INFIBULAZIONE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ancora una volta, sull’altare della dea ragione, cifra del tutto nostra, finiamo per sacrificare la ragionevolezza, unica mediatrice di soluzioni possibili.

Mi riferisco alle molte e molto indignate levate di scudi che hanno accolto qualche tempo fa la proposta fatta dal dott. Omar Abdukaldir, dell’ospedale fiorentino di Careggi, di promuovere, come alternativa all’infibulazione, un rito che la rappresenti simbolicamente, quale una puntura di spillo sul clitoride.   Tale pratica, che la stampa ha chiamato “infibulazione soft”, risulterebbe, per quanto indolore e priva di  conseguenze, comunque offensiva e lesiva della dignità femminile.   

Ebbene, proprio nella direzione proposta dal medico somalo vanno da anni molte serie riflessioni di bioeticisti o di filosofi del diritto e del multiculturalismo, che si sono sforzati di comprendere una pratica che, nella sua perpetuazione materiale è indubbiamente inaccettabile, mutilante e crudele (anche la parola “barbara” ci sta tutta) ma che nella sua origine era, al contrario,  un tentativo di difendere le donne dallo stupro cui le avrebbero sottoposte i maschi di tribù ostili e aggressive.

L’infibulazione, diminuendone il valore sessuale, le rendeva inappetibili e, di fatto, le preservava dall’abuso.

Ora, non credo sia saggio da parte nostra intervenire come panzer culturali su una realtà tanto delicata, di cui dobbiamo sì ribadire il sacrosanto divieto, accompagnandolo però con un riconoscimento che lo renda accettabile e, come tale, rispettabile senza che questo risulti culturalmente umiliante.

In questioni delicate e drammatiche come queste, occorre muoversi con prudenza, evitando di recitare la parte degli  illuministi d’assalto.

Né possiamo fare le “anime belle” morali, senza tener conto delle conseguenze dei divieti, assai pesanti nel caso di donne che, sottratte alla mala pratica, subirebbero pesantissime sanzioni nelle loro comunità di appartenenza, destinate alla prostituzione e all’emarginazione.

Anche perché, se ci limitiamo al misconoscimento, non potremo davvero incidere sui fatti e modificare la realtà delle bambine che continueranno a essere vittime di una prassi brutale, tanto più se in essa sarà vista una forma di resistenza alla boria civilizzatrice dell’uomo bianco.

Il rito infibulatorio non va certo tollerato nella sua realtà ma va parimenti riconosciuto nel suo significato profondo e la trasposizione simbolica è il segno di tale riconoscimento.

Magari fosse davvero possibile lavorare su questa proposta e renderla accetta ai nostri interlocutori!

E non è intellettualmente onesto paventare il relativismo  come unica, manichea, alternativa all’assolutismo dei valori: tra i due estremi sono individuabili tappe intermedie, dove si gioca la partita della tolleranza o, termine che mi sembra più adeguato, del riconoscimento.

Leggiamo quanto scrive un anonimo greco del IV secolo,  al termine di un lungo elenco  teso a rilevare come il lecito e l’illecito abbiano nel costume dei greci e in quello di altri popoli contenuti spesso opposti: “i Massegeti squartano i genitori e se li mangiano”, e se ci fermassimo qui potremmo cedere al rischio di gridare alla barbarie, ma l’anonimo va oltre e ci dice: “perché pensano che l’esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura”. E questa motivazione  illumina l’approccio. Il dialogo deve partire da qui, non certo dal consentire l’antropofagia ma dal riconoscerne l’originaria profondità umana.

 La cosa più sconcertante è constatare che lo scandalizzato rifiuto dell’ipotesi di una infibulazione simbolica, avviene in un mondo, il nostro, che ammette la circoncisione, pratica certo meno invalidante dell’infibulazione reale, ma non certo puramente simbolica.

O forse intendiamo ergerci ad arbitri del bene e del male tra i diversi popoli?

La stessa riflessione vale per l’illuminismo spaccamontagne di Chiraq e da chi in Francia sta dalla sua parte, che non è quella della laicità, secondo cui lo Stato non deve recepire, e quindi imporre alla collettività che esso rappresenta, dimensioni comunitarie o scelte private, quali la religione e i suoi simboli, ma quella del laicismo, che, lungi dall’essere neutrale, pretende di condizionare scelte private come sono quelle che, senza far danno ad altri o violare leggi esistenti (così sarebbe per il burqua, ad esempio), riguardano il proprio corpo e i simboli su di esso esibiti.

Tale è il velo, che, sia detto per inciso, è portato anche dalle suore cattoliche, e non si dica che però in quel caso è stato scelto, perché le suore hanno scelto la vita monacale e non il velo, che comunque subiscono, a differenza dei loro corrispondenti maschili, così come non hanno scelto l’esclusione dal sacerdozio.

Credo che anche sulla difesa della donna dovremmo chiarirci le idee, prima di assecondare strumentalizzazioni che con la donna hanno poco a che fare.

Ripartirò dall’incipit, riformulandolo: sull’altare della dea ragione, cifra del tutto maschile, sacrifichiamo la ragionevolezza, sapienza, quella sì, davvero salvifica e femminile.

In una società che pensa e decide al maschile, guardiamoci, come donne, dal far sì che la sacrosanta lotta per la nostra valorizzazione e per un mondo che rifletta i nostri orizzonti si trasformi in cavallo di troia dell’occidentalizzazione.

Gloria Bardi