"U Pecuraru"

La storia delle classi subalterne, pur costellata di miseria, di privazioni, di emarginazione, d’incultura, rimane, nella memoria, "come un paradiso perduto". Questo ricordo, legato alla fanciullezza, ha una sua motivazione psicologica, "in esso è rispecchiato il rammarico e più spesso la melanconica consapevolezza che un mondo spensierato e magico, il primo è più importante dell’esistenza è scomparso e per sempre. Irrimediabilmente". (Saverio Strati)
A lume di ragione, aldilà dei sogni propri di una precisa età della vita, appare, in tutta la sua tragicità, un’umanità sofferente, soggetta allo sfruttamento, i cui patimenti e soprusi subiti non possono essere trasfigurati nemmeno dal dolce ricordo legato al focolare domestico che tanto calore umano sapeva effondere. A questo multiforme mondo "dei vinti" appartiene "U pecuraru" che, nell’ambito della stessa cultura contadina, veniva relegato all’ultimo posto nella scala della considerazione sociale.
"Pecurareddru malandrinu chi te mangi le ricotte, vai a ra Chiesa e nun te ‘nginocchi, nun te cacci lu berrettinu, pecurareddru malandrinu..."
Così recita un’antica canzone popolare che con una sola parola "malandrinu", esprime il sentire comune, il disprezzo per la infelice condizione del pastore costretto, dall’alba al tramonto, nella solitudine degli altipiani, in compagnia dei soli cani ad accudire le pecore. Nelle ore più calde, quando il gregge mereggiava all’ombra, dopo aver consumato un pasto frugale, di solito pane e "casu", per vincere la cupa malinconia estraeva lo zufolo o l’organetto per suonare sempre la stessa nenia che, nella monotonia delle note, ben si addiceva alla tristezza del suo animo in pena per la lontananza dai familiari. Ma, "U sabatu se chiama allegra core, viatu chine a beddra la mugliera, chine l’ha brutta, se scuradi u core, è mmegliu ca lu sabatu nun vena".
A turno, a fine settimana, i pastori "scendevano in paese" per fornirsi di vettovaglie e per rilassarsi nell’intimità della famiglia. Una bella moglie concorreva a rendere meno triste l’attesa e più emozionante l’incontro, anche se: "Si u pecuraru sapissi i ‘mbrogli da mugliera, l’attaccassi ppe nu pede, e la tenissi a ru pagliaru. Oh cchi bruttu destinu amaru! Puh comu fetadi u pecuraru!".
Come si può ben capire la vita del pastore imponeva duri sacrifici e molte rinunzie. Già l’abbigliamento denotava la condizione di povero: un pantalone alla zuava, rattoppato alla meglio, (anche se indossato da poco tra rovi e spine presto si sgualciva), una maglia di lana, una vecchia giacca, ai piedi e "purcine" (zampitte), da cui fuori uscivano i talloni che, durante l’inverno, per il freddo diventavano paonazzi; un vecchio cappello completava il vestiario.
Diversa la foggia delle persone abbienti: "scarpe, ghette, calza bianca con sopra il calzettone nero, calzoni di felpa, camicia bianca, gilè blu".
Eppure la vita del pastore veniva positivamente considerata da chi, agli inizi del secolo, era costretto ad emigrare in terra straniera. Il poeta grimaldese Vincenzo Anselmo, dalla lontana America "disperatu e sulu", con senso di invidia, inneggia alla vita di Svampatu (soprannome di un pastore) e nella trasfigurazione poetica, ci presenta uno squarcio idilliaco di vita pastorale: Sta mmegliu Svampatu a sta marina ca iu a sta gran cittate americana. Matina e sira le pecure pascia, de sonnu si n’abbutta ccuri cani, e ogne tantu mina nna petrata e vota a Chiricheddra ch’è ‘ncarnata".
Ma la idealizzazione di una vita serena non aveva riscontri reali: di giorno sempre in giro "e vanno pel tratturo antico al piano" (G. D’Annunzio - "I Pastori") e di notte, all’addiaccio, sotto un pagliaio, con intorno le pecore.

U Pecuraru
U pecuraru quannu va a ra missa,
s’assette ‘nterra e mussu e pedi accucchia.
Vida l’acqua santara e chid’è chissa?
Me sembra l’acquicedda de na pucchia.
Quannu senta sunare la campana, grida:
Cumpagnu miu, damme ssa mazza, duna nu
fischiu e ba, chiama li cani, cridennu
ca lu lupu è all’ascurrazza.
Quannu vida l’ostia santa azare grida:
Cchid’è ssu muzzicu e ricotta?
Veni a ra mandra mia ca tinne dugnu,
quantu ne voi, chi ce fai na botta.

Riferitami da Iachetta Francesca
di anni 90, deceduta a Grimaldi il 1999.

Da "La Voce del Savuto" -Ottobre 2000 - di Antonio Guerriero