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DI TERRE E DI ACQUE

Gli opifici idraulici del territorio di Gruaro


I MULINI DI BOLDARA E DEL NOGAROLO

I mulini di Boldara e del Nogarolo sorgevano nel bel mezzo della palude che un tempo si estendeva tra gli abitati di Boldara e Cintello. I motivi che accomunano i due opifici non si fermano qui, ossia al fatto di trovarsi a poca distanza e di essere mossi dalle acque del Lemene o di sue derivazioni; sappiamo, infatti, che per un lungo periodo furono investiti alla medesima famiglia, i Brazzà. Inoltre anche per quanto riguarda le attività ivi svolte troviamo per le epoche più lontane una coincidenza di utilizzi (macina di grani e segheria di legnami). Ma la particolarità che merita essere sottolineata è che i due mulini, pur quasi attaccati, appartennero da sempre a due diverse giurisdizioni: il Nogarolo, detto anche mulino di Cintello in quanto si ergeva nelle pertinenze di quella villa (fino ai cambiamenti napoleonici di inizio Ottocento, quando fu annesso al comune di Gruaro), rientrava nella giurisdizione dei vescovi di Concordia; l’altro opificio, quello di Boldara (o "Mulin Grande") si trovava invece nel territorio degli abati sestensi. Forse proprio in ciò si potrebbe individuare il motivo per cui i due mulini furono costruiti così vicini ed interpretare la sovrapposizione di utilizzi - che in un primo tempo caratterizzò gli impianti - come una concorrenza tra giurisdicenti da sempre in lotta tra loro. Stando ai documenti finora emersi, parrebbe spettare al Nogarolo la palma della maggiore antichità, potendo vantare una citazione risalente addirittura al 1270; si tratta dell’investitura fatta dal vescovo di Concordia Fulcherio a Varnerio del fu Lupoldo di Gruaro di un ponte super Leminis a parte inferiori mollendini Nugaroli. Nel 1297 il Nogarolo venne investito dal Vescovo Giacomo del fu Ottonello al nipote Bartolomeo di Giovanni del fu Ottonello di Cividale: dall’atto si evince che il mulino era stato destructo et combusto e quindi ricostruito nuovamente.

Le testimonianze del mulino di Boldara appaiono solo a partire dalla prima metà del Quattrocento e con l’investitura dell’impianto da parte dell’Abate di Sesto Tommaso Savioli nel 1440, al nobile Ettore di Cergneu-Brazzà. Dalla lettura del testo, oltre ad aver notizia che il mulino era dotato di tre ruote, una sega ed un maciolo (follo da lana), si apprende che la posta molendini era appartenuta in precedenza agli Sbrojavacca. Successivamente - verso il 1482 - anche questo mulino fu ricostruito. Come dicevamo, a partire dal XVI secolo anche il mulino del Nogarolo (che dopo gli Ottonelli di Cividale era passato nel Quattrocento ai Panciera di Zoppola) pervenne nelle mani dei Brazzà. Il controllo dei due impianti da parte di un’unica famiglia, determinò con ogni probabilità la graduale differenziazione delle attività svolte negli opifici, riservando al mulino di Boldara soprattutto la macina di grani e la follatura di panni e favorendo la trasformazione del Nogarolo in Battiferro e Pila - da orzo prima, da riso poi, testimoniando in ciò anche un’evoluzione economica che il territorio stava subendo. Le due strutture rimasero in piedi fino ai primi del Novecento, dopodiché il vecchio Nogarolo fu trasformato in abitazione, mentre il vicino mulino di Boldara, ricostruito radicalmente secondo dettami più moderni, macinò ancora grani fino agli anni ’60.

A.Cap.Concordia, Pievi e Parrocchie unite alla Mensa Capitolare, b. 28. Disegno del Battiferro di Cintello-Boldara (già mulino del Nogarolo), anno 1762 (Perito T. Romani).

 

 


LA COMUGNA CONTESA

"Marti passato che fu oggi 8 giorni, essendo io nel mio Molino Grande posto nelle pertinenze de Boldara jurisdition di Sesto, vidi Francesco della Barbara, Gasparo Boschatin, Jacomo da Fiume et Zuan Domenego de Colus tutti quattro della villa de Cintello et era con loro ser Vincenzo fiol de ser Angelo de Coy pertegador il qual pertegava oltra il roial che serve al molin del Noglarol et venero pertegando fino al ponte chiamato de Bortholussat et per quello passarno et vennero nela comugna nominata li Boschiti de Borthulussat (...), et cominciorno lì al ponte pertegar et andorno per sopra via il roial verso mezo giorno qual serve al molin del Noglarol sino alla ponta dove le aque se scontrano, cioè quella che serve al molin del Noglarol et questa che serve al Molin Grande de Boldara, et venero per sopra l’aqua che serve al molin grande in su sino al detto Molin Grande sempre pertegando et ivi si fermarno appresso le pianche che passa l’aqua del Molin Grande, che altre volte ivi apresso era li mazoli, et detto pertegador scrisse sopra un foglio de carta (...) et come hebbe scritto si pertitero de lì et tutti insieme lui pertegando et andavvano per sopra l’aqua del molin grande sino al loco chiamato il Partidor et poi entrorno nel boscho grande nè pote’ veder quello facessero...". Così il 15 febbraio 1579 Francesco Boldarino, mugnaio nel mulino di Boldara, riferiva alle autorità quell’episodio consumatosi pochi giorni prima. La vicenda si inseriva in una serie di controversie legali sorte tra gli uomini di Boldara e di Cintello per l’utilizzo promiscuo della "comugna", in gran parte paludosa, che separava le due ville. La situazione era precipitata fin dal 1576 quando alcuni di Cintello, sorpresi a "cargar spini" in detta comugna, di fronte all’intimazione a sospendere quell’azione, un certo Giacomo da Cintello "pigliò un baston qual havea uno della sua compagnia et alzò menandomi alla volta della testa, (...) et me ha fatto negro", come disse poi lo sventurato destinatario delle percosse, Raffaele mugnaio del Nogarolo. Un interessante sguardo d’insieme di quella zona comprendente i mulini di Boldara e del Nogarolo, ci viene da una rara carta conservata all’Archivio di Stato di Udine: il disegno che realizzò intorno al 1579 il pubblico perito Vincenzo da Coi di Portogruaro, su commissione della comunità di Cintello durante la causa contro i boldaresi. Osservando quella rappresentazione, sia pur guastata dal tempo, ci appare un territorio assai variegato: corsi d’acqua che si intrecciavano formando una selva di rogge confluenti nel Lemene, ponti e stradine che solcavano la palude circostante, boschetti di onari che costellavano un po’ ovunque la comugna e ancora alberi più maestosi, come i roveri, così preziosi da essere tutelati dalla Serenissima, ed infine i nostri mulini con le case dei mugnai. Il tutto raffigurato con estrema minuzia - dove perfino la piccola facciata del mulino di Boldara viene riprodotta in tutti i suoi particolari - quasi una fotografia, inaspettatamente restituitaci dagli archivi, di un piccolo angolo della campagna gruarese, che a più di 4 secoli di distanza, nonostante le grandi trasformazioni, ha mantenuto ancora alcuni dei tratti suggestivi del passato.