GIORNI DI NATALE
Riti e tradizioni di una festa religiosa e popolare

Antonio Guerriero - Fiore Sansalone
Egidio Sottile - Lucia Tosti

Atlantide Edizioni

Prefazione
Leggendo le pagine di questi saggi brevi, sono tornato indietro nel tempo, sono ritornato ai giorni della mia infanzia, quando il Natale, nei nostri paesi non influenzati ancora dal ritmo del consumismo, si proponeva non solo nella pienezza della sua valenza religiosa, ma anche nella misura di un’occasione, la più bella, di incontro fra tradizione e storia, fra usanze radicate e significative e gioia di riproporle e riviverle nel loro fascino ancora intatto. Così, in questo clima speciale, tutto il mese di dicembre, nell’attesa che lo contrassegnava, si dipingeva d’un colore particolare e d’una gioia spontanea ed immediata, che, forse, restituiva, ancora una volta, anche agli adulti, la capacità di rappresentare, a se stessi, il mondo e la vita, con quel tocco di sogno tipico dei bambini.
Ogni giorno sembrava avere un rituale, entro cui si esprimeva il ritmo del tempo dell’attesa, un ritmo che, nel disporre ciascuno a svolgere ben precisi compiti, rendeva più breve il cammino ed avvicinava alla meta. I biglietti di auguri da spedire, il muschio da raccogliere per il presepe, l’abete da acquistare o da procurare, le uova da conservare (queste già dall’inizio di novembre) per i fritti, e così via. E poi le tre novene, Immacolata, Santa Lucia e Natale, che, nelle chiese piene, scandivano il tempo e segnavano le ore ed i giorni, in un calore umano e bello, fatto di piccole cose e di semplici segni. L’attesa era già tutta una festa, da godere lentamente, in tutte le sue sfumature, in tutta la sua portata, in un insieme di odori e di sapori, che annunciavano l’approssimarsi del Natale. Mi sembra di sentire, ma è piuttosto una risonanza del cuore, il profumo delle bucce d’arancia bruciate nei bracieri accesi sull’uscio di casa; ancora mi tornano in mente le note di quei canti religiosi, provati e riprovati nella penombra della sagrestia; mi sembra di rivedere, nei vicoli e nelle strade, l’affaccendarsi tipico dei giorni immediatamente precedenti il Natale. Ecco, tutto questo evoca la lettura di queste pagine, tutto questo ed altro.
Il Natale, in fondo, non era una delle tante occasioni, non era una festa come tante, era la Festa, una ricorrenza che coinvolgeva, forse in modo diverso, tutta la famiglia. Non era una festa, che si presentava e si viveva al momento. Era una festa alla quale ci si preparava per tempo; e non esagero, se dico che la si attendeva per un anno.
Che bello, quando in casa, in un angolino, si preparava il presepe! Le mani diventavano, all’improvviso, esperte e segnavano un paesaggio, che, dando anche un tono di serenità all’ambiente, sprigionava gioia per tutto il periodo delle feste. Per tante famiglie, allora, era il momento dell’incontro con i propri cari, con gli uomini, magari emigrati all’estero o al nord, che rientravano per il Natale. Era veramente un clima speciale! Un commosso silenzio accompagnava il momento in cui, alla sera del 24 dicembre, ci si accostava alla tavola; ci si scambiava gli auguri con le lagrime agli occhi, si ascoltavano i genitori, i fratelli maggiori, si parlava con tono sereno. Un senso di sacralità accompagnava la cena, quel senso di sacro che appartiene alla famiglia. Dopo la cena si giocava a tombola fino al suono della campana, che chiamava tutti alla Santa Messa di mezzanotte.
Ciascuno avrebbe voluto fermare il tempo, che, purtroppo, però, correva, come avviene sempre per i momenti belli e di gioia. E, poi, cosa molto bella, in quei giorni si passava per le case degli amici; una sera dall’uno, una sera dall’altro, una sera a casa propria, insieme con tutti gli altri. Era un dolce stare insieme, fino a tardi, a parlare di cose belle, a narrare fiabe sul Natale ai più piccini, a consumare, accanto al caminetto o attorno al braciere, un po’ di noci e di castagne, accompagnate da un buon bicchier di vino. Si viveva ancora la filosofia del dialogo e dell’incontro e l’attesa di quelle serate, da vivere intensamente insieme, diventava un’attesa nell’attesa. Sul tardi, poi, quando fuori imperava il silenzio, in lontananza o vicino, spezzava l’incanto della notte una voce era la voce di chi, accompagnato da altri amici, intonava la strenna augurale, sull’uscio di casa d’un amico comune. Era un’altra occasione per incontrarsi: allora, lo stare insieme era il modo migliore di vivere il tempo. La gente non era ancora succube della tecnologia e del ritmo frenetico di oggi; la vita si svolgeva su un’altra dimensione e ciascuno la viveva e la voleva vivere fino in fondo. Nello stare insieme, in verità, si esprimeva la saggezza di chi, col sorriso sulle labbra e tanto affetto sincero nel cuore, sapeva affrontare la vita con la giusta filosofia. Altri riti importanti si ripetevano la sera del 31 dicembre ed altri ancora la sera del 5 gennaio. Si, perché allora le vigilie erano tre: 24 dicembre, 31 dicembre e 5 gennaio. E la notte tra il 5 ed il 6 gennaio non era solo e semplicemente la notte della befana, la notte dell’Epifania, ma era anche la notte in cui ciascuno spiava la vita. Ogni persona, infatti, così si usava, secondo tradizione, in alcuni paesi della nostra provincia, cercava, nella luce della stanza, la propria ombra, la cui presenza era segno che, nel corso dell’anno, non sarebbe morta. Era un segno che sembrava avere qualcosa di magico, era, forse, un gesto propiziatorio; ma, se guardato nella giusta valenza, non era poi così, era solo un gioco, un gioco che serviva ad accreditare ulteriormente il senso di quella notte e che sollecitava a proiettare nel tempo la serenità del momento.
Alcune famiglie, in quei giorni, procedevano anche alla macellazione del maiale, per lo più fra Capodanno e l’Epifania. Era un altro rito interessante e bello, un’altra festa, che allietava, ulteriormente, la festa.
A chi non mancano quei giorni magici, quei giorni che avevano la misura vera della vita e, nella dimensione del sogno, davano un senso ad ogni cosa? Quei giorni, legando ciascuno alle proprie radici, lo mettevano in rapporto vero con se stesso, con gli altri e con la propria comunità. Erano i tempi dell’uomo, quelli, dell’uomo e della civiltà dell’uomo. Non erano, allora, così frequenti nevrosi e crisi d’identità; e, forse, ciò dipendeva pure da questo modo pieno di interpretare e vivere la giornata quotidiana. E sì, erano tempi belli, che, nel Natale, trovavano la loro espressione più completa.
Tutto questo ed altro richiamano alla mente queste pagine ed è bello calarvisi. È bello perché, attraverso la lettura, ritorna in vita, in ciascuno, una pagina della propria vita, una pagina che sembrava essere stata rimossa. È bello perché tutto ciò ricollega ciascuno alle tradizioni d’un tempo e, nel ricordarle a chi le ha vissute, le suggerisce, quasi in un mondo di favola, a quanti non hanno fatto in tempo ad incontrarle.
Ecco, tutto questo ho riprovato, scorrendo queste pagine. Le ho lette con piacere e ne sono stato gratificato, perché, grazie ad esse, ho ritrovato una parte di me stesso.
Eugenio Maria Gallo


‘E zampugne

Alli tempi de Nataue,
quann’a tramuntana ‘ngrugna,
cumu sempre, tau’e quaue
si nne scinna lla zampugna.
Sinne vena citu, citu,
ppe riccuni e poarelli
ccu llu sonu sapuritu.
Se ricriu lli quatrarelli
chi s’arrollanu cuntenti,
cantu, ridu, zumpettiu
arricchjiannu i uamenti
d’a zampugna…! Cchi ricriu
chi ne porta e c’allegrizza
a Nataue tutti l’anni…
quannu forte ‘u friddu ‘ngrizza
e se scordano u’affanni!
Illa ‘ntona ppe le vie
chille not’armuniuse


senza ‘nganni né ciutie,
senza sgarri, senza scuse
e te dìcia ch’è arrivata
de le feste a cchiù bella
chilla ch’edi de u’annata
cchiù lucente de na stella!E sunannu… s’alluntana
lla zampugna ‘a nu mumentu…
e se perdu… chianu, chianu…,
chille note, ‘ntra lu ventu…
chi s’e ‘mpesa, po lle ‘mutta
po lle voa ppe llu munnu…
e lle spuna ‘ntra na grutta
duve dorma tunnu, tunnu
u Signure Bumminellu
c’a Madonna tena ‘nsinu,
ccu lu voe, llu ciucciariellu
e Giuseppe lla vicinu…!
Sandro Sottile

Antico Natale

A Roma, il 25 dicembre del 274 d. C., qualche giorno dopo il solstizio invernale, quando il "nuovo sole" sale percettibilmente all’orizzonte e ricomincia il suo lungo ciclo annuale, l’imperatore Aureliano stabilisce la festa del "Natale del sole Invitto" (sol Invictus, divinità solare di Emesa) che si festeggia in modo solenne per diversi giorni con cerimonie, giochi e banchetti. La chiesa romana, preoccupata per la partecipazione attiva dei molti cristiani a quelle feste e per la straordinaria diffusione dei culti solari, nel IV° secolo, durante il papato di Giulio I°, pensò di celebrare nello stesso giorno il Natale del Cristo (Dies Natalis Domini), festa della luce che illumina la Natività. Da allora, da più di duemila anni, la chiesa, il 25 dicembre, celebra la nascita di nostro Signore Gesù Cristo, l’avvenimento più alto e più sentito del mondo cristiano.
Il Natale rivela usi e credenze popolari che, pur permeate di spirito cristiano, conservano, talvolta, tracce evidenti delle remote origini pagane. Esse trovano la loro espressione più genuina nell’animo popolare e contadino, perché è proprio la società rurale che custodisce meglio e gelosamente le tradizioni. Il Natale, dunque, è quella festa che più di ogni altra tocca il nobile sentimento popolare. Fin dagli ultimi giorni di novembre si entra nel magico clima con un susseguirsi di riti, credenze e tradizioni.
Sant’Andria portau la nova
ca allu sei è de Nicola
allu ottu è de Maria
allu tridici è de Lucia
allu vinticinque lu veru Messia.
Anche a Rogliano si avverte la magica atmosfera natalizia in occasione dell’accensione della focara da ‘Mmacuata (29 novembre), un enorme falò, che interessava diversi rioni del paese; frotte di giovani e ragazzi facevano a gara nel raccogliere la legna che serviva ad alimentare il grande falò; era questo il preludio alla focara da notte santa.
Con l’inizio di dicembre si entra in un’atmosfera magica e di attesa. Sui monti imbiancati dalla prima neve, sulle colline avvolte da una fitta nebbiolina, nei villaggi e nelle borgate, si respira un clima particolare, una calma lieta e gioiosa, una sottile inquietudine che accompagna l’animo semplice dei popolani fino al giorno del lieto evento.
Nelle lunghe serate del mese la famiglia, raccolta attorno al focolare, scoppiettante di fiamme guizzanti, ricorda i natali passati e tutti, dai più piccoli ai più grandi, non parlano che della Notte Santa, che, come ogni anno, si presenta con lo stesso fascino e la stessa magia. "Non c’è contadino, non donnetta del popolo calabrese che non senta, come il freddo delle rigide notti, la contentezza nell’anima per l’avvicinarsi del Natale. I villani stessi, dopo una giornata di freddo, di sudori, di sospiri, di dure sofferenze, di patimenti angosciosi, a sera, quando ritornano a casa, pur sapendo che li attende la miseria più squallida, dicono che non sanno sottrarsi a un prepotente senso di allegrezza". Su li tempi chi l’apporta! Esclama un anziano signore di Malito. Si, è proprio così, sono i tempi che rendono suggestivo e ricco di fascino il periodo pre-natalizio. Per un po’ si mettono da parte i penseri e si guarda con speranza ed ottimismo alla Festa. Ed ancora l’anziano signore: "‘U Segnure aiuta a tutti, dopu Natale Diu pruvvida!".
Accanto al focolare, nella sua casa di Rogliano, Maria Grande, donna di forte temperamento, dall’alto della sua esperienza, rammenta il Natale di un tempo con toni di struggente nostalgia: " ‘U Natale ‘e ‘na vota" era diverso, c’era molta fame e sofferenza ma c’era più amicizia e tutti si volevano bene. Bastava un nonnulla per essere contenti. ‘Un se canuscia la ‘mmidia, c’era molta stima e rispetto. Sti tempi oramai su passati, ma non li cambierei certamente con quelli di oggi".
Ccu la prima‘e dicembre si entra nel mese del Natale; il freddo è pungente, le fitte pioggerelline miste a nevischio si fanno più insistenti e nei boschi oramai spogli cala il lungo sonno invernale; la vecchia lignara, di ritorno dalla campagna, stanca ed infreddolita, con gli occhi rivolti al cielo, ringrazia il Signore per la giornata che or volge al termine. Con l’inizio della novena da ‘Mmacuata, si entra nel vero clima natalizio e si dà inizio alla fase di preparazione alla Festa. I tempi erano quelli che erano, se cummattia ppe ‘nu pezzu ‘e pane, la famiglia raccolta davanti al focolare si trovava a fare i conti con la dura realtà e con le tristi condizioni economiche. Ma il Natale come si sa è la festa granne e, per un padre di famiglia, sarebbe un grosso dispiacere far mancare ai propri figli i vestiti, le scarpe e le "cose fritte"; così, con ulteriori sacrifici, ogni genitore impegna presso i ricchi il suo lavoro, subendo spesso mortificazioni di ogni genere; ma ciò non ha importanza, quello che conta è vedere, almeno una volta l’anno, i propri figli contenti e "falli cumparire alla Missa de menzannotte". Recita un proverbio: "A Pasqua e a Natale sparmanu i villani" (a Pasqua e a Natale i contadini vestono a festa).
La vigilia dell’Immacolata, in molti paesi del Savuto, c’è l’usanza, come a Natale, di preparare il cenone. Rituale importante della sera della vigilia l’accensione della jacchera, nove stizze, quanti erano i giorni della novena; in altri luoghi l’usanza imponeva di accendere tanti stizzi, quanti erano i componenti della famiglia. Gli stizzi accesi venivano collocati sui finestrali o davanti le porte di casa.
Dopo la festa dell’Immacolata i giorni passano lieti e festosi e l’attesa si fa sempre più prorompente. In tutte le case è un continuo affaccendarsi di preparativi. ‘E ziane predispongono l’occorrente per i tradizionali dolci e il pane natalizio. Gli uomini stillano le botti e assaggiano il nuovo vino. I giovani scendono nelle valli a raccogliere‘e paniche (muschio), che porteranno in chiesa per allestire il presepe. La giovane madre, vicino al focolare, canta la ninna nanna all’ultimo nato, sussurrando versi di gioia e di felice avvenire perché questo primo Natale sia da preludio ad una vita serena e gioiosa:
‘A ninna ninna e la ninna ninnella
Amurusellu si de mammarella;
Dorma ninnillu miu dorma e riposa
Cumu alla munnu riposa ogne cosa;
Dorma ninnillu miu dorma ca è l’ura
Li guali toi riposanu a st’ura.
Dorma ninnillu miu dorma alla naca
Duve s’addormentau la ‘Mmaculata;
Dorma ninnillu miu dorma allu sinu
duve s’addurmentau ‘u nostru Bumminu,
E ninna nanna e ninna ninna nonna
A vera mamma tua è la Madonna
E tu Madonna mia chi mi la datu
Fammillu stare bonu e mai malatu.
‘U bene de la mamma è tutto core
Ca chillu de la gente su parole.
Veni sonnu prestu nun dimmurare
Ca l’ura è tarda e la mamma tena chi fare.
Intanto, in ogni famiglia, si dà inizio alla raccolta delle olive per avere un po’ di olio buono durante ‘i jurni festivi e si macina anche il grano ppe fare ‘u pane ‘e Natale. "Il pane di rito, detto nataliziu, o massaru (Lago), si pone nella mensa quotidiana come ricordo di dono celeste, dal dì di Natale a quello dell’Epifania; nel quale ultimo il genitore lo benedice, lo spezza e lo distribuisce alla famigliuola per consumarlo. E’ fatto a semplice forma di corona, o torno torno a spicchi, con croce della pasta istesa, rilevatane sulla crosta; la quale certamente vi sostituisce le figure di uomini e di animali, usate dagli antichi nelle placentae sigillatae dei sacrifici".
Il tempo passa felice e le giornate timidamente iniziano ad allungarsi: de Santa Lucia a Natale ‘nu passu de cane; de Natale ‘mpoi ‘nu passu de voi.
Tanto attesa dai popolani, inizia la novena du Santu Bumminu: alle prime luci dell’alba, le campane chiamano a raccolta uomini e donne, vecchi e bambini che, insonnoliti, partecipano numerosi alla Messa mattutina. La chiesa, fredda e poco illuminata, in pochi minuti si anima: arrivano i più anziani con le lumere accese, i pastori, le massaie, i giovani, i contadini (anche loro prima di andare nei campi ascoltano la Messa).
Terminata la funzione religiosa, inizia, ccu la grazia du Segnare, una nuova e lunga giornata lavorativa.
Sono giornate liete, momenti di gioia e sana armonia familiare. Natale è la festa del focolare, dell’unione della famiglia, la festa della rinascita e della speranza. Davanti al focolare, ‘u zianu racconta, ai più piccoli, leggende e antiche rumanze legate al periodo natalizio; si parla anche del più e del meno: dell’annata agricola passata e di quella futura, del bilancio familiare, di meteorologia; si fanno numinagli, si gioca, si ride, si scherza, si prega; si va avanti per ore e, di tanto in tanto, il crepitio del fuoco distoglie la mente da quei misteriosi ed affascinanti racconti. Intanto ‘u capufamiglia ‘ntizza lu focu e riordina alcuni cereali; la massaia lavora alli ferri e rattoppa qualche sacco bucato; la vecchia nanna, con in mano fuso e conocchia, dispensa parole amorose per tutti e con un pizzico di tristezza racconta i bei tempi della sua giovinezza; i più giovani si danno da fare, raccogliendo della legna ppe la focara del Santo Natale; in un angolo del focolare, ‘u nannu, intento a fare ‘u solitariu, medita tra sé e sé: "Chissà se il prossimo Natale sarò ancora tra i vivi!" ed una lacrima gli solca il viso stanco e rugoso, facendo calare un lieve velo di malinconia. Ma alla malinconia subentrano subito momenti di gioia per l’imminente festività, infatti non si pensa che al Natale e in ogni paesello, in ogni borgata, in ogni casolare, tutto è in movimento ed un’intera comunità si prepara al magico evento.
La sera del 23 dicembre, si perpetua la vecchia tradizione dei fritti natalizi ammielati (turdilli, scalille, chinuille, crustuli). Tutta la famiglia, raccolta davanti al focolare, partecipa al magico rituale. Il capofamiglia tiene la padella sul fuoco e, facendosi il segno della croce, dà inizio a frijere. La tradizione impone al capofamiglia di buttare nell’olio il primo pezzettino (a forma di croce) della pasta preparata e di assaggiare il primo fritto. In alcune zone della Calabria, il primo fritto viene appeso ad un angolo del focolare e tenuto per tutto l’anno fino al Natale seguente, con l’augurio che anche allora si potrà friggere con la stessa allegria. Di "fritti natalizi" se ne preparano in abbondanza per adempiere agli obblighi di buon vicinato ed anche per dispensarli, a parenti ed amici colpiti da lutti recenti.
Tra un assaggio e l’altro, accompagnato da un buon boccale di vino, si parlava dell’imminente vigilia; si raccontavano fiabe e rumanze. Passava così la serata che ormai volgeva a termine. Dulcis in fundo, arriva la tanto attesa vigilia, giornata di digiuno in previsione dell’abbondante cenone serale.
È l’alba del 24, tra la fitta nebbia dicembrina, si intravedono i fumi dei primi camini ed accendersi le primi luci nelle case. I contadini, di buon’ora, si avviano nei campi per preparare ‘u cippu o capizzu della Notte Santa. Un grosso ceppo di quercia o di castagno che arderà per tutta la notte. Le ziane, davanti ai vignai, recitano le prime preghiere mattutine.
Nelle case, di buon’ora, le donne sono già al lavoro in cucina intente a preparare ‘e cannarutie, nel rispetto della tradizione culinaria popolare; i ragazzi raccolgono l’ultima legna ppe la focara de Natale e le giovani donzelle, con cannistri di dolci in testa, portano ‘a stimenza a parenti ed amici. "[...] Il medico, il maestro, il compare, il padrone, l’avvocato in quei giorni debbono essere stimati".
Il Natale è anche l’occasione per consolidare gli amori e gli affetti con scambio di regali fra le famiglie dei promessi sposi. La sera della vigilia, tutti i componenti della famiglia si ritrovano davanti al focolare, dove si consuma il vecchio rituale d’u cippu ‘e Natale. "Il ceppo natalizio è situato sul focolare dal padre di famiglia, che in quel momento esercita l’ufficio di sacerdote, come il pater familias dei Romani quando sacrificava ai Lari od ai Penati giacché lo benedice e ne richiama la venerazione dei figli...". Il ceppo si lascia ardere per tutta la notte fino a che non si consuma. Alle ceneri e ai tizzi si attribuisce un potere divino, per cui vengono conservati per essere usati come rimedi contro le calamità naturali. "In Scigliano e circostanze al ceppo principale del genitore gli altri membri della famiglia uniscono ognuno il ceppetto proprio, come comunanza di auguri e di vita". "[...] I calabresi spesso compiono mesti questo loro rito natalizio destandosi nell’animo loro in quei momenti il pensiero pauroso che nel ritorno della festa non avesse a mancare alcuno della famiglia, massime quando il genitore sia carico di anni". Nelle case colpite da disgrazia, il ceppo non si brucia per un certo periodo di tempo, fino a che non si smetterà il lutto. Il tavolo natalizio, preparato con molta cura dalle donne di casa, è pronto per ospitare l’abbondante cenone. Prima di sedersi e consumare il gustoso "banchetto" la tradizione vuole che i figli bacino la mano ai genitori e ai nonni; questi con un filo di commozione ringraziano rispondendo benedittu. E’ questa una nobile tradizione che, ancor oggi, è presente in molte zone del Savuto.
Per la cena della sera della vigilia si preparano nove pietanze‘e nove cose ed è necessario mangiarle tutte o almeno assaggiarle: pasta con alici e molliche di pane, verza cotta, baccalà fritto, baccalà in umido, baccalà in "tiella" con olive nere, frittelle di broccoli e di cavolfiori, insalata di carota e di verza; ed ancora: crucette, castagne, lupini, noci, finocchi, pitte ‘mbrugliate", turdilli, scalille, chinuille, tutto annaffiato con il buon vino del Savuto. Dopo aver cenato si lascia la tavola apparecchiata con una piccola porzione di ogni pietanza; la tradizione vuole che, durante la notte, il Bambinello entri nelle case, assaggi le portate e si riscaldi al fuoco. In attesa della Santa Messa si raccontano rumanze: antiche storielle di fate, orchi, briganti e folletti.
Intanto da lontano si ode il suono delle zampogne. E’ Natale! Si, è Natale! A mezzanotte la campana annuncia al paese la nascita del bambinello. Gruppi di persone, uomini, donne, giovani, anziani, bambini, si riversano in chiesa per ascoltare ‘a missa granne. La chiesa, in un baleno, si riempie di fedeli; gli uomini vestiti a festa si dispongono sotto le arcate, le donne avvolte nello scialle cantano nenie natalizie ed inni al bambino Gesù. I giovani lanciano sguardi innocenti alle fanciulle e, mentre gli zampognari intonano dolci nenie al Signore, fuori inizia a cadere un fitto nevischio, che ben presto imbianca case, strade e vicoli per la gioia dei più piccini e anche dei grandi.
Era questo il Natale dei nostri padri, un Natale antico, semplice e gioioso, un Natale vero e suggestivo che rendevano unica la Festa. Un Natale ricco di sfumature e di colori immortalati nella memoria.
Fiore Sansalone


Le tradizioni nella Vigilia del Santo Natale
Ciò che fu torna e tornerà nei secoli: il 24 dicembre è la Vigilia del Santo Natale. A ben considerare, tale giorno assume un significato particolare, considerata la grande importanza che, nell’immaginario collettivo, si dà all’attesa del "dì di festa"che va vissuto, in piena armonia, nel rispetto delle tradizioni. Fervono i preparativi nelle famiglie e nella comunità. Le diverse situazioni s’intrecciano e, pur prevalendo l’aspetto religioso, assistiamo a manifestazioni che hanno origini proprie, legate, comunque, a "un significato comune", che affonda le sue radici nella cultura contadina, nella notte dei tempi. Il focolare, come simbolo dell’unione della famiglia, campeggia e le faville che salgono verso l’alto sono tanti desideri di pace, di tranquillità, di salute, espressi al Messia. Il ceppo, che brucia durante la Vigilia, viene approntato dal pater familias, che, nel sistemarlo, mette tanti pezzi di legno, la cui grossezza, in base all’età dei componenti, sta ad indicare il rispetto della gerarchia e dell’esperienza, che si accumula con il passar degli anni. D’altra parte molte tradizioni e credenze, nei primordi delle feste religiose, erano legati sia all’alternarsi delle stagioni, sia alle feste pagane. Il rito del fuoco (chi appe pane muriu, chi appe focu campau) continua ad esistere nel nostro paese ed ogni rione, facendo leva sull’orgoglio, cerca di primeggiare, approntando u focaru cchiù granne. In passato, la partecipazione di ragazzi e di giovani era quasi totale. Alla fine del mese di settembre si cominciavano a trasportare, supra i carruzzuni, i zucchi, radici di alberi con fatica scavate e si ammonticchiavano nel sito stabilito, sempre lo stesso, secondo la tradizione. Quando si accendeva, una gioia particolare traspariva dagli occhi degli abitanti du vicinanzu per aver contribuito, anche con l’offerta di pezzi di legno per uso domestico, alla buona riuscita. U focaru vrujiava na nottata ed intorno ad esso suoni canti e balli, grispeddre, scaliddre, turdiddri e un buon bicchiere di vino. Oggi è più facile ed una sola persona può organizzare un grande falò, acquistando la legna, ma ciò viene a snaturare il profondo significato dell’evento, venendo a mancare la coralità, segno distintivo della comunanza d’intenti.
E’ quasi l’alba del 24, il nostro sonno di bambini veniva interrotto dal dolce suono delle zampogne, magnificate dal Pascoli come "profumo d’infanzia, di umili feste care al cuore, di suoni ascoltati con l’anima sospesa e trepida" nell’attesa del Natale. Vogliamo fermare il tempo per riascoltare "Tu scendi dalle stelle" e per saltare dal letto, correre sulle vie, seguire gli zampognari, che indossavano una foggia per noi strana, inusuale, con calzari particolari, e purcine, che lasciavano il tallone scoperto, paonazzo per il freddo. Al loro passaggio la gente sorridente si sporgeva, dalle "mezze porte" o pronta sull’uscio di casa, ad offrire dolci natalizi. Era un’atmosfera di gioia non legata, esclusivamente, all’imminenza della festa, ma congiunta a quell’affetto spontaneo che si aveva verso parenti, amici e conoscenti. Ci si accontentava del poco (damme nu pocu d’acqua e ssa lanceddra) e, anche se tale visione della vita aveva scarsi confini e ristretti orizzonti, palpitava per l’altro, che poteva confidare, per ogni evenienza, sul calore umano scevro da qualsiasi forma di convenienza. L’uomo moderno, pensando di aver raggiunto, con l’indipendenza economica, chissà quali traguardi, si è chiuso in se stesso e non si è accorto che la povertà dell’animo è la forma più scura d’indigenza. Intorno al Natale sono fiorite molte leggende, per quanto riguarda Grimaldi; Vincenzo Dorsa riporta quella dell’Acqua Muta, "perché le donne che vanno ad attingerla in quell’ora di misteri nello incontrarsi devono curare di non riconoscersi, al qual fine si coprono largamente la persona d’un panno nero ed incedono in profondo silenzio. Se riconosciute, svanisce il mistero e l’efficacia dell’acqua ad allontanare qualsiasi male e ad apportare, per giunta, ricchezza, salute e felicità." Nei giorni precedenti la vigilia, la cucina, escluso il venerdì, è l’ambiente più frequentato: bisogna preparare i dolci natalizi. Profumi diversi si spandono per l’aria: patate, uova, farina, ricotte, miele, tutti prodotti genuini ricavati dalla terra direttamente coltivata e fritti con puro olio di oliva, e, in assenza, con strutto di maiale. Grispeddre, turdiddri, chianuliddre fanno bella mostra di sé e una parte, con cura sistemata, viene portata in regalo alle famiglie colpite da lutto come recunzulu, per consolazione. E’ tempo di imbandire la tavola con la tovaglia e le posate nuove: la tradizione vuole che si preparino nove piatti diversi. Il capotavola, il nonno, il padre o la persona più anziana, dopo essersi segnato con il segno di croce ed aver espresso parole di ringraziamento, seguito dai componenti della famiglia dà inizio alla consumazione della lauta cena. Ogni tanto si sente il tintinnio di un bicchiere e un prosit bene augurante. Per una volta all’anno la tavola non viene sparecchiata, si crede, infatti, che "dopo la mezzanotte la Madonna scenda col bambino a visitare la mensa delle famiglie e ne assaggi il cibo". Intorno al focolare che non verrà spento, si aspetta la mezzanotte per il grande evento. Le giovani sono in attesa che la nonna insegni loro le parole magiche contro l’affascinu, il malocchio che possono essere apprese solo alla Vigilia di Natale. I più piccoli sono in uno stato di dormiveglia, ma le campane suonano a festa per chiamare i fedeli alla funzione sacra più importante. Ad esse fanno eco colpi di fucile: è nato, è nato! Dopo essersi scambiati gli auguri, i componenti della famiglia si avviano verso la Chiesa per pregare e genuflettersi davanti al Redentore, riscaldato da un bue e da un asinello………
Antonio Guerriero


Il Presepio
Una delle più belle, delle più toccanti, delle più espressive tradizioni religiose cristiane è la rappresentazione, durante il tempo natalizio, della nascita di Gesù, attraverso il presepio.
Costruire il presepio, nel momento in cui si avvicina il Natale, è un omaggio alla tradizione francescana, che ha voluto dare all’uomo, con Francesco d’Assisi, un simbolo di pace, di serenità e soprattutto di gioia familiare nel ricordo della nascita di Cristo.
Il presepe ancora esprime e vuole essere l’apparizione del sacro e del divino e "della sua irruzione nella storia".
Il primo presepio viene descritto nel Vangelo di San Luca, il quale riporta storicamente la nascita di Cristo e la visita dei pastori. Così l’evangelista: "C’erano in quella regione (la Giudea) e precisamente a Betlem alcuni pastori che vegliavano di notte, facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Furono presi di spavento, ma l’angelo disse loro: "Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: Oggi è nato nella città di Davide un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia. Andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino che giaceva in una mangiatoia". I pastori pur nella loro povertà offrirono agnelli, ricotte, latte dolci e prodotti contadini, e con ciò il presepe ricorda l’antica civiltà del dono.
Oltre alle notizie, che vengono da San luca e che sono le più probanti, il racconto della natività di Gesù ce lo propone, in una forma semplice e gioiosa, uno degli evangeli apocrifi, cioè quello dello pseudo-Giacomo: "Quando Giuseppe e Maria arrivarono a metà cammino (tra Gerusalemme e Betlem), Maria esclamò: "Fammi scendere dall’asina perché ciò che è in me mi fa male. Egli la fece discendere dall’asina e le disse: Dove posso condurti? Dove mettere al riparo il tuo pudore? Qui tutto è deserto. E scoprì una grotta e vi fece entrare Maria". (Prot. Vangelo di Giacomo).
Secondo San Luca la nascita di Gesù avvenne nello stesso villaggio di Betlem e in una stalla, dove in una mangiatoia venne posto il bambino avvolto in fasce.
Nella lettura di questi passi evangelici e pseudo-evangelici, si notano gli elementi principali per la costruzione del paesaggio presepiale: la casa, la capanna, lo stazzo, la grotta, il deserto, la stalla, la mangiatoia, e cioè una topografia rurale agro-pastorale espressa dai pastori con le loro pecore, le capre, il cane pastore, l’asino. A Betlem non dovevano mancare, in quei tempi, le stalle perché l’allevamento del bestiame costituiva la principale occupazione di quella gente.
Per quanto riguarda appunto il luogo dove nacque Gesù, e cioè se questo fosse una stalla o una grotta, mentre San Luca lo fa nascere in una stalla, lo pseudo-Giacomo, invece, lo fa nascere in una grotta.
Un’antica tradizione, dalla quale poi la nascita di Gesù è stata localizzata in una grotta per quanto riguarda la costruzione dei nostri presepi, si rifà a due antichissime personalità cristiane come San Giustino, martire nel 167 dopo Cristo, il quale offre una preziosa testimonianza: "Essendo nato allora il bambino in Beth-lehem, poiché Giuseppe non aveva in quel villaggio dove albergare, albergò in una grotta dappresso al villaggio, e allora essendo essi colà, Maria partorì il Cristo e lo pose in una mangiatoia"; e ancora "Nei primi decenni del III secolo Origene (filosofo cristiano) si appella alla tradizione e attesta egualmente che la grotta "nelle campagne veniva mostrata ai pellegrini del suo tempo". Sulla base di questa tradizione l’imperatore Costantino, nel 325, fece costruire la basilica della natività, la quale ricopre la cavità che venne e viene visitata dai pellegrini di tutto il mondo.
A proposito del luogo, in cui avvenne la nascita di Gesù, il profeta Isaia (Is. 33,16)) scrive: "Questi abiterà in un luogo eccelso, cupi inaccessibili saranno la sua roccaforte". Queste caverne scavate nelle rocce in Palestina servivano come stalla per animali e da abitazione per la povera gente. Altri due elementi, che vengono introdotti nei nostri presepi, sono il bue e l’asino, posti nel capezzale di Gesù per riscaldarlo e, nello stesso tempo, come suoi primi amici, adorarlo: "Maria… depose il fanciullo nella mangiatoia e il bue e l’asino l’adorarono"; e ancora "questi due animali che avevano il bambino tra loro lo adorarono continuamente" (Pseudo Matteo XIV, e). Un altro personaggio che appare nella costruzione del presepe calabrese e meridionale, è il pastore zampognaro.
Questa usanza di accompagnare con la zampogna i canti, durante il periodo natalizio, è antichissima; si diffuse nel napoletano per opera di Sant’Alfonso Maria dei Liguori (1646-1787), fondatore dei Padri Redentoristi e autore del canto sacro natalizio "Tu scendi dalle stelle" e anche lui ricorda "la grotta" come luogo dove nacque Gesù.
Gli altri autorevoli personaggi, che appaiono nel presepio, sono i Magi. L’evangelista San Matteo non nomina i pastori ma riferisce dell’arrivo dei magi, ai quali dà un nome: Baldassare, Melchiorre e Gaspare. Questi sapienti, arrivati a Gerusalemme, dopo essersi informati circa il luogo dove fosse nato il re dei Giudei, giunsero nella grotta di Betlem e adorarono il Bambino, offrendo i doni oro, incenso e mirra. Nella costruzione del presepio non manca la stalla, che guida questi tre personaggi, venuti dall’Oriente per onorare il vero Dio.
La storicità reale del presepio ci viene espressa dalle parole del primo biografo di San Francesco d’Assisi, Tommaso Celano: "Tre anni prima di morire il beato Francesco celebrò con riverenza presso Greccio il Natale del Signore Nostro Gesù Cristo. Quindici giorni prima Egli chiamò il buon Giovanni Vellita e gli disse: Se hai piacere che celebriamo a Greccio questa festa del Signore, prepara quanto ti dico. Vorrei raffigurare il Bambino nato a Betlem e vederlo con gli occhi del corpo, e come tra il bue e l’asinello sul piano si giaceva. Uditolo quell’uomo buono e pio se ne andò in fretta e preparò nel luogo desiderato tutto ciò che il Santo aveva detto. E Greccio dal 1223 si trasformò in una nuova Betlem". Da quell’anno il presepio è il vero simbolo del Natale e fu ed è culturale, poiché abbraccia la storia, la letteratura, la pittura, la scultura, la musica e tutto ciò che di bello può nascere dalla mente umana ispirata.
Nel mondo culturale spicca tra l’altro l’espressione in vernacolo. In questo caso si pensa al nostro dialetto e la Musa campagnola e silvestre, il cui canto e la cui dolcezza accolsero i nostri poeti: il Padula, il Pane, il Butera. Del poeta acrese mi piace proporre uno dei suoi componimenti poetici in vernacolo: "La notte di Natale" che appunto costituisce un presepio in poesia.
Vi si descrive con immagini ingenue e forme schiettamente popolari, la nascita del Bambinello nella notte di Natale in un’atmosfera di fiaba e di incantesimo. Il falegname Giuseppe "muortu ‘e friddu scavuzu e spinnatu" e la vergine Nazzarena "Cussi bella, cussi fatta // chi ‘na stilla ‘un si ci appatta", nella notte scura e ventosa, cercano un alloggio e un riparo.
Questi due poverelli bussano "trocculiannu" a tutte le porte di Betlem, ma ne sono cacciati da "li ricconi" che "cancarianu e nu rispunnu" alle richieste pietose di Giuseppe, che dice: "E’ nu povaru stracquatu // Senza liettu, senza focu // Cu la mugli a bruttu statu" //. Finalmente la luna e il vento, impietositi della Vergine e del vecchietto, dicono: "Ave Maria" e la scena cambia: le stelle si accendono come torce d’un "ataru" e i viandanti si rifugiano in una capanna di pastori. La Vergine in sogno vede il paradiso con gli angeli e i Santi e nel sonno partorisce il divino bambino, che "schamava" (gridava): "Mamma, mamma". Il poeta con una espressione di gioia scrive: "Viata Illa, affurtunata! // Intra ‘u sonnu era figliata…". Ed ecco i versi che esprimono la gioia della vergine quando si sveglia. "Ma tramenti chi si sonna, // Ppe’ lu prieju e pe’ lu trillu // Si risbiglia la Madonna // E si guarda, e lu milillu // Va truvannu, chi l’è statu // ‘Intra suonnu rigalatu // Eccutì, ca biellu biellu, // ‘Ncavarcatu supr’à gamma // Si truvau lu Bomminiellu // Chi shcamava: Mamma! Mamma // Viata Illa, affurtunata! // ‘Intra suonnu, era figliata…". E appena Natale, lo adorava e con gioia per farlo dormire, la Vergine " ‘Ngignau sùbitu a cantàri" una ninna nanna soavissima: "Duormi; bellizza mia, duormi e riposa, // Chiudi ‘a vuccuzza chi pari ‘na rosa, // Duormi scuitàtu, ca ti guardu iu, // Zùccaru miu! // Duormi, e chiudi l’occhiuzzu tunnu tunnu; // Ca quannu duormi tu, duormi lu munnu; // Ca lu munnu è de tia lu serbituri, // Tu si ‘u signuri //. La mamma raccomanda al bimbo di chiudere gli occhi, perché la sua bellezza l’abbaglia e l’anima al vederli vorrebbe uscire dal petto e volarsene in cielo. E ai pastori e alla gente, venuta per adorarlo, dice: "Cantati, sì; ma ‘n cielu ‘u’ b’ ‘u chiamati: // Aduratilu, si; ma ‘u’ b’ ‘u pigliati: // E tu, bellizza, ‘un fùjari cu’ loru; // Si no, ni muoru. // Statti, trisuoru mia, cu mamma tua; // Mo chi ti tiegnu, nenti vogliu cchùa; // Cu’ Tia vuogliu lu munnu caminari // Sempri, e cantari; // E diri a tutti: Chissu è Figliu miu; // ‘A mamma è povarella, ‘u figliu è Diu: // D’ ‘u cielu m’è shcoppatu ‘ssu Bomminu // ‘Intra lu sinu //. Infine mentre la mamma se lo stringe al seno per paura che il mondo "malandrinu" glielo possa togliere, quattro schiere di arcangeli spalancano i portoni del cielo, tenendosi per mano, scendono in terra cantando con forza: "Sia grolia ad Illu e pace all’omu buonu! // A questo grido gioioso, pastori, cascinai, caprai e contadini si svegliano e restano istupiditi (‘ncitrulati); poi, quando l’angelo annuncia loro la nascita del divin fanciullo, si precipitano verso la capanna ad offrire doni. E chi porta " ‘na sciungata" chi "‘na fiscella, e chi "‘nu rinusu" (caciottini), chi un capretto o un galletto e quattro paia di uova. E tra questa povera gente semplice e buona, ci sono coloro i quali cantano e ballano con accompagnamento della zampogna: "Chi canta e balla, e chi senza pensieru // facìa ccu la zampugna: Lleru! Lleru!". Tra coloro che portano doni c’è anche il poeta, il quale non avendo altro da donare, offre questa canzone: "Ed iu, belli quatràri, iu puru tannu // ‘Nfrattari mi volìa ccull’autra genti; // Ma chille jia ‘ncollata, ed iu malannu! // Iu sulu nun avia li cumprimienti. // Mi jivi ‘a mariola scaliannu // M’avìa boglia ‘e merari! ‘un c’era nenti. // Chi fici poca? // Fici ‘sta canzuna, // E Ghiesullu mi dèzi ‘na curuna.
Quanta semplicità! Quanto sentimento! Che ingenua fede si esprime in questo breve poemetto, che il Padula compose nel dialetto della sua Acri. Il sentimento familiare e quello religioso, resi e sentiti con l’immediatezza sentimentale dell’anima popolare, vi si fondono intimamente e creano un tutto ispirato e armonioso. Questa canzone, come la chiama il poeta, è così perfetta da sembrare opera di un anonimo cantore, una di quelle gentili leggende poetiche, che si tramandano nel racconto della nonna e che ricordano quel fantastico novellare di un tempo lontano, nelle sere invernali, attorno al focolare, nell’ora in cui i cuori si confondono in un solo palpito di amore e di speranza.
Egidio Sottile


‘A Strina
Tradizione, musica e ricordi nelle antiche note del canto calabrese

‘U tempu de la strina è venutu a nume ‘e tutti quanti ve salutu, così incomincia il tradizionale canto popolare calabrese, tipico rituale del periodo natalizio, che da anni, ad iniziare dalla vigilia del Santo Natale fino al giorno dell’Epifania, si canta davanti alle case di amici e parenti in segno di augurio e di buona fortuna.
Un’antica tradizione, che si perde nella notte dei tempi e se anche oggi, in alcuni luoghi del cosentino viene considerata come vera e propria consuetudine di fine anno, ha sicuramente perduto il suo originale significato.
Il termine strina deriva dal latino strenna, che significa dono. Il primo giorno dell’anno, nella cultura popolare, credesi abbia una forte influenza sulle azioni dell’uomo per tutto il corso dell’anno. Quindi non lavorare, o soffrire di qualche male in detto giorno significa avere poca fortuna per tutto l’anno. "Gli antichi Romani credeano che le cose incominciate il primo di gennaio erano ben augurate e di sicura fortuna: perciò i magistrati prendevano allora possesso delle loro cariche, e gli artigiani soleano dedicare all’esercizio della loro arte un breve momento di quel giorno, benchè festivo". Nell’antica Roma, al principio del nuovo anno, vi era l’uso di invitare a pranzo gli amici e scambiarsi a vicenda vasi di terracotta ricolmi di miele, datteri e fichi accompagnati da piccoli ramoscelli di alloro, detti strenae, come augurio di fortuna, salute e felicità.
"Lo scambio delle strenae - scrive Alfredo Cattabiani nel suo "Calendario-le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno" - era in origine, prima dello spostamento del Capodanno a gennaio, un’antica usanza primaverile del 1° marzo. In quel giorno si sostituivano i vecchi rami d’alloro con nuovi davanti alle porte del rex sacrorum, dei flamini maggiori, delle Curie e del tempio di Vesta. Quei rami erano connessi al simbolismo dell’Albero Cosmico che offriva la sua energia al cosmo per il rinnovamento dell’anno. Analogamente i Romani cominciarono a offrirli agli amici e ai parenti come portafortuna. Strenae eran detti perché venivano staccati in un boschetto sulla via Sacra consacrata ad una dea di origine sabina, Strenia, apportatrice di fortuna e felicità". I primi a raccontare di tale usanza furono il poeta latino Plauto e lo storico romano Svetonio, che, nella sua opera "I dodici Cesari", nel raccontare della vita di Cesare Augusto scrive: "Tutti gli ordini cittadini gettavano ogni anno in un grande stagno di acqua, sito nei pressi del Foro, chiamato lago Curzio, delle monete per un voto fatto per la sua salute; e ancora anche in sua assenza per le Calende di Gennaio". L’imperatore "comprava con queste somme statue di dei che consacrava nei vari rioni della città". Il dono (strena) diventò consuetudine e al capodanno questi riceveva, anziché danaro, un regalo d’oro dal popolo o dal Senato. Dall’antica Roma l’uso delle strenne si tramandò di popolo in popolo fino ad arrivare ai nostri giorni. Nel giorno del capodanno ogni buon padre di famiglia fa la strina ai propri figli, il padrone la fa ai servi e ai coloni regalando loro una piccola somma in denaro come augurio per il nuovo anno; allegre compagnie la fanno ad amici e parenti cantando in piena notte il caratteristico ritornello augurale:
Chi Diu ve manni tanti boni anni
quantu allu munnu se spannanu panni;
Chi Diu ve manni tanti boni misi
quantu allu munnu cce su sordi e turnisi.
Il cosentino, in modo particolare il territorio silano e la zona del Savuto, è l’area in cui meglio la rituale questua, accompagnata da canti e musiche, trova ancora un suo punto di riferimento ed ogni anno, come un tempo, stringe le comunità locali in un vicendevole scambio di visite augurali, rafforzando ancor di più i rapporti sociali. Un appuntamento molto atteso dai gruppi di strinari che, anno per anno, viene preparato in modo dettagliato e nel pieno rispetto della tradizione. "La strina - dice un anziano signore di Marzi - è così ben radicata su tutto il territorio che difficilmente verrà cancellata dalla moderna tecnologia che ha spazzato via, ed in poco tempo, numerose delle nostre tradizioni, che hanno accompagnato la vita quotidiana dei nostri padri". Un canto popolare che, tramandatosi di generazione in generazione, e corso di bocca in bocca ha caratterizzato da sempre le liete nottate di fine anno. Il canto composto da strofe in rima, di rara bellezza, occupa un posto importante nel vasto patrimonio folkloristico calabrese. Un tempo, nelle ricorrenze delle feste natalizie, gruppi di giovani e meno giovani cantavano con gioia la strina; in ogni paesello ed in ogni borgata, s’innalzavano le lieti note augurali che facevano ben sperare per il futuro. Per tutta la notte era un via vai di strinari che, in ogni angolo ed in ogni viuzza, si intersecavano fra di loro creando un intreccio ideale di "vie dei canti" per tutto il paese in festa. Il gruppo di cantaturi e sonaturi era costituito da dieci, quindici, venti persone ed oltre, recita la strofa:
Nun ve spagnati ca nun simu assai
ca simu trentatrì e lu cantature.
Era questo un bel problema per la famiglia che doveva ospitare gli strinari, ma come si dice! Duve mangianu tri, mangianu quattru, quindi duve mangianu quattru mangianu trentaquattru. Nelle gelide notti di dicembre, in un silenzio quasi tombale, gruppi di strinari si avviano lentamente verso la casa prescelta, appena giunti sul posto si dispongono a semicerchio e al suono di chitarra battente, organetto, murtaru e zuchiti danno inizio al tradizionale ritornello:
Senz’essere chiamati simu venuti
alli patruni e via li bon truvati.
‘U de vrigogna si cantamu ‘a strina,
‘a strina l’ha lassata lu Segnure.
L’esibizione durava a lungo e di volta in volta variava a secondo delle circostanze. Dopo una prima parte di versi augurali, indirizzati ai componenti la famiglia, ai vicini e ai parenti, si passa alla parte più "interessante" del canto, chilla du vatticognu:
Sentu lu strusciu de lu tavulatu,
è lu patrune chi piglia la supressata.
Sentu lu strusciu de lu tavulinu,
è la patruna chi pripara lu vinu.
Fanne la strina è fannilla de prisuttu
si ‘un teni lu curtellu, dannillu tuttu.
Ca nue restamu finu allu matinu
si prima nun mangiamu e nun vivimu.
Man mano che si andava avanti il canto aumentava di intensità e i sonaturi accortisi che il ritornello sicuramente era stato ben gradito dalla famiglia, con ritmo e melodia più veloce e ben cadenzata, sollecitavano con versi molto "significativi" i padroni di casa ad aprire la porta:
Apera ‘a porta prestu e nun tardare
ca de lu friddu fore ‘un se pò stare.
Ohi Franciscu miu si si de core
apera ‘a porta e un ne fa stà cchiù fore.
Dintra ‘nu bucu ne fujiu ‘na gatta
apera ‘a porta ca la strina è fatta.
All’ultima richiesta dei cantaturi i padroni di casa aprivano la porta e gli strinari entravano in casa festosi accompagnati da lunghi applausi. Era questo il momento in cui le donne diventavano le vere protagoniste della serata, dipendeva, infatti, da loro la buona riuscita della strina. Erano momenti di attesa per gli strinari, che, messisi a proprio agio davanti al focolare, discutevano del più e del meno con i padroni di casa e, tra un bicchiere di vino e l’altro, indirizzavano brindisi allu zianu, allu piccirillu, e alla brava massaia con la speranza che quella serata sarebbe rimasta a lungo nei loro ricordi. Dopo la "sofferta" attesa, le donne di casa apparecchiavano la tavola di ogni ben di Dio: Frittule, sazizza e vrocculi ‘e rapa, supressate, capeccollu e panzarella, olive sott’olio, sott’aceti, pane casereccio e boccali di buon vino del Savuto. ‘U capu strinaru a nome suo e di tutta la compagnia ringraziava la famiglia per l’ottima ospitalità, ricordando ai presenti che alla casa di povarelli ‘un mancanu stozzi e, augurando a tutti un buon appetito, dava il via alla grande abbuffata. ‘A panza china, riprendevano i canti ed i suoni e nella baldoria generale si cantava e si ballava per ore. La festa terminava sul tardi e l’allegra compagnia, grata per l’ospitalità, intonava ancora una volta la strina:
Canta lu gallu è scotula le pinne
damu la bona sira e jiamuninne.
A notte inoltrata il gruppo lasciava la casa per continuare altrove la performance itinerante. Capitava a volte che gli strinari, comodamente seduti davanti alla tavola apparecchiata, dovevano lasciare il posto ad altre compagnie di cantatori, che, nella stessa serata, per pura coincidenza, capitavano nella stessa casa. Una consuetudine questa che lasciava l’amaro in bocca tra i questuanti e che, in alcuni casi, sfociava in vere e proprie liti, dove veniva coinvolta la stessa famiglia ospitante. La strina continuava per tutto il periodo natalizio raggiungendo il suo culmine nell’ultimo giorno dell’anno. Dalle prime ore del mattino, gruppi di bambini, con sacchettini di lino bianco, percorrevano in lungo ed in largo i vicoli e le viuzze e, bussando alle porte di ogni famiglia, timidamente esclamavano: Ma faciti ‘a strina!, ricevendo in dono turdilli, scalille, chinuille, frutta secca ed altro e, tra la soddisfazione generale, si continuava nella cerca di fine anno sino al tardo pomeriggio. Calata la sera, entravano in scena gli adulti, che, al canto della strina, facevano visita a più famiglie, ripetendo, fino ad alba inoltrata, la performance per più volte:
Tutte le feste ‘e passamu cantannu
‘a Pasqua, ‘u Natale e lu Capudannu.
Simu venuti all’attu de Capudannu
fanne la strina chi ‘na fattu l’annu.
All’alba, stremati per la lunga fatica, barcollanti, se ne tornavano a casa per il dovuto riposo. La sera del nuovo anno, si ricominciava da capo e si continuava così fino alla sera dell’Epifania, che decretava, in modo inequivocabile, la fine della baldoria e dei suoni:
‘U tempu de la strina è fernutu
ppe st’annu amici cari ve salutu.
Con l’Epifania calava un velo di tristezza, i canti, le feste ed i suoni erano terminati e si tornava alla normalità. Il freddo di gennaio si faceva sempre più pungente e sui monti e per le campagne calava un lungo silenzio, che veniva poi interrotto dalle tanto attese giornate carnevalesche. Il canto della strina, dunque, porta gioia e armonia in tutte le case e, se per malaugurata ipotesi non veniva accettato, sarebbe stata una offesa imperdonabile che avrebbe scaturito una inimicizia eterna. Capitava alcune volte che l’uscio non si apriva, allora il gruppo smetteva di cantare la strina augurale e dava inizio a quella di sdegnu i cui versi deprecavano disgrazie e sfortuna a tutta la famiglia:
Senz’essere chiamati simu venuti,
a nume du campusantaru ve salutu.
Simu venuti sulu ppe cantare
chi vo videre ‘u pane e sospirare.
‘U ‘na fattu vivere e mancu mangiare
chi vo videre ‘e vie e ‘u le putire caminare.
Sono queste appunto, alcune strofe molto "espressive" della strina ‘e sdegnu o a contro strina, che venivano interrotte da veri e propri vasi di urina o da qualche colpo di fucile proveniente dalla casa interessata. Erano queste situazioni non belle, che, sicuramente, arrecavano conseguenze dannose alla tranquillità dell’intero paese. Fra le strine di sdegno, famosa è quella che si canta nel comune di Lago. "La strina di Lago – osserva un anziano signore del luogo - non ha niente a che vedere con la strina tradizionale del cosentino a carattere idilliaco e familiare. La nostra ha un diverso fine, un diverso carattere e un diverso contenuto. E’ un canto drammatico e di protesta che trae il suo contenuto dagli avvenimenti più importanti che si verificano durante l’anno. Sono delle vere e proprie metafore rivolte per lo più ai personaggi più in vista del luogo (il sindaco, il prete, il dottore, l’avvocato, il farmacista) che, toccati nella loro onorabilità e suscettibilità quasi sempre reagiscono".
Quanto descritto è storia del passato, momenti di grande armonia e di sana aggregazione, che, ancora oggi, è possibile recuperare; tutto dipende da noi, da tutti noi. "Le tradizioni popolari - scrive il professor Egidio Sottile - esprimono con genuinità, vivezza, tenerezza e semplicità quel che ha di più intimo l’animo del popolo. Quel popolo-gente, che non ha pretese dottrinarie e culturali, ma che, di generazione in generazione, oralmente, tramanda quella mirabile forza morale e spirituale, che distingue una stirpe o gli abitanti di uno stesso paese".
Gli usi, i costumi, le credenze di ogni comunità rappresentano un bagaglio culturale che non va assolutamente perduto, anzi va ripreso e rivalutato.
Non ci può essere il nuovo senza il passato, ma è attraverso le nostre origini che dobbiamo costruire il nostro futuro.
Fiore Sansalone


Ricordando ‘a strina…
Quando penso alla strina, mi rivedo bambina tra gli stretti vicoli del mio paese, nell’ultimo giorno di dicembre, con un sacchetto di lino bianco chiuso da un laccio.
Questo era un giorno, per noi ragazzi, di grande fermento, in quanto molti giorni prima, ci si incontrava per organizzare in gruppo gli itinerari da percorrere nel pomeriggio e individuare le famiglie alle quali chiedere strine. Ognuno di noi si sceglieva le persone o le famiglie che si conoscevano: parenti, amici e conoscenti, dai quali certamente avremmo ricevuto con generosità il dono richiesto. Mi ricordo che spesso si ricevevano dolciumi, frutta secca, agrumi e solo raramente dei doni in denaro. A fine serata, stremati, ma contenti, si faceva la conta di quello che si era ricevuto e si confrontavano i doni, si gustavano i dolci, seduti sugli scalini delle nostre case o in un angolino protetti da sguardi indiscreti di adulti o di ragazzi più grandi di noi. Questi, però, attratti dalla varietà dei nostri abbondanti e stracolmi sacchetti, con un che’ di arroganza e di superiorità, dovuta all’età e forse al loro ruolo di ragazzi vissuti, ci chiedevano l’assaggio dei migliori dolciumi e da quali famiglie essi erano stati sfornati; alla fine, felici, anche se i sacchetti erano stati un po’ svuotati si faceva ritorno nelle proprie famiglie. I genitori davano uno sguardo a ciò che si era ricevuto in dono, ci rivolgevano qualche domanda e selezionavano i doni, mentre i fratellini più piccoli allungavano le mani per accaparrarsi i dolci e i frutti più grandi e più belli di quelli rimasti. La consegna alle nostre mamme ci rendeva orgogliosi, soprattutto se queste si lasciavano sfuggire apprezzamenti su quello che si era ricevuto in dono. Ah cummari st’annu t’ha trattatu davvero bbonu! Armenu a ringraziata? O come: donna Rusina, cumu u soitu ha fattu i turdilli, fammine pruvare unu! U sai su na specialità, nessunu a stu paise e sa fare cumu illa.
Anche i papà si sentivano orgogliosi di quello che avevano ricevuto in dono e nelle loro parole s’intravedevano l’orgoglio, il rispetto e la soddisfazione. Si perché la qualità dei doni ricevuti era il più delle volte adeguata al grado di parentela, al tipo di amicizia e di conoscenza. È così che si concludeva la serata dell’ultimo dell’anno fra noi bambini.
La sera, però, sul tardi, erano gruppi di giovani che andavano, cantando, a chiedere ‘a strina davanti alle case dei "signori". Il canto augurale per la ricorrenza veniva e viene rivolto, ancora oggi, principalmente alla padrona di casa che è più facile a commuoversi e muoversi. Con questo canto si augura ogni sorta di bene, per l’anno che inizia, a tutti i componenti della famiglia. Il canto si snocciola esaltando le qualità e i pregi di ogni singolo familiare per poi augurare a ciascuno una buona carriera, ricchezza, tranquillità e serenità familiare.
I cantatori, nel corso della canzone, chiedono man mano la strina a modo di ricompensa per quello che stanno augurando e per come sono soliti riceverla da loro nelle festività del Santo Natale e di Capodanno. La chiedono di vino, soppressata, prosciutto, capicollo, turdilli, verso la fine poi invitano i proprietari della casa ad aprire la porta ed accoglierli e ad offrire loro quello che chiedono, senza fare i furbi, perché altrimenti loro rimarranno davanti al portone della loro casa fino a quando, al mattino, il gallo non canta e non scuote la coda. Si invoca alla fine il padrone di casa perché provveda al più presto, visto che lui è di cuore grande e generoso, ad aprire la porta ed a farli entrare perché si possano riscaldare e rifocillare, dal momento che loro la strina gliel’hanno fatta con il canto.
Una volta la strenna si cantava per tutto il periodo di gennaio fino all’arrivo di carnevale. La strenna era intesa anche come il classico "piatto di dolci", che veniva offerto a quelle famiglie che erano state colpite da un lutto. Questa è una tradizione popolare, che si conserva ancora oggi. Infatti i vicini di casa si preoccupano di non far mancare, alla famiglia in lutto, che non poteva "friggere" i dolci augurali delle feste. Invece quelle famiglie, che durante l’anno erano state colpite da una disgrazia e ne erano uscite indenni, preparavano i dolci augurali in segno propiziatore, per scongiurare l’arrivo di altre disgrazie.
La parola strina, secondo le definizioni riportate sui dizionari della Calabria di Gerhard Rollfs e di Luigi Accattatis, è il dono di Capodanno che gli strinari, i popolari nostrani, chiedono cantando, alle famiglie, nell’ultimo giorno di dicembre. E’ una parola di origine antichissima, forse Sabina, significa salute e quindi buon augurio. E "strinae" erano regali che si solevano offrire, regalarsi a dicembre presso gli antichi romani. Il primo a raccontare di questo fu il poeta latino Plauto e poi lo storico romano Svetonio nella sua opera "I dodici Cesari".
Oggi, le strenne si offrono e ricevono per tutto il periodo delle festività natalizie.
Lucia Tosti


‘A Strina
‘‘U tempu de la strina è venutu
a nume ‘e tutti quanti ve salutu.
        Amici mia salutu a tutti quanti
        ‘a strina nostra va de mo ‘n’avanti.
Senz’essere chiamati simu venuti
alli patruni e via li bon truvati.
        U’ d’è vrigogna si cantamu ‘a strina
        cci l’ha lassata lu nostru Segnure.
Stu palazzellu lu giramu ‘ntornu
bene cce trasa de tuttu lu munnu.
        Stu palazzellu sta ‘mpacce alla luna
        chi Diu ve manni ‘na bona furtuna.
‘A strina porta pace ad ogni rasa
 trasissi la furtuna dintra sta casa.
      ‘A strina porta sempre luce granne
        trasissi la furtuna ’e tutte ’e banne
Palazzu ‘ntorniatu de biccheri
dintra cce st’annu granni cavaleri.
        Pozziti fare tantu de la sita
        quantu ne ‘mbarca Napuli e Gaita.
Pozziti fare tantu ogliu e mustu
quantu curra Savutu ‘u mise ‘e Agustu.
        Ohi c’ha fattu ‘a nive alla muntagna
chi Diu te guardi sta bona cumpagna.
        Ohi c’ha fattu ‘a nive allu Caritu
        chi Diu te guardi stu bonu maritu.
Dintra sta casa d’oru ‘nu bastune
a llu patrune ‘u via ‘nu gran barune.
        Dintra sta casa cc’è nata ‘na rosa
        cent’anni se vo godare la sposa.
Dintra sta casa d’oru ‘na pernice
a Cuncetta a via n’imperatrice.
        Dintra sta casa d’oru ‘nu sazeri
        a Michele ‘u via ‘nu cavaleri.
Dintra sta casa d’oru ‘na catina
a Peppinella a via ‘na regina.
        Dintra sta casa cce penna ‘na cipressa
        a Filumena a via ‘na principessa.
Dintra sta casa cce penna ‘nu catu
a Tumasi ‘u via n’avucatu.
        Haju cantatu a ‘na corda d’azzaru
        chi a ’Ntoni ‘u via ‘nu nutaru.
Dintra sta casa cce penna ‘nu panaru
a Totonnellu ‘u via ‘nu sacristanu.
        Cantu la strina senza fare errure
        a Michele ‘u via ‘nu dutture.
Du piccirillu n’eramu scurdati
patrune ‘u via de tricentu stati.
        Chi Diu ve manni tanti boni anni
        quantu allu munnu se spannanu panni.
Chi Diu ve manni tanti boni misi
quantu allu munnu cc’è sordi e surrisi.
        Chi Diu ve manni tanti boni jurni
        quantu allu munnu cc’è porte e cunturni.
Chi Diu ve manni tante bone sire
quantu allu munnu cc’’ ardu cannile.
        Chi Diu ve manni tanti boni mumenti
        quantu allu munnu cc’è vacche e jumenti.
Chi Diu ve manni tante bone feste
quantu allu munnu cc’è porte e finestre.
        Pozziti fare tantu de lu vinu
        quantu curra Savutu e Cannavinu.
Pozziti fare tantu de lu granu
quantu ne fa Cusenza ccu Ruglianu.
        Haju cantatu propriu cumu n’orcu
        chi te st’avissi bonu puru ‘u porcu.
‘U ve spagnati ca ‘u’ vulimu nente
cantamu ‘a strina a tutta chista gente.
        Nue simu tutti amici de core
        cantamu ‘a strina suu ppe tradizione.
Dintra sta casa arda ‘na lumera
è ura chi appiccichi ‘a vrasciera.
        Dintra sta casa cce penna ‘nu collaru
        chista è sirata de focularu.
Fore chiova e l’acqua ‘u’ la sa jettare
pripara ‘u furnu e nun te preoccupare.
        ‘A strina porta sempre granne luce
        pripara ancuna cosa e fatte ‘a cruce
Cantu la strina e la cantu sana sana
criu ca vena mo’ ‘a quadara.
        Aju cantatu chi me doa lu collu
        fanne pruvare ‘u vostru capeccollu.
Cantamu ‘a strina supra ‘a chinettella
fanne pruvare mo ‘a coriella.
        Mo chi avimu fattu sta bella cantata
        fanne pruvare puru ‘a supressata.
‘A strina porta sempre cuntentizza
te raccumannu puru la sazizza.
        Sentu lu strusciu de la tinella
        criu ca vena mo’ ‘a panzarella
Fanne la strina e falla de prisuttu
si ’un teni lu curtellu ‘nu dù tuttu.
        Ohi ca ha fattu ’a nive allu ponte ‘e Moa
        fanne pruvare puru la vrascioa.
Mo ca simu tutti a panza china
fanne pruvare puru ‘a petturina.
        Ca nue cantamu fina alla matina
        si primu nun manciamu e nun vivimu.
‘Mmenzu sta casa cce penna ‘nu spitu
è ura de aperire e statte citu.
        Apera ‘a porta prestu e nun tardare
        ca de lu friddu fore ‘un se po’ stare.
Ohi Franciscu miu si si de core
apera ‘a porta ‘un ne fa sta cchiù fore.
        Canta lu gallu e scotula le pinne
        damu la bonisira e trasimu dintra.


‘A STRINA ‘E SDEGNU

‘U tempu de la strina è venutu
a nume du campusantaru ve salutu.
    Cantu la strina e la cantu a lassa e piglia
    se distruggissi tutta la famiglia.
Ste feste granne ‘e passamu cantannu
me spagnu ca ‘u’ d’arrivi a Capudannu.
    Alla mugliere ‘a ‘mintimu ‘e chianu
    cce fa la cumpagnia ‘u sacristanu.
Sentu lu strusciu de la cascitella
chi ve rimani sketta ‘a figliuella.
    Sentu lu strusciu de lu tavulatu
    allu figliu ‘u via ‘nu sfurtunatu.
Cantu ma la porta è sempre chiusa
chista è la nanna ca è ‘na guallarusa.
    Allu nannu ppe mo ‘u lassamu stare
    dumane cce facimu ‘u funerale.
Aju pregatu tantu a Santu Roccu
me spagnu ca te mora puru ‘u porcu.
    Ohi ca ha fattu ‘a nive allu Spinitu
    chi ‘u vinu novu se facissi acitu.
Dintra sta casa cc’è natu ‘nu gigliu
chi vo chiancere a chistu munnu e a chillu.
    Dintra sta casa cc’è natu ’nu jure
    chi ‘u’ vo videre cchiù ‘u lustru du purtune.
Cantu la strina e la cantu a rasa rasa
chi vo perdere puru ‘a via da casa.
    Chista è la strina nostra ‘un cce chi fare
chi vo jire allu lettu e nun t’azare.
    Aju cantatu chi me doa lu collu
    chi prestu t’arrivi ‘nu storciacollu.
Simu venuti sulu ppe cantare
chi vo videre ‘u pane e suspirare.
    Chi vo jettare ‘u sangue cati cati
    quantu curra Savutu ccu lu Crati.
Aju pregatu tantu a santu Ricu
avissi ‘e ‘mpassuare cumu ‘a ficu.
    Ohi ca ha fattu ‘a nive a Ursara
    chi prestu te coglissinu ccu la pala.
Cantu la strina ca ‘u de vrigogna
chi prestu te chiamassi la Madonna.
    ‘A strina porta sempre allegria
    chi te venissi mo ‘na malatia.
‘A strina porta pace ad ogne rasa
trasissi ‘nu tavutu ‘ntra sta casa.
    ‘U’ na fattu vivere e mancu mangiare
    chi vo videre ‘e vie e ‘u’ le putire caminare.
Stu palazzellu lu giramu ‘ntornu
chi vo fa stanotte l’urtimu sonnu.
    Canta lu gallu e scotula le pinne
    disgrazie, malatie e jamuninne.
Canta lu gallu e scotula la cuda
‘nu granne storciacollu a vua signura.

Fiore Sansalone


L’unione contadina nella macellazione del maiale
Bisogni, armonia, coesione parentale
in uno dei riti più antichi della comunità calabrese

In questo periodo, in ogni famiglia, si perpetua il tradizionale rito della macellazione del maiale. L’allevamento dell’animale era considerato una delle poche risorse alimentari indispensabili della gente contadina.
In Calabria, fino a qualche tempo addietro, non c’era nucleo familiare abbiente o meno che non allevasse una famigliola di maiali le cui carni, espressamente gustose al palato di tutti, servivano sia come companatico, sia come fabbisogno energetico.
Solitamente il giovane porcello da ingrassare (passaturu) veniva acquistato dal mese di gennaio fino ai mesi di marzo e aprile. La fiera dei maialetti novelli si svolgeva nelle piazze. I porcari provenivano dai paesi della Sila, il commercio affluiva specialmente in prossimità della festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio) protettore dei porcellini, sempre presenti ai piedi della statua. L’origine del patrocinato del santo sugli animali, deriva dall’antica comunità dei monaci detti di Sant’Antonio dalla Francia fino a Milano. Essi curavano molte patologie dermatologiche tra le quali "l’Herpes Zoster" comunemente detto "Fuoco di Sant’Antonio" e usavano ungere il malato con del grasso di maiale. I monaci gestivano questa piccola azienda facendo affidamento sulla "Caritas pubblicae" usando il grasso come medicamento per i malati, ma il resto riempiva la cucina del convento. Nasce da qui il famoso detto in vernacolo roglianese: "Dudici monaci... tridici porci...".
Dopo lunghi mesi di sacrifici e di lavoro da parte della famiglia contadina, il maiale, ben ingrassato, era pronto per il tanto atteso sacrificio. Il periodo buono per la macellazione andava dalla festività di Santo Stefano fino al giorno dell’Epifania.
L’animale il giorno prima della mattanza veniva lasciato digiuno per favorire lo svuotamento delle budella in quando dovevano essere pulite per preparare con la carne gli insaccati. Molto laboriosa era la fase preparatoria di questo evento che richiedeva una dotazione di accessori non indifferente: ’u gammellu, ’u majillune, ‘a quadara, ’a quartara, ‘u ntrincaturu, i salaturi, coltelli di vario genere e grosse funi.
L’esecuzione dell’animale avveniva in un contesto assai pittoresco. Ognuno aveva il suo compito ben preciso: chi scannava, chi depilava le cuoia con dell’acqua bollente, chi girava il sangue che doveva sgorgare come una fontanella dalla carotide del maiale affinché non si coagulasse per poter fare il sanguinaccio (veniva cotto a fuoco lento per tutta una giornata con l’aggiunta di noci, mandorle, uva passa, vino cotto e scorze di arancia).
Il povero animale, privo di vita, dopo avergli mozzato la testa, veniva diviso in due parti uguali (menzine); queste il giorno dopo venivano sezionate diligentemente per la preparazione di prosciutti, capicolli, soppressate, pancetta e salsicce; la testa veniva utilizzata soprattutto per la preparazione della gelatina (suzu). La bontà di codeste carni è conosciuta in tutto il nostro paese e anche all’estero.
Quello che è utile sottolineare è un altro aspetto di questa cerimonia e cioè il banchetto che si svolgeva in coincidenza con il giorno dell’uccisione e al quale venivano invitati amici e parenti come a voler dare testimonianza di una solidarietà tipica della gente umile. Le brave massaie preparavano l’abbondante pranzo con piatti tipici a base di carne suina: suffrittu, vrasciole, costolette alla brace, cavoli ripieni con polpette di carne, maccarruni fatti in casa, ed ancora contorni di funghi, cipolline in agrodolce, melanzane e come dessert i turdilli natalizi tutto questo inglobato in una allegra cornice di musica nostrana, di balli, tarantelle, canzoni improvvisate davanti al focolare. Tuttavia la festa non si limitava al giorno fatidico ma proseguiva poi con le cosiddette "frittule".
Un altro appuntamento attesissimo dove ci si ritrovava davanti ad un grosso pentolone, ‘a quadara, per gustare quelli che erano i resti del maiale: cotiche, lardo, frisuli (avanzo di pezzetti di carne dell’animale). Una vera festa dove venivano invitati amici e parenti.
Era consuetudine che, "all’uscita della quadara", un buon piatto di cotiche e frisuli venisse portato in assaggio ai parenti più stretti.
Nel corso della serata non mancava l’intermezzo festoso degli strinari i quali, informati della "festa", si autoinvitavano presentandosi puntualmente davanti alla casa al canto della tradizionale questua natalizia:
Cantu la strina e la cantu sana sana
criu ca è nesciuta la quadara.
Cantu ‘a strina supra a chinettella
vulissimu pruvare a coriella.

Fiore Sansalone