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LA CUCINA
EL "BIGOLARO"
Questo "bigolaro" risale agli inizi del 1900
circa.
In quegli anni i contadini e la maggior parte della popolazione non erano
molto ricchi, perciò, per nutrirsi, adoperavano questo oggetto singolare
diffuso soprattutto nella parte nord-est della penisola italiana.
Il bigolaro serviva per trafilare un impasto molto semplice ma nutritivo
che veniva usato per sostituire quello delle lasagne nella cui ricetta
erano presenti le uova, alimento molto costoso e perciò poco usato. In
realtà in campagna le uova non mancavano, ma, proprio perché costose,
venivano immediatamente vendute alle botteghe di alimentari.
La cosa era tanto comune che mia nonna, per esempio, riceveva "un
uovo" di zucchero oppure di sale.
La ricetta dell’impasto era: 500 g di farina, acqua quanto bastava e un
pizzico di sale. Questo impasto si presentava molto omogeneo e
consistente.
Il bigolaro, prima dell’uso, veniva bloccato ad una tavola di legno con
due rientranze per fissarla alla tavola. Un altro tipo, che ha mio zio, è
invece fissato ad una specie di treppiede di legno su cui ci si sedeva per
tenerlo fermo mentre si "menava torno", cioè si trafilava l’impasto.
Prima si sceglieva e si inseriva la piastra desiderata. Le cinque forme in
fotografia permettevano di ottenere spaghetti, bigoli, appunto, e
bucatini.
Tutte le forme cave erano naturalmente aperte da un lato perché il ferro
che trafilava lasciasse uscire i vari tipi di pasta.
L’impasto veniva inserito nel tronco centrale un po’ alla volta
inclinando lo stantuffo per permettere l’accesso al cilindro. Poi si
cominciava a trafilare avvitando il manico in modo da spingere l’impasto
attraverso le filiere. Al termine del processo bisognava, con tanta
pazienza, svitare tutto il tronco per permettere la ripetizione della
procedura.
I "bigoli", una volta fatti, venivano messi ad essiccare a
cavallo di canne di bambù appese a mezz’aria, le cosiddette
"perteghe" o "perteghele" (pertiche). I bigoli
venivano fatti una volta la settimana e ne venivano fatti molti affinché
durassero un periodo di tempo di sette giorni. Venivano cucinati in acqua
bollente, il procedimento è uguale a quello che si compie per cucinare la
normale pasta che si compera oggi nei supermercati.
Dopo la seconda Guerra Mondiale, l’arricchimento della popolazione e la
conseguente commercializzazione di nuovi prodotti alimentari portarono
alla realizzazione di nuove ricette ed in particolare la mia bisnonna
aggiungeva al comune impasto anche delle spezie, come la noce moscata, per
aromatizzarne il sapore.
A quel tempo c’erano diverse misure di "bigolari", a seconda
delle esigenze familiari.
Quello qui mostrato e appartenente ai miei avi paterni era di misura
media.
La parte comprimente è in fusione di ferro mentre sono in ottone il
contenitore e lo stantuffo.
Le "piastre" utilizzate per trafilare la pasta erano di
differenti misure, le mie sono del numero tre. Una volta adoperate
dovevano essere ben pulite e lavate per impedire che i residui dell’impasto
si indurissero, perché una volta essiccati erano molto difficili da
togliere. Come è successo a me per pulirli per presentarli in fotografia…
Il tronco centrale è alto 20 cm, la parte che comprime la pasta è lunga
30. Il tutto è spesso 5,5 cm. La parte che avvita l’asse centrale è
lunga 41 cm ed ha i manici di legno.
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El "Bigolaro" (foto d'insieme) - circa
1930-1940 |
El "Bigolaro" (particolare) - circa
1930-1940 |
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EL "MASENA PEVARO"
Il "masena pevaro" era un
"utensile" usato ai tempi dei miei nonni, serviva per ridurre in
polvere i chicchi di pepe che poi venivano usati quasi quotidianamente
nella preparazione dei cibi e in quella degli insaccati (salami, pancette
e salsicce).
Il macinino da pepe o da caffè, perché, ad esempio, i miei nonni (che
non erano particolarmente ricchi) usavano il macinino anche per macinare i
chicchi di caffè dopo averlo pulito molto bene, era fatto in questa
maniera:
aveva la forma di un cubo dalle dimensioni di 20 cm circa. Le pareti erano
di legno mentre, sulla sommità, c’era una "cupola" di ferro
apribile da una parte per potervi introdurre i grani di pepe.
Sopra la "cupola" era inserito il manico (anch’esso di ferro)
che faceva girare l’ingranaggio che serviva a frantumare il pepe. Alla
base del macinino veniva inserito un cassettino di legno che serviva per
raccogliere la polvere di pepe ormai frantumata. I chicchi di pepe,
frantumati, venivano aggiunti, assieme al sale e, a scelta, all’olio,
all’impasto di carne macinata, soprattutto maiale, per poi fare i vari
salami, pancette e salsicce.
Il pepe veniva anche usato per altre pietanze, ad esempio per le
"biscotte" di cui una volta mia nonna mi ha insegnato la
ricetta: delle verze cotte a lungo in acqua, aceto, sale e pepe che si
conservavano in barattoli di vetro (una volta si facevano ad
ottobre-novembre) in preparazione ai mesi freddi. Prima di mangiarle si
mettevano con un po’ d’olio e aglio, a cuocere in padella per cinque
minuti. |
El "masena pevaro" - fine 1800, inizi
1900
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EL "FERO DA STIRO" A CARBONE
Una volta non c’era il ferro da stiro, con la piastra
riscaldata dall’elettricità come quelli di adesso.
Ma c’era un ferro da stiro la cui piastra era riscaldata con le bronse
appena prese dalla stufa, o almeno mia nonna così mi racconta:
Lei usava il "fero" da stiro a carboni che era formato da una
piastra in ghisa, come pure in ghisa era il contenitore delle
"bronse" (braci); l’unica cosa del ferro che non era in ghisa
era il manico che era di sughero o di legno appunto perché questi
materiali non erano conduttori di calore e quindi non ci si bruciava la
mano quando lo si prendeva per il manico.
Le finestrelle che si vedono in alto nel contenitore, che creavano tanti
problemi, erano ineliminabili perché altrimenti le "bronse" si
sarebbero spente in fretta per mancanza di ossigeno.
Il "fero" da stiro a "bronse"
veniva usato in questo modo:
Prima si apre il reparto che contiene il carbone tramite la manovella
posta sopra di esso
Poi si riempie il reparto stesso con le "bronse" appena prese
dalla stufa
Si chiude poi il reparto, sempre tramite la manovella
Si comincia a stirare, cambiando le "bronse" ogni volta che
queste si raffreddano
Dati i suoi requisiti primitivi questo tipo di ferro
aveva bisogno di molte attenzioni:
Bisognava stare attenti a non fare uscire le "falive"
(scintille) da quelle finestrelle posti ai lati del reparto contenitore di
"bronse" per non sporcare o addirittura bruciare i tessuti.
Bisognava pulire la piastra ogni tanto perché se usciva qualche faliva e
le si attaccava sotto, poteva sporcare i tessuti che si stavano stirando.
Per stirare i panni di stoffe diverse bisognava immettere una diversa
quantità di bronse nel contenitore di carbone in modo tale che la piastra
si riscaldasse più o meno. |
El "Fero da stiro" - inizio 1900
El "Fero da stiro" - fine 1800 |
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