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Amore e Psiche
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Capitolo 5 - La complessa motivazione del nostro agire
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Un sottosuolo che si chiama inconscio
Gli psicologi parlano di due diversi livelli dello spirito umano: il conscio e l'inconscio.
Come risulta evidente dalla terminologia stessa, noi siamo consci, consapevoli dei contenuti del nostro livello conscio e siamo inconsapevoli dei contenuti del livello inconscio.
Questi due livelli sono stati paragonati a un appartamento e a una cantina. Quando a casa nostra c'imbattiamo in qualcosa che è sgradevole a vedersi, per esempio un mobile che cade a pezzi o un brutto secchio per le immondizie, istintivamente vorremmo scaraventarlo in cantina in modo da non ritrovarcelo mai più sotto gli occhi.
Lo stesso accade in questi due livelli. Quando non riusciamo a sopportare una realtà o un atteggiamento che scopriamo in noi stessi, possiamo sommergere quella realtà o quell'atteggiamento nel nostro inconscio.
Se vogliamo dimenticare qualche avvenimento della nostra esistenza e nasconderlo deliberatamente nell'inconscio, questo si chiama soppressione.
Se constatiamo in noi un certo atteggiamento una certa reazione emotiva e, ritenendoli spregevoli, li allontaniamo dal nostro sguardo confinandoli nell'inconscio, questo si chiama repressione.
Alla fine, l'inconscio è sovraccarico e noi sperimentiamo un acuto disagio. La causa precisa di questo disagio non sappiamo quale sia, a punto perché il nostro conflitto reale è stato sepolto nell'inconscio.
Ciò che seppelliamo laggiù, non lo seppelliamo morto ma vivo, e vivo rimane, cosicché non cessa d'inquietarci. È inutile andare a cercare come facciamo talvolta una situazione conflittuale nel momento stesso in cui soffriamo per attribuirle la colpa della nostra sofferenza: soltanto giù nell'inconscio stanno le radici del malessere.

Quando scatta la repressione
Facciamo il caso d'un bambino al quale i genitori non diano amore né mostrino di considerarlo importante in sé, come persona. La sua reazione potrà essere di rassegnarsi o di ribellarsi. Questo sul piano esterno. Ma dentro di sé egli avrà in ogni caso una certa dose di risentimento, perché un suo bisogno psicologico non è stato soddisfatto.
Ora, la società con le sue consuetudini non gli permette di esprimere questo risentimento, per quanto sia fondato. Appena apre bocca per manifestarlo, gli adulti gli ricordano che essi sono i suoi genitori e che si meriterebbero il suo affetto. In realtà, egli non può mostrare affetto e la loro insistente richiesta determina in lui un profondo conflitto emotivo.
Quei genitori che ad ogni istante si sgolano ricordando ai figli il quarto comandamento, "Onora il padre e la madre", dovrebbero impegnarsi con altrettanta energia nel diventare degni d'essere onorati.
Dunque il bambino, nel quale l'inevitabile risentimento va crescendo, in genere non può manifestarlo. E per di più i genitori gli hanno inculcato che quel risentimento è qualcosa di molto grave. S'azzardasse a manifestarlo a persone non di famiglia, probabilmente si sentirebbe dire che è un ingrato e che dovrebbe vergognarsi d'avere un simile atteggiamento verso i propri genitori.
Così, tutto è pronto perché scatti la repressione. Non sapendo cosa fare con questo stato d'animo, il bambino lo nasconderà nella cantina del suo mondo interiore.
Come una scheggia di legno che si conficca sotto la pelle e marcisce e fa male, nel bambino che non è amato il risentimento provocherà grandissima sofferenza. Anzi, c'è la possibilità che esso, diventando ancor più forte nell'inconscio, esploda in atti di violenza o di vandalismo e la faccia pagar cara agli adulti che si sono comportati male.
Un altro esempio di repressione, assai comune, è quello del bisogno di affetto e di amore.
Molto spesso, nella nostra società, bisogni del genere non possono essere né riconosciuti né manifestati, perché non coincidono con l'immagine della virilità e dell'indipendenza che la cultura e la vita sociale praticamente c'impongono. Di conseguenza, chi ha represso questi bisogni sarà spinto a cercare il loro soddisfacimento in forme sottili e tortuose, anche ingannando se stesso.

La psicanalisi, tecnica liberatoria
L'alcool, liberando dalle inibizioni, spesso apre la porta alle repressioni che giacciono nell'inconscio.
La persona che sotto l'influsso dell'alcool diventa dialettica e aggressiva dà probabilmente via libera alle sue ostilità represse. E la persona che dopo aver bevuto vuole abbracciare chiunque si trovi insieme ad essa, maschio o femmina, dà probabilmente via libera al suo bisogno represso di essere amata.
Va ricordata a questo proposito la commedia di T. S. Eliot The Cocktail Party. Ivi l'autore descrive un uomo che durante una festa, in stato di ebrezza, s'appoggia a uno psichiatra e lo supplica: "Per favore, mi faccia sentire importante".
A quest'opera liberatoria s'è dedicata la psicanalisi. L'analista scava e porta alla luce i contenuti dell'inconscio, guida il paziente nella comprensione della reale natura dei suoi problemi e cerca di aiutarlo a vivere con essi.
Sebbene adoperi talvolta l'ipnosi e la narcoterapia (uso dei "sieri della verità"), il mezzo al quale più comunemente ricorre la psicanalisi è la tecnica detta delle associazioni libere. L'analista aiuta il paziente ad associare le sue riflessioni attuali con le memorie del suo passato e, gradualmente, a concatenare ciò che sente oggi con le cause remote e profonde di questi sentimenti. Può inoltre cercare d'interpretare i sogni del paziente, la materia dei quali è fornita in larga misura dall'inconscio perché durante il sonno la coscienza rimane inattiva.
Superfluo dire che il procedimento psicanalitico dovrebbero applicarlo solo professionisti competenti. Molto raramente riusciamo a capire le motivazioni del nostro comportamento e le cause sotterranee del nostro malessere psicologico.

Le ambiguità del transfert
Assai di frequente i bisogni che esistono nell'inconscio ci condizionano fortemente.
Il bisogno d'essere amati, quello di sentirci importanti e quello di accettarci come siamo esercitano molto spesso anche senza che ce ne rendiamo conto un profondo influsso sul nostro comportamento e sul nostro modo di relazionarci agli altri.
Avviene allora il cosiddetto transfert. Il transfert è un processo inconscio col quale noi trasferiamo sugli altri i nostri bisogni emotivi.
Per esempio, noi desideriamo sentirci importanti ed ecco che cerchiamo d'imporci su qualcuno, di averlo in nostro dominio. Ci chiedessero perché facciamo così, risponderemmo senza esitare che quel tale ha bisogno d'essere trattato in questo modo, che lo facciamo per il suo bene. In realtà, sfoghiamo su di lui un nostro bisogno inconscio.
Ancora, un giovane sceglie un'attività altamente altruistica, sicuro di voler dare il suo contributo ad un mondo che ha mille carenze. Può darsi sia così, ma può anche darsi che nel suo inconscio egli abbia un bisogno insoddisfatto di sentirsi necessario.
Infine, molti genitori sono eccessivamente protettivi verso i figli, e si giustificano adducendo la preoccupazione di salvaguardarli da tutto ciò che può nuocergli. La verità è che, inconsciamente, essi trasferiscono il proprio bisogno di tenere i figli in uno stato di dipendenza: non vogliono, cioè, che diventino adulti.
È bene che siamo consapevoli di questa nostra possibilità di operare un transfert, che siamo consapevoli dell'eventualità che sotto le apparenze dell'altruismo o dell'amore in effetti andiamo alla ricerca di noi stessi. Non c'è però alcun modo per mettere a nudo tutti i complessi aspetti della motivazione umana e per esplorare i nostri bisogni inconsci.
Tutto ciò che possiamo fare è rinnovare la nostra motivazione e concentrarci sulle persone che cerchiamo di servire e di aiutare. Se riusciamo a far questo in maniera continuativa, acquisteremo pian piano quell'atteggiamento profondo che si chiama amore.

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