Tra l'aquila e il leone

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CINTELLO Sul Lemene Villam de Tileo

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STORIA E CULTURA NELLA RICERCA TOPONOMASTICA SU TEGLIO E CINTELLO

di Pier Carlo Begotti

Società Filologica Friulana

 

 

1. I nomi, la terra, la Parola

"Haec tum nomina erunt,/ nunc sunt sine nomine terrae" (Aen. VI 776-777), "questi saranno i nomi,/ ora sono terre prive di nome", o – secondo la traduzione cinquecentesca di Annibal Caro, che tanto affanno ha procurato agli studenti sui banchi dei licei - "ché questi nomi allor quei luoghi avranno / ch’or ne son senza" (1). Così Anchise predice al figlio Enea, disceso agli Inferi, l’avvenire della sua stirpe in terra laziale e, più in generale, italica. Si noti: Virgilio non usa tellus, arvum o ager, ma proprio terra, la terra, il suolo, la superficie incolta. E in effetti ciò che Anchise indica, tutto rivolto al futuro, è in quel momento non solo sprovvisto di nome, di identità, di specificazione, ma è generica designazione di luoghi non ancora trasformati dalle azioni degli esseri umani. "Sine nomine". E poiché, per gli antichi, "nomina sunt consequentia rerum", dobbiamo presupporre che – non essendoci nomen – vada negata la stessa persistenza della res. O, per usare una felice espressione di Baltasar Gracián y Morales (2), "este era su nombre, ya definición", "questo era il suo nome, già una definizione": se manca il nome, la definizione non può che essere uguale a zero. Manca la sostanza.

Se poi ci rivolgiamo ai libri della Sacra Scrittura, Nuovo e Antico Testamento (3), troviamo concetti di notevole consistenza e profondità fin dalla Genesi, dove risalta la stretta e intima attinenza tra l’opera creatrice di Dio e l’imposizione di un appellativo. Il bellissimo inizio del Vangelo di Giovanni riassume potentemente, e in poche frasi, il senso di tutto questo: "In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum", "in principio era la Parola, e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio" (Gv I, 1-2). L’imposizione dei nomi è uno degli atti della creazione, ne è il perfezionamento e la completezza (Gn V, 1-2). Ma è la stessa parola di Dio, il Verbum, a farsi creatrice (Gn I, 3); ciò che è stato creato ha immediatamente un nome (Gn I, 5). È Dio che modifica i nomi (Gn XVII, 5.15), perché devono essere la medesima cosa del loro significato e della persona cui appartengono: il nome è un programma, è il compiersi della volontà divina, dei disegni divini.

"La connessione etimologica dell’Adamo creato da Dio con la terra, in ebraico ‘adamàh" ha assunto "grande rilievo nella rielaborazione rabbinica e talmudica del racconto della creazione, spesso risalendo a motivi antichissimi. Adamo è l’essere che è stato fatto con la terra e che tornerà nuovamente alla terra, al quale un soffio di Dio ha dato la vita e la parola. È l’uomo della terra, che tuttavia […] nello stesso tempo è anche "immagine dell’Altissimo", quando assolve alla sua funzione scegliendo liberamente il bene" (4). Il soffio vitale e creatore di Dio si esprime nella parola.

Gli antichi – dell’età classica e del medioevo – fecero largo ricorso all’etimologia come forma di pensiero, per dare un valore agli accadimenti, per cercare un destino già insito nei nomi, "est omen in nomen" (5). Per usare il linguaggio odierno della semiotica, diremo che il nome (della cosa, della persona, del luogo) è, per gli antichi, un elemento della comunicazione e quindi "comunica" immediatamente ed esplicitamente qual è la volontà di Dio, il suo disegno, il suo progetto e le realizzazioni.

Le facoltà riferite alla divinità, che incontriamo nella Genesi, vengono trasmesse al genere umano, che in quanto immagine e somiglianza di Dio (Gn I, 26-27; V, 1-2; IX, 6), prolunga l’opera della creazione imponendo il nome agli animali (Gn II, 19-20) e alla donna, sua compagna (Gn II, 23). Anzi, il primo atto "creativo" esercitato dall’uomo, subito dopo che Dio lo ha creato a sua immagine e somiglianza, è proprio quello di dare un nome.

In principio, dunque, anche per l’uomo ci fu il Verbum divenuto nomen: ma il nome corrispose subito a una cosa, a un essere, a una vita, perché la cosa, l’essere, la vita esistevano. Dalla terra inanimata Iddio plasmò l’uomo, e l’uomo ebbe un nome: così, dalla terra inanimata l’uomo plasmò un campo coltivato, una strada, un villaggio, e il campo coltivato, la strada, il villaggio ebbero un nome. Solo in quel momento, la creazione – divina prima, umana poi – giunse a compimento e perfezionamento.

2. In principio, nella conoscenza, nelle cose

Commentava Origene, a proposito di ciò che scrivono la Genesi e l’evangelista Giovanni: "Dunque qui non parla di un qualche principio temporale, ma dice che nel principio, cioè nel Salvatore, sono stati fatti il cielo e la terra, e tutte le cose che sono state create" (6). Così, quando si dice che "in principio" della propria opera creativa l’uomo antropizza la terra, coltivandola, trasformandola e contestualmente imponendole un nome, non significa porre quest’azione in una dimensione cronologica, "in quel tempo", ma nell’avviamento, nell’origine, nella partenza, nell’atto stesso di realizzazione ed esecuzione.

È nella realtà della vita quotidiana, con gesti divenuti abituali e inconsci, che noi in genere diamo un nome alle cose, sia che lo creiamo ex novo, sia che – conoscendolo, perché già esistente – lo trasmettiamo agli altri con modalità per noi istintive e naturali, ma che si rivelano di grande intensità e valore: tanto che per percepire una cosa, distinguerla e riconoscerla, non serve vederla, toccarla, averla vicina, basta nominarla. Ciò sta nel "principio": nel cuore, nel nucleo, nell’essenza dell’azione, sia di chi il nome, sia di chi lo pronuncia. È sufficiente nominare Cintello per riconoscere la realtà di un paese, una parrocchia, una chiesa, una comunità, un insieme di persone, famiglie, gruppi sociali.

Ovviamente, per nominare bisogna conoscere: non impone forse il comandamento di "non nominare il nome di Dio invano"? Traduce così la Bibbia interconfessionale: "Non usare il nome del Signore, tuo Dio, per scopi vani, perché io, il Signore, punirò chi abusa del mio nome" (Es XX, 7) (7). Nominare inutilmente, vanamente, sterilmente, equivale a sminuire, ridurre a nulla, banalizzare sia il nome sia la cosa o la persona o il luogo che porta quel nome, disconoscerne in una parola non solo l’importanza, la funzione, l’attribuzione, ma la stessa esistenza. Nominare con consapevolezza (e parsimoniosa nozione) significa sapere di quel che si parla, porre in relazione l’enunciato con il grado di cognizione dell’interlocutore: come negli altri campi del linguaggio, si può davvero comunicare solo in un contesto di omogeneità e affinità, di reciproca comprensione. Sarà inutile, a un croato, a un nigeriano o anche a un italiano di Lombardia o della Campania, parlare di Teglio, se colui che ci ascolta non ha competenza e nozione geografica del territorio compreso nella porzione orientale della provincia di Venezia e già sezione integrante della Patria del Friuli.

Però la conoscenza, come la lingua, come la parola, può essere trasmessa, diffusa, propagata, come accade quotidianamente, sì che diviene patrimonio comune, se non proprio universale. Londra è nome universale, Roma è nome universale, Pechino è nome universale. Chi non intende questi appellativi e non li associa subito a una città, magari solo sentita in un telegiornale o letta in un atlante stradale o vista di scorcio in una cartolina? Miliardi di persone, ogni giorno, pronunciano e divulgano tali nomi. Ma ecco il paradosso e il fatto curioso: quanti si sono chiesti che cosa significa Londra, Roma, Pechino o hanno tentato un’etimologia? O si sono posti domande, del tipo: da quando esistono questi nomi? Quali donne, quali uomini li hanno creati? E contestualmente a che tipo di insediamento, di lavoro della terra, di trasformazione antropica sono sorti? È evidente che, in questa miriade di casi, nominare non significa conoscere: si ritorna nel precetto della Legge mosaica…

3. La storia, la lingua, le parole divenute terra

Nella Bibbia, più volte i nomi di luogo esistenti vengono interpretati secondo il ruolo che è loro assegnato nel disegno creatore e salvifico di Dio. Per esempio Agar, la schiava che ebbe Ismaele in figlio da Abramo, dialoga con il Signore al bordo di un pozzo e, per il fatto che Lui già ne conosceva la vicenda e il destino, prorompe in questa stupita domanda: "Veramente ho visto colui che mi vede?". Dà perciò al Signore questo nome: "Tu sei il Dio che mi vede". E il nome del luogo in cui il prodigio si è avverato, Lacai-Roi’, verrà poi inteso come "Vivente che mi vede" (Gn XVI, 14) (8).

Il procedimento qui adottato viene comunemente chiamato pseudo-etimologia o etimologia popolare dalle scienze glottologiche. Né il fenomeno è riscontrabile nel solo testo biblico, anzi, di tali esperienze è ricchissima la storia toponomastica dell’intera umanità insediata nei vari continenti, fino a giungere a una vera ed effettiva riformulazione dei nomi interpretati secondo il senso e la spiegazione che veniva effettuata, utilizzando gli strumenti conoscitivi a disposizione e le forme linguistiche proprie. Tour-Saint-Vrain, nelle vicinanze di Grenoble (dunque "torre San Vereno", letteralmente "torre nei pressi di un luogo dedicato a san Vereno"), venuta meno la memoria del santo, il cui culto era stato all’origine dell’appellativo, divenne per etimologia popolare Tour-sans-Venin, "torre senza veleno" (9). Crevacore (Biella), Crevalcore (Bologna), Crèvecoeur-en-Ange (Normandia), Crèvecoeur-le-Grand (Oise) e altri simili traggono origine da CREPARE più CORIUS, con allusione alla fenditura della crosta terrestre per dissodamenti, azione delle acque o altro, ma la fantasia collettiva ha invece pensato a "crepacuore" e su ciò ha rimodellato i nomi (10).

È evidente che, dall’epoca in cui si adoperava comunemente CORIUS al momento in cui tale parola risultava obsoleta e per assonanza la si percepiva come variante di COR "cuore", molte cose erano mutate, sul luogo che portava quel nome. Intanto, l’oggetto aveva cambiato forma, ruolo e destinazione: non più una terra desolata e inospitale, ma un insediamento, un villaggio, un insieme di coltivi e di spazi abitati. Inoltre, nell’utilizzo quotidiano, la lingua parlata aveva semplificato il proprio vocabolario, arricchendolo semmai con termini adottati da altri idiomi. Ecco, dunque, che il toponimo diviene doppiamente documento e testimonianza, acquisendo un’importanza che non è più circoscritta allo stretto ambito locale e correlata al solo impiego corrente, poiché infatti il toponimo documenta e testimonia una modificazione storica, geografica, antropologica: il suo significato perpetua una originaria realtà che è affatto diversa rispetto a ciò che ora quella composizione di parole indica. E così è per il paese che si chiama Teglio, ove la primigenia designazione di "tiglio" non si adatta più alla comunità e al centro abitato, del tutto estranei alla specie vegetale richiamata.

Scoprire tutto questo, riportare il nome al suo rapporto diretto e fecondo con la cosa, dilatare la conoscenza fino a riuscire a interpretare quello che la storia aveva apportato e sedimentato, è il compito preciso dei ricercatori e degli studiosi, secondo l’esperienza che ciascuno predispone al conseguimento di risultati positivi. Ma cosa vuol dire, in concreto, tutto questo? Solo tentare di offrire una etimologia per ogni toponimo o non anche altro? Spiegare un appellativo è l’ultima cosa, bisogna per prima cosa individuarlo, cercarne le attestazioni storiche, con tutte le varianti e le modifiche subite nel corso dei secoli, collocarlo esattamente nello spazio, individuarne la natura il più possibile vicina allo stato di primo impatto con gli esseri umani (se prato, se bosco, se rio, se dosso, se altura…).

4. Teglio, Cintello, la storia

Come un proseguimento del lavorio di creazione, toponimo dopo toponimo gli elementi affioravano un po’ alla volta, con pazienza, tenacia, fiuto, e assumevano significati anche non immaginati. La fatica, non breve, non facile e – soprattutto – non fermatasi alla superficiale registrazione di quanto via via reperito, è ora giunta a una prima fissazione sulla carta. Work in progress, dicono gli inglesi, per definire un’opera che è in corso di ulteriore elaborazione e arricchimento: perché prima d’ora gli autori non avevano mai affrontato in prima persona problemi siffatti, di reperimento, classificazione, interpretazione di nomi di luogo. Ma l’impresa, che ora è giunta a questo compimento, è di quelle che rimangono e che meritano di essere conosciute e divulgate: perché porta alla luce, e colloca nel giusto ruolo, una serie di punti di equilibrio tra storia e cultura, evoluzione degli insediamenti ed espressione linguistica della collettività, progresso del dissodamento e persistenza del passato, ambienti della natura e frutti dell’antropizzazione, vie di comunicazione con l’esterno e spazi di confronto interni alla comunità.

Noi questo lo comprendiamo leggendo i repertori e le pagine dedicate alle etimologie, ovvero alle proposte etimologiche, nei casi in cui gli autori non hanno ritenuto di dover prendere una posizione chiara e univoca: e ciò è segno di forza, non di debolezza, di quella umiltà e apertura al dialogo, che contraddistinguono lo studioso serio, preparato e attento alle problematiche, alle discussioni, alle complessità della ricerca, non alle facili scorciatoie e lusinghe di chi ritiene di avere la risposta per ogni cosa o di possedere, in deposito, la verità. Il campo della toponomastica, poi, è particolarmente infido e cosparso di insidie, che solo gli sprovveduti pensano di poter superare con agevolezza: quante fantasiose e orripilanti cose, si leggono in giro, a proposito della "spiegazione" dei nomi di luogo!

Ma il pregio delle pagine che seguono è duplice, poiché le sezioni dedicate agli appellativi locali si accompagnano a capitoli di storia (le strade romane, la chiesa plebanale, il paesaggio rurale) su fenomeni, strutture, istituzioni che hanno segnato le vicende delle comunità di Teglio, Cintello e aree vicine e che, inoltre, hanno caratterizzato con forza la creatività popolare nella formazione degli stessi toponimi, suggerendone o imponendone la nascita, l’accantonamento o la trasformazione, la sovrapposizione, il ripristino.

C’è materia sufficiente per far apprezzare il volume sia ai lettori che hanno a cuore la conoscenza del passato e del presente di questi paesi, sia agli specialisti che possono attingere qui notizie e proposte feconde per le loro ricerche. Penso in primo luogo ai cultori delle discipline glottologiche, in quanto i toponimi tegliesi offrono testimonianze medievali di tutto rispetto, con un importantissimo corredo di taluni fenomeni (palatizzazioni, plurali sigmatici, conservazioni di nessi consonantici, dittongazioni e così via), che interessano una regione molto più vasta. E, a partire dai secoli dell’età moderna, si nota che, su una base linguistica genuinamente e spiccatamente friulana, si infiltrano con costanza e progressiva intensità modelli ed elementi veneti, o meglio, di quell’impasto tosco-veneto che caratterizzò le cancellerie veneziane e che accompagnò la penetrazione della Dominante nella terraferma (11), tanto che non si può dire quanto di "venetizzato" e quanto di "italianizzato" ci sia in forme come Campo per il precedente Chiamp, oppure Boschetto in luogo di Boschit.

La lettura dei saggi di Vincenzo Gobbo, Eugenio Marin, Luca Vendrame non è da meno, in termini di valore e significato per la storia di territori a raggio più vasto di quelli qui direttamente interessati. La strada che saliva a Settentrione, accompagnando il placido corso del Lemene, è stata per esempio oggetto di studio riguardo allo sviluppo medievale della Pieve di Rosa, nel comune udinese di Camino al Tagliamento, e prima ancora rispetto al castello di Cordovado, trovando ancora motivo di attenzione in una ricostruzione della viabilità del Sanvitese (12). Le vicende della chiesa di San Giorgio si inseriscono nella questione della penetrazione del cristianesimo nell’agro di Concordia, non certo risolta, e nella successiva riaggregazione ecclesiastica tra medioevo ed età moderna, tenendo beninteso presenti tutti i quesiti relativi alla storia dell’arte architettonica e pittorica nell’area. Il paesaggio rurale e in genere la vita delle campagne nei secoli cruciali dell’ultimo periodo veneziano e del passaggio all’epoca napoleonica e austriaca, richiedono sempre più studi analitici e particolareggiati, che conoscano le linee e i movimenti delle società regionali di allora, come qui si è fatto. Ma un fenomeno, fra tutti quelli affrontati, troverà senz’altro nuovi studi: la pastorizia transumante dai comuni "cimbri" del Vicentino, che interessò l’intera area tra Livenza e Tagliamento, unitamente alle migrazioni stagionali dal Feltrino, dalle pendici del Cansiglio, dalla Valsugana (13): si pensi che in molti paesi del Friuli Occidentale il pastore è chiamato tasìn o tesìn, da Pieve Tesino, luogo di provenienza della maggioranza degli accompagnatori delle greggi!

5. Nomi antichi, nomi nuovi, consequentia nominum

Tesino appartiene alla serie dei nomi che gli studiosi (basti citare il nome di Giovan Battista Pellegrini o di Carla Marcato) giudicano di significato "oscuro" e su cui non si pronunciano in modo definitivo (14). È un grande segno di serietà e di affanno nella ricerca, cui sono giunti dopo innumerevoli tentativi di analisi delle forme antiche e di interpretazione. Ciò non deve scoraggiare, anzi, è uno stimolo a continuare gli approcci con quest’argomento, di sicuro non semplice e leggero, ma come non mai affascinante e fecondo. Un capitolo non secondario riguarda i nomi che continuano a essere prodotti, sia per germinazione spontanea, sia per decisione degli organismi amministrativi competenti a deliberare in materia. È ciò che qualcuno chiama "neo-toponomastica" e che non tutti gli esperti prendono in considerazione. In realtà, la materia presenta temi e problemi che non sempre consentono un approccio che chiameremmo "tradizionale", con gli strumenti della linguistica, della dialettologia, della storia dell’insediamento e così via, ma che comunque interessa la storia della mentalità, degli atteggiamenti politici e "ideologici" delle comunità e dei gruppi sociali e culturali che sono preposti di volta in volta al loro governo. Si registra in effetti un oggettivo impoverimento del patrimonio toponomastico locale, in corrispondenza della perdita di appellativi conservatisi quasi esclusivamente per trasmissione orale e della loro sostituzione con altri, che procede in modo parallelo allo smarrimento degli originari caratteri rurali e all’affermazione di nuove realtà urbane, dello stare assieme, dell’abitare, del lavorare, del pensare. D’altro canto, l’imposizione di nuovi nomi (Garibaldi, Roma, Aquileia)¸ attesta sì un riferimento esterno alla comunità e del tutto estraneo a un rapporto diretto con il territorio e il paesaggio, ma costituisce la testimonianza dell’inserimento di quella comunità in una dimensione regionale, nazionale o universale.

Accade cioè, nell’uso dei toponimi, siano essi antichi o recenti, storici o "ideologici", un percorso affatto contrario a quello evidenziato all’inizio: sono in certo qual modo i nomi a creare la cosa, "res sunt consequentia nominum" (15). Se osserviamo le tabelle stradali che recano impressi i nomi delle vie, vediamo sia Pars che Plebiscito, il vecchio e il nuovo. La loro lettura, la loro introspezione, implicita o esplicita, concorrono a formare nella comunità il senso di appartenenza, sia a una comunità più vasta, sia alla propria dimensione locale, con il recupero della tradizione. La consapevolezza che si acquisisce solo osservando la toponomastica agisce sul valore di identità, di riflessione sull’esistenza che è sempre individuale e di gruppo, e in definitiva è uno stimolo – se incoraggiata – a ragionare sulle origini, sulla storia, sulla cultura, sul futuro di noi stessi, di chi vive con noi, di coloro ai quali abbiamo donato la vita o abbiamo contribuito a farla crescere.

 


NOTE AL TESTO

 

1 Citiamo dalle seguenti edizioni: Publio Virgilio Marone, Eneide. Trad. Luca Canali. Introd. Ettore Paratore, Milano, Mondadori, 1994, pp. 236-237; e trad. Annibal Caro. Introd. Giammaria Gasparini, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1968, p. 284.

2 Baltasar Gracián y Morales, El Criticón, ed. Romera-Navarro, I 366. Devo quest’informazione alla lettura di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino. A cura di Roberto Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 559.

3 Riprendo qui alcune idee che avevo già espresso in I nomi e il sacro, in Religiosità popolare nel Friuli Occidentale. Materiali per un museo. A cura di Paolo Goi, Pordenone, Provincia di Pordenone - Biblioteca dell'Immagine, 1992, pp. 11-38

4 Gershom Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino, Einaudi, 1980, p. 203.

5 Cfr. il capitolo dedicato all’etimologia da Robert Curtius, Letteratura europea, pp. 553-559.

6 Origene, Omelie sulla genesi. A cura di Maria Ignazia Danieli, Roma, Città Nuova, 1978, p. 35.

7 La Bibbia. Traduzione interconfessionale in lingua corrente, Torino-Roma, LDC-Alleanza Biblica Universale, 1986, p. 103.

8 Un breve, ma utile commento si legge in Elizabeth Green, Dal silenzio alla parola. Storie di donne nella Bibbia, Torino, Claudiana, 1992, pp. 7-12; cfr. anche La Bibbia delle donne. Un commentario. A cura di Carol A. Newson e Sharon H. Ringe, 1: Da genesi a Neemia, Torino, Claudiana, 1996, pp. 36 sgg.

9 Esempio citato da Rosalinda Bertolotti, Saggio sulla etimologia popolare in latino e nelle lingue romanze, Brescia, Paideia, 1958, p. 102.

10 Cfr. Pier Carlo Begotti, Lo studio dei nomi di luogo, in Alessandro Fadelli, I nomi delle vie di Polcenigo, Polcenigo, Comune di Polcenigo, 1995, pp. 5-6.

11 Su questi temi, in generale, ci si può riferire ancora alla sintesi del vecchio Giacomo Devoto, Il linguaggio d’Italia. Storia e strutture linguistiche italiane dalla preistoria ai nostri giorni, Milano, Rizzoli, 1976, pp. 261 sgg. e in modo più specifico, a Giuseppe Francescato-Fulvio Salimbeni, Storia, lingua e società in Friuli, Udine, Casamassima, 19772, pp. 133 sgg. e ai numerosi lavori di Giovan Battista Pellegrini, tra cui Dal venetico al veneto. Studi linguistici preromani e romanzi, Padova, Editoriale Programma, 1991; per l’area tra Livenza e Tagliamento oggi in provincia di Venezia, non vanno dimenticati gli atti del convegno L’area portogruarese tra veneto e friulano. A cura di Roberto Sandron, Portogruaro, Comune di Portogruaro. Biblioteca Civica – Università di Padova. Istituto di Glottologia e Fonetica, 1984.

12 Cfr., nell’ordine, Pier Carlo Begotti, Questioni e problemi del medioevo caminese, in Camino al Tagliamento. Storia e memoria. A cura di Giancarlo Ricci, Codroipo, Benvenuto, 1995, pp. 51-65; Id., Castello di Cordovado, Cassacco, Consorzio per la Salvaguardia dei Castelli Storici del Friuli-Venezia Giulia, 1988; Pier Giorgio Sclippa, Terra di lavoro: Ligugnana, Pradis, Cason, Braida, Bottari, Cragnutto, Pordenone, GEAP, 1987; La Rosa erosa. Studi su una comunità tra le acque. A cura di Pier Giorgio Sclippa, San Vito al Tagliamento, Ellerani, 1997.

13 Studi in corso da parte dello scrivente; cenni in Sante Fregolent, Uomini e territorio nella Bassa Pordenonese (XVII e XVIII secolo). Tesi di laurea, relatrice Rosalba Davico, Università degli Studi di Torino, a.a. 1985-86, pp. 91 sgg.

14 Cfr. Carla Marcato, Tesino, in Giuliano Gasca Queirazza, Carla Marcato, Giovan Battista Pellegrini, Giulia Petracco Sicardi, Alda Rossebastiano, Dizionario di toponomastica. Studio e significato dei nomi geografici italiani, Torino, UTET, 1990, p. 652.

15 Per questi temi "teorici", rinvio a Pier Carlo Begotti, I nomi locali del territorio di Prata, Prata, Centro Iniziative Culturali – Comune di Prata, 1990, pp. 13 sgg.