"RAPPORTO SULLA FEDE"
VITTORIO MESSORI
a colloquio con il cardinale
JOSEPH RATZINGER
1985 - Milano, Edizioni Paoline.
CAPITOLO NONO
LITURGIA TRA ANTICO E NUOVO
(pagg. 123 - 139)
Ricchezze da salvare
Cardinal Ratzinger, vogliamo parlare
un poco di liturgia, di riforma liturgica? E un problema
tra i più dibattuti e spinosi, è uno dei cavalli di battaglia
della anacronistica reazione anti-conciliare, dellintegrismo
patetico alla Lefebvre, il vescovo in rivolta proprio a causa di
certi aggiornamenti liturgici in cui crede di sentire odore di
zolfo, di eresia...
Mi ferma subito per precisare: « Davanti a certi modi concreti
di riforma liturgica e, soprattutto, davanti alle posizioni di
certi liturgisti, larea del disagio è più ampia di quella
dellintegrismo anticonciliare. Detto in altre parole: non
tutti coloro che esprimono un tale disagio devono per questo
essere necessariamente degli integristi ».
Vuol forse dire che il sospetto, magari la protesta per certo
liturgismo post-conciliare sarebbero legittimi anche in un
cattolico lontano dal tradizionalismo estremo? In un cattolico,
cioè, non malato di nostalgia ma disposto ad accettare
interamente il Vaticano II?
« Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia
risponde ci sono, come di consueto, modi diversi di
concepire la Chiesa, dunque Dio e i rapporti delluomo con
Lui. Il discorso liturgico non è marginale: è stato proprio il
Concilio a ricordarci che qui siamo nel cuore della fede
cristiana ».
I gravosi compiti romani impediscono a Joseph Ratzinger (per
motivi di tempo ma anche di opportunità) di continuare come
vorrebbe la pubblicazione di articoli scientifici e di libri. Ma,
a conferma dellimportanza che dà allargomento
liturgico, una delle poche opere che ha pubblicato in questi anni
è Das Fest des Glaubens, la festa della fede. Si tratta
appunto di una raccolta di brevi saggi sulla liturgia e su un
certo aggiornamento di fronte al quale si dichiarava
perplesso già dieci anni dopo la conclusione del Vaticano II.
Tiro fuori dalla borsa quel ritaglio del 1975 e leggo: « Lapertura
della liturgia alle lingue popolari era fondata e giustificata:
anche il Concilio di Trento laveva avuta presente, almeno a
livello di possibilità. Sarebbe poi falso dire, con certi
integristi, che la creazione di nuovi canoni per la Messa
contraddice la Tradizione della Chiesa. Tuttavia, resta da vedere
sino a che punto le singole tappe della riforma liturgica dopo il
Vaticano II siano state veri miglioramenti o non, piuttosto,
banalizzazioni; sino a che punto siano state pastoralmente sagge
o non, al contrario, sconsiderate ».
Continuo a leggere da quellintervento di Joseph Ratzinger,
allora professore di teologia ma già prestigioso membro della
Pontificia Commissione Teologica Internazionale: « Anche con la
semplificazione e la formulazione meglio comprensibile della
liturgia, è chiaro che deve essere salvaguardato il mistero dellazione
di Dio nella Chiesa; e, perciò, la fissazione della sostanza
liturgica intangibile per i sacerdoti e le comunità, come pure
il suo carattere pienamente ecclesiale ». « Pertanto
esortava il professor Ratzinger ci si deve opporre, più
decisamente di quanto sia stato fatto finora, allappiattimento
razionalistico, ai discorsi approssimativi, allinfantilismo
pastorale che degradano la liturgia cattolica al rango di circolo
di villaggio e la vogliono abbassare a un livello fumettistico.
Anche le riforme già eseguite, specialmente riguardo al rituale,
devono essere riesaminate sotto questi punti di vista ».
Mi ascolta, con lattenzione e la pazienza consuete, mentre
gli rileggo queste sue parole. Sono passati dieci anni da allora,
lautore di una simile messa in guardia non è più un
semplice studioso, è il custode dellortodossia stessa
della Chiesa. Il Ratzinger di oggi, Prefetto della fede, si
riconosce ancora in questo brano?
« Interamente non esita a rispondermi . Anzi, da
quando scrivevo queste righe altri aspetti che sarebbero stati da
salvaguardare sono stati accantonati, molte ricchezze superstiti
sono state dilapidate. Allora, nel 1975, molti colleghi teologi
si dissero scandalizzati, o almeno sorpresi, dalla mia denuncia.
Adesso, anche tra loro, sono numerosi quelli che mi hanno dato
ragione, almeno parzialmente ». Si sarebbero cioè verificati
ulteriori equivoci e fraintendimenti che giustificherebbero ancor
più le parole severe di sei anni dopo, nel libro recente che
citavamo: « Certa liturgia post-conciliare, fattasi opaca o
noiosa per il suo gusto del banale e del mediocre, tale da dare i
brividi...
La lingua, per esempio...
Per
lui, proprio nel campo liturgico sia negli studi degli
specialisti che in certe applicazioni concrete si
constaterebbe « uno degli esempi più vistosi di contrasto tra
ciò che dice il testo autentico del Vaticano II e il modo con
cui è stato poi recepito e applicato ».
Esempio sin troppo famoso, si sa (ed esposto al rischio di
strumentalizzazioni), è quello dellimpiego del latino, sul
quale il testo conciliare è esplicito: « Luso della
lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti
latini » (Sacrosanctum Conciliurn, n. 36). Più avanti, i
Padri raccomandano: « Si abbia (...) cura che i fedeli sappiano
recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dellOrdinario
della Messa che spettano ad essi » (n. 54). Più avanti ancora,
nello stesso documento: « Secondo la secolare tradizione del
rito latino, per i chierici sia conservata nellUfficio
divino la lingua latina » (n. 101).
Scopo del colloquio col card. Ratzinger, dicevamo allinizio,
non era certo mettere in rilievo il nostro punto di vista, bensì
riferire quello dellintervistato.
Tuttavia, personalmente per quanto poco importi
troviamo un po grottesco latteggiamento da vedovi
e orfani di chi rimpiange un passato tramontato per
sempre e non siamo affatto nostalgici di una liturgia in latino
che abbiamo conosciuto solo nel suo ultimo, estenuato periodo di
vita. Tuttavia, leggendo i documenti conciliari si può capire ciò
che vuol dire il card. Ratzinger: è un fatto oggettivo che,
anche solo limitandosi alluso della lingua liturgica, balza
agli occhi il contrasto tra i testi del Vaticano Il e le
successive applicazioni concrete.
Non si tratta di recriminare ma di sapere, da una voce autorevole,
come mai questo gap si sia verificato.
Lo vedo scuotere il capo: «Che vuole, anche questo è tra i casi
di una sfasatura purtroppo frequente in questi anni
tra il dettato del Concilio, la struttura autentica della Chiesa
e del suo culto, le vere esigenze pastorali del momento e le
risposte concrete di certi settori clericali. Eppure la lingua
liturgica non era affatto un aspetto secondario. Allorigine
della frattura tra Occidente latino e Oriente greco cè
anche una questione di incomprensione linguistica. È probabile
che la scomparsa della lingua liturgica comune possa rafforzare
le spinte centrifughe tra le varie aree cattoliche ». Aggiunge
però subito: «Per spiegare il rapido e quasi totale abbandono
dellantica lingua liturgica comune bisogna in verità anche
rifarsi a un mutamento culturale dellistruzione pubblica in
Occidente. Come professore, ancora allinizio degli anni
Sessanta potevo permettermi di leggere un testo latino a giovani
provenienti dalle scuole secondarie tedesche. Oggi questo non è
più possibile ».
« Pluralisrno, ma per tutti »
A
proposito di latino: nei giorni del nostro colloquio non era
ancora conosciuta la decisione del Papa che (con lettera in data
3 ottobre 1984, a firma del Pro-Prefetto della Congregazione per
il culto divino) concedeva il discusso indulto a quei
preti che volessero celebrare la messa usando il messale romano,
in latino appunto, del 1962. È, cioè, la possibilità di un
ritorno (seppure ben delimitato) alla liturgia pre-conciliare;
purché, si dice nella lettera, « consti con chiarezza, anche
pubblicamente, che questi sacerdoti e i rispettivi fedeli in
nessun modo condividano le posizioni di coloro che mettono in
dubbio la legittimità e lesattezza dottrinale del Messale
Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970 »; e purché la
celebrazione secondo il vecchio rito « avvenga nelle chiese e
negli oratori indicati dal vescovo, non però nelle chiese
parrocchiali, a meno che lordinario del luogo lo abbia
concesso, in casi straordinari ». Malgrado questi limiti e le
severe avvertenze (« in nessun modo la concessione dellindulto
dovrà essere usata in modo da recare pregiudizio allosservanza
fedele della riforma liturgica »), la decisione del Papa ha
suscitato polemiche.
La perplessità è stata anche nostra, ma dobbiamo riferire
quanto il card. Ratzinger ci aveva detto a Bressanone: pur senza
parlarci della misura che era evidentemente già stata
decisa e della quale di certo era al corrente ci aveva
accennato a una possibilità del genere. Questo indulto,
per lui, non sarebbe stato da vedere in una linea di restaurazione
ma, al contrario, nel clima di quel legittimo pluralismo
sul quale il Vaticano II e i suoi esegeti hanno tanto insistito.
Infatti, precisando di parlare a titolo personale, il
cardinale ci aveva detto: « Prima di Trento, la Chiesa ammetteva
nel suo seno una diversità di riti e di liturgie. I Padri
tridentini imposero a tutta la Chiesa la liturgia della città di
Roma, salvaguardando, tra le liturgie occidentali, solo quelle
che avessero più di due secoli di vita. È il caso, ad esempio,
del rito ambrosiano della diocesi di Milano. Se potesse servire a
nutrire la religiosità di qualche credente, a rispettare la pietas
di certi settori cattolici, sarei personalmente favorevole al
ritorno alla situazione antica, cioè a un certo pluralismo
liturgico. Purché, naturalmente, venisse riconfermato il
carattere ordinario dei riti riformati e venisse indicato
chiaramente lambito e il modo di qualche caso straordinario
di concessione della liturgia preconciliare ». Più che un
auspicio il suo, visto che poco più di un mese dopo doveva
realizzarsi.
Lui stesso, del resto, nel suo Das Fest des Glaubens aveva
ricordato che « anche in campo liturgico, dire cattolicità non
significa dire uniformità », denunciando che, « invece,
il pluralismo postconciliare si è dimostrato stranamente
uniformante, quasi coercitivo, non consentendo più livelli
diversi di espressione di fede pur allinterno dello stesso
quadro rituale ».
Uno spazio per il Sacro
Per
tornare al discorso generale: che rimprovera il Prefetto a certa
liturgia doggi? (O, forse, non proprio di oggi visto che,
come osserva, « sembra stiano attenuandosi certi abusi degli
anni postconciliari: mi pare che ci sia in giro una nuova presa
di coscienza, che alcuni stiano accorgendosi di avere corso
troppo e troppo in fretta ». « Ma aggiunge questo
nuovo equilibrio è per ora di élite, riguarda alcune
cerchie di specialisti mentre londata messa in moto proprio
da costoro arriva adesso alla base. Così, può succedere che
qualche prete, qualche laico si entusiasmino in ritardo e
giudichino davanguardia ciò che gli esperti sostenevano
ieri, mentre oggi questi specialisti si attestano su posizioni
diverse, magari più tradizionali »).
Comunque sia, ciò che per Ratzinger va ritrovato in pieno è «
il carattere predeterminato, non arbitrario, imperturbabile,
impassibile del culto liturgico ». « Ci sono stati
anni ricorda in cui i fedeli, preparandosi ad
assistere a un rito, alla messa stessa, si chiedevano in che modo,
in quel giorno, si sarebbe scatenata la creatività
del celebrante... ». Il che, ricorda, contrastava oltretutto con
il monito insolitamente severo, solenne del Concilio: « Che
nessun altro, assolutamente (al di fuori della Santa Sede e
della gerarchia episcopale, n.d.r.); che nessuno, anche se
sacerdote, osi di sua iniziativa aggiungere, togliere o mutare
alcunché in materia liturgica » (Sacrosanctum Concilium n.
22).
Aggiunge: « La liturgia non è uno show, uno spettacolo
che abbisogni di registi geniali e di attori di talento. La
liturgia non vive di sorprese simpatiche, di trovate
accattivanti, ma di ripetizioni solenni. Non deve
esprimere lattualità e il suo effimero ma il mistero del
Sacro. Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere
fatta da tutta la comunità, per essere davvero sua.
È una visione che ha condotto a misurarne il successo
in termini di efficacia spettacolare, di intrattenimento. In
questo modo è andato però disperso il proprium liturgico
che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui
accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare.
Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa
tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lassolutamente
Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona
ma serva, mero strumento) giunge sino a noi ».
Continua: « Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune,
è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve
essere predeterminata, imperturbabile,
perché attraverso il rito si manifesta la Santità di Dio.
Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata la
vecchia rigidità rubricistica, accusata di togliere creatività,
ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del fai-da-te,
banalizzandola perché lha resa conforme alla nostra
mediocre misura ».
Cè poi un altro ordine di problemi sul quale Ratzinger
vuole richiamare lattenzione: « Il Concilio ci ha
giustamente ricordato che liturgia significa anche actio, azione,
e ha chiesto che ai fedeli sia assicurata una actuosa
participatio, una partecipazione attiva ».
Mi sembra ottima cosa, dico.
« Certo conferma . E un concetto sacrosanto che però,
nelle interpretazioni postconciliari, ha subito una restrizione
fatale. Sorse cioè limpressione che si avesse una partecipazione
attiva solo dove ci fosse unattività esteriore,
verificabile: discorsi, parole, canti, omelie, letture, stringer
di mani... Ma si è dimenticato che il Concilio mette nella actuosa
participatio anche il silenzio, che permette una
partecipazione davvero profonda, personale, concedendoci lascolto
interiore della Parola del Signore. Ora, di questo silenzio non
è restata traccia in certi riti ».
Suoni e arte per lEterno
E
qui si aggancia un suo discorso sulla musica sacra, quella musica
tradizionale dellOccidente cattolico alla quale il Vaticano
II non ha certo misurato le lodi, esortando non solo a salvare ma
a incrementare « con la massima diligenza » questo che chiama
« il tesoro della Chiesa »; e, dunque, dellumanità
intera.
« Invece, molti liturgisti hanno messo da parte quel tesoro,
dichiarandolo accessibile a pochi, lhanno
accantonato in nome della comprensibilità per tutti e in
ogni momento della liturgia postconciliare. Dunque, non più
musica sacra relegata, semmai, per occasioni
speciali, nelle cattedrali ma solo musica duso,
canzonette, facili melodie, cose correnti ».
Anche qui il Cardinale ha facile gioco nel mostrare lallontanamento
teorico e pratico dal Concilio « secondo il quale, oltretutto,
Ia musica sacra è essa stessa liturgia, non ne è un semplice
abbellimento accessorio ». E, secondo lui, sarebbe anche facile
mostrare come « labbandono della bellezza » si sia
dimostrata, alla prova dei fatti, un motivo di « sconfitta
pastorale ».
Dice: « È divenuto sempre più percepibile il pauroso
impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci
si assoggetta solo allutile. Lesperienza ha mostrato
come il ripiegamento sullunica categoria del comprensibile
a tutti non ha reso le liturgie davvero più comprensibili,
più aperte, ma solo più povere. Liturgia semplice
non significa misera o a buon mercato: cè la semplicità
che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza
spirituale, culturale, storica ». «Anche qui
continua si è messa da parte la grande musica della
Chiesa in nome della partecipazione attiva: ma questa
partecipazione non può forse significare anche il
percepire con lo sprito, con i sensi? Non cè proprio nulla
di attivo nellascoltare, nellintuire, nel
commuoversi? Non cè qui un rimpicciolire luomo, un
ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che
ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla
superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a
ciò che è la nostra totalità? Chiedersi questo non significa
certo opporsi allo sforzo di far cantare tutto il popolo, opporsi
alla musica duso: significa opporsi a un
esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato
né dal Concilio né dalle necessità pastorali ».
Questo discorso sulla musica sacra intesa anche come
simbolo di presenza della bellezza gratuita nella
Chiesa sta particolarmente a cuore a Joseph Ratzinger che
vi ha dedicato pagine vibranti: « Una Chiesa che si riduca
solo a fare della musica corrente cade nellinetto
e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere
anche città della gloria, luogo dove sono raccolte e
portate allorecchio di Dio le voci più profonde dellumanità.
La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale:
deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e
svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello,
abitabile, umano ».
Anche qui, però, come già per il latino, mi parla di una
« mutazione culturale », anzi, quasi di una « mutazione
antropologica » soprattutto nei giovani, « il cui senso
acustico è stato corrotto, degenerato, a partire dagli anni
Sessanta, dalla musica rock e da altri prodotti simili ».
Tanto che (accenna qui anche a sue esperienze pastorali, in
Germania) sarebbe oggi « difficile far ascoltare o, peggio, far
cantare a molti giovani anche gli antichi corali della tradizione
tedesca ».
Il riconoscimento delle difficoltà obiettive non gli impedisce
una appassionata difesa non solo della musica, ma dellarte
cristiana in generale e della sua funzione di rivelatrice della
verità: « Lunica, vera apologia del cristianesimo può
ridursi a due argomenti: i santi che la Chiesa ha espresso
e larte che è germinata nel suo grembo. Il Signore
è reso credibile dalla magnificenza della santità e da quella
dellarte esplose dentro la comunità credente, più che
dalle astute scappatoie che lapologetica ha elaborato per
giustificare i lati oscuri di cui purtroppo abbondano le vicende
umane della Chiesa. Se la Chiesa deve continuare a convertire,
dunque a umanizzare il mondo, come può rinunciare nella sua
liturgia alla bellezza, che è unita in modo inestricabile allamore
e insieme allo splendore della Resurrezione? No, i cristiani non
devono accontentarsi facilmente, devono continuare a fare della
loro Chiesa un focolare del bello dunque del vero
senza il quale il mondo diventa il primo girone dellinferno
».
Mi parla di un teologo famoso, uno dei leaders del pensiero post-conciliare
che gli confessava senza problemi di sentirsi un barbaro.
Commenta: « Un teologo che non ami larte, la poesia, la
musica, la natura, può essere pericoloso. Questa cecità e
sordità al bello non è secondaria, si riflette necessariamente
anche nella sua teologia ».
Solennità, non trionfalismo
Ancora
in questa linea, Ratzinger non è affatto persuaso della validità
di certe accuse di trionfalismo, nel nome delle quali
si sarebbe gettato via con eccessiva facilità molto dellantica
solennità liturgica: « Non è affatto trionfalismo la solennità
del culto con cui la Chiesa esprime la bellezza di Dio, la gioia
della fede, la vittoria della verità e della luce sullerrore
e sulle tenebre. La ricchezza liturgica non è ricchezza di una
qualche casta sacerdotale; è ricchezza di tutti, anche dei
poveri, che infatti la desiderano e non se ne scandalizzano
affatto. Tutta la storia della pietà popolare mostra che anche i
più miseri sono sempre stati disposti istintivamente e
spontaneamente a privarsi persino del necessario pur di rendere
onore con la bellezza, senza alcuna tirchieria, al loro Signore e
Dio ».
Si rifà, come esempio, a ciò che ha appreso in uno degli ultimi
suoi viaggi in Nord America: « Le autorità della Chiesa
anglicana di New York avevano deciso di sospendere i lavori della
nuova cattedrale. La giudicavano troppo fastosa, quasi un insulto
al popolo, tra il quale avevano deciso di distribuire la somma già
stanziata. Ebbene, sono stati i poveri stessi a rifiutare quel
denaro e a imporre la ripresa dei lavori, non capendo questa
strana idea di misurare il culto a Dio, di rinunciare alla
solennità e alla bellezza quando si è al suo cospetto ».
Sotto laccusa del cardinale sarebbero dunque certi
intellettuali cristiani, certo loro schematismo aristocratico,
elitario, staccato da ciò che il popolo di Dio
davvero crede e desidera: « Per un certo modernismo neo-clericale
il problema della gente sarebbe il sentirsi oppressa dai tabù
sacrali. Ma questo, semmai, è il problema loro, di
clericali in crisi. Il dramma dei nostri contemporanei è, al
contrario, il vivere in un mondo sempre più di una profanità
senza speranza. Lesigenza vera oggi diffusa non è quella
di una liturgia secolarizzata, ma, al contrario, di un nuovo
incontro con il Sacro attraverso un culto che faccia riconoscere
la presenza dellEterno ».
Ma è sotto accusa, per lui, anche quello che definisce « larcheologismo
romantico di certi professori di liturgia, secondo i quali tutto
ciò che si è fatto dopo Gregorio I Magno sarebbe da eliminare
come unincrostazione, un segno di decadenza. A criterio del
rinnovamento liturgico non hanno posto la domanda: Come
deve essere oggi? , ma laltra: Come era
allora? . Si dimentica che la Chiesa è viva, che la
sua liturgia non pùò éssere pietrificata in ciò che si faceva
nella città di Roma prima del Medio Evo. In realtà, la Chiesa
medievale (o anche, in certi casi, la Chiesa barocca) hanno
proceduto a un approfondimento liturgico che occorre vagliare con
attenzione prima di eliminare. Dobbiamo rispettare anche qui la
legge cattolica della sempre migliore e più profonda conoscenza
del patrimonio che ci è stato affidato. Il puro arcaismo non
serve, così come non serve la pura modernizzazione ».
Per Ratzinger, poi, la vita cultuale del cattolico non può
essere ridotta al solo aspetto comunitario: deve
continuare ad esserci un posto anche per la devozione privata,
seppure ordinata al pregare insieme, cioè alla
liturgia.
Eucaristia: nel cuore della fede
Aggiunge
poi: « La liturgia, per alcuni sembra ridursi alla sola
eucaristia, vista quasi sotto lunico aspetto del banchetto
fraterno. Ma la messa non è solamente un pasto tra amici,
riuniti per commemorare lultima cena del Signore mediante
la condivisione del pane. La messa è il sacrificio comune della
Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si
partecipa. E la rinnovazione sacramentale del sacrificio di
Cristo: dunque, la sua efficacia salvifica si estende a tutti gli
uomini, presenti e assenti, vivi e morti. Dobbiamo riprendere
coscienza che leucaristia non è priva di valore se non si
riceve la Comunione: in questa consapevolezza, problemi
drammaticamente urgenti come lammissione al sacramento dei
divorziati risposati possono perdere molto del loro peso
opprimente ».
Vorrei capire meglio, dico.
« Se leucaristia spiega è vissuta solo come
il banchetto di una comunità di amici, chi è escluso dalla
ricezione dei Sacri Doni è davvero tagliato fuori dalla
fraternità. Ma se si torna alla visione completa della messa (pasto
fraterno e insieme sacrificio del Signore, che ha forza ed
efficacia in sé, per chi vi si unisce nella fede), allora
anche chi non mangia quel pane partecipa egualmente, nella sua
misura, dei doni offerti a tutti gli altri ».
Alleucaristia e al problema del suo ministro (che
può essere solo chi sia stato ordinato in quel « sacerdozio
ministeriale o gerarchico » il quale, riconferma il Concilio, «
differisce essenzialmente e non solo di grado » dal «
sacerdozio comune dei fedeli », Lumen Gentium, n. 10) il
card. Ratzinger ha dedicato uno dei primi documenti ufficiali a
sua firma della Congregazione per la fede. Nel « tentativo di
staccare leucaristia dal legame necessario con il
sacerdozio gerarchico », vede un altro aspetto di certa banalizzazione
del mistero del Sacramento.
È lo stesso pericolo che individua nella caduta delladorazione
davanti al tabernacolo: « Si è dimenticato dice
che ladorazione è un approfondimento della comunione. Non
si tratta di una devozione individualistica ma della
prosecuzione o della preparazione, del momento comunitario.
Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a
Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di
migliaia di persone) della processione del Corpus Domini. Anche
su questa gli archeologi della liturgia hanno da
ridire, ricordando che quella processione non cera nella
Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi:
al sensus fidei del popolo cattolico deve essere
riconosciuta la possibilità di approfondire,di portare alla luce,
secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli
è affidato ».
«Non cè solo la messa »
Aggiunge:
« Leucaristia è il nucleo centrale della nostra vita
cultuale, ma perché possa esserne il centro abbisogna di un
insieme completo in cui vivere. Tutte le inchieste sugli effetti
della riforma liturgica mostrano che certa insistenza pastorale
solo sulla messa finisce per svalutarla, perché è come situata
nel vuoto, non preparata e non seguita comè da altri atti
liturgici. Leucaristia presuppone gli altri sacramenti e ad
essi rinvia. Ma leucaristia presuppone anche la preghiera
in famiglia e la preghiera comunitaria extra-liturgica ».
A cosa pensa in particolare?
« Penso a due delle più ricche e feconde preghiere della
cristianità, che portano sempre e di nuovo nella grande corrente
eucaristica: la Via Crucis e il Rosario. Dipende
anche dal fatto che abbiamo disimparato queste preghiere se noi
oggi ci troviamo esposti in modo così insidioso alle lusinghe di
pratiche religiose asiatiche ». Infatti, osserva, « se recitato
come tradizione vuole, il Rosario porta a cullarci nel ritmo
della tranquillità che ci rende docili e sereni e che dà un
nome alla pace: Gesù, il frutto benedetto di Maria; Maria, che
ha nascosto nella pace raccolta del suo cuore la Parola vivente e
poté così diventare madre della Parola incarnata. Maria è
dunque lideale dellautentica vita liturgica. È la
Madre della Chiesa anche perché ci addita il compito e la meta
più alta del nostro culto: la gloria di Dio, da cui viene la
salvezza degli uomini ».
FINE DEL NONO CAPITOLO