, nè avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto un capo, ma è stata sotto più principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta ad essere stata preda non solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, non con altri (13).»

Più liberamente al certo ragionar non potrebbero della chiesa e della potestà temporale de' pontefici i politici italiani di questi nostri giorni (14). E Roma papale non perdonò all'uomo di genio, fondatore tra i moderni della Politica, questa scoperta della naturale opposizione tra lei e l'Italia, o a meglio dire, tra la grandezza temporale del ponteficato e la grandezza nazionale dell' italica stirpe, e fu questo il piu serio motivo delle censure e delle ire cui per tempo lo fece segno. Onesti desiderii e generose speranze poterono negli anni scorsi dettare eloquenti pagine al Gioberti ed al Balbo per indebolir la fede a quell'antica sentenza del Machiavelli; ma gli ultimi avvenimenti sopravvennero pur troppo a darle nuova ed ormai perentoria conferma.


§ 10.

Tolta la Politica alla sua dipendenza dalla religione, per qual cagione Machiavelli non l'abbia collocata sotto l'impero della filosofia e della morale.

La emancipazione della Politica dalla Teologia, ecco il primo alto merito che collocò il Machiavelli tra i padri del progresso intellettuale e gl'istitutori della civiltà moderna. Ma abbandonata la Politica dall'antica sua guida, a qual direzione sarà per affidarsi? Questa ricadeva di dritto alla Filosofia, la quale l'avrebbe armonizzata con la Morale. Ma la filosofia e la morale uscivano appena anch'esse di tutela, e non ancora bastando a loro stesse, erano impotenti di apprestare altrui sostegno ed aiuto; e poi a traverso i ceppi della scolastica la filosofia era ancora in massima parte una parafrasi delle credenze religiose, ed i precetti morali appena si distinguevano da quelli della Chiesa: dovè quindi parere al Machiavelli che ogni frutto della sua ardita innovazione verrebbe a mancare, se egli riducesse la politica sotto il dominio della morale e dell'astratta filosofia, perchè in realtà l'avrebbe rimessa nuovamente sotto lo stesso giogo, ritogliendole la indipendenza che aveva voluto conquistare per essa. Fu questo un grave malanno, l'essersi prematuramente emancipata la Politica, senza trovarsi già secolarizzata e costituita indipendente la Filosofia, e pria che la libertà di pensare avesse, assicurato il più alto titolo di orgoglio alla specie umana.

D'altra parte la corruzione e la violenza trovavansi insinuate nelle viscere della società e ne formavano la condizione normale di vita, sopra tutto in quelle alte regioni ove agitavansi problemi della politica, in un secolo che potè additare a brevi distanze sulla scena del mondo Luigi XI e Carlo IX, Riccardo III, Enrico VIII e Maria Tudor, Ferdinando il cattolico e Carlo V, Alessandro VI e Cesare Borgia. Le grandi nozioni di Dio e del bene assoluto, le leggi eterne della morale e i destini immortali dell'uomo trovavansi generalmente oscurati nello specchio della coscienza. Il mondo reale era un vivente modello, dal quale i pensatori non potevano ritrarre pure ispirazioni e virtuosi concetti.

Non rimaneva al genio del Machiavelli che gettarsi in una impresa ancor più malagevole; quella di svincolare la Politica dall'autorità filosofica, siccome l'aveva sottratta all'autorità religiosa, e così renderla fine proprio a sè stessa.


§ 11.

Machiavelli fa della Politica una dottrina sperimentale, ed è il primo ad applicare alla medesima esclusivamente il metodo storico.

Volgendosi all'opera, egli non ripone la sua fiducia nella potenza delle astrazioni metafisiche, non chiede alla natura spirituale dell'uomo il secreto dello leggi che debbono governare le società, non riproduce le teorie platoniche ed in parte ancora aristoteliche su i principii de governi e le loro degenerazioni; ma sdegnando l'uso del metodo filosofico, il quale allora non avrebbe potuto concepirsi altrimenti che sotto il pedantesco inviluppo del sillogismo scolastico, si fa ad adoperare un istrumento affatto diverso ed applica agli studii politici il metodo storico e sperimentale.

Si direbbe che egli nulla domandi alla ragione e che riduca tutta la scienza politica alla semplice osservazione sagace de' fatti ed alla esatta conoscenza delle combinazioni e de' rapporti de' mezzi con gli eventi e delle cause con gli effetti. Egli paragona un fatto con altri somiglianti, e dove le conseguenze risultano diverse, discopre con acuto giudizio l' elemento che cagionò la differenza; ma non saprebbe che farsi di un qualunque tipo di perfetta repubblica delineato col metodo razionale: come se avesse fitta addentro nella mente quella sentenza di Polibio, che negava a simili concepimenti ogni valore di pratica applicazione per essere sempre difettosa ed inutile la comparazione di un oggetto inanimato con esseri che respirano e liberamente vogliono. Egli non vuole interrogare che la storia e l'esperienza: a queste sole guide si commette, e come sa trarre partito dalla storia con maratigliosa abilità, cosí vuol fatale unica e suprema insegnatrice della politica.

Ciò è manifesto da tutt'i suoi scritti. La più classica ed importante delle sue opere politiche è una serie di discorsi sopra Livio, cioè di comenti ad uno storico. Egli si addentra ne' misteri della politica romana eon altrettanta sicurezza, quanta avrebbe potuto assisterlo a dar ragione degli atti della sua politica personale nel governo della repubblica di Firenze; e mostrando le cagioni della grandezza e della decadenza del più vasto degl'imperi, apre la via a' lavori posteriori del Montesquieu, che non sa discostarsi dal metodo stesso del Machiavelli.

Ci perdoni il dotto accademico francese traduttore della Politica di Aristotile (15): sedotto dalla passione nazionale, volendo egli appresso a Platone ed Aristotile, lumina-ri dell'antichità, collocare un moderno come terzo fra cotanto senno, sceglieva a tanto onore il Montesquieu, facendogli merito particolarmente dell'impiego del metodo storico nella Politica. Quanto a noi, senza gretto spirito di nazionalità, crediamo che quel posto spetti al Machiavelli. Fu questi il primo tra i moderni che applicasse alle politiche discipline il metodo storico e con dottrina e sagacia ammirabile: senza di lui, al quale lo stesso Montesquieu tributò il titolo di grand'uomo, il pubblicista francese (osiamo affermarlo) non sarebbe stato possibile, nè vi sarebbe stata tutta quella scuola di politici posteriori che tolse a costume di dettare insegnamenti sul governo degli Stati, illustrando Tacito o qualche altro storico insigne.


§ 12.

Ciò si conferma ed attesta dallo stesso scrittore.

Per convincerci che Machiavelli sentisse pienamente la novità di questo tentativo e deliberatamente ricorrer volesse al solo criterio storico e sperimentale, gioverà farlo da lui stesso attestare.

Nel presentare a Lorenzo de' Medici il Principe, raccomanda il lavoro, come quello in cui si trovi « la cognizione delle azioni degli uomini grandi, da lui imparata con una lunga sperienza delle cose moderne, ed una continua lezione delle antiche con grande diligenza escogitate ed esaminate.

E nell'esordio del primo libro de' Discorsi sopra Livio: « Ho deliberato entrare per una via la quale non essendo stata per ancòra da alcuno pesta, se la mi arrecherà fastidio e difficoltà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante quelli che umanamente queste mie fatiche considerassero. E se l'ingegno povero, la poca « esperienza delle cose presenti, la debole notizia delle antiche » (si noti il linguaggio modesto nel Machiavelli più attempato a fronte del giovane scrittore della dedicatoria del Principe) « faranno questo mio conato difettivo e di non molta utilità, daranno almeno la via ad alcuno che con più virtù, più discorso e giudizio potrà a questa mia intenzione satisfare; il che se non « mi arrecherà laude, non mi dovrebbe partorire biasimo.... E quando io considero quanto onore si attribuisca all'antichità, e come molte volte, lasciando andare molti altri esempi, un frammento di un' antica statua sia stato comprato a gran prezzo, per averlo presso di sè, onorarne la sua casa, poterlo fare imitare da coloro che di quell' arte si dilettano....; e veggendo dall'altro canto le virtuosissime operazioni, che le istorie ci mostrano che sono state operato da regni e da repubbliche antiche, da re, capitani, cittadini, datori di leggi ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate ...., non posso fare che insieme non me ne meravigli e dolga; e tanto più a quando io veggo nelle diferenze che tra i cittadini civilmente nascono, o nelle malattie nelle quali gli uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli giudizii o a quelli rimedii, che dagli antichi sono stati giudicati o ordinati.... Donde nasce che infiniti che leggono (le istorie) pigliano piacere di udire quella varietà a degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti d'imitarle, giudicando la imitazione non solo difficile, ma impossibile; come se il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini fossero variati di moto, di ordine e di potenza da quello ch'egli erano anticamente »


§ 13.

Differenza con cui il Machiavelli e le scuole posteriori applicano alle scienze sociali il metodo storico.

Qui intanto importa avvertire, con quale essenzialissima differenza il metodo storico sia stato applicato dal Machiavelli, e da coloro che in questa via lo seguirono.

Nello Spirito dello Leggi non di rado la storia s'invoca a giustificazione morale de' atti, e questa facile confidenza dell'autore è così forte che talvolta un paradosso o una bizzarria è da lui annunziata con approvazione senz'altro fondamento che una qualche favola di Sjam, del Giappone o dell'Australia, attinta da scrittori, che si credevano (come ebbe spiritosamente a dire un moderno critico) doppiamente antorizzati a mentire, e come viaggiatori e come proseliti di una famosa compagnia.

Sotto le mani del Grozio e de' suoi discepoli questa virtù delle pruove dedotte dalla storia si viene del pari esagerando; e bastano alcuni esempi e le opinioni di qualche antico poeta, storico od oratore per costituire un criterio di giustizia delle umane azioni, in grazia del legame chi si pretende desumere tra l'accordo di questi d'atti ed opinioni con una causa generale, e propriamente con la supposta retta deduzione da' principii della naturale giustizia. Si sa che questo fu poscia riguardato come il maggior difetto della grande opera del pubblicista olandese.

Ma che diremo dell'eccesso a cui queste tendenze nel nostro stesso secolo pervennero ne' libri e nelle dottrine di una scuola di filosofia e di giurisprudenza, la quale occupata dal pregiudizio che la storia dev'essere la giustificazione della provvidenza, stranamente intendendo la massima che nulla v'ha nel reale che non risponda all'ideale, e nulla nell'ideale che non sia puranche reale, e procedendo dal principio che tutto ciò che fu, dovette essere, e quindi fu ragione e giustizia che fosse; non dubito di elevare il fatto a criterio del dritto ne' diversi periodi della vita dell'umanità, e di raccomandare una specie di cieco e fatale ottimismo storico? Nel qual sistema il male e la ingiustizia perdono la loro intrinseca natura: messe in relazione con certi stadi di civiltà trovano la loro legittimazione la stessa schiavitù come stato giuridico, la tortura ed il duello come mezzo di pruova, e qualunque prava istituzione che la forza o la fraude fondarono e tennero per qualche tempo in piedi; e così scomposto affatto rimane l'ordine morale, e fatta impossibile la nozione delle delle sue più alte e immutabili leggi.


§ 14.

Il Machiavelli non eleva il fatto a dritto, ma esclude il problema morale e giuridico dal campo e dall'ufficio della Politica, la quale per tal guisa nel suo sistema rimane completamente separata dalla filosofia de' costumi e dalla scienza del dritto.

Ora il Machiavelli col suo spirito acuto e penetrante non si lasciò trarre su questo pericoloso sentiero, ed applicò alla Politica il metodo storico in una guisa affatto diversa. Il che noi crediamo uno de' maggiori sforzi del suo intelletto, ed una delle parti del suo sistema la meno osservata fino ad ora, e la più degna di esserlo.

Temendo da un lato nella metafisica e nel metodo razionale gli agguati della teologia e delta scolastica, ma non osando dall'altro trasformare il fatto in dritto ed at-tendersi dal metodo storico non rischiarato dalla luce de' principii speculativi la soluzione delle astratte quistioni di morale e di giustizia; il gran pensatore, costretto a camminar tra due precipizii, non vede che un solo scampo possibile, quello di riguardare il problema morale come estraneo alla Politica, di rigettarlo nella sfera di altri studi, in un altro ordine d'idee e di cognizioni, o di lasciarlo per tal guisa nè risoluto nè pregiudicato.

Ciò conveniva ad un tempo al primitivo impulso che aveva determinata la direzione de' suoi lavori. Non voleva egli l'emancipazione della Politica dal giogo dell'autorità? Or egli facendo della medesima fine e principio a sè stessa, la proclama veramente sovrana cd indipendente. È vero che restringe di troppo il cerchio della disciplina, ma se ne contenta, purchè logicamente non la subordini a verun'altra.

In questo sistema la Politica pone da banda, mercè di una compiuta astrazione, la natura morale dell'uomo ed il valor morale delle libere determinazioni della sua volontà della sua volontà. Essa non discute la bontà del fine; ma nella economia del reggimento delle umane associazioni, posto un fine, sa dall'esperienza attingere un tesoro di consigli per misurare con sicurezza la efficacia de' mezzi che gli uomini ed i governi possono adoperare per raggiungerlo. Non è più una teoria di legittimità, ma di efficienza e causalità. Il rapporto delle umane azioni non è studiato in ordine al dritto, ma in ordine al successo. Non è quistione di libertà giuridica, ma di potenza politica.

La separazione completa della Politica benanche dalla morale e dal dritto, lasciate nondimeno intatte e fuori controversia tutte le verità che a queste altre scienze si riferissero: ecco, mi sembra, la formola ultima in che potrebbe compendiarsi il sistema delle dottrine del Machiavelli, ed ecco, a mio credere, ciò che in riguardo a' suoi tempi ne costituisce la maggiore e più efficace originalità.


§ 15.

Egli non si propone di esprimere gludizii di moralità e di giustizia, e molto meno commenda come bene il male morale, ma riguarda que' giudizii estranei alla Politica siccome vien da lui considerata.

Ma ciò che i tanti fieri avversari del Politico italiano non seppero o non vollero vedere, allorchè cedendo alle prime impressioni, riguardarono i suoi libri come il codice delle più detestabili depravazioni e scelleratezze, come la cinica giustificazione di quanto v'ha nel mondo che merita l'orrore e la esecrazione universale, si è appunto questo intendimento ch'egli ebbe di non proferir sentenza alcuna che riguardasse la morale e la giustizia, e tanto meno di commendarne la infrazione ed in dispregio, ma solamente di restringersi in un altro ordine di ricerche ed in un'angusta cerchia, nella quale pensò potersi la Politica contenere. Contemperar poi le verità trovate da questa ed i rapporti da essa esplorati con le verità dedotte dalla scienza del bene morale, ei lasciò a coloro che quest'ultima insegnassero e che avessero a scopo di mantenerne l'imperio sulle coscienze degli uomini. Fin là non parvegli che dovesse estendersi l'ufficio proprio della Politica. Ed in ciò vedremo consistere altresì l'errore fondamentale del sistema scientifico del Machiavelli.


§ 16.

Efficacia di questo criterio a dare unità e facile spiegazione alle dottrine politiche del Machiavelli.

Intanto chiunque si collochi fuori di questo unico punto di vista, sarà incapace, almeno come a noi sembra, di giudicare dirittamente delle opere del Machiavelli, e di concepirle come una sintesi ordinata e complessa di dottrine. Dopo un lungo studio ed una spassionata meditazione sopra i suoi diversi scritti, confrontandoli con la onestà della sua vita privata ed anche della pubblica, dalla quale dopo tanti alti ufficii esercitati uscì povero ed onorato, con la generosità de' suoi sentimenti, con l'alto suo affetto alla libertà, per la quale sostenne i ceppi, la tortura e l'esilio, finalmente con l'ardente sublimità del suo desiderio di veder l'Italia sua patria risorta e liberata da' barbari, che ispiravagli l'ultimo capo del suo primo lavoro del Principe, e che ancor ne' suoi più tardi anni con giovanile entusiasmo facevagli esclamare: « che si estirpassero d'Italia i tedeschi, immani belve che altro di uomini fuori della faccia e della voce » a lui pareva non avessero; non si può che deplorare l'inganno di alcuni, la mala fede degli altri suoi interpreti ed oppugnatori, che non si stancarono dal rappresentarlo come il più corrotto e deliberato precettore cli servitù e d'immoralità. Nè meglio a lui giovarono i suoi difensori, ricorrendo a forzate giustificazioni e ad argute spiegazioni apologetiche, delle quali il Machiavelli stesso in altri luoghi de' suoi scritti pareva aver deposto l'anticipata confutazione.

Al contrario leggendone le opere con la guida del criterio innanzi additato, nulla in esse s'incontra che rimanga oscuro o che abbisogni delle faticose divinazioni della critica: tutto riesce piano, agevole e coordinato; e se non v'ha da raccogliere in questi scritti i più puri precetti di etica o di giustizia sociale, perchè a questo argomento non erano intesi gli studi dello scrittore, non v' ha però almeno di che gridare allo scandalo ed all'orrore.


§ 17.

Massime di alta moralità e giustizia estratte dalle Opere del Machiavelli.

Il Machiavelli, checchè ne dicano i suoi calunniatori, non nega l'esistenza del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male e tanto meno trascorre a chiamar bene il male ed a commendarlo come conforme alla destinazione morale dell'uomo. Egli conosce i principii e le leggi della morale e della giustizia; ed anzi, benchè non fosse suo istituto e disegno ragionarne, tuttavia non tralascia in molte occasioni di far la più esplicita riserva del suo rispetto alle medesime e del suo desiderio che non si manchi nelle civili società alla loro osservanza. Sarebbe opera lunga raccogliere queste sue schiette dichiarazioni sparse in tutt'i suoi scritti: sceglieremo le più notevoli per la sincerità e la efficacia del loro linguaggio.

« L'inosservanza della religione e delle leggi sono vizi tanto piì detestabili quanto che sono in coloro che ci comandano ».
« Ne' governi bene istituiti i cittadini temono più assai rompere il giuramento che le leggi, perchè stimano più la potenza di Diò che quella degli uomini »
« Potere stimare poco Dio e meno la Chiesa, non è ufficio d'uomo libero, ma sciolto, e più al male che al bene inclinate ».
« Quel dominio è solo durabile che è volontario ».
« In un governo bene istituito, le guerre, le faci, le amicizie non per soddisfazione di pochi, ma per bene comune si deliberano».
« In un governo bene istituito le leggi si ordinano secondo il bene pubblico, non secondo l'ambizione di pochi ».
« In una città macchiata di disordini le leggi, gli statuti, gli ordini civili non secondo il bene pubblico, ma secondo l'ambizione di quella parte che è rimasta superiore si sono sempre in quella ordinati e si ordinano ».
« Chi ha in sè alcuna umanità non si può di quella a vittoria interamente rallegrare, della quale i suoi sudditi internamente si contristano ».
« Un uomo si rendo eccellente nella guerra e nella pace, quando nell'una è vincitore, nell'altra benefica grandemente la città e popoli suoi ».
« Deve stimarsi poco, vivere in una città dove possino meno le leggi che gli uomini ».
« Come i buoni costumi per mantenersi hanno bisogno di buone leggi, così le leggi per mantenersi hanno bisogno di buoni costumi ».
« Perchè i buoni costumi non si mutino in pessimi, il legislatore deve frenare gli appetiti umani, e tôrre loro ogni speranza di potere impunemente peccare ».
« I governi meglio regolati e che hanno lunga vita sono quelli che mediante gli ordini loro si possono spesso rinnovare, e il modo di rinnovargli è ridurgli verso i principii suoi, con fargli ripigliare l'osservanza della religione e della giustizia quando principiano a macchiarsi ».
« Il riformatore delle leggi deve operare con prudenza giustizia ed integrità, e portarsi in modo che nella riforma vi sia il bene, la salute, la pace, la giustizia e l'ordinato vivere de' popoli ».
« Il Principe ottimo deve tenere il suo paese in giustizia grande ».
« Si deve fare opera diligente che la giustizia abbia il debito suo ».
« Io non credo che, sia cosa di più cattivo esempio in una repubblica, che fare una legge e non la osservare e tanto più quando non la è osservata da chi l'ha fatta».
« Perché le imposte sieno eguali, conviene che la legge non l'uomo le distribuisca ».
« Con modi onesti e ordinarii si riduchino le tasse al giusto ragionevole ».
« Coloro sono veramente liberi, che nelle buone, non nelle cattive opere si esercitano, perchè la libertà male usata offende sè e gli altri ».
« Buono non sarà mai giudicato colui che faccia un esercizio, che a volere di ogni tempo trarre utilità, gli a convenga esser rapace, fraudolento e violento ».
« Nel giudicare le cose fatte da altri, non si deve mai una disonesta opera con una onesta cagione ricuoprire, nè una laudevole opera come fatta a contrario fine oscurare ».

Generalmente si crede che il Machiavelli consigli ed approvi che per causa di utilità si commetta qualunque fraude e si manchi alla fede.

Eppure niuna massima è da lui altrettante volte contraddetta quante questa. Eccone le pruove:

« In un governo corrotto, dove la religione e il timore di Dio è spento, il giuramento e la fede data tanto basta quanto essa è utile ».
« Ancora che usare la fraude in ogni azione sia DETESTABILE, nondimeno nel maneggiar la guerra è cosa laudabile e gloriosa, e parimenti è laudato colui che con fraude supera il nimico, come quel che lo supera con le forze; ma io non intendo quella fraude esser gloriosa che ti fa rompere la fede data e i patti fatti: perché questa ancòra che la ti acquisti qualche volta stato e regno, la non ti acquisterà mai gloria: ma parlo di quella fraude che si usa con quel nimico che non si fida di te, e che consiste proprio nel maneggiare la guerra ».
« Il confederato deve preporre la fede alla comodità e pericoli ».
« Una legge non deve mai maculare la fede impegnata ne' patti pubblici ».
« La fede pubblica promessa a' sudditi si deve inviolabilmente osservare ».
« Quanto sia laudabile in un principe mantenere la fede e vivere con integrità non con astuzia, ciascuno lo intende ». (Si noti che da queste solenni parole comincia quel famoso capitolo XVIII del Principe, che tutti citano come apologia di tradimenti e lezione di fraude e di furberia a' governanti).
« S'ingannavano que' principi antichi, i quali credevano che l'arte di ben governare gli Stati consistesse nel sapere negli scritti pensare una cauta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole arguzia e prontezza, saper tessere una fraude, ornarsi di gemme e d' oro, dormire e mangiare con maggiore splendore degli altri, tenere assai lascive intorno, governarsi con i sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nell'ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostrato alcuna lodevole via, volere che le parole loro fossero responsi d'oracolo; nè si accorgevano i meschini che si preparavano ad esser preda di chiunque li assaliva. Testimone l'Italia, dove tre potentissimi Stati furono nel XV secolo saccheggiati e guasti, perchè chi li reggeva stavano in simile errore, e vivevano nel medesimo disordine ».

§ 18.

Fatta astrazione dalla bontà de' fini e dal problema morale come appartenente ad una scienza diversa, egli tratta la Politica come uno studio ed una esplorazione de' rapporti di certi mezzi e cause con certi fini ed effetti.

Ma la verità di queste massime doveva parere al Machiavelli troppo perspicua, perchè della medesime avesse a comporsi la Politica. Ad uno spirito superiore, come il suo, comporre un'opera intesa ad inculcare questi notorii precetti di moralità, che non avevano uopo di dimostrazione, dovè sembrare ufficio volgare di gretto ripetitore di cose già da tanti altri dette. Egli avrebbe rinunziato al suo proposito, se non avesse scorto un altro campo ancor quasi vergine ed intatto, che solo stimò abbisognare delle sue sapienti investigazioni. Era questo lo studio de' pratici rapporti che passano tra le azioni libere degli uomini e de' governi (astrazion fatta dalla moralità e giustizia delle medesime) con la conservazione e la caduta degli Stati e delle potestà che li reggono.

La città, il governo, la solidità e la durata degli ordini stabiliti, la difesa di un pubblico potere da pericoli interni ed esterni; ecco il più elevato scopo delle considerazioni e delle ricerche istituite dal sommo Politico italiano. Per lui son questi i soli obbietti speciali e proprii delle discipline politiche; i principii che li regolano costituiscono esclusivamente questo sistema importante di dottrine.

Egli non riguarda per ciò tutto il resto degl'insegnamenti della filosofia e della religione come sogni, chimere e superstizioni; ma non se ne occupa. Sul bene e sul male morale nulla ha di nuovo a dire al mondo; molte cose nuove, ingegnose e vere sa di avere ad annunziare sul bene e sul male politico.

Ripieno la mente dell'antica Roma e della morale dei suoi grandi uomini che anteponevano la patria ad ogni altro dovere ed alla stessa virtù, egli s'inchina innanzi alla idea dello Stato come alla più alta che nell'orbita della Politica si potesse concepire: assicurarne la conservazione e salvarlo dalla dissoluzione o dalla caduta è il fine supremo al quale intender debbono tutti i mezzi ed i sussidii che questa disciplina è chiamata a creare.

In questo senso, se si vorrà lasciare in disparte tutta quella dichiarazione incidentale di principii morali, il Machiavelli può dirsi l'antesignano de' recenti utilitarii: e poichè nel suo sistema rimane per tal guisa sovrano e dominatore il principio e lo scopo dell'utilità politica, esser doveva ben facile calunniarne le intenzioni e considerare i suoi libri come il terreno scientifico sul quale s'incontrassero l'antica bandiera ove i padri coscritti segnarono il terribile motto Salus Populi, e quella del despotismo moderno ov' è scritto a note di sangue Ragion di Stato.


§ 19.

Maravigliosi risultamenti degli studii sperimentali e delle applicazioni storiche del Machiavelli in questo campo.

 Ma dentro i confini di quel campo; quale immensa copia di preziose e feconde verità il Machiavelli non discuopre col suo occhio indagatore? Collocato nella regione de' fatti contingenti e de' liberi arbitrii umani, niuno è più felice di lui a riconoscere e formulare le cagioni ond'essi d'ordinario procedono, e dopo tre secoli gli studii della Politica non si trovano arricchiti di un altro libro degno di sollevarsi all'altezza di quelli del Segretario fiorentino. In quell'ordine di ricerche il metodo storico gli appresta mirabili aiuti ed il criterio sperimentale lo guida a risultamenti positivi e sicuri. Il mondo antico e contemporaneo è come un gran libro aperto avanti di lui, o meglio come una raccolta di esempi animati e viventi del vario reggimento politico degli Stati, che egli esamina e contempla da accuratissimo osservatore. Queste indagini gli somministrano la certezza della corrispondenza di un certo sistema di mezzi e di cagioni con la costante produzione di certi fini ed effetti, ed in questi rapporti con fedeltà e maestria descritti egli fa consistere le leggi che propriamente governano la Politica.

Laonde in questa descrizione, anziché sciogliere il freno alla facoltà inventiva ed immaginativa per discoprire e proporre l'ottimo civile, il suo istituto gl'impone anzi il debito di ritrarre scrupolosamente ciò che è ed accade; e però non è suo merito o colpa se da un certo ordine di fatti nascano conseguenze buone o ree, perché que' fatti e quella loro efficienza non sono opera di chi li osserva e pone in aperta luce. Per poco che quella descrizione cessasse di essere fedele, l'insegnamento riuscirebbe fallace e di nessuna utilità. Considerato l'ufficio della Politica, come Machiavelli lo considerò, essa al pari di ogni altra disciplina di osservazione registra il bene come il male, ed i mezzi e le cause che l'uno e l'altro generano o allontanano, senza curarsi di consigliar la scelta e la preferenza del primo al secondo. Le scienze naturali nella descrizione de' tre regni della natura non descrivono nel modo stesso le sostanze minerali e vegetali che han proprietà velenose e mortifere, ed i feroci animali che divorano l'uomo; o forse tacciono queste qualità e gli effetti che esse producono; ovvero si reputano obbligate ad aggiungere salutari precetti ed ammonimenti per regola della condotta dell'uomo, anzichè lasciarne l'ufficio all'igiene pubblica ed alla polizia preventiva della città? E similmente la meccanica e la balistica non insegnano la costruzione, gli effetti e l'uso delle più micidiali macchine da guerra, senza procurare o ammonire che esse si adoperino solamente a difesa della patria da straniere incursioni, e non già ad oppressione di un popolo innocente?

Può quasi sostenersi che lo stesso Machiavelli presentisse la possibilità di queste obbiezioni al suo sistema e loro rispondesse.

« Dubito (egli diceva) non essere tenuto prosuntuoso partendomi nel disputare questa materia dagli ordini degli altri: ma sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi l'intende, mi è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che all'immaginazione di essa; e molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti nè conosciuti essere in vero, perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui il quale lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la rovina che la preservazione sua (16) ».

Nella sua lettera al Vettori, nella quale gli annunzia essere intento a comporre il libro del Principe, non dichiara altrimenti il suo proposito (come abbiam veduto di sopra), e dice esser quello di esaminare « ciò che sia un principato, di quali specie sieno i principati; e per a quali mezzi essi si acquistano, si conservano e si perdono ».

Ed ei pare che questa fosse l'opinione che fin da' tempi del Machiavelli si avesse de' suoi libri politici; perciocchè nella lettera dedicatoria a monsignor Giovanni Gaddi, chierico della Camera Apostolica, premessa all'edizione del Principe del 1532, l'editore Bernardo di Giunta scriveva così: « Lo difenderà da quelli che per il soggetto suo lo vanno tutto il giorno lacerando così aspramente; non sapendo che quelli che l'erbe e le medicine insegnano, insegnano parimenti anche i veleni, solo acciocchè da quelli ci possiamo, conoscendoli, guardare; nè si accorgono anco, che egli non è arte nè scienza alcuna la quale non si possa da quelli che cattivi sono usare malamente. E chi dirà mai che il ferro fosse trovato piuttosto per ammazzare gli uomini che per difendersi dagli animali »?


§ 20.

I lavori politici del Machiavelli appartengono piuttosto all'Arte Politica che alla Scienza. - L'Arte politica, secondo Platone ed Aristotile, S. Tommaso, Egidio Colonna, ed i pubblicisti moderni.

Dalle precedenti considerazioni siamo tratti a determinare in qual generazione di lavori d'intelletto possano convenientemente noverarsi gli scritti politici del Machiavelli. Essi, secondo noi, più tosto che alla Scienza, appartengono all'Arto politica, e non ha poco contribuito la contraria opinione inconsideratamente ricevuta a dar ragione a' nemici ed accusatori dell'italiano scrittore. Una Scienza ha un fine assoluto, necessario ed immutabile: l'Arte può servire a fini moltiplici, ed essere indifferente intorno alla loro convenienza con la natura morale dell'uomo, restringendosi ad insegnare i mezzi che è mestieri adoperare per raggiungere l'uno o l'altro di essi. Considerata sotto questo aspetto, la Politica nelle mani di Machiavelli abbandonata a sè sola ed allevata in una selvaggia indipendenza, addiviene una teoria sistematica di mezzi senza presupposta rettitudine di volontà; una logica de' fatti compiuti, un'arte pratica di governo, un calcolo aritmetico di probabilità applicato a' fatti sociali. Già in tal senso avevano distinto dalla Scienza Civile l'Arte di governo Platone (17) ed Aristotele (18) fin dall'antichità; San Tommaso (19) ed Egidio Colonna (20) nel medio evo; e seguitarono indi a farlo i più chiari scrittori italiani studiosi delle aristoteliche dottrine, come il Cavalcanti, il Piccolomini, il Segni ed il Bonaventura (21).

Qnesta maniera di concepir la Politica, spogliata della vera e perfetta forma scientifica per ridursi ad un artificiale meccanismo sistematico, non potrebbe oggi soddisfare il bisogno delle intelligenze, nè riconoscersi bastevole alle presenti edizioni degli studi e della civiltà. Ma ne' tempi del Machiavelli, e posciachè per lui affatto disgiunta trattavasi la Politica dalla Morale, quel concetto non era soltanto logico ed elevato, ma altresì il solo preservatore della innocuità della disciplina.

Del resto non è da farne maraviglia, se anche in questo secolo uno de' più reputati pubblicisti di oltre alpi, il sig. DE RAYNEVAL, ha potuto definire la Politica nel suo significato più ampio « l'ARTE di condursi, ed in senso più ristretto l'ARTE di governare i popoli (22). E l'eccelso intelletto del nostro Romagnosi, così familiare alle rigorose e più astratte concezioni razionali, nella economia delle civili associazioni, accanto a' principii della Scienza non obbliò di assegnare un posto importantissimo all'Arte Sociale, cioè a quel complesso di regole, che serve a guidare l'esercizio della libera attività umana in guisa da renderla efficace ad effettuare un dato intento della vita sociale (23) ed in tal uapo anche negli odierni progressi delle politiche discipline riconobbe « doversi bensì tessere la teoria della vita deqli Stati, traendo i suoi principii dalle qualità, dalle affezioni, dagli stimoli e da' poteri naturali dei corpi sociali; ma doversi in pari tempo conformare i suoi dettami con gli esempi della a storia, almeno per quella parte che riguarda la sanzione dell'ordine invocato dalla natura: nè altrimenti (egli soggiunge) praticò un Machiavelli nelle parti da lui trattate, e così pure usarono tutt'i politici giudiziosi (24) ».

Questo per tanto si ritenga per fermo ed appresti la chiave per entrar nello spirito del sistema del Machiavelli, che cioè la Politica, fatta nelle sue mani interamente storica e sperimentale, non è pura Scienza, ma sì veramente e precipuamente assume l'indole e l'abito di un' Arte.


§ 21.

In che consista la versatilità delle opinioni politiche del Machiavelli, e come non nuoccia alla unità e coerenza del suo sistema.

Da ciò poi la dottrina pratica del Machiavelli piglia un'apparenza di varietà e d'incostanza che di fatto non è nel sistema, e questo ha potuto farlo giudicare un pensatore ed uno Scrittore il quale variasse secondo le circostanze. Ma egli non cangiava, quando accomodava a contrarii fini eligibili e ad occasioni mutabili e diverse l'ordine di mezzi più atto ad efficacemente generare i bramati effetti. Il quale concetto non poteva meglio esprimersi di quel che fece lo stesso Machiavelli in una sua famosa lettera indirizzata a Pier Soderini, nella quale gli diceva:

« Credo che come la natura ha fatto all'uomo diverso volto, così gli abbia fatto diverso ingegno e diversa fantasia. Da questo nasce che ciascuno secondo l'ingegno e fantasia sua si governa. E perchè dall'altro canto i tempi son vani, e gli ordini delle cose sono diversi, a colui succedono ad votum i suoi desiderii, e quello è felice che riscontra il modo del procedere suo col tempo; e quello per opposito è infelice che diversifica con le sue azioni dal tempo e dall'ordine delle cose. Donde può molto bene essere che due diversamente operando, abbiano un medesimo fine, perchè ciascun di loro può conformarsi col riscontro suo, perchè sono tanti ordini di cose, quante sono province e Stati. Ma perchè i tempi e le cose universalmente e particolarmente si mutano spesso, e gli uomini non mutano le loro fantasie, nè i loro modi di procedere, accade che uno ha un tempo buona fortuna ed un tempo trista. e veramente chi fosse tanto savio che conoscesse i tempi e l'ordine delle cose, e si accomodasse a quelle, avrebbe sempre buona fortuna, o egli si guarderebbe sempre dalla trista, e verrebbe ad esser vero che il savio comandasse alle stelle e a' fati. Ma perchè di questi savii non si trova, avendo gli uomini prima la vista corta, e non potendo comandare alla natura loro, ne segue che la natura varia e comanda agli uomini, e tienli sotto il giogo suo. Giova a dare reputazione a un dominatore nuovo la crudeltà, perfidia e irreligione in quella provincia dove l'umanità, fede e religione è da lungo tempo abbandonata, non altrimenti che si giovi l'umanità, fede e religione, dove la crudeltà, perfidia e irreligione è regnata un pezzo, perchè come le cose amare perturbano il gusto, e le dolci lo stuccano, così gli uomini infastidiscono del bene, e del male si dolgono. Queste cagioni, in fra le altre, apersero Italia ad Annibale, e Spagna a Scipione, e così ognuno riscontrò i tempi e le cose secondo l'ordine del procedere suo. Nè in quel medesimo tempo avrebbe fatto tanto profitto in Italia uno simile a Scipione, nè uno simile ad Annibale Spagna, quanto l'uno e l'altro fece nella provincia sua ».

Ed a questi pensieri risponde pure esattamente quel mirabile e sublime capo Del Principe intorno alla potestà della fortuna ne' fatti della Politica, di cui per filosofica esattezza d'idee e per poetica bellezza d'immagini non so se altro più stupendo ed aureo dettato uscì mai o uscir potrà da penna umana.

« E' non mi è incognito (giova rammentarne un brano) che molti hanno avuto ed hanno opinione, che le cose del mondo siano in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenza loro non possano correggerle, anzi non vi abbiano rimedio alcuno; e per questo potrebbero giudicare che non fosse da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte: questa opinione è stata più creduta ne' nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì fuori di ogni umana coniettura. Al che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inchinato nella opinione loro. Nondimanco perchè il nostro libero arbitrio sia spento, giudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l'altra metà, o poco meno, a noi. Ed assomiglio quella ad uno di questi fiumi rovinosi, che quando si adirano, allagano i piani, rovinano gli arbori e gli edificii, lievano da questa parte terreno, lo pongono da quell'altra, ciascuno fugge loro dinnanzi, ognuno cede all'impeto loro senza potervi in alcuna parte ostare: e benchè siano così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, nonvi potessero fare provvedimenti con ripari ed argini, in modo che crescendo poi o anderebbero per un canale, o l'impeto loro non sarebbe nè sì licenzioso, nè sì dannoso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta i suoi impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e ripari a tenerla. E se voi considererete I'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo. Che se la fusse riparata da conveniente virtù, come è la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non avrebbe fatto le variazioni grandi che l'ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti aver detto quanto all'opporsi alla fortuna in universale. Ma ristringendomi più al particolare, dico, come si vede oggi questo principe felicitare, e domani rovinare, senza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna. Il che credo che nasca prima dalle cagioni che si sono lungamente per lo addietro discorse, cioè che quel principe che si appoggia tutto in sulla fortuna, rovina come quella varia. Credo ancòra che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con le qualità de' tempi, e similmente sia infelice quello dal cui procedere si discordano i tempi. Perchè si vede gli uomini nelle cose che gl'inducono al fine, quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze, procedervi variamente; l'uno con rispetto, l'altro con impeto; l'uno per violenza, l'altro con arte; l'uno per pazienza, l'altro col suo contrario; e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. Vedesi ancora duoi rispettivi, l'uno pervenire al suo disegno, l'altro no, e similmente duoi egualmente felicitare con due diversi studii, essendo l'uno rispettivo, e l'altro impetuoso; che non nasce da altro, se non dalla qualità dei tempi che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto, che duoi diversamente operando, sortiscono il medesimo effetto: e duoi ugualmente operando, l'uno si conduce al suo fine, l'altro no. Da questo ancora dipende la variazione del bene, perchè se a uno che si governa con rispetto e pazienza, i tempi e le cose girano in modo che il governo suo sia buono, e' viene felicitando: ma se i tempi e le cose si mutano, rovina perché non muta modo di procedere. Nè si trova uomo sì prudente che si sappia accomodare a questo, sì perchè non si può deviare da quello a che la natura l'inchina, sì ancora perchè avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella; e però l'uomo rispettivo, quando egli è tempo di venire all'impeto, non lo sa fare, donde egli rovina; che se si mutasse natura con i tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna (25) ».

Questo luogo del Machiavelli dimostra abbastanza in che consista la versatilità delle opinioni, a torto ripresa in lui da coloro che non seppero ravvisare nella sua Politica una semplice teoria di mezzi, ma che caddero nel terrore di riguardarla come scienza di fini.


§ 22.

Applicazione del criterio sistematico innanzi additato alla quistione del Principato ed al libro del Principe.

Ma è tempo di porre alla più importante pruova il concetto che noi ci abbiamo formato del sistema dottrinale del Machiavelli, applicandolo alla famosa quistione suscitata dal suo libro del Principe. Coloro che attribuirono all'autore l'occulto e malizioso pensiero di velare e nascondere nel libro il ritratto de' tiranni della sua età per farli abborrire si trovano smentiti dal medesimo Machiavelli nella lettera in cui annunzia al Vettori ch'egli era intento alla composizione dell'opuscolo De Principatibus con la speranza di essere impiegato da' Medici, offrendo ad essi un saggio delle sue cognizioni politiche. Questa lettera stessa, le sue relazioni co' nuovi signori di Firenze ed anche il contesto intero del libro escludono l'altra supposizione che esso fosse una insidia al giovane Lorenzo de' Medici per farlo vittima di consigli in parte temerari, in parte malvagi ed atti a farlo venire in orrore all'universale e ad esporlo al pugnale de' cospiratori. A quelli in fine che pretesero scorgere nel Principe un basso atto di viltà interessata e di un animo ambizioso e corrotto, che loda e consiglia la perfidia ed il tradimento per procacciarsi la gratia ed il favore de' dominatori della patria, a coloro i quali per conseguenza non sanno ravvisare in quel breve famoso trattato che la esposizione di una dottrina falsa e perversa, posteriormente rinnegata dallo stesso autore ne' Discorsi ed in altre opere dettate negli anni più tardi di sua vita, venne a buon dritto opposta la nobile e virtuosa natura dell'illustre Fiorentino, la sua povertà onorata, il suo culto per la libertà di Firenze e per la indipendenza d'Italia, le persecuzioni ed i sacrifizi patiti per questa causa, la stima che gli accordarono i suoi più probi concittadini e contemporanei, in fine la franchezza con cui ne' Discorsi (scritti a conforto de' giovani più liberali di Firenze che adunavansi negli orti del Rucellai) egli rimanda il lettore al suo Principe, e persiste nelle opinioni le piú acremente combattute che egli avesse in quel libro espresse, cioè circa la osservanza delle promesse (26).

Intanto è un fatto questa conformità delle dottrine del Principe con quelle dei Discorsi; è un fatto che l'uno e gli altri a prima vista si riconoscono pensati e scritti con serietá e buona fede; ed è pure un fatto innegabile che in questi ed altri lavori del Machiavelli nella proposta degli utili ed efficaci mezzi di governo accanto a molti di essi altamente commendabili ed onesti non pochi se ne incontrano scellerati e tirannici. Come dunque negar si potrebbe che duplicità e contraddizione siano nelle parti varie de' suoi scritti politici, e come ammettere che in esse si trovi un sistema armonico, coordinata e costante di principii e di deduzioni?


§ 23.

La esposizione de' mezzi atti a reggere un governo ingiusto e tirannico è la parte meno originale degli scritti politici del Machiavelli. Dottrine conformi di Aristotile e di S. Tommaso.

Per dileguare questi dubbi, ei fa mestieri cominciare dallo avvertire che se il Machiavelli dalle sue opere non esclude una serie di precetti ed espedienti per reggere e sostenere anche un mal governo a' popoli gravoso, ed ingiurioso alle leggi della morale, questa è la parte meno originale e nuova del suo lavoro; perchè lo avevan in essa preceduto pure i più alti trattatisti di Politica che poteva proporsi ad esempio, i quali abbiam veduto essere Aristotile e S. Tommaso.

Il primo in fatti nel discutere le varie forme di reggimento ed i modi pe' quali ciascuno si preserva o ruina, venendo a ragionar delta monarchia e del suo contrario la tirannide, dopo avere stabilito che la monarchia in generale si mantiene con la moderazione, non aveva tralasciato di esporre largamente benanche i mezzi di conservazione della tirannia. Niuno che legga per la prima volta questo luogo della Politica di Aristotile può attenersi dal sentire orrore de' mezzi che con tutta la calma del filosofo egli suggerisce. Basti rammentarne alcuni:

« Reprimere ogni superiorità cha si levi; disfarsi degli tomini di cuore e di spiriti generosi; vietare i banchetti comuni e le associazioni; interdire la istruzione e tutte le discipline che conferiscono al sapere, cioè tutto quello che d'ordinario genera il coraggio e la confidenza in sè; non tollerare le erudite adunanze, e qualunque convegno sollazzevole; far di tutto perchè i cittadini restino ignoti gli uni agli altri quanto più sia possibile, attesochè le relazioni conducono alla fede reciproca; dare opera perchè la loro vita si versi in palese e sotto gli occhi dell'autorità; per non ignorare a quanto essi operino e disegnino; assuefarli per ogni modo a timidi e servili sentimenti ».

Eccone altri ancora

« Sapere tutto ciò che i sudditi dicono e fanno; ed a questo fine aver numerose spie e delatori, come in Siraracusa appellavansi, dove tutti gli atti e le intenzioni degli uomini acutissimamente indagavano: inviar, come soleva Jerone, coperti ascoltatori ovunque fosse alcuna riunione di cittadini per intendere le cose che ivi si dicano, perchè men liberamente si parlerebbe quando colà fosse conosciuta la presenza di gente di tal qualità; e quanto più gli uomini liberamente parlino, tanto meno occulti rimangono. Utile è ancora seminar discordie tra cittadini, e procacciar che offesi ed irritati si tengano gli amici verso gli amici, la plebe verso nobili ed anche i ricchi tra loro: ed oltre a ciò, impoverire i popoli, perchè, occupati a guadagnar quotidianamente la vita non abbiano tempo ed ozio per cospiarare. È con questo intento che furono elevate le piramidi d'Egitto ed altri grandi monumenti... Come la monarchia si conserva mercè l'opera e l'appaggio degli amici, è proprio della tirannide perpetuamente diffidar di essi, perchè se tutti distruggerla desiderano, costoro massimamente il possono ... È proprio del tiranno rigettare tutti coloro ne' quali respira un'anima fiera e libera, perchè la luce di cui l'altrui magnanimità ed indipendenza risplenderebbero al suo fianco, annienterebbe quella superiorità di padronanza che la tirannia rivendica per sè sola: il tiranno odia adunque queste nobili nature come attentatrici alla sua potenza.... In breve tutti i suoi mezzi di salvezza debbono appoggiarsi a queste tre basi: la diffidenza de' cittadini fra loro, il loro indebolimento e la loro morale degradazione ».

Coloro che maledicono il Machiavelli, come se egli fosse il primo consigliere di profonda simulazione ed ipocrisia al principe, non hanno letto questa parte memorabile del trattato politico del precettore di Alessandro. Lasciamolo parlare anche su questo argomento: è curioso e profittevole aver le confidenze di una così lontana antichità per compiangere il genere umano che si lasci ancora ingannare da artifizi cotanto invecchiati, che la filosofia fin da' suoi primordii si affrettò a smascherare.

« Vi ha un sol punto essenziale che la tirannia non debbe mai obbliare; che essa cioè abbia sempre la forza necessaria per governare non soltanto col generale consentimento, ma benanche a dispetto della volontà generale. Rinunziare a questo punto sarebbe rinunziare alla stessa tirannide; ma assicurata una volta questa base, per tutto il resto il tiranno può condursi come un vero re, o almanco prenderne accortamente tutte le apparenze. Primamente egli farà sembiante di occuparsi con sollecitudine degl'interessi pubblici....; renderà conto delle rendite e delle spese dello Stato, per aver con ciò il vantaggio di sembrare piuttosto un amministratore che un despota, non avendo d'altra parte a temere di mancar mai di denaro, finchè egli abbia piena balìa della città nel levare le imposte, farà mostra di riscuoterle nell'interesse dell'amministrazione pubblica e per far fronte alle opportunità della guerra. In somma egli deve apparire il custode della fortuna pubblica e comune e non della propria, e finger modi di uomo magnifico e grave, non di aspro crudele.... Finalmente mostrerà di fare il contrario di ogni consueto costume della tirannide. Sopra tutto che egli affetti una devozione e cura esemplare del culto degli dei, perchè si tollera più facilmente l'ingiustizia dal principe che si crede religioso e timorato della divinità, e men si ardisce insidiarlo, quando questa gli si reputa protettrice ed alleata: tuttavia non bisogna spingere tali apparenze sino a passar per istolto ed imbecille di mente.... Del resto è superfluo entrare in maggiori particolari. È manifesto quale esser a debba il proposito dell'imperante: fa d' uopo che il tiranno non sembri tale a' cittadini, ma un amministratore, un re, un uomo che non faccia i propri affari, ma che amministri e difenda quelli degli altri.... In a una parola conviene che egli si mostri compiutamente virtuoso, o almeno virtuoso a metà; e che non si mostri mai malvagio, o sempre meno di quel ch'e' lo sia (27) » .

Ma la filosofia cristiana sarà stata forse più scrupolosa e circospetta sotto la penna di S. Tommaso, il cui comento sopra Aristotile era l'altra guida degli studi del Machiavelli? In vece i consigli e le regole relative a' mezzi che giovano alla salvazione della tirannide (sono le proprie parole dell'aquinate) acquistano nelle parafrasi del comentatore un colorito assai più vivo ed efficace (28) ; il che ad un politico francese del XVII secolo (il quale, sia pur detto, fu adoperato a formare la biblioteca del cardinal Mazarino) suggerì questa esclamazione «Ecco precetti veramente strani in bocca di un santo » (29).


§ 24.

Qual sia la forma ottima di reggimento pel Machiavelli: è la mista.

Or dietro la guida di esempi cotanto autorevoli che, mai fece il Machiavelli? Egli è sopra tutto rispetto alle diverse forme maniere di reggimento della città, che prevalendo nella sua Politica quell'elemento che la costituiva un'Arte ed una disciplina di osservazione, lo scrittore dietro le orme di Aristotile e di S. Tommaso si raffigura come possibili le varie costituzioni di governo, descrivendole acconciamente e quasi con le stesse parole de' menzionati autori, e ne discorre i mutamenti e le conversioni e le cagioni che le producono ; e da ultimo anche nel governo di un solo non perde di vista la doppia ipotesi della POTESTÀ ASSOLUTA del Principato sciolto dalle leggi e da freni di pubbliche istituzioni, e di quella moderata da stabili ordini e dal rispetto garantito alle leggi, alla quale egli dà il nome di PRINCIPATO CIVILE o di REGNO.

Quindi, posto che l'ARTE non presuppone la rettitudine della volontà, né la bontà del fine; la successione e l'alternativa delle varie forme di governo ed anche dell'una e dell'altra sorta di principato, o che derivi dall'elezione degli ordinatori degli Stati, o da « quel cerchio nel quale (come pensa il Machiavelli) tutte le repubbliche si sono governate e si governano (30) », venne mostrando al nostro scrittore nella vita politica delle umane associazioni la possibilità di FINI tra loro diversi e difformi, e più o men buoni ed onesti, o mali e perversi. e siccome la soluzione del problema morale trovavasi per lui esclusa dal campo proprio della Politica, così egli senza farsi di proposito a sollevarlo, e lasciando al reggitore della città la responsabilità della scelta tra le forme, ed i fini del governare, si restrinse soltanto ad indagare ed a classificare sistematicamente tutt'i MEZZI e le DELIBERAZIONI che in ciascuna di quelle forme, e rispetto al fine eletto, avessero virtù di reggere, conservare o perdere la ipotetica costituzione dello Stato. Il che apertamente dichiara lo stesso scrittore, così cominciando il cap. XII del Principe : « Avendo discorso particolarmente tutte le qualità di quelli Principati de' quali nel principio proposi di ragionare (ereditarii, nuovi, civili, ecclesiastici), e considerato in qualche parte le cagioni del bene e del male essere loro, e mostro i modi con i quali molti hanno cerco di acquistarli e tenerli; mi resta ora discorrere generalmente le offese e difese che in CIASCUNO DE' PRENOMINATI possono accadere ».

Ma andrebbe lungi dal vero chi in tale teoria di mezzi, in questa semplice esposizione de' rapporti che la Politica discopre tra certe cause contingenti e certi effet-ti, pretendesse scorgere inchinato l'animo del Machiavelli ad anteporre la forma men buona o il reggimento tirannico e pravo a' loro opposti, sì che la indicazione ch'egli fa de' modi a quel fine conducenti si tenesse quasi consiglio e suggerimento di cotesta preferenza: nè men falsamente si apporrebbe chi solamente volesse reputarlo nella scelta affatto indifferente, e come se per lui un buono ed un cattivo reggimento un medesimo valor morale si avessero.

Che anzi per contrario il gran Politico, sebben non vi fosse astretto dal programma de' suoi lavori, sempre che fa qualche rapida ma splendida escursione in quell'altro campo, mostra di sentir vivamente le bellezze e le attrattive della virtù, i diritti della giustizia e la potenza della libertà nella elezione della forma e del fine del governo civile. Egli parteggia d'ordinario per le idee democratiche: niuno prima e meglio di lui confutava il proverbio, ché diceva fondar sul fango chi facesse fondamento sul popolo. Egli parla con entusiasmo di Bruto e di Cassio, protesta contro la fortuna e la gloria di Cesare, in cui apertamente vitupera il distruttore del reggimento repubblicano in Roma e consultato da Leon X intorno alla riforma della costituzione di Firenze, non propone ei forse di ordinare lo Stato a forma di repubblica temperata da istituzioni che si accostassero all'elemento monarchico? E sopra tutto a questo fatto positivo che bisogna por mente, quando vogliasi sapere qual fosse la forma di governo gradita al Machiavelli e di sua scelta fra tutte.

Una tal forma è quella del GOVERNO MISTO, qualche cosa di somigliante alle nostre moderne monarchie costituzionali, forma che aveva per sè il suffragio de' sapienti fin dalla più remota antichità, già commendata da Archita, Ippodamo ed altri pitagorici (31) da Platone e da Aristotile, da Polibio (32) e da Cicerone (33), e che nel secolo stesso di Machiavelli si troverà benanche raccomandata e proposta da altri politici venuti dopo di lui (34). In fatti il Machiavelli chiama pestiferi tutt'i sei modi semplici di governo, cioè i tre comunemente riconosciuti e le corrispondenti loro, degenerazioni « per la brevità della vita ch'è ne' tre buoni, e per la malignità che è ne' tre rei », e stima doversi preferire « un modo che partecipasse di tutti, come più ferino e più stabile, perchè l'uno guarda l'altro, sendo in una medesima città il principato, e gli ottimati ed il governo popolare. Tra quelli che hanno per simili costituzioni meritato più laude (prosegue il Machiavelli) è Licurgo, il quale ordinò in modo le sue leggi in Isparta, che, dando le parti sue a' re, agli ottimati e al popolo, fece uno Stato che durò più che ottocento anni, con somma lode sua e quiete della città (35) ». Ed altrove rappresenta saldamente costituita l'autorità del Principe non assoluto, « il quale faccia e ordini e leggi, dove insieme con la potenza sua si comprenda la sicurtà universale: e quando un Principe faccia questo, e il popolo vegga che, per accidente nissuno ei non rompa tali leggi, comincerà in breve tempo a vivere sicuro e contento: in esempio ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro per altro, che per essersi quelli re obbligati ad infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli (36) ». A questi e ad altri luoghi non meno importanti del Machiavelli (37) al certo non fece attenzione tra i moderni il Raumer, quando, tuttochè giudicasse il Politico italiano con minore ostilità di altri suoi connazionali, nondimeno lo biasimò per aver nella economia del civil governo sempre ed unicamente parlato di rapporti individuali o di partiti, senza mai segnalare la influenza degli ordini, degli Stati, delle costituzioni (38) ».


§ 25.

Se il Machiavelli consigli il principato tirannico, o il civile e giusto.

In simil guisa assai frequente e con luminosi colori tratteggiato s'incontra negli scritti politici del Machiavelli il ritratto del buono e del cattivo reggitore della città secondo i principii della morale giustizia: e dal confronto che egli ne fa chiara apparisce la moralità del suo giudizio e l'omaggio che egli rende all'onestà ed alla virtù, comunque non fosse a questo argomento rivolta la sostanza delle sue opere. Lo scegliere tra le copiose pruove, che se ne potrebbero addurre, è il solo impaccio che incontri. Ecco le prime che ci cadono sotto gli occhi.

« È molto più facile al buono e savio Principe esser amato da' buoni che da' cattivi, e obbedire alle leggi che voler comandar loro. E volendo intendere il che avessero a tenere a far questo, non hanno a durare altra fatica, che pigliare per specchio la vita de' principi buoni, come sarebbe Timoleone Corintio, Arato Sicioneo, e simili, nelle vite de' quali vi troveranno tanta sicurtà e tanta soddisfazione di chi regge e di chi è retto, che dovrebbe venirgli voglia d'imitarle, potendo ben facilmente farlo. Perchè gli uomini, quando sono governati bene, non cercano nè vogliono altra libertà ».
« Un Principe deve cercare ne' sudditi l'ubbidienza e l'amore. L'ubbidienza gli dà l'essere osservatore degli ordini, l'essere tenuto virtuoso. L'amore gli dà l'affabilità, l'umanità, la pietà ».
« L'esser umano, affabile, non dar alcun esempio di sè nè di superbo, nè di crudele, nè di lussurioso nè di nessun altro vizio che macchi la vita degli uomini, reca al Principe onori, vittoria e buona fama »
« Un Principe avrà gloria grande di aver dato principio al suo principato, onorandolo e corroborandolo di buone leggi, di buoni amici e di buoni esempi ».
« Il buon Principe non sa nè vuole mai dar occasione ad alcuna materia di scandalo, per esser amatore della pace e della giustizia».
« Le cose che il buon Principe deve introdurre simili alle antiche sono onorare e premiare la virtù, non disprezzare la povertà, stimare i modi e gli ordini della disciplina militare, costringere i cittadini ad amare a l'uno l'altro, e vivere senza sette, stimare meno< il privato che il pubblico, ed altre cose simili ».
« Il Principe deve essere grato a' confederati, da' nemici temuto; giusto con i sudditi, e fedele con gli esteri. »
« Il savio e buon Principe deve essere degli uomini letterati amatore ed esaltatore: deve aprire studi pubblici; conducendo i più eccellenti uomini, perchè la gioventù possa negli studi delle lettere esercitarsi: deve amare qualunque è in un'arte eccellente ».
« Imparino i Principi a vivere in maniera, e farsi in modo riverire ed amare, che niuno speri potere, ammazzandogli, salvarsi ».

Odasi per altra parte com'ei ragioni de' Pripcipi malvagi e de' modi tirannici di governo.

Dice di uno di questi governanti : « Aveva per massima, CHE NON PUÒ TROPPO DETESTARSI, che gli uomini si devono o vezzeggiare o spegnere » E pure il Machiavelli in altro luogo riconosce vera questa stessa massima, e la novera tra i mezzi atti a sostenere una qualità di principato.

Di Agatocle tiranno di Sicilia e de' suoi mezzi di governo dice: « Non si può chiamare virtù ammazzare i suoi cittadini, tradire gli amici, essere senza fede, senza pietà, senza religione; i quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perchè la efferata crudeltà ed inumanità con infinite scelleratezze di Agatocle, non inferiori a qualunque eccellentissimo capitano, non consentono che sia intra gli eccellentissimi uomini celebrato ».

Altrove mostra ne' nuovi reggimenti la necessità « di assicurarsi di coloro che a quell'ordine nuovo sono nemici, se far non si voglia uno Stato di poca vita. Vero è (quindi prosegue) che io giudico quelli Principi, che per assicurare lo Stato hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nimici la moltitudine: perchè quello che ha per nimici i pochi, facilmente e senza molti scandali si assicura; ma chi ha per inimico l'universale non si assicura mai; e quanta più crudeltà usa, tanto diventa più debole il suo principato. Talchè il maggior rimedio che si abbia, è cercare di farsi il popolo amico (39) ».

Più generalmente ancora e con severe parole egli eleva a dignità inconcussa della Politica monarchica una massima che ben meriterebbe essere scritta a caratteri dorati in ogni reggia: « Sappiano adunque i Principi, come a quell'ora e' cominciano a perdere lo Stato, ch'ei cominciano a rompere le leggi, e quelli modi e quelle consuetudini che sono antiche, sotto le quali gli uomini lungo tempo sono viventi (40) ».

Ecco in fine il confronto tra le due spezie di Principi buoni e malvagi fatto dal Machiavelli con mirabile eloquenza in quello stupendissimo de' Discorsi, che è il più splendido capo d'opera di morale civile che la letteratura italiana possegga:

« È impossibile che quelli che in Stato privato vivono in una repubblica, e per fortuna o virtù ne diventano Principi, se leggessero le istorie, e delle memorie delle antiche cose facessero capitale, che non volessero quelli tali privati vivere nella loro patria piuttosto Scipioni che Cesari; e quelli che sono Principi, piuttosto Argesilai, Timoleoni e Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisi; perchè vedrebbero questi essere sommamente vituperati, e quelli eccessivamente lodati. Vedrebbero anche come Timoleone e gli altri non ebbero nella patria loro meno autorità che si avessero Dionisio e Falari, ma vedrebbero di lunga avervi avuto più sicurtà. Consideri ancora quello che è diventato Principe in una repubblica quante laudi, poi che Roma fu diventata imperio, meritarono quelli imperadori che vissero sotto le leggi, e come principi buoni, che quelli che vissero al contrario; e vedrà come a Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e Marco non erano necessari i soldati pretoriani, nè la moltitudine delle legioni difenderli, perchè i costumi loro, la benevolenza del popolo, lo amore del Senato li difendeva. Vedrà ancora come a Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti altri scellerati imperadori non bastarono gli eserciti orientali ed occidentali a salvargli contro a quelli nemici che i loro rei costumi, la loro malvagia a vita aveva loro generati. E se la istoria di costoro fosse ben considerata, sarebbe assai buono ammaestramento a qualunque Principe a mostrargli la via della gloria o del biasimo, e della sicurtà o del timore suo. Perchè di ventisei imperadori che furono da Cesare a Massimino, sedici ne furono ammazzati, dieci morirono ordinariamente; e se di quelli che furono morti ve ne fu alcuno buono, come Galba e Pertinace, fu morto da quella corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata ne' soldati.... Pongasi adunque innanzi un Principe i tempi da Nerva a Marco, e conferiscali con quelli che erano stati prima e che furono poi; e dipoi elegga in quali volesse esser nato, o a quali volesse esser preposto. Perchè in quelli governati da' buoni, vedrà un Principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri cittadini; ripieno di pace e di giustizia il mondo; vedrà il Senato con la sua autorità, i magistrati con i suoi onori; godersi i cittadini ricchi le loro ricchezze; la nobiltà e la virtù esaltata; vedrà ogni quiete ed ogni bene; e dall'altra parte ogni rancore, ogni licenza, corruzione o ambizione spenta; vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere quella opinione che vuole. Vedrà in fine trionfare il mondo, pieno di riverenza e di gloria il Principe, di amore e di sicurtà i popoli. Se considererà dipoi tritamente i tempi degli altri imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, discordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli, tanti principi morti col ferro, tante guerre civili, tante esterne, l'Italia afflitta e piena di nuovi infortunii, rovinate e saccheggiate le città di quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da' suoi cittadini disfatto, desolati gli antichi templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii; vedrà il mare pieno di esilio, gli scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire innumerabili crudeltadi e la nobiltà, le ricchezze, gli onori, e sopra tutto la virtù essere imputata a peccato capitale. Vedrà premiare gli accusatori, essere corrotti i servi contra al signore, i liberti contro al padrone, e quelli a chi fossero mancati i nimici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il mondo abbia con Cesare. E senza dubbio se e' sarà nato d'uopo, si sbigottirà d'ogni imitazione de' tempi cattivi, e accenderassi d'uno immenso desiderio di eseguire i buoni....- in somma considerino quelli a chi i cieli danno tale occasione, come sono loro proposte due vie; l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte li rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna infamia (41).

Ecco dunque l'esecrabile precettore d'immoralità e di tirannide che è il Machiavelli. Ecco l'uomo contro del quale da tre secoli la maledizione del mondo intero non è stanca di disfogarsi.


§ 26.

Transizione ipotetica, che in lui si trova, alla esposizione de' mezzi necessarii a sostenere un mal governo.

Che se in fine pongasi mente alla forma sotto la quale il Machiavelli quasi sempre suole da questi sani e morali presupposti trapassare alla ricerca ed enumerazione dei mezzi immorali che valgano a reggere e sostenere un mal governo ed un principato vizioso e violento, niuno vi sarà a cui chiaro non apparisca che il politico si sente obbligato dal suo sistema e dalla verità effettuale della cosa a porre benanche la ipotesi di questi tristi reggimenti ed a studiare le cause della durata, e della caduta loro, senza che il venir queste esponendo e noverando importi in menoma guisa l'approvazione e giustificazione delle medesime, o che il male intendasi giudicato per bene.

Così volendo egli dar ragione della lunga e sicura vita e dominazione di Agatocle tiranno di Siracusa, dopo i suoi infiniti tradimenti e crudeltà:

« credo (così dice) che questo avvenga dalle crudeltà bene o male usate. Bene usate si possono chiamare quelle (se del MALE è lecito dir BENE) che si fanno ad un tratto per necessità dell'assicurarsi, e dipoi non vi s'insiste dentro, ma si convertiscono in più utilità de' sudditi che si può: le male usate sono quelle, le quali ancora che nel principio sieno poche, crescono piuttosto col tempo, che le si spengano. Coloro che osservano il primo modo, possono con Dio e con gli uomini avere allo stato loro qualche rimedio, come ebbe Agatocle. Quelli altri è impossibile che si mantengano. Onde è da notare che nel pigliare uno stato, debbe l'occupatore di esso discorrere tutte quelle offese che gli è necessario fare, e tutte farle a un tratto per non le avere a rinnovare ogni dì, e potere non le rinnovando assicurare gli uomini, e guadagnarseli con beneficarli. Chi fa altrimenti, o per timidità o per mal consiglio, è sempre necessitato tener il coltello in mano, nè può mai fondarsi sopra i suoi sudditi, non si potendo quelli per le continue e fresche ingiurie assicurare di lui. Perchè le ingiurie si debbono fare tutte insieme, acciocchè assaporandosi meno, offendano meno; i benefici si debbono fare a poco a poco, acciocchè si assaporino meglio (42) ».

Dove si vede, come non fosse intenzione dello scrittore trasformare in bene il male morale, ma lasciata già da parte la quistione di moralità, si proponesse studiare la politica efficacia e potenza non meno de' mezzi leciti ed onesti che degli immorali, secondo le occasioni, i modi e le cautele con cui si adoperassero.

Nello stesso senso accenna che il miglior rimedio a tenere un principato nuovo mancante di ordini civili sia il fare in quello Stato ogni cosa nuova, sino a disfare le città ed a tramutare, sull'esempio di Filippo il Macedone, gli uomini di provincia in provincia, come i mandriani tramutano le mandrie loro ». Ma tosto non manca di soggiugnere: « Sono questi modi crudelissimi, e nemici d'ogni vivere non solamente cristiano ma umano; e DEBBEGLI QUALUNQUE UOMO FUGGIRE, e volere piuttosto vivere PRIVATO, CHE RE con tanta rovina degli uomini, NONDIMENO (ecco ora l'ipotesi) colui che non vuole pigliare quella prima via del BENE, quando SI VOGLIA MANTENERE, conviene che entri in questo MALE (43) .»

Similmente là dove riconosce « esser necessario ad un Principe, volendosi mantenere, imparare a poter esser non buono, ed usarlo e non usarlo secondo la necessità », immediatamente dice ancora:

« de principi alcuno è tenuto liberale, alcuno misero; alcuno tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l'uno fedifrago, l'altro fedele; l'uno effeminato e pusillamine, l'altro feroce ed animoso; l'uno umano, l'altro superbo; l'uno lascivo, l'altro casto; l'uno intero; l'altro astuto; l'uno duro, l'altro facile; l'uno grave, l'altro leggiero; l'uno religioso, l'altro incredulo; e simili. Ed io so che ciascuno confesserà, che sarebbe LAUDABILISSIMA COSA, un Principe trovarsi di tulle le soprascritte qualità che sono tenute buone; ma perchè non si possono avere, nè interamente osservare per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l'infamia di quelli vizii che gli torrebbero lo Stato, e da quelli che non glielo tolgono guardarsi, se egli è possibile, ma non potendo, vi si può con minor rispetto lasciare andare (44).»
« Nessuno sarà mai sì pazzo, o sì tristo, o sì buono, che propostagli la elezione delle due qualità di uomini, non laudi quella che è da laudare, e biasimi quella che è da blasimare. Nientedimeno di poi quasi tutti, ingannati da un FALSO BENE da una falsa gloria, si lasciano andare o volontariamente o ignorantemente ne' gradi di coloro che meritanopiù biasimo che laude. e potendo fare con perpetuo loro onore o una REPUBBLICA o un regno, si volgono alla TIRANNIDE; nè si avveggono per questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete con satisfazione di animo e' fuggono, e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine incorrono (45) ».

Finalmente giova ancora una volta rammentare, che il diffamato cap. XVIII del Principe (46) trovasi preceduto da questa moralissima sentenza.

« Quanto sia laudabile in un Principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, CIASCUNO LO INTENDE».

Se non che poscia continua:

« Nondimeno si vede per esperienza ne' nostri tempi, quelli Principi aver fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà Ed è qui che il Machiavelli discende a far aperta la politica efficacia sperimentata da principi somiglianti di certi mezzi detestabili ed iniqui, che giustamente destar dovettero l'universale orrore, come principalmente, « il saper usare la bestia e l'uomo, e necessitato pigliar di quella la volpe ed il lione, perchè il lione non si difende da' lacci, la volpe non si difende da' lupi: bisogna adunque esser volpe a conoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi: coloro che stanno semplicemente in sul' lione non se ne intendono ».

È qui che leggesi:

« non dovere un principe osservar la fede quando tale osservanzia gli torni contro, e sono spente le cagioni che la fecero promettere: il qual precetto, se gli uomini fussero tutti buoni, non sarebbe buono; ma perchè sono tristi, e non l'osserverebbero a te, tu ancora non l'hai da osservare a loro. Nè mai ad un Principe mancheranno cagioni legittime di colorare la inosservanzia. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore; e sono tanto semplici gli uomini, o tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare. Ad un Principe adunque non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è ben necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che avendole ed osservandole sempre, sono DANNOSE, e parendo d'averle, sono UTILI; come parere pietoso, fedele, umano, religioso. intiero, ed essere; ma stare in modo edificato con l'animo, che bisognando non essere, possa e sappia mutare il contrario (47) ».

Orribili al certo e nefandissimi mezzi di governo: ma chi sospettar possa che lo scrittore lo volesse commendare o consigliare, sol perché li annuncia con quella stessa impassibile freddezza con cui ne' suoi dispacci annunziava alla signoria Firenze le uccisioni ed i tradimenti che il duca Valentino commetteva in Sinigaglia sotto i suoi occhi, li conferisca con queste altre sue decisive conclusioni, esplicative della mente sua e del suo pratico proposito: « Il vedere con quali inganni, con quali astuzie i Principi e tiranni per mantenersi a quella reputazione che non avevano meritata, si governavano, È NON MENO UTILE CHE NON SIANO LE COSE VIRTUOSE A CONOSCERSI, perchè se queste i liberali animi a SEGUITARLE ACCENDONO, quelle a fuggirle e a spegnerle gli accenderanno ».

Ci sia permesso domandare, se Aristotile e S. Tommaso abbiano detto di più, dopo aver esposta la loro dottrina intorno a' mezzi pe' quali si regge e mantiene la tirannide.


§ 27.

Obbiezione tratta dall'avere Aristotile e S. Tommaso esposti quei mezzi immorali come proprii della Tirannide e non del Principato. Si risponde. Il Machiavelli estende ad ogni Principato Assoluto quello che Aristotile e S. Tommaso avevano detto della Tirannide. In ciò consiste la originalità della sua dottrina ed il suo principal merito verso la causa della libertà.

Taluno obbietterà che il greco ed il cristiano filosofo l'uso di cotali mezzi reputarono convenire al Tiranno, e non già, come fa il Machiavelli, al Principe.

Ma concedendo la verità di questa osservazione dentro certi limiti che ora ci faremo a dichiarare, rispondiamo che per noi anzi appunto in questo vuol riporsi il maggior pregio di novità e di profondità di giudizio del gran politico italiano del XVI secolo, e la materia di una delle più notevoli avvertenze che ci avvenga dover fare intorno alle sue dottrine. Ed a fare aperto e provato il nostro pensiero, giova rendersi ben ragione della classificazione che il Machiavelli fa delle varie specie di reggimenti degli Stati, e della intima e propria significazione della voce Principe, quando egli ne' suoi scritti l'adopera senza altra qualificazione o aggiunta. Chi abbia familiare la lettura di essi nell'aurea e lucida veste di lingua e di stile che li adorna, non durerà fatica a riconoscere che il fiorentino scrittore non parla allora che veramente e propriamente del PRINCIPE ASSOLUTO non frenato dagli ordini, dalle costituzioni e dalle leggi dello Stato.

In fatti il Machiavelli da' semplici PRINCIPATI puri, che a questa specie appartengono, distingue e particolarmente contrassegna i PRINCIPATI ECCLESIASTICI ed il PRINCIPATO CIVILEo REGNO (48) . E sui primi non si diffonde, perchè (com'egli pensa) « senza virtù e fortuna si mantengono, essendo sostentati dagli ordini antiquati nella religione, quali sono stati tanto potenti e di qualità che tengono i loro principati in stato, in qualunque modo si procedano e vivano (49) . E degli altri dice, « soler que' principati a periclitare quando sono per salire dall'ORDINE CIVILE allo ASSOLUTO... . non essendo il Principe a tempo ne' pericoli a pigliare L'AUTORITÀ ASSOLUTA, perchè i cittadini e sudditi che sogliono avere i comandamenti da' magistrati, non sono in quelli frangenti per ubbidire ai suoi (50) ». Ed abbiam già veduto innanzi, quanto egli commendasse il REGNO di Francia come « quel REGNO che viveva sotto le leggi e sotto gli ordini più che qualunque altro regno, » e dove i Parlamenti, « fanno esecuzioni contro a' PRINCIPI DI QUEL REGNO: » quanto accuratamente si guardasse dal confondere « i RE che nascono sotto tali COSTITUZIONI » da' « PRINCIPI sciolti dalle leggi e che hanno potuto rompere quel freno che li può cor reggere ».

A' quali luoghi è bene aggiungerne ancora due altri sul proposito notevolissimi, che son questi:

« I REGNI che hanno buoni ordini, non danno l'IMPERIO ASSOLUTO a' loro RE se non negli eserciti, perchè in questo luogo solo è necesaria una sùbita deliberazione, e per questo che vi sia una UNICA POTESTÀ; nelle altre cose non possono fare alcuna cosa senza consiglio. (51)
« Quanto all'innovare QUESTI ORDINI (dello Stato) ad un tratto, quando ciascuno conosce che non sono buoni, dico che questa inutilità, che facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla, perchè a far questo non basta usare termini ordinarii, essendo i modi ordinarii cattivi, ma è necessario venire allo straordinario, come è alla violenza ed alle armi, e diventare innanzi ad ogni a cosa PRINCIPE DI QUELLA CITTÀ, e poterne disporre a suo modo: e perchè il riordinare una città al VIVERE POLITICO presuppone un uomo buono, e il diventare per violenza PRINCIPE di una repubblica presuppone un uomo cattivo, per questo si troverà che radissime volte accaggia che un uomo buono voglia diventare PRINCIPE per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono; e che un reo, divenuto PRINCIPE, voglia operare bene, e che gli caggia mai nell'animo usare quell'autorità bene che egli ha male acquistata (52).

Né altrove che nella REPUBBLICA o nel REGNO il Machiavelli scorge quella che egli chiama VITA CIVILE, e che considera estranea affatto alla forma del puro Principato. « Qualunque (son sue parole) diventa Principe di una città o di uno Stato, e tanto più quando i fondamenti suoi fossero deboli, e non si volga o per via di REGNO o di REPUBLICA alla VITA CIVILE, il migliore rimedio ch'egli abbia a tenere quel PRINCIPATO è, sendo egli nuovo PRINCIPE, fare ogni cosa di nuovo in quello Stato (53) ». Favellando pure delle civili riforme, ei dice: « Non è esaltato alcun uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quelli che hanno con leggi e con istituti riformato le REPUBBLICHE e i REGNI; questi sono, dopo quelli che sono stati iddii, i primi laudati (54) ». Ed altrove ragionando di Roma, gli par « testificato, tutti gli ordini primi di quella città essere stati più conformi ad un VIVERE CIVILE E LIBERO che ad uno ASSOLUTO E TIRANNICO (55) » dove i contrapposti termini rivelano abbastanza il valore che lo scrittore a quelle voci attribuisce.

E non paiano posti a caso insieme il governo assoluto ed il tirannico, imperocchè molte pruove si possono addurre di non avere il Machiavelli d'ordinario riconosciuta differenza fra il Tiranno ed il Principe rivestito di potestà assoluta circa i mezzi cui l'uno e l'altro son tratti a ricorrere per conservare l'autorità loro. Basta fare attenzione a questi luoghi delle sue opere:

« Quasi tutti, ingannati da un falso bene.... potendo fare con perpetuo loro onore o una REPUBBLICA o un REGNO, si volgono alla TIRANNIDE (56) ».
« Volendo pertanto un PRINCIPE guadagnarsi un popolo che gli fusse nimico, parlando di quelli PRINCIPI che sono divenuti della lor patria TIRANNI (57) ».

Da ultimo, dopo di aver mostrato, come nel riordinare una REPUBBLICA o un REGNO sia prudenza ritener l'ombra almanco de' modi e degli ordini antichi, soggiunge apertissimamente: Ma quello che « vuol fare una POTESTÀ ASSOLUTA, LA QUALE È CHIAMATA TIRANNIDE, debbe rinnovare ogni cosa (58) ».

Fermato così che il PRINCIPE del Machiavelli, sempre che ei più particolarmente non lo qualifichi, è il PRINCIPE ASSOLUTO, chiaramente si vede, che nella esposizione dei mezzi valevoli a conservargli lo Stato e l'autorità, il Machiavelli in somma estende in generale a' PRINCIPI ASSOLUTI quello che Aristotile e S. Tommaso avevano detto del TIRANNO, e che per tal motivo trovasi ordinariamente condotto a non ammettere tra quelli e questo differenza veruna (59).

Or egli è questo, per quanto a noi sembra, un gran passo fatto dal Machiavelli nelle vie della Politica, ed un progresso proprio e caratteristico della sua teoria su quelle de' filosofi di Stagira (60) e di Aquino e di ogni altro politico anteriore; in ciò anzi noi scorgiamo la piú distinta originalità della sua dottrina sul Principato ed insieme il principal merito che egli forse abbia verso la causa della libertà.

Ben lontano il Machiavelli, come abbiam già veduto, dal consigliare, preferire, o anche semplicemente approvare questa forma di governo, tuttavia il suo istituto gl'impone l'obbligo di esporre le cagioni ed i mezzi che possono mantenerla o perderla; or egli si applica a dimostrare, e crediamo che felicemente dimostri, come il Principato Assoluto per reggersi adoperar debba sciaguratamente gli stessi mezzi della conscia e deliberata tirannide, e come più o meno usandone, non possa interamente farne senza. Imperocchè rotto il legame e la solidarietà che gli ordini ed il consenso della volontà nazionale creano nel Principato Civile tra il monarca ed i popoli; gli interessi particolari e proprii del Principe e della sua successione e famiglia introducendo un funesto dualismo di fini nello stato, quello cioè del bene pubblico, e l'altro della conservazione e potenza personale e dinastica; non si può schivare il pericolo di un conflitto tra questi due intenti, nè tardano a sopravvenire prima la incompatibilità de' mezzi all'uno ed all'altro conducenti, e quindi il sacriflzio del pubblico vantaggio al personale e dinastico, e l'assicurazione ed incremento di quest'ultimo con modi dalla morale e dalla giustizia riprovati. Nè potrebbe il Principe da queste vie altrimenti tenersi lontano, che esponendosi anche a deporre o perdere in certe contingenze il principato assoluto: ma la ipotesi è della volontà di conservarlo e di mantenersi in istato ed in autorità ad ogni patto: ed allora l'acuto sguardo del nostro politico, esplorando i mezzi che adoperar si possano in rapporto a tal fine, svela fra essi trovarsene insieme con alcuni onesti e morali moltissimi perversi ed iniqui, quelli stessi che sono mezzi e strumenti di salvazione della tirannide (61). Ed egli, copiando fedelmente dalla natura, non tralascia di minutamente ed accuratamente descriverli nel suo Principe, ed anche in altre sue opere dove di quel Principato gli accade di favellare.

Nella qual sentenza tanto più saremo confermati, se rammenteremo che il Machiavelli vivevasi appunto in quella età, la quale più di tutte le precedenti riuscì favorevole al forte concentramento dell'autorità monarchica ed alla depressione degli ordini e delle franchigie popolari e cittadinesche, non meno che delle feudali preminenze e partecipazioni al governo degli Stati nell'età di Luigi XI, di Ferdinando il cattolico e di Carlo V. L'antagonismo tra il principio nazionale ed il principio dinastico cominciava già allora a predominare. I parlamenti, le corti generali, gli stati ed altre istituzioni di tal fatta si scolorivano sulla scena del mondo; l'autorità de' re fortificavasi di giorno in giorno; tutti i mezzi d'influenza e di azione si raccoglievano nelle loro mani; Si abbattevano i grandi, si opprimevano i municipii, si faceva la guerra a' privilegi ed alle garantie politiche: tutto cedeva innanzi alla sfrenata voglia de' regnatori di conquistare un'assoluta potestà sui loro popoli; ed ogni mezzo era buono, la simulazione ed il tradimento come la crudeltà, per raggiungere questo ambìto culmine della umana potenza. Chi lo toccasse senza rovinar nella impresa, fossero pure esecrabili e scellerati i mezzi adoperati, reputavasi invidiabile e felice. Carlo V morendo potè senza scandalezzare alcuno lasciare scritto nelle sue memorabili istruzioni a Filippo suo figlio: Questo Stato PER GRAZIA DI DIO è uno de' PIÙ ASSOLUTI che vi abbia nel mondo (62).

Il Machiavelli adunque assistendo a questo trionfo dell'assolutismo politico in Europa, non fa che porre a nudo sotto gli occhi del mondo, di quali mezzi si usasse e logicamente si richiedesse l'impiego, per costituire e conservare quella forma di principato; come la immoralità e la cattiva fede fossero in essa sovente mezzo efficace di successo; e come il Principe assoluto, pur non volendo, dovesse incorrer talvolta nella necessità di appigliarsi a mezzi di quella sorta, posta cosiffatta maniera di pubblico reggimento. In altri termini il Machiavelli sembra dire a' popoli: « Accettate la monarchia assoluta? Ebbene: sappiate che un tal governo per conservarsi è sovente condannato dalla natura del sistema politico all'impiego di mezzi immorali, all'inganno, alla violenza, all'ingiustizia ». Anzi lasciamo veramente parlar lui stesso:

« Hassi ad intendere questo, che un PRINCIPE, e massime un PRINCIPE nuovo, NON PUÒ osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, ESSENDO SPESSO NECESSITATO, PER MANTENERE LO STATO, operare contro alla fede, contra alla carità, contro alla umanità, contro alla religione: e però bisogna ch'egli abbia un animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni e della fortuna gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male NECESSITATO »

Ed aggiunge quasi a pruova del già detto:

« Alcun PRINCIPE de' presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell'una e dell'altra è inimicissitno, e l'una e l'altra, quando e' l'avesse osservata, gli avrebbe più volte tolto e la riputazione e lo Stato (63) ».

Che se in fatti percorreremo col pensiero la storia delle monarchie assolute de' tre secoli successivi al Machiavelli, troveremo forse esagerata o menzognera quella sua trista dipintura? Di quali enormi immoralità non pretese in quella forma di governo farsi consigliera ed esecutrice la ragion di Stato (64) ? Quali macchie incancellabili essa non impresse sulla vita morale e politica della umanità? Il Machiavelli ha dunque fatto altro che dar nel segno, descrivere il vero, e con profondo accorgimento preconizzare fin dal sorgere del principato assoluto in Europa il successivo svolgersi de' suoi destini funesti ed esiziali per la moralità e per la civiltà delle umane comunanze (65). Gli stessi modelli de' principi, che tennero paternamente l'autorità malgrado quella forma di governo e lottando con gli antagonismi per essa creati, non si tro varono sempre ridotti ad essere un bizzarro miscuglio di bene e di male, e furono essi altro che felici accidenti, come un celebre autocrate ei medesimo addimandavali, perchè da queste rarissime eccezioni sipossa argomentare contro la malefica essenza del sistema?

Ecco adunque che noi veggiamo nella teoria del PRINCIPE di Machiavelli: la scoperta della fatale tendenza della monarchia assoluta ed anche, fino a certo segno della prepotente necessità che la preme ed incalza di convertire la immoralità ed ingiustizia in suoi mezzi di esistenza e di preservazione, la elevazione di questi rapporti all'altezza di un teorema e di una legge generale in Politica, la predizione in fine di tutti que' mali che per tre secoli hanno oppresso crudelmente l'Europa e che a' dì nostri non hanno ancora cessato di opprimerne tanta parte. E però noi crediamo che il mondo debba al Machiavelli esserne riconoscente; più tosto che biasimarnelo; e se il quadro desta orrore, non è da adirarsene con chi, ritraendo dal vero, non ne fu che il fedele dipintore.


§ 28.

Come nondimeno nel suo sistema anche le buone ed oneste massime di governo abbiano largo tra i mezzi di sostenere il Principato.

Ed ecco perchè mentre il Machiavelli presenta al Principe assoluto quel quadro spaventevole e vergognoso di mezzi scellerati e fraudolenti per reggersi in autorità, può nondimeno a quelli accoppiare altri mezzi in tutto onesti e commendevoli atti pure alla sua conservazione. Ma se nella indicazione de' primi il politico del cinquecento cammina sulle cime de' piú antichi, quanto a' secondi invece se ne discosta, ed i liberali suggerimenti sono suoi propriamente ed originali, e rappresentano un nuovo ed innegabile progresso rispetto al secolo, ed una felice anticipazione delle idee e delle dottrine di età posteriori. Nella teoria de' mezzi della Politica è questa anzi la parte che il segretario della repubblica fiorentina può veramente rivendicare come propria, e come il frutto migliore della sua meditazione ed esperienza. Egli è così che nel suo sistema trovan luogo molte massime salutari di retto e savio governo, cospiranti pure alla salute e non alla debilitazione del principato, e non pochi precetti affatto contrarii a quelli già racchiusi nella politica Aristotelica e Tomistica.

Così egli il primo si affatica a dimostrare, quanto biasimo meriti il Principe che manca di armi proprie, e quanto inferma ed instabile sia la potenza sostenuta dalla milizia straniera ausiliaria o mercenaria. Egli il primo leva la voce contro le confische nello stesso interesse ben inteso del Principe, due secoli innanzi che il Beccaria le condannasse a nome dell'umanità e della giustizia. Ammonisce i Principi a guardarsi dalla peste degi adulatori per gl'inganni de' quali si precipita, ed a farsi invece larghi domandatori e pazienti uditori della verità. Fa vedere con qual facilità si può mutare il giudizio di alcun cittadino di buona fede ingannato, il quale avesse autorità molta nel popolo, chiamandolo a pubblico uffizio, dove, vedendo le cose più d'appresso, conoscendo le cagioni de' disordini, i soprastanti pericoli e la difficoltà del rimediarvi, possa del'inganno avvedersi; come ei narra che sovente avveniva de' più ardenti radicali onesti di Firenze quando salivano al supremo magistrato, dove diventavano subito di altro animo, perchè la cognizione dolle cose particolari lor toglieva le erronee supposizioni che considerando generalmente le cose pubbliche eransi in loro ingenerate. Il che accadendo a molti uomini e molte volte, fece nascere tra i fiorentini un proverbio, poi rinnovato a' dì nostri dovunque gli ordini liberi si vennero introducendo, che cioè si avesse un animo in piazza ed un altro in palazzo. Esorta il Principe a non confidare nelle fortezze, le quali non ti salvano se il popolo ti ha in odio, potendo esso chiedere forestiero soccorso, e però la migliore fortezza consistere nel non essere odiato dal popolo. Gli mostra, come nelle guerre tra i vicini tenere il partito della neutralità conduca a rovina. Preferisce alla liberalità le miseria e parsimonia, perchè il Principe non sia necessitato ad aggravare i popoli di taglie e ad incorrere nel nome di rapace. Consiglia di esser tenuto pietoso e non crudele, ma avverte di non usar male la pietà. Vuole nel Principe che la troppa confidenza non lo faccia incauto, e la troppa diffidenza non lo renda intollerabile. Nella quistione se meglio sia essere amato o temuto, dice che si vorrebbe essere l'uno e l'altro, ma quando si abbia a mancare dell'uno dei due, egli pensa che al Principe sia più sicuro l'esser temuto che amato, purchè si faccia temere in modo che se non acquista l'amore: ei fugga l'odio, potendo molto bene stare insieme l'esser temuto e non odiato. E finalmente, per non aggiungere altro, rimprovera come un inutile errore de' Principi la opinione insegnata da Aristotile e da S. Tommaso e pur troppo divolgata e comune; di doversi tenere le città e i popoli divisi per assicurarsene l'imperio: « industria (egli dice) di chi non sa tenere gli Stati con forza e virtù, le quali qualche volta ne' tempi quieti giovano qualche cosa, ma come e' vengono le avversità e i tempi forti, le mostrano la fallacia loro ».

Ognun vede, come in queste dottrine, calcolate nell'interesse de' Principi trovino benanche un posto alcune norme di condotta generale liberali e savie; come a molti abusi del principato lo scrittore senza riguardi faccia guerra, mostrandoli al principato stesso esiziali; e quante idee di riforma e di progresso egli prenda occasione di venir raccomandando.


§ 29.

Corrispondenza inavvertita delle opinioni pe' più grandi uomini che abbiano giudicato il Machiavelli con questi concetti dell'autore del Saggio.

Ora che abbiamo dichiarato il nostro concetto sistematico sulla dottrina politica del Machiavelli, possiamo secondo questo concetto ravvisare assai meglio alla medesima applicabili e conformi i giudizi e le opinioni che altissimi intelletti si ebbero di questo elevato genio, e che mal si raffronterebbero con l'antica supposizione della sua astuta duplicità di linguaggio e di idee. Schiettamente e seriamente il Machiavelli scrisse quello che in realtà signicar volle, e tuttavia non si discostarono dal vero il grande BACONE, che ringraziava il Machiavelli « di avere enunciato apertamente e senza dissimulazione ciò che gli uomini hanno il costume di fare, e non già quello che far debbono (66) », ALBERICO GENTILE, quando diceva « che il proposito di lui non era stato quello d'istruire il tiranno, ma che ne svelava i secreti, e lo abbandonava così nudo e visibile agli sguardi de' popoli infelici (67) », lo SCIOPPIO, secondo il quale egli « mostrando indicare le utilità del tiranno, fa palesi i mezzi a di difendere contro di lui lo Stato (68) », il WICQUEFORT, affermante del pari « avere il Machiavelli scritto ciò che i Principi fanno, e non ciò che avrebbero da fare; cioè dimostrato come certe massime servano a' tiranni, e non a già consigliatane la pratica (69) », LIPSIO, il quale fra tutti i politici non trova che insipienza e ciarlataneria, ma si arresta rispettoso soltanto innanzi allo spirito di Machiavelli « vivo, sottile, igneo, comunque non conduca il suo Principe al tempio della virtù, ma il guidi per la via dell'utile (70) », lo stesso ROUSSEAU, a cui si appartiene il detto « che il Principe di Machiavelli sia il sogno de' repubblicani, e che lo scrittore italiano fingendo dar lezione a' re, ne abbia dato grandi a' popoli (71) », l'ALFIERI, che lo appella « profondissimo in tutto ciò che concerne l'arte di governare, maestro inimitabile negli sviluppamenti della sublime ed intera conoscenza del cuore umano, ma pianta esotica per l'Italia schiava ed avvilita, la quale non vide che le massime immorali e tiranniche del Principe sono messe in luce per disvelare a' popoli le ambiziose e temerarie crudeltà de' principi, più tosto che per ammaestrare i Principi a praticarle, poichè questi più o meno le impiegano, le hanno impiegate e le impiegheranno senza bisogno di ammaestramenti (72) ; il BOTTA, pel quale Machiavelli e Guicciardini, chiamati da lui scrittori positivi, sono « fanali in mezzo del mare tempestoso delle passioni umane, fari su i quali chi governa ed altresì chiunque vive in « questo mondo di follie e di dolori debbono sempre aver fisso lo sguardo, non per prenderli come guide, ma per non urtar negli scogli, essendo essi più utili di ogni altro scrittore, perchè insegnano benissimo come si perdano i principati, e come si perda la libertà (73) », il NAPIONE, che ingenuamente rammenta « il Machiavellismo essere di molto anteriore al Machiavelli, e senza moltiplicare all'infinito i nomi, il MÜLLER, che spiritosamente ebbe a dire « non esser malagevole spiegare perchè Federigo di Prussia scrivesse l'Anti-Machiavello: contro quell'antico ed eccellente maestro, che è il Machiavelli, soler gridare i dotti ed i governanti (si diis placet) come gridano i ladri contro l'inventore delle « lanterne (74) ».

Questi ed altrettali giudizii di alte ed in gran parte spassionate intelligenze sul Machiavelli incontravano con ragione molta incredulità, finchè si riguardavano come un'eco della vecchia credenza di un arcano disegno che il Machiavelli velato avesse nel suo libro del Principe; ma rigettata quella puerile supposizione, nulla può loro contendere il merito di verità e di adeguatezza, quando paia vero il sistema politico da noi ravvisato nelle Scritture tutte del grande uomo.


§ 30.

Errore fondamentale della dottrina del Machiavelli: impotenza del suo sistema.

Ma il dovere della imparzialità filosofica non sarebbe soddisfatto, se prima di togliere commiato da' lettori del presente discorso, non ci volgessimo a porre egualmente in luce quello che di vizioso e di erroneo ci sembra scorgere nel sistema Politico di Machiavelli quale da noi fu delineato, ed a far quindi a tutti palese come l'ultima nostra conclusione intorno a questo grande scrittore sia ben lontana dal collocarci nella schiera degli apologisti ed ammiratori non del suo genio soltanto, il quale non sapremmo ammirar mai abbastanza, ma del fondo stesso della sua dottrina.

Egli è vero che nè il dommatismo teorico nè le conseguenze pratiche del sistema di Machiavelli possono agguagliare le orribili premesse e le invereconde illazioni del sistema di Obbes, secondo il quale la società civile e la volontà del popolo si fanno una persona, e creano la moralità e l'assoluta onnipotenza del Principe, incapace di sottostare ad alcun dovere, ad alcuna legge, ad alcuna promessa (75) .

Nè giustizia sarebbe assomigliare la potestà che Machiavelli considera nello stesso Principe assoluto a quella che pur non arrossirono in tempi posteriori di attribuire assai gravemente a molti monarchi della colta Europa un Grozio, un Tomasio ed un Volfio, quando ammisero come legittima l'esistenza dei così detti REGNI PATRIMONIALI ovvero ERILI, ne' quali i cittadini si veggono riguardati vera proprietà e quasi una greggia del Principe, nè altro fine precipuo si riconosce nel reggimento dello Stato che la utilità di chi lo regge e possiede (76) . E nondimeno bestemmie somiglianti non procacciarono a questi pubblicisti il biasimo e le maledizioni con le quali si volle infamare il nome del Machiavelli, che anzi si potrebbe certificare che nel momento in cui parliamo non manchi tuttavia fra gli scrittori reputati morali e religiosi chi, vergognando pur del nome, non creda però la cosa cotanto a Dio ed agli uomini ingiuriosa che non si possa anche oggidì deporre, coonestata da artificiosi velami, in qualche pagina di un trattato scientifico.

E tanto in sostanza adoperano que' meschini ragionatori (e non so se tra questi non si troveranno pure confusi parecchi che usurparono la fama di grandi), i quali con la facile ed assurda logica di ammettere nell'ordine morale e politico una Scienza Teorica ed un'altra Pratica, credono poter giustificare l'ingiustizia, eliminandola solamente dal campo della prima, per relegarla in quel dell'altra, sì che potessero essere vere ad un tempo due affermazioni contraddittorie, e come se una scienza meritasse questo nome quando servir non dovesse di guida e di applicazione alla pratica che le corrisponde, e senza discendere fino alle concrete realità della vita fosse riserbata semplicemente a rimaner quasi librata in aria, puerile oggetto di sterile ed oziosa contemplazione (77) .

Tali non sono, è vero, le offese che Machiavelli fa alla morale od alla logica. Ma sol perchè ha reputato possibile escludere dalla sfera che è propria ed essenziale della Politica disciplina il problema morale e giuridico e farne compiuta astrazione, egli è caduto, come noi pensiamo, in un errore fondamentale che guasta e corrompe tutto il sistema. Con ciò egli non mutila soltanto la scienza della sua parte più nobile, ma rende l'arte stessa affatto cieca e vacillante e riesce a corollarii necessariamente fallaci. Lo Stato essendo nel sistema la idea più alta che lo domini ed informi, ogni altra idea viene di necessità a subordinarsi a quella, e si creda, o no, alla giustizia, il principio della UTILITÀ POLITICA si troverà sempre sollevato fino al vertice dell'edificio scientifico. A questo principio poi funeste conseguenze pratiche inevitabilmente terranno dietro. Ci è dato rimanerne convinti, sorprendendo il Machiavelli in un luogo solo delle sue opere: benché i più puri sentimenti di affetto alla patria lo ispirassero, nel flagrante errore di assolvere e legittimare anche giuridicamente l'ingiustizia.

« La patria, così egli scrive, è ben difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria .... La qual cosa merita d'esser notata ed osservata da qualunque cittadino si trova a consigliare la patria sua; perchè dove si delibera AL TUTTO della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione nè di giusto nè d'ingiusto, nè di pietoso, nè di crudele, nè di laudabile, nè d'ignominioso, anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantengale la libertà (78) ».

Non basta ciò forse a rivelare le forzate illazioni, alle quali, suo malgrado, nel proprio sistema si sente tratto dalla inesorabile potenza della logica ?

Per altro questa massima, che dal fine giustifica i mezzi, e che pone la conservazione dello Stato innanzi ad ogni altra considerazione negli ordini della Politica, non è cosi esclusivamente propria di quel sistema, al quale abbiam mostrato il Machiavelli quasi strascinato ad accostarsi, ancorchè repugnante e contro la sua sistematica deliberazione, che non se ne trovino del pari macchiate benanche le scuole di certi seguaci del Principio delln Giustizia ne' tempi a lui posteriori, al certo con maggior colpa di logica incoerenza e di morale lassezza.

Di tali contraddizioni non ha difetto il famoso libro di Erasmo sul Principe, dotta creazione dello stesso secolo di Machiavelli, ma rimasta senza alcuna feconda influenza su i contemporanei e sulla posterità, non ostante la celebrità dell'autore.

Il virtuoso CHARRON può scrivere, senza che alcuno gli gridi contro, nel suo moralissimo libro Della Saggezza, che « la GIUSTIZIA, virtù e probità del Principe cammina un po' diversamente da quella de'privati; ha i suoi portamenti più larghi e più liberi a causa del grave, pesante e periglioso carico ch'egli porta; ond'è che gli conviene procedere con un passo che ad altri può sembrare disordinato, ed irregolare, ma che a lui è necessario, onesto e legittimo: dovendo egli talvolta schivare e zoppicare, mescolare con la giustizia la prudenza, e come dicesi, cucire la pelle della volpe su quella del leone. È in ciò che consiste l'ARTE (Pedìa) di BEN GOVERNARE (79) ».

Il Naudè non dubita di giustificare que' grandi atti politici « che si fanno per l'interesse pubblico, e con tutta l'equità che apportar si puote in simili grandi intraprese, le quali tuttavia non possono essere giammai così ben circoscritte che non siano sempre accompagnate da qualche specie d'INGIUSTIZIA» .... quegli Arcana imperiorum, e quelle Massime di Stato, che definisce Excessus juris communis propter bonum commune. contrapponendo in tal guisa stranamente non l'utile ma lo stesso bonum al jus, ed apertamente professando la dottrina che simili massime vogliono esser seguitate, « tuttochè non possano essere legittime secondo il dritto naturale, delle genti o civile, ma solamente per la considerazione del bene e dell'utile pubblico, che assai spesso passa di sopra a quello de' particolari individui (80) ».

Ma a che giova svolgere i volumi de' secoli anteriori, se questa dottrina ne' tempi a noi piú vicini fu professata da pubblicisti che passano per ispecchio di onestà (81) e di liberalità di sentimenti? Nella teoria della conservazione dello Stato e della salute pubblica non s'incontrano forse l'autore del Contratto Sociale ed il filosofo di Malmesbury? Non è questo unico principio che ricopre della larga sua ombra i roghi di Filippo II ed i patiboli della Francia del 93, i nomi del duca d'Alba e di Marat, la tirannide e l'anarchia, l'eroismo ed il delitto?

Ma non perchè l'errore del sistema politico di Machiavelli trovasi di già tanto diffuso in altri sistemi che hanno la pretensione di costituirsi avversarii del suo, il vizio ne è meno grande, e tale che per esso solo tutta la dottrina non rimanga destituita della salda base di cui abbisogna. L'assoluta eliminazione della Morale e del Diritto dalla costituzione della scienza e dell'arte Politica è per tal guisa chiarita impossibile: Il fallo di Machiavelli può dirsi che consista in una semplice reticenza, nel metter fuori dal campo della disciplina ciò che in vece dovrebbe esservi collocato nel centro, nel rinunziare all'analisi di una quistione che è fondamentale rispetto a tutte le altre. Ma una semplice reticenza, una esclusione, un obblio di tal fatta basta a rendere pervertito ed inaccettabile tutto il sistema, e non è da farne maraviglia.

Tal è il risultamento ultimo cui mena in ogni ramo delle scienze morali il principio della UTILITÀ: e la Politica che proceda dalla idolatria dello STATO, sia Principe, Assemblea, o anche Sovranità Popolare che lo rappresenti, già professa fatalmente, il sappia o no, un tale principio.

Sia detto con buona pace degli onesti settatori della dottrina della UTILITÀ, chè pur molti ve ne ha, essa è pericolosa, arbitraria ed infeconda. E se ci si dicesse, che noi prendiamo mala parte ed in troppo angusto significato la parola; che la UTILITÀ degna d'essere elevata a principio del Dritto e della Politica non è l'egoismo di chi regna, nè il vantaggio di pochi, nè quello stesso dell'intera nazione e dello Stato; ma la prima e vera e massima delle utilità intendersi sempre essere la giustizia e la osservanza della legge morale a cui la natura volle soggetta l'umanità; in tal caso riconoscendo innocua la dottrina della Utilità così ampliata ed intesa, domanderemo nondimeno ancora la permissione di proporre un'ultima obbiezione in nome della logica e del metodo scientifico; e chiederemmo se meriti più il grado e l'autorità di PRINCIPIO SUPREMO nelle sociali discipline quello che in sè comprenda un'idea ed un principio ancor più alto, al quale si debba risalire per trovarvi l'ultima base ed il più fermo presidio della sua compiuta legittimità.

Riconoscasi adunque ormai la impotenza di qualunque sistema di Politica, che non faccia capo o fondamento dalla Morale e dalla Giustizia, e che pur rispettandole, nondimeno si argomenti anche soltanto di escluderle dall'organico ordinamento di questa propria e speciale dottrina.

Ripetasi quella vera e profonda sentenza, esser la Giustizia la sola perpetua Politica delle società umane.

Si applaudisca al mirabile progresso che la Politica deve agli ardili e sapienti sforzi di Machiavelli, ma coloro che ne' suoi scritti trovar possono una inesauribile miniera di utili insegnamenti sperimentali e di acutissime in dagini sul governo degli Stati, alle quali il decorrimento di tre secoli e tanto mutamento di opinioni e di Civiltà non hanno tolto un atomo di verità e di esattezza, si guardino dall'accettare con egual fiducia la forma e la costruzione sistematica da lui assegnata alla Politica, e dal quietare fiduciosamente l'intelletto in una Dottrina, la quale ha diritto solamente ad esser conosciuta e ricordata come uno de' più luminosi punti di fermata dell'uman pensiero nel processo della sua scientifica evoluzione nel mondo politico.

Ed invece si proclami ancora una volta la necessità dell'armonico accordo tra la Morale, il Dritto, la Politica e la Economia Sociale nello studio delle leggi che governano le umane convivenze; le necessità in somma di quella sintesi larga e complessa delle discipline dell'uomo morale, che ormai merita divenire il voto più vivo e generale dell'età nostra, e dalla quale unicamente il nostro ROMAGNOSI preconizzava a ciascuno di questi studi più soave e copioso frutto, ed all'attività dello spirito umano in questo campo la gloria di nuovi trionfi e di salutari scoperte.

Conchiudendo, riduciamo le nostre considerazioni sulla dottrina politica del Machiavelli a questi sommi capi.


§ 31.

Conseguenze da ricavarsi da questo esame filosofico della sua dottrina: condanna dell'Utilità Politica come principio, dell'esclusiva applicazione del Metodo Storico come criterio, della Monarchia Assoluta come forma di governo.

Il grande Italiano padre della Politica moderna ha reso tre eminenti servigi al progresso della civiltà e degli studi dell'intelligenza.

Ha emancipato le discipline politiche dall'autorita teologica e dal giogo della dominazione religiosa.

Ha applicato alle medesime con abilità e maestria insuperabile il metodo storico e sperimentale.

Ha scritto la condanna la più sapiente, la più perentoria della monarchia assoluta.

Ma in lui l'umana imperfezione e la poca luce de' tempi pagarono pure il tributo ad un grande e rovinoso errore, quello, cioè, di considerar possibile un compiuto sistema di Politica, escludendo dal suo campo il problema morale e facendo astrazione del fine della giustizia, quello di costruir la Politica come un'Arte sperimentale piuttosto che come una Scienza, quello in fine di riguardarla come fine a sè stessa, ponendo nell'idea dello Stato il suo supremo archetipo, ed in quella della Utilità Politica il suo pratico postulato fondamentale.

Laonde il più alto ed opportuno insegnamento che è dato raccogliere da un attento filosofico studio del Machiavelli si è il valore di certe dottrine ed istituzioni, che in questa nostra età v' ha pur troppo chi vorrebbe sforzarsi di richiamare in onore e di raccomandare non meno con la speculazione che con l'esempio. Quando veggiamo quali scientifici risultamenti esse riuscirono a produrre nelle mani di un Machiavelli, e quali conseguenze pratiche ne' seguenti secoli si trassero dietro, possiamo dire di sapere ormai abbastanza quello che valgano e valer possano nella Politica la salute e l'utilità dello Stato come Principio, il puro metodo storico come Criterio, il Principato assoluto come Forma di governo.


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(1) È stato dimostrato più volte, che i primi censori del Machiavelli non avevano letto le sue opere, poichè supponevano diviso in tre libri il Principe che ne ha un solo, nè possedevano notizia sufficiente della vita politica del Segretario di Firenze.

(2) Machiavelli cita questo dialogo ne' Discorsi, lib. II, cap. ii.

(3) Per quanto generale sia l'opinione che attribuisce questo libro a S. Tommaso, tra le cui opere fu costantemente stampato, è forza arrendersi alla pruova contraria che ne fornisce il cap. 20 del lib. 3, nel quale si ragiona di Adolfo di Nassau come già morto; or questa morte avvenne nel 1291, mentre S. Tommaso avea cessato di vivere fin dal 1274. Per altro meriterebbe forse questa indagine esser chiarita con un accurato riscontro de' più antichi testi manoscritti che si conservino dell'opera, potendo quella citazione storica essere stata aggiunta dopo la morte di S. Tommaso da alcuno scrittore più recente a conforto delle opinioni già nel libro espresse, non essendo rari gli esempi di simili posteriori interpolazioni ne' manoscritti di quell'età.

(4) Citato ne' Discorsi, lib. I; cap. iii.

(5) Questo libro, scritto in volgare, non avendo che il solo titolo latino, fu dettato da Paolino de' frati minori negli anni 1313 a 1316, perchè in questo triennio Marino Badoaro tenne per la Signoria di Venezia l'uffizio di duca di Candia. Di questo trattato esiste un pregevole manoscritto nella biblioteca dell'Università di Torino, che da me consultato offre la più manifesta conformità delle dottrine del libro con quelle di Aristotile e di S. Tommaso. Tuttavia, come testimonianza degli Studi politici di que' tempi, e come prezioso testo di lingua de' primi anni del trecento, meriterebbe veder la luce.

(6) Meritano appena esser menzionati come scritti di giurisprudenza e non di politica un trattato De Principibus di Martino Garato o de' Caracci giureconsulto di Lodi del sec. XV: un trattato De Potestate Regia del famoso giureconsulto siciliano Antonio Corseto chiamato a leggere il diritto pontificio nello studio di Padova; ed un altro alquanto posteriore del dottore Giovanni Redin spagnuolo col titolo De Majestate Principia.

(7) Discorsi sopra Livio lib. 1, c. xii.

(8) Ivi.

(9) Discorsi sopra Livio lib. 1, c. xii.

(10) Ivi.

(11) Discorsi, lib. II, c. II.

(12) Discorsi, lib. I, c. XI.

(13) Discorsi, lib. I, c. XII.

(14) L'amico di Machiavelli, l'ambasciatore fiorentino Vettori, non parla diversamente dell'impero sacerdotale che reggeva l'occidente, trascorrendo ad anteporgli la stessa dominazione musulmana: « Se noi vedremo (scriveva egli con espansione intima al suo amico) i turchi venire in Italia a o gastigare i cristiani, sarà tanto meglio; poichè io male mi accomodo all'ubbriachezza di questi preti, non dico il Papa; il quale se non fosse prete, sarebbe un gran principe ».

(15) G. Barthélemy Saint-Hilaire, Politique d'Aristote traduite en français, Préface, pag. LXXXV.

(16) Il Principe, cap. XV.

(17) Agedum igitur a principio ad finem usque ea quae de Civilis Artis nomine diximus in summam colligamus. Scientiae illius quae in cognoscendo versatur pars una nobis erat initio ὲπιτακτικὴ (Id est imperandi peritia): hui. ubjecta est altera species, quae αὐτεπιτακτικὴ (id est mero regendi Ars) a nobis est nuncupata. Plat. Politicus. (Marsil. Ficini).

(18) In moltissimi luoghi della sua Etica, della Politica, ed anche della Logica.

(19) Ars non praesupponit appetitum rectum. D. Thom. Summ. p. 2, qu. 57, art. 4.

Ars ordinata ad aliquem particularem finem habet determinata Media per qua pervenitur ad finem. - Id. qu. 47, art. 4.

(20) Scientia proprie est de rebus necessariis, seu eorumquae immutabilem substantiam sortiuntur. Prudentia autem est actuum humanorum, i. e. rerum contingentium quae sunt in potestate nostra. Comparari potest Prudentia ad Artem, a qua etiam distingui debet; nam Ars est respectus factibilium, et non supponit rectitudinem voluntatis. (De Regim. Princ. L. 1. part. 2, cap. 6).

L'autore medesimo aveva già definito l' argomento dei suo libro Ars et Notitia un De regimine principum, proponendosi di ricercare appunto quis sit modus procedendi in hac Ars. (Lib. I, cap. I.).

(21) Pubblicista Urbinate che visse negli ultimi anni del sec. XVI, autore di un dotto libro scritto in buon volgare Della Ragion di Stato e della Prudenza Politica, il quale è uno de' molti documenti a torto spregiati ed affatto condannati all'obblio de' profondi studi politici dell'Italia in quel secolo.

(22) Instit. du Droit de la Nature et des Gens, vol. 2, in fine.

(23) Romagnosi, Degli Enti Morali, cap. VIII. - Introduzione allo studio del Dritto Pubblico Universale, § 50 - Giurisprudenza Teorica, part. II, lib. 2, cap. 2. - Vedute fondamentali sull'arte logica, cap. 10.

(24) Della vita degli Stati, cap. VIII.

(25) Il Principe, cap. XXV.

(26) Discorsi, lib. III, cap. 4. Veggasi pure il cap. 9.

(27) De Republica, lib. V, cap. 41. Con quali modi soglia conservarsi la Monarchia. - Dopo questa lunga descrizione riesce nondimeno di conforto la sentenza che il greco filosofo immediatamente non manca di aggiungere; che cioè malgrado tutte queste precauzioni, la tirannide è la meno stabile e duratura di tutte le forme di governo.

Citando i libri ed i capi della Politica di Aristotile, seguiamo l'antica disposizione di essi; ma riconosciamo ragionevole e degna di essere adottata la restituzione al probabile suo primitivo ordinamento proposto dal Barthelémy Saint-Hilaire.

Quanto alla versione, abbiamo seguitata la latina del Lambino riscontrandola col testo greco, parendo in parecchi luoghi quella francese del Barthelémy Saint-Hilaire troppo libera e corriva alla parafrasi.

(28) Ad salvationem tyrannidis, expedit excellentes in potentia vel divitiis interficere, quia tales per potentiam quam habent possunt insurgere contra Tyrannum. Iterum expedit interficere sapientes, tales enim per sapientiam suam possunt invenire vias ad expellendam tyrannidem; nec scholas, nec alias congregationes, per quas contingit vacare circa sapientiam, permittendum est; sapientes enim ad magna inclinantur, et ideo magnanimi sunt, el tales de facili insurgunt. Ad salvandam tyrannide. oportet, quod Tyrannus procuret, ut subditi imposant sibi invicem crimina et turbent se ipsus, ut amicus amicum, et populos contra divites, et divites inter se dissentiant, sic enim minus poterunt insurgere propter eorum divisionem: oportet etiam subditos facere pauperes, sic enim minus poterunt insurgere contra Tyrannum. Procuranda sunt vectigalia, hoc est exactiones multae, et magnae, sic enim cito poterunt depauperari subditi. Tyrannus debet procurare bella inter subditos, vel etiam extraneos ita ut non possint vacare ad aliquid tractandum contra Tyrannum. Regnum salvatur per amicos, tyrannus autem ad salvandam tyrannide non debet confidere amicis...

Expedit tyranno ad salvandam tyrannidem quod non apparea subditis saevus seu crudelis, nam si appareat saevus, reddit se odiosum, ex hoc autem facilius insurgunt in eum: sed debet se reddere reverendum propter excellentiam alicujus boni excellentis; reverentia enim debetur bono excellenti; et si non habeat bonum illud excellens, debet simulare se habere illud. Tyrannus debet se reddere talem, ut videatur subditis ipsum excellere in aliquo bono excellenti, in quo ipsi deficiunt, ex quo eum revereantur. Si non habeat virtutes secundum veritatem faciat ut opinentur ipsum habere eas. - D. Thom. Com. ad Polit. Arist., xi et xii.

(29) Science des Princes ou Considérations Politiques sur les coups d'Ètat, par Gabriel Naudé, Parisien, chap. I, n. 12. Si vede che fin da due secoli addietro i colpi di Stato non dispiacevano a' cervelli francesi.

(30) Discorsi, Lib. 1, cap. 2

(31) « La migliore città si compone di tutte le altre forme politiche ». Fragment. apud Storaeum. Anthol. p. 253-254.

(32) Polibio preferisce una costituzione mista per lo stesso motivo che ne adduce il Machiavelli, cioè « che ogni forma semplice la quale poggi sopra un sol principio; non saprebbe durare, perchè essa cade ben tosto nel difetto che le è proprio ». (Polib. lib. VI, § 10).

(33) « Le leggi produrranno sopra tutto la stabilità, se lo Stato sarà di natura mista, e composta di tutte le altre costituzioni politiche, voglio dire di tutte quelle che sono conformi all'ordine naturale delle cose ». - Cic. de Republica lib. 1, cap. xxvii, xlv e xlvi.

(34) Notevolissimo è uu luogo di tal fatta nel Cortigiano del Castiglione, riferito dall'illustre conte Sclopis nella sua recente importantissima opera Degli Stati Generali del Piemonte e della Savoia.

(35) Discorsi, lib. 1, cap. 2. - Platone e Senofonte riguardavano la costituzione di Lacedemone come il più perfetto governo che gli uomini avessero stabilito sulla terra.

(36) Disc., Lib. 1, cap. 16.

(37) Ecco alcuni altri notevoli tratti del Machiavelli in proposito delle costituzioni miste, e della sua predilezione per esse: « Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi e di ridurre le leggi di quelli verso il suo principio. E si vede quanto buono effetto fa questa parte nel regno di Francia, il quale regno vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcun altro regno. Delle quali leggi ed ordini ne sono mantenitori i Parlamenti, e massime quel di Parigi, le quali sono da lui rinnovate qualunque volta e' fa una esecuzione contro ad un Principe di quel Regno, e ch'ei condanna il Re nelle sue sentenze (Discorsi, lib. III, cap. I.); »

« I principati de' quali si ha memoria si trovano governati in due modi diversi, o per un principe e tutti gli altri servi i quali come ministri per grazia e per concessione sua aiutano governare quel regno; o per un principe e per baroni i quali non per grazia del Signore, ma per antichità di sangue tengono quel grado ..., riconosciuto da' loro sudditi ed amati da quelli, che hanno le loro preminenze, nè le può il re tôrre loro senza pericolo ... Gli esempi di questi due governi sono ne' lempi nostri ill Turco ed il Re di Francia (Il Principe cap I.) »

« Da tulle le soprascritte cose nasce la difficoltà o impossibilità, che è nelle città corrotte, a mantenervi una repubblica o a crearvela di nuovo: quando, pure la vi si avesse a creare o mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio che verso lo stato popolare, acciocchè quelli uomini i quali dalle leggi per la loro insolenza non possono essere corretti, fossero da una podestà quasi regia in qualche modo frenati. (Discorsi, lib. I, cap. XVIII.) »

« E finalmente nel ricercare se la moltitudine sia più savia e costante che un principe, dice: « Ciascuno che non sia regolato dalle leggi farebbe quelli medesimi errori che la moltitudine sciolta. E questo si può conoscere facilmente perchè, e' sono e sono stati assai Principi; e de' buoni e de' savi ne son stati pochi, io dico de' Principi che hanno potuto rompere quel freno che ti può correggere; intra i quali non sono quelli re che nascevano in Egitto, quando in quella antichissima antichità si governava quella provincia con le leggi: nè quelli che nascevano in Sparta, nè quelli che a' nostri tempi nascono in Francia, il quale Regno è moderato più dalle leggi che alcun altro Regno di che ne'nostri tempi si abbia notizia. E questi Re che nascono sotto tali costituzioni, non sono da mettere in quel numero ... perchè all'incontro si debbe porre una moltitudine medesimamente regolata dalle leggi come sono loro, e si troverà in lei essere quella medesima bontà che noi veggiamo essere in quelli ... Però non è più da incolpare la natura della moltitudine che de' principi, perchè tutti egualmente errano, quando tutti senza rispetto possono errare ... Ed in somma per epilogare questa materia, dico: come hanno durato assai gli stati di Principi, hanno durato assai gli Stati delle repubbliche, e l'uno e l'altro ha avuto bisogno d' essere regolato dalle leggi, perchè un principe che può fare ciò che vuole è pazzo, un popolo che può fare ciò che vuole non è savio e adunque si ragionerà d'un Principe obbligato alle leggi e d'un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel Principe: se si ragionerà dell'uno e dell'altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel Principe, e quelli minori, ed avranno maggiori rimedi, perchè ad un popolo, licenzioso e tumultuario gli può da un uomo buono essere parlato e facilmente può essere ridotto nella via buona, ad un Principe cattivo non è alcuno che possa parlare, nè vi è altro rimedio che il ferro. (Discorsi lib. i, cap. lvii) »

(38) (Raumer, Intorno allo svolgimento delle idee di Giustizia, di Stato, e di Politica 1832 (2a edizione). Non meno erronea è l'altra assertiva del Raumer, che cioè al Machiavelli « sembri sfuggita interamente la influenza che il cristianesimo ha avuta sul mondo moderno, e che da lei siasi questo confuso ognora col papato corrotto ». Alle pruove in contrario da noi allegate nel § 9, si aggiunga questo aureo luogo, in cui Machiavelli mostra nato dal cristianesimo il nuovo dritto delle genti: « Presso i gentili gli uomini vinti in guerra si ammazzavano o rimanevano in perpetuo schiavi, dove menavano la lor vita miseramente; le terre vinte o si desolavano, o n'erano cacciati gli abitatori, tolti i loro beni, mandati dispersi per il mondo, tantochè i superati in guerra pativano ogni ultima miseria. Ma la Cristiana Religione ha fatto sì, che de' vinti pochi se ne ammazzano, niuno si tiene lungamente prigione, perchè con facilità si liberano; le città, ancorchè si siano mille volte ribellate, non si disfanno; gli uomini si lasciano ne' beni loro. I nostri ... principi cristiani nelle loro conquiste amano egualmente le città loro soggette, e lasciano o le arti tutte e quasi tutti gli ordini antichi, a differenza de' barbari principi orientali distruttori de' paesi e dissipatori di tutte le civiltà degli uomini ». (Dell'Arte della Guerra lib, 2).

(39) Discorsi, lib. I, cap. XVI.

(40) Discorsi, lib. III, cap. V.

(41) Discorsi, lib. I, cap. X.

(42) Il Princ. cap. VIII.

(43) Discorsi, lib. I, cap. XXVI.

(44) Il Princ. cap. XV.

(45) Discorsi, Lib. 1, cup, X.

(46) In che modo i Principi debbono osservare la fede.

(47) Il Principe, Cap. XVIII.

(48) Platone ed Aristotele distinguevano egualmente il Regno, specie buona e retta di Monarchia, da ogni altra specie di Principato e dalla Tirannide.

(49) Il Principe, cap. XI, De' Principati ecclesiastici.

(50) Il Principe, cap. IX, Del Principato civile.

(51) Dell'Arte della Guerra, lib. I.

(52) Discorsi: lib. I. cap XVIII.

(53) Discorsi, lib. I, cap. XXVI.

(54) Discorso a Leone X sopra il riformare lo Stato di Firenze.

(55) Discorsi, lib. I, cap. IX.

(56) Discorsi, lib. I, cap. X.

(57) Discorsi, lib. I, cap, XVI.

(58) Discorsi, lib. I, cap. XXV.

(59) Nella scuola ghibellina de' giureconsulti italiani del XIII e XIV secolo può ammettersi un concetto poco dissimile, se pongasi mente all'ampia definizione del Tiranno data dal BARTOLO nel suo Trattato De Tyrannide: « Proprie Tyranuus is dicitur qui communi reipublicae non jure principatur ».

(60) Aristotile pone in bocca ad una scuola di politici la più severa condanna del Principato Assoluto, de eo rege qui omnia suo nutu atque arbitratu gerit, riguardando in tal caso introdotto nella città un governo militare perpetuo, imperium belli perpetuum, e riconoscendo non esse naturae consentaneum ut unus omnium civium sit dominus, ubi ex similibus constat civitas. Ma nell'esprimere la sua opinione sulla quistione, fa molte distinzioni: Haec in nonnullis vera sunt, in aliis non item: est enim aliquod genus hominum ad imperium herile ferendum aptum natura, aliud ad regium, aliudque ad civilem societatem; et cuique horum aliud est jus, aliudque utile. Inoltre fa una eccezione in favore de' grandi genii e degli uomini straordinarii, attribuendo loro una specie di naturale principato assoluto sul resto de' cittadini (De Republ. lib. III, cap. 16, 17).

(61) Anche Egidio Colonna aveva avvertito questa mistura di bene e di male che necessariamente si trova pur nel Tiranno. « Verum quia nullus forte est omnino tyrannus, quia malum seipsum destruit, et si integrum sit, importabile fit ...; ergo forte vix aut numquam reperitur aliquis qui sit omnino Rex, quin in aliquo tirannizet; esset enim quasi semideus, si nihil de tyrannide participaret. Inde est ergo quod dominantes aliquid participant de cautelis regiis, et aliquid de versutiis tyrannorum; et tanto est melius dominium, quanto plus accedit ad Regnum et est longius a tyranno ». De Regim. Princ., lib. iii, p. 2, cap. XI.

(62) È vero (poi soggiunge) che ne' regni di Valenza e di Aragona si tengono delle Corti; ma dopo che sono state moderate con una guerra giustissima, esse non sono di grande considerazione.

(63) Principe, cap. XVIII.

(64) Cade qui a proposito citare le seguenti parole dell'Artaud.

« In una parola che ha fatto questo colpevole per esser chiamato malvagio? Egli ha osato dire ciò che dopo si è messo in pratica. Ha mormorato a bassa voce che si era oggidì ciò che si era innanzi di lui presso i romani ed i greci... Io lascio un momento Machiavelli ed il suo scritto, questo povero vergognoso, rimesso ben suggellato ad un illustre fiorentino che dovea prenderne più cura, e mi trasporto successivamente in ciascuno de' congressi ove, tra gli altri esempi, si è deciso della sorte della Polonia, di Venezia, dei Principi Alemanni secolarizzati, dello stato di Genova. Ivi uomini diversi da Machiavelli han presa la parola; ivi sono uomini freddi, misurati, che discutono la statistica de' sudditi, equilibrano le parti, troncano ciò che loro paia soverchio, aggiungono la numerazione delle anime, dimandano un fiume in compenso di una montagna, trovando del tutto naturale che uno Stato sia spogliato sol perchè non vi si riesce ad intendersi in tumultuose assemblee .... Io mi figuro questi gravi personaggi, gli uni accendendosi la pipa con de' diplomi, gli altri provando che l'uomo è naturalmente insofferente ed importuno, .... profferendo a porte chiuse ben altre massime; citando, se pur si vuole, quelle del Fiorentino; e separandosi conchiudendo in questi propri termini: Egli è una sventura che sia stato d'uopo venire a queste estremità, ma simili determinazioni erano necessarie. La ragion di Stato ha pronunziato. Noi abbiam giudicato sulle sue esigenze; ora sia per noi custodito rispettivamente il segreto intorno a' motivi che ci guidarono. Salviamo gli uomini dall'onta di una pubblicazione de' mezzi che bisogna adoperare per ben governare gli Stati. Se vi sarà l'opportunità, ritorneremo ad applicare le stesse dottrine. Se noi non vi saremo più, i nostri allievi, i nostri successori compiranno la severa missione della politica ». (Machiavel, Son génie et ses erreurs. tom. II, chap. 47) ».

(65) Il Machiavelli ebbe in questa via indi a poco un seguace nel francese La BOETIE, amico di Montaigne, consigliere nel parlamento di Bordeaux, ed autore di un celebre libro che ebbe per titolo Contr'Uno, o Della Servitù Volontaria, declamazione satirica contro il Principato Assoluto. Per mostrare che tal fosse a que' tempi la tendenza delle idee degli spiriti superiori, ci basti trascrivere da questo libro alcuni frammenti: « È ben difficile credere che sia alcun che di pubblico in un governo in cui tutto è in balta di un solo .... La servitù nella quale tanti popoli gemono ha questo di strano, che per liberarsi basterebbe loro di non rendersene complici.... Non si può temer quest'uomo, perchè è solo contro tutti.... Alla buon'ora, se per rovesciarlo, fosse d'uopo esporsi a rischio; si comprenderebbe la ripugnanza. Ma poichè non è mestieri che di lasciarlo cadere, di nulla dargli, di farlo consumar da sè stesso come il fuoco che si cessi di alimentare; come e perchè tutti non lo abbandonano ? .... Vi ha tre specie di tiranni, nati, eletti, e conquistatori .... Ma essi si rassomigliano .... In verità vi è qualche differenza, ma sempre la maniera di regnare è la stessa .... Pe' tiranni nati i popoli sono come naturali schiavi ».

(66) De Augument. Scientiarum, lib. VII, cap. 2.

(67) Sui propositi non est tyrannum instruere, sed arcanis ejus palam factis, ipsum miseris populis nudum ac conspicuum exhibere (De legationibus, lib. III, cap. I.).

(68) Paidae Politices, sive Suppetiae Logicae scriptoribus politics latae pag. 31.

(69) L'Ambassadeur et ses fonctions.

(70) Lipsii Politicorum. Nondimeno non si ritennero gli avversarii di Lipsio dal dire: Ille Lipsius machiavelizzat; ad fraudes, homicidia, perjuria principi suo praeit.

(71) Contrat Social liv.. III, ch. 6.

(72) Del Principe e delle lettere, lib. ii, cap. 9.

V'ha pure di Alfieri un magnifico sonetto su i grandi uomini Fiorentini, ed in esso il poeta piemontese chiama Machiavelli

.... il sovrano pensator, ch'esprime

Sì ben del Prence i dolorosi effetti.

(73) Storia d'Italia continuata da quella del Guicciardini, Prefazione.

(74) Oeuvres, tom. XVI, pag. 190.

(75) Monarca si quid promiserit civis vel pluribus civibus, propter quod consequens summum Imperium exerceri non potest, promissum illud sive pactum, jurato vel iniurato factum, irritum est. De Civis, Imperium, cap.VII.

(76) Rerum Herile (ci basti riferire le parole di Volfio, che è il più recente de' menzionati scrittori), in quo Regi idem jus competit in subditos et res subditorum, quod Domino in servum, seu in quo Regi praeter potestatem civilem etiam dominica competit. Consequenter in regno herili Rex de operis subditorum sibi praestandis, et de rebus subditorum pro lubitu disponit, et actiones publicas ad suam praecipue utilitatem dirigit, nonnisi secundarie utilitatem subditorum intendens. Et quoniam in regno herili subditi omnes subeunt servitutem personalem, servitus autem personalis in se illicita non est; regnum quoque herile in se illicitum non est, nec si populus in idem consentit, injustum. Ecco la sapienza giuridica e politica di uno de' più celebri pubblicisti del secolo xviii.

(77) Di questa genìa di politici intendeva favellare Spinosa, i cui traviamenti nelle speculazioni della filosofa non possono togliergli il vanto di essere stata la sua una delle più forti intelligenze che siasi mai applicata a quella generazione di studii:

« I politici hanno l'abitudine di considerare gli uomini non quali essi sono, ma quali dovrebbero essere, per modo che i loro consigli sono una utopia senza applicazione. I loro precetti sono come sogni, praticabili al tempo dell'età dell'oro de' poeti, allorchè non eravi alcun bisogno di istituzioni politiche. Questo errore ha fatto prevaler l'idea che fra tutte le scienze la Politica Teorica sia quella che si trovi più in contraddizione con la Politica Pratica, e che niuno meno di un filosofo sia in istato di governare ». (Tractat. Theolog. Politic., cap. I.).

(78) Discorsi, lib. III, cap. XLI.

(79) Charron, de la Sagesse lib. III, c. II.

(80) Naudé, Science des Princes, ch. I.

(81) Basta citare tra gli altri il De Rayneval, che pone la salute pubblica al di sopra della Giustizia stessa. Instit. du Droit de la Nature et des Gens. liv. I, ch. VII, § vi.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Diritto internazionale - Prelezioni, con un saggio sul Machiavelli", di P. S. Mancini, Professore Ordinario di Diritto Internazionale, Pubblico e Marittimo nella Università di Roma, Deputato al Parlamento, Napoli, presso Giuseppe Marghieri editore, strada Monteoliveto n.° 37, 1873







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