È il più grande disastro
chimico della Seconda guerra mondiale: la Pearl Harbour del Mediterraneo
si consumò a Bari il 2 dicembre 1943 quando 105 bombardieri della
Luftwaffe presero d'assalto il porto barese pieno zeppo di navi alleate.
Almeno un migliaio i morti,
si parla di un episodio appena accennato nei libri di storia e coperto
per decenni da segreto militare. A bordo di una nave statunitense,
infatti, la John Harvey, c'era un carico di iprite, un gas venefico
proibito dalle convenzioni internazionali.
Ancora oggi più di una
domanda rimane senza risposta: cosa ci faceva quel quantitativo di gas
velenosi sulla nave? Perché gli americani lo stoccavano a Bari? E per
cosa intendevano usarlo?
E’ utile precisare, per
quanti non conoscano in fondo la storia sull’utilizzo in guerra di gas
velenosi, che questi furono largamente utilizzati nel corso del I
Conflitto Mondiale, ma nel II rimasero praticamente nei magazzini, in
quanto né la Germania nazista, né le potenze Alleate ritennero utile
metterli in campo.
Proprio per queste
considerazioni, questa appare ancora oggi una pagina di storia negata. È
della più grande tragedia navale della Seconda guerra mondiale, dopo
Pearl Harbor, che si parla ma soprattutto del più grave disastro chimico
del conflitto.
È il 2 dicembre 1943,
quando, alle 19, 25 una flotta di 105 bombardieri della Luftwaffe
(appartenenti ai Kampfgeschwaders 30, 54 e 76) attacca il porto di Bari.
Lì sono ormeggiate una trentina di navi alleate, sotto il controllo
britannico, ma, fra queste, ce n'è almeno una, la John Harvey, battente
bandiera americana, la cui stiva è piena zeppa di iprite: un letale gas
venefico che trovò il suo primo utilizzo bellico sui campi di battaglia
della Grande Guerra 1914-18.
Almeno un migliaio le
vittime fra civili e militari, uccise dalle bombe sganciate dai tedeschi
e dunque anche dall'iprite sprigionata dalla nave statunitense,
letteralmente saltata in aria. Un computo esatto dell'immane strage,
d'altra parte, non s'è mai fatto. E così dell'iprite al largo di Bari,
fino ad oggi, s'è tornato a parlare soltanto in coincidenza degli
occasionali ritrovamenti di bombe inesplose, spesso anche in prossimità
di Molfetta, a Torre Gavetone.
Ma veniamo alla cronaca di
quel giorno:
CRONACA DI UN DISASTRO
Con l’arrivo degli eserciti
alleati, che lentamente risalgono la penisola, il porto di Bari è
diventato il nodo principale dell’organizzazione logistica dell’VIII
armata inglese sul fronte adriatico e la base di rifornimento di
carburante della XV Air Force, che ha il suo Comando nell’aeroporto di
Manfredonia: 600 mila litri di carburante alla settimana, che una rete
di oleodotti porta anche agli aeroporti di Foggia, Gioia del Colle e
Grottaglie.
Da questi aeroporti partono
gli aerei che bombardano non solo l’Italia del centro e del nord, ancora
occupate dai tedeschi, ma anche la Germania. Comandante è il generale
James Doolittle, l’artefice del bombardamento di Tokyo del 18 aprile
1942.
A Bari il sole è tramontato
da due ore. Nel cielo sereno solo una piccola falce di luna a sudovest,
sopra il Salento. L’aria è chiara e luminosa sul mare calmo. Il porto di
Bari è pieno di luci, sulle navi e sulla
banchine; è illuminato a
giorno come se la guerra non ci fosse e non ci fosse il pericolo dei
bombardamenti tedeschi. Eppure nel primo pomeriggio si è sentito volare
alto un aereo; a lungo, avanti e indietro; il centro radar lo ha
identificato come un ricognitore Messerschmitt 210 della
Luftwaffe; è passato anche
ieri e l’altro ieri.
Alle 19.25 suonano le sirene
dell’allarme aereo. Tutte le luci si spengono. Un rombo di aerei arriva
da nordest e alle 19.25 ecco le prime bombe e le prime esplosioni,
mentre candelotti illuminanti appesi a piccoli paracadute scendono
lentamente e illuminano il porto e le quaranta grandi navi da carico
alla fonda, in gran parte della classe “Liberty”; molte sono piene di
munizioni; una, l’americana John Harvey, è piena di bombe all’iprite, il
“Gas Mostarda”…solo che pare che nessuno lo sappia.
Comincia così l’unico
episodio di guerra chimica della seconda guerra mondiale; un disastro le
cui conseguenze si faranno sentire per più di mezzo secolo.
Gli aerei tedeschi in arrivo
sono più di cento, quasi tutti Junkers 88, i bimotori da bombardamento
più diffusi; alcuni sono partiti dall’aeroporto di Ronchi dei Legionari,
vicino a Monfalcone, gli altri da due aeroporti in Grecia, vicino ad
Atene; l’appuntamento, alle 19.25, è stato sul mare, trenta miglia a
nordest di Bari. Alle 19.30 sono sulla città.
“Le navi, specie quelle
che erano lungo il molo foraneo di levante“ scriverà Augusto
Carbonara, uno che era in città e vide scardinata dal bombardamento la
finestra della sua camera da letto, “furono sorprese d’infilata dalle
bombe tedesche. Erano tanto vicine che le bomba cadute in acqua furono
molto poche. Alcune navi bruciavano, altre affondavano, altre,
incendiate, rotti gli ormeggi, andavano alla deriva, avvicinandosi alle
navi non colpite. Le navi che nella stiva trasportavano esplosivi
dapprima si incendiarono e poi finirono per deflagrare e colpire tutto
il porto e anche molte case della città vecchia. I vetri delle
abitazioni di mezza Bari andarono in frantumi”.
La sorpresa dell’attacco e
l’ignoranza del carico della Harvey causano i danni più gravi. La
maggior parte dei marinai è in franchigia. Cinema e teatri - il
Piccinini, il Petruzzelli, l’Oriente, il Margherita, il Kursaal - sono
aperti e pieni di inglesi e americani; al Margherita, ribattezzato
Garrison Theatre, si proietta Springtime in the rockies con Betty Grable
e John Payne. I militari più alti in grado stanno al vicino Barion,
trasformato in circolo ufficiali.
Gli italiani no. “Al
momento dell’attacco, dal comandante agli ufficiali, ai marinai”
racconterà Oberdan Fraddosio, che quel giorno era l’ufficiale di guardia
“eravamo tutti in Capitaneria o sul posto di
manovra delle ostruzioni retali alla testata del molo foraneo di
levante.
Non esistevano
rifugi antiaerei. Non esistevano mezzi di protezione personale che non
fossero vecchie maschere antigas inutilizzabili e inutilizzate. Perfino
gli elmetti erano in numero inadeguato. Tutti rimasero ai loro posti
fino alla fine dell’incursione”.
Il porto, come altre
basi navali ha all’imboccatura una rete che viene aperta per un tratto
al passaggio di una nave. “Il Comandante” racconterà ancora Fraddosio “mi
ordinò di eseguire una ricognizione nel bacino portuale portandomi fino
alle ostruzioni. Nel percorrere le acque del bacino passammo molto
vicini a navi che bruciavano e sulle quali esplodevano ancora le cariche
dei cannoncini e delle mitragliere.
Dovevamo tenerci
sopravvento per evitare di essere avvolti dal fumo denso e acre degli
incendi”.
Quello che sembra
fumo non è soltanto il fumo degli incendi; è anche il vapore
dell’iprite. “Tra le navi” racconterà ancora Augusto Carbonara “fu
colpita e incendiata anche la John Harvey, quella che, con altro
materiale esplosivo, trasportava le cento tonnellate di bombe con
l’iprite. I marinai rimasti a bordo tentarono con ogni mezzo di domare
il fuoco, ma inutilmente, e dopo mezz’ora l’incendio si propagò alla
stiva. Non ci volle molto che la nave saltasse in aria con tutto il suo
carico e tutti gli uomini, compresi quei pochi che conoscevano la verità
sul carico. Da quel momento cominciò l’inferno”.
“La maledetta Mustard”
dirà ancora Carbonara “si mescolò alla nafta venuta fuori dalle
petroliere affondate e formò un velo mortale su tutta la superficie del
porto. Coloro che dalle altre navi si lanciavano in acqua furono ben
presto zuppi della maleodorante sostanza. I vapori dell’iprite si
spargevano intanto su tutto il porto; bruciavano la pelle e
intossicavano i polmoni dei sopravvissuti”.
A notte (solo alle 23 le
sirene hanno dato il cessato allarme) si contano le navi affondate; sono
17: cinque americane, quattro inglesi, tre norvegesi, tre italiane
(Barletta, Frosinone, Cassala), due polacche; sette le navi gravemente
danneggiate. Il calcolo del materiale perduto sarà fatto nei prossimi
giorni: non meno di quarantamila tonnellate. E i morti, i feriti?
“All’ospedale
neozelandese (che aveva trovato posto nel non ancora finito Policlinico
della città)” scriverà Carbonara “cominciarono
ad arrivare i primi feriti. Molti, più che colpiti dalle esplosioni,
erano provati dall’effetto del gas vescicante. Ma non si sapeva che
fosse stato il gas a provocare tali effetti, perché, sul momento,
nessuno lo intuì. Non vi erano vestiti di ricambio e pertanto non fu
possibile cambiare
d’abito i soldati che
erano caduti nelle acque del porto. Chi non poté cambiarsi di sua
iniziativa rimase quindi con gli abiti zuppi d’iprite, che non solo agì
sulla pelle, ma fu assunta attraverso le vie
respiratorie.
I primi
inspiegabili collassi si ebbero dopo cinque o sei ore dalla
contaminazione. Dopo, seguirono le prime morti, quasi improvvise, di
gente che qualche minuto prima sembrava stesse per riprendersi. Tutti
avevano la pelle piena di vesciche. Sulle ascelle, l’inguine e i
genitali le pelle si staccava come avviene per le ustioni più gravi”.
Soltanto domani qualcuno dei
medici comincerà a intuire qualcosa. Un capitano della sanità si recherà
dalle autorità alleate per chiedere l’esatto contenuto delle navi
colpite. Si telegraferà negli Stati Uniti, da dove le navi erano
partite, ma nessuno darà o vorrà dare una risposta; e anche in futuro la
risposta non arriverà mai. Quante le vittime? Sarà impossibile
calcolarne il numero; sicuramente intorno a un migliaio tra civili e
militari. Oltre ai morti per le bombe e per i crolli, oltre ottocento
militari saranno ricoverati per ustioni o ferite; di essi 617 a causa
dell’iprite. A Bari ne moriranno 84 e molti in altri ospedali, sia
italiani sia in Africa del nord e negli Stati Uniti dove verranno
trasportati.
I civili saranno almeno 250.
Nella città vecchia sono crollate alcune vecchie case e una di esse, non
ricostruita, creerà una piazzetta al fianco della sacrestia della
cattedrale. Nella parte nuova della città crollano tre edifici; due tra
via Andrea e via Roberto, vicino alla chiesa di San Ferdinando, un terzo
in via Crisanzio nei pressi della manifattura dei tabacchi.
“Ma se il bombardamento”
racconta Paolo de Palma, un altro che era a Bari in quel giorno, “non si
trasformò in un vero e proprio massacro per i cittadini baresi lo si
deve al vento che si mise a spirare verso levante, evitando così un
pericolo devastante. Forse fu San Nicola che volle ancora una volta
tutelare la sua città”.
LA USS JOHN HARVEY
nationality:
|
american |
purpose: |
transport |
type of wreck: |
cargo |
subtype or class: |
Liberty EC2-S-C1
|
Liberty EC2-S-C1 ref.: |
Richard Montgomery SS [+1944] |
propulsion: |
steamer |
date built: |
1942 |
status: |
|
|
details |
weight (tons): |
7176
grt |
dimensions: |
134,6 x 17,4 x 8,43 m |
material: |
steel |
engine: |
Two oil-fired boilers, triple expansion steam engine, single
screw, 2,500 horsepower (1,864 kW) |
armament: |
1 x stern mounted 4"/102 mm deck gun |
power: |
339
n.h.p. |
speed: |
11.2 |
yard no.: |
878 |
|
about the loss |
cause sunk: |
explosion |
other causes: |
air raid |
date sunk: |
02/12/1943 |
built by: |
|
North Carolina
Shipbuilding Co.,
Wilmington
(Delaware) |
|
owned |
|
US Navy,
United States Navy |
|
captain: |
Knowles, Elwin F. |
o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o-o
Una serie di interrogativi
nasce nella mente di chi ha studiato questo fatto d’arme ancora poco
chiaro: i tedeschi sapevano del carico della Harvey? Il bombardamento fu
davvero una “casuale operazione pianificata contro un porto in mano
nemica”, oppure essi conoscevano i segreti che si trovavano al suo
interno e l’eco che ne sarebbe scaturita? In ogni caso, se così fosse le
loro speranze andarono deluse, perché del disastro della Harvey ancora
oggi pare che si fatichi a parlarne.
E ancora; il Mediterraneo e
l'Italia del sud in genere erano a quel tempo regno incontrastato
dell'aviazione Alleata, la quale poteva schierare quasi 3000 velivoli
nell'area, mentre l'Asse faticava a schierarne 500: come è possibile che
una forza di 105 bombardieri non sia stata intercettata nè dai radar
(che pure avvistarono UN SINGOLO ricognitore Me.210 sul porto qualche
giorno prima) nè da alcun caccia dell'USAAF o della RAF?
Per la cronaca, dal relitto
della USS John Harvey furono recuperate molte bombe d’aereo inesplose,
ognuna delle quali conteneva 30 Kg di Iprite...e sapete cosa ne venne
fatto? Furono affondate in basso Adriatico (e sono ancora laggiù).
Un’altra curiosità: su
Internet è possibile trovare la foto di ogni nave Alleata che ha
partecipato al II Conflitto Mondiale, sia essa una unità da
combattimento che da carico: ebbene, per la USS John Harvey ciò non è
possibile, come se non fosse mai esistita. |