I primi giorni dello sbarco
in Sicilia videro aspri combattimenti nella piana intorno Gela. Lo
sbarco ebbe inizio intorno le 2:30 della mattina del 10 luglio: i
reparti del 429° battaglione costiero, schierato lungo le casamatte a
difesa della spiaggia e dell' abitato e comandati dal maggiore Arnaldo
Rabellino, subiscono il primo urto americano ma tengono finché
possibile, causando alcune perdite negli attaccanti e permettendo di
guadagnare tempo.
Alla fine il battaglione
lascerà sul campo 17 ufficiali e 180 soldati, pari a poco meno del 50%
degli effettivi disponibili.
Solo intorno le 8,00 del
mattino gli americani riescono infine ad entrare in Gela, ma intanto
cominciano ad affluire dalle retrovie i reparti italiani della
divisione Livorno (appoggiati da alcuni mezzi corazzati) e quelli
tedeschi della "Hermann Goering"
Il contrattacco delle forze
italotedesche è tanto disperato quanto determinato; per le intere
giornate del 10 e dell' 11 luglio i reparti italiani contrattaccano,
riuscendo più volte a raggiungere le case di Gela ed a respingere gli
americani verso il centro del paese ed in direzione della spiaggia.
Alla fine sotto l'incessante
tiro delle artiglierie della flotta d'invasione e sotto l'azione
dell'aviazione americana, l'impeto della Livorno si esaurisce. La
maggior parte dei caduti italiani sono ascrivibili proprio al fuoco
delle navi. Gli italiani iniziano a ritirarsi incalzati dalle fanterie
americane. Il 13 cade Niscemi ed il 14 Biscari. Nei pressi
dell'aeroporto di Biscari si svolse in due momenti successivi e distinti
il tragico massacro di prigionieri italiani di cui ormai si conoscono
tutti i dettagli. Scrive Di Feo:
"Il capitano Compton
radunò gli italiani che si erano arresi" - saranno stati più di
quaranta - Poi domandò chi volesse partecipare all'esecuzione.
Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli
italiani".
Un secondo episodio si riferisce sempre alla stessa area, nella quale
una testimonianza afferma che "Il sergente West portò la colonna
di prigionieri italiani fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai
suoi di non guardare, così la responsabilità sarebbe ricaduta solo su di
lui. Poi li ammazzò tutti".
Probabilmente i due episodi
avvenuti a Biscari sarebbero passati inosservati ed impuniti come chissà
quanti altri episodi simili se non fosse stato per il verificarsi di una
serie di circostanze fortuite e per l' onesto, civile e coraggioso
comportamento del Cappellano tenente colonnello William King.
Nel suo libro "The Day of
Battle: The War in Sicily and Italy, 1943-1944", Rick Atkinson così
descrive la scoperta fatta dal cappellano King: "Il mattino
successivo (quindi il 15 luglio) alle 10:30 il tenente colonnello
William E. King guidava la sua jeep verso l'aeroporto di Biscari
da poco conquistato. Durante la prima guerra mondiale King era stato
ferito ed aveva temporaneamente perso la vista. Questa esperienza
drammatica lo aveva spinto a diventare ministro della chiesa battista.
Ora, diventato cappellano della 45ª Divisione, serviva
contemporaneamente il Signore ed il suo paese, apprezzato per la sua
generosità e per la brevità dei suoi sermoni. La sua attenzione fu
catturata da una pila di corpi in prossimità di un oliveto ed egli fermò
la jeep e scese a bocca aperta ad investigare. "La maggior parte
giacevano a testa in giù, alcuni faccia in su". Raccontò King
più tardi - "Tutti quelli che giacevano supini mostravano un
colpo d'arma da fuoco proprio sulla parte sinistra, nella zona del
cuore". La maggior parte anche mostrava ferite alla testa; bruciature
sui capelli e tracce di polvere indicavano che i colpi erano stati
sparati a distanza ravvicinata". Alcuni soldati che si
riposavano nei dintorni raggiunsero il cappellano protestando che essi "Avevano
preso le armi proprio per combattere quel genere di cose" -
disse King - "Essi si vergognavano dei loro stessi connazionali"
Il cappellano tornò in fretta verso il comando della divisione per
raccontare la crudele scoperta.
Una circostanza che pure permise al caso di venire a galla fu il
contrasto caratteriale tra il generale Omar N. Bradley comandante del II
corpo della VII armata americana ed il suo superiore, il generale
Patton a comando dell'intera VII armata. Riflessivo e metodico il primo,
irruento ed impulsivo il secondo. Tra i due non poteva correre buon
sangue.
Il cappellano King riferì a
Bradley gli episodi di cui era venuto a conoscenza. Bradley aveva avuto
già notizia del massacro e si portò a Gela ove era il comando d'armata
per riferire a Patton che da 50 a 70 prigionieri erano stati
assassinati ‘In cold blood and also in ranks".
Patton riportò la propria
reazione nel suo diario:
"E' venuto da me Bradley un uomo fin troppo
corretto, molto nervoso per dirmi che un capitano ha preso sul serio il
mio ordine di uccidere chi continuava a sparare anche quando eravamo a
meno di 200 metri. Il capitano ha ammazzato quasi 50 prigionieri a
sangue freddo e raggruppandoli, cosa che costituisce un errore ancora
più grande. Gli ho risposto che probabilmente era una notizia esagerata.
Ma in ogni caso devo ordinare di dire al capitano di dichiarare che
quegli uomini erano dei cecchini o avevano tentato di fuggire perchè c'è
il rischio che finisca tutto sui giornali ed i civili diventino furiosi.
Comunque sia andata, sono morti e non c'è più nulla da fare".
Il 9 agosto
Bradley chiese di nuovo a Patton di arrestare i protagonisti dei due
episodi, i summenzionati sergente West e capitano Compton. Pochi giorni
dopo, di fronte l'inattività del superiore Bradley ordina personalmente
l'arresto dei fucilatori di Biscardi.
Cosa in realtà pensasse
Patton riguardo i prigionieri lo si deduce dalle sue stesse parole:
"Adesso
alcuni ragazzi con i capelli ben pettinati stanno tentando di dire che
ho ammazzato troppi prigionieri. Ma quelle stesse persone gioiscono per
stragi di giapponesi ben più grandi. Ebbene più nemici ho eliminato,
meno uomini ho perso, ma essi non si curano di ciò"
Dalle parole
di Patton si coglie non solo la sua personale indifferenza nei confronti
di alcune fondamentali regole di guerra, ma anche è da rilevare
l'esplicita accusa di ipocrisia nei riguardi dei suoi detrattori in
quanto a suo dire, e noi ne siamo convinti quanto lui, gli americani
facevano ben di peggio nel teatro del Pacifico.
A seguito della denunzia
operata dal cappellano colonnello William King, furono celebrati, nel
massimo segreto, nell'autunno 43 due processi: la corte marziale USA
accusò il sergente Horace T. West dell' omicidio di 37 italiani, e il
capitano John C. Compton di almeno 36.
Compton non cercò scuse:
davanti alla corte marziale; disse solo di avere obbedito agli ordini
emanati da Patton subito prima dello sbarco in Sicilia:
La corte condannò il
sergente West all'ergastolo. Ovviamente la pena non venne mai
eseguita. West fu dapprima trattenuto agli arresti in una base del
Nord Africa, poi, Il 1° febbraio 1944, il capo delle pubbliche relazioni
del ministero della Guerra sollecitò al comando alleato di Caserta un
«Atto di clemenza» per West: "Non possiamo - è il testo
della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 - "permettere
che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al
nemico. inoltre potrebbe scuotere una parte dell' opinione pubblica dei
nostri cittadini che sono così lontani dal campo di battaglia e
potrebbero non capire la ferocia che è insita nella guerra".
Così dopo solo sei mesi,
West viene rilasciato e mandato al fronte. Le notizie riguardo il suo
destino sono contradditorie, ma secondo alcuni degli autori che si sono
occupati del caso, è probabile sia sopravvissuto alla guerra ed abbia
vissuto fino a tarda età.
Solo dopo che con l' uscita
degli articoli e degli scritti di Di Feo, Bartolone e Ciriacono il caso
era diventato di dominio pubblico, furono intraprese iniziative
ufficiali riguardo la strage.
Nel giugno del 2004 il
deputato Gennaro Malgieri presenta un'interrogazione al Presidente del
Consiglio per conoscere quali passi Egli intenda compiere presso gli USA
a seguito delle rivelazioni sulle stragi.
Sotto è inoltre riportato un
comunicato dell' ANSA che informa delle tardive iniziative della
procura militare.
ansa - 2007
SICILIA, STRAGE USA DEL 43. E' VIVO L'ACCUSATO?
da ANSA
PALERMO - Ci sono voluti quasi 64 anni. E alla fine
l'inchiesta su una strage dimenticata, compiuta dalle truppe
americane in Sicilia nell'estate del 1943, si chiude con un solo
accusato che oggi, se fosse ancora in vita, dovrebbe avere 98
anni. La Procura militare di Palermo ha cercato inutilmente di
rintracciarlo e ora vuole processarlo come unico responsabile
dell'eccidio di 36 soldati italiani presi prigionieri durante la
battaglia attorno all'aeroporto di Biscari. Il procuratore
militare Enrico Buttitta ha chiesto di portare in giudizio il
sergente Horace T. West, che imbracciò il mitra e sparò
all'impazzata contro la colonna di prigionieri inermi in cammino
verso un punto di raccolta.
Morirono quasi tutti: alla sventagliata dei colpi sopravvissero
solo alcuni e due di loro, creduti morti, hanno rassegnato ai
magistrati testimonianze sofferte e drammatiche. |
Al contrario il capitano
John Compton fu assolto: la corte marziale riconobbe che aveva agito per
seguire gli ordini superiori, ma nessun procedimento venne certamente
avviato nei confronti di Patton nè egli venne interrogato come
testimone.
E così Patton, tanto
criticato ed oggetto di uno scandalo unanime perchè in Sicilia in un
ospedale aveva schiaffeggiato un soldato ricoverato per shock (che
Patton riteneva essere semplicemente codardia), non fu oggetto di
nessuna critica o appunto per aver dato ordini che esplicitamente
invitavano a non avere alcuna pietà per i nemici che si volessero
arrendere.
Il massacro di Biscari fu
tenuto segreto così bene che pochissimi soldati nella stessa divisione
ne ebbero mai notizia alcuna.
Ma il giornalista Di Feo
enumera i luoghi e le circostanze anche di altre stragi: Altri due
eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista
britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora divulgate.
Avvennero nell'aeroporto di Comiso, quello diventato famoso mezzo secolo
dopo per gli euromissili della Nato. All' epoca era una base della
Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che
sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero fatti scendere da
un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la
stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero
stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa
dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. (Gianluca
Di Feo - Corriere della Sera - 23 giugno 2004).
Successivamente agli
articoli di Di Feo, sono andati in stampa nel 2005 due libri sullo
stesso argomento. Nel libro di Giovanni Bartolone "Le altre
Stragi" l'autore documenta varie stragi di civili e militari
operate in Sicilia dagli americani. Oltre alla strage di Biscari veniamo
così a conoscere altri nomi dimenticati: le stragi di Piano Stella, di
Comiso, di Castiglione, di Vittoria, di Canicattì, di Paceco, di Butera,
di Santo Stefano di Camastra...
Sempre nel 2005 Gianfranco
Ciriacono pubblica "Le stragi dimenticate - Gli eccidi americani
di Biscari e Piano Stella" per una piccola casa editrice di
Ragusa. A raccontare cosa accadde quel 13 luglio 1943 a Piano Stella è
Giuseppe Ciriacono, nonno dell' autore, unico sopravvissuto.
"Verso il pomeriggio
tardi sentimmo qualcuno che chiamava dall’esterno del rifugio, dicendoci
di uscire fuori. Così uscimmo fuori e trovammo un soldato che parlava
bene l’italiano e ci chiese di entrare a casa per vedere se vi erano
soldati tedeschi. Mio padre si apprestò a fare perlustrare la casa, ma
quando arrivammo davanti alla porta ci accorgemmo che già i soldati
avevano sfondato la porta ed erano entrati. Dopo qualche ora arrivarono
altri soldati.
Ormai era l’imbrunire.
Ci fecero segno di uscire, ma nessuno parlava italiano. eravamo in sei
persone e ci fecero segno di seguirli verso Acate. Il nostro podere
confinava con il territorio della provincia di Ragusa e, dopo aver
camminato un po’, giungemmo presso una casa che apparteneva a un certo
Puzzo.
Gli americani ci
portarono in questa casetta, il terreno circostante era piantato a
vigneto e lì ci fecero segno di sederci, poi i soldati imbracciarono
delle armi, dei fucili mitragliatori, e si misero ad angolo, uno da un
lato e l’altro dall’altro. Ricordo che quando assunsero questa posizione
il signor Curciullo, che era accanto a me, disse: -compari
Pippinu haiu ‘mprissioni che ci vogliono uccidere- .
A questo punto, mentre
parlavano, mi sentii prendere da qualcuno per il bavero della camicia e
tirarmi su… allora ero ragazzino, andavo ancora alle elementari e
sentivo i racconti dei fratelli Bandiera e cose del genere e pensai che
il primo ad essere ucciso sarei stato proprio io. Quando mi sentii
tirare per il bavero, girandomi vidi questo americano che aveva il
fucile a tracolla, con la mano sinistra teneva un’anguria e con la
destra mi tirava. Appena mi girai a guardarlo disse delle frasi che a
mio parere volevano dire di allontanarmi. Non appena mi allontanai 20,
30 passi circa sentii una raffica di mitra e le urla di mio padre, del
mio amico e degli altri". |