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Zinalrothorn

Via normale, cresta sud-est

12-13 luglio 2003
Mirko, Andrea

Quella allo Zinalrothorn è stata una strana salita; strana per il fatto che deve essersi trattato di una delle montagne che ho affrontato con più leggerezza da quando faccio visita a questi '4000'. Questo nonostante sulla carta, effettivamente, non fosse realmente così elementare: dislivello non da poco, più o meno uniformemente distribuito in un paio di giorni, zaini molto pesanti, dato il materiale da campeggio, difficoltà - per noi - non banali, perché alla fin fine del terzo grado comunque ci aspettava. Eppure fin dal primo momento che si era parlato di questa salita l'avevo vista come una cosa da poco, una cosa semplice e ovvia, una specie di passeggiata ad alta quota, senza nessun peso, fisico o psicologico che fosse.
Il colpevole è, mi rendo conto, irrazionalmente, l'Obergabelhorn.
Sono già passati alcuni anni da quando eravamo saliti - io, Silvano e Galis - alla Rothornhutte per tentare lo Zinalrothorn, e invece per ignoranza ci eravamo trovati a camminare in direzione dell'Obergabelhorn: risparmio la narrazione della storia completa, che si prenderà altri spazi, comunque si era trattato di una salita imprevista a cui, a giochi fatti, non si era voluto rinunciare. Io alla fine non ci ero salito, avevo semplicemente trascorso 12 ore ad aspettare Silvano e Galis bloccato su una bella sella di neve, sotto il sole, con 39.5 di febbre - cosa già di per sé poco piacevole - ma mi erano bastati poi i racconti dei due salitori, delle creste affilate, dei muri di ghiaccio ripido, delle sicure su viti, del tempo infinito di percorrenza, tutto unito alla mia macabra fantasia e alla mia proverbiale avversione per il ghiaccio, per farmi un'idea di cosa doveva essere stata la salita di quella giornata. Sufficiente per farmi affermare, categoricamente, che se mai un giorno fossi salito sull'Obergabelhorn, non lo avrei sicuramente fatto per quella via.
Sono passati anni ma non ho cambiato idea; creste nevose ne abbiamo probabilmente fatte di peggiori, di ghiaccio ne abbiamo probabilmente affrontato di più ripido, le viti da ghiaccio abbiamo imparato ad usarle, le vie lunghe sono diventate normali... ma la mia repulsione per le vie su ghiaccio è peggiorata, e non ho cambiato idea. Deve essere stato per questo che da quando si era parlato di questa nuova ascensione in quella stessa zona e con la stessa meta originale di quella prima volta, il mio primo, sincero pensiero era stato: "Beh? E' solo lo Zinalrothorn! Mica l’Obergabelhorn!". Un pensiero e una sensazione che mi sarei portato dentro per tutto il tempo, dal momento della decisione fino al ritorno a casa. Niente di più che lo Zinalrothorn, che vuoi che sia...

Per andare con ordine dovrei dire di quello che è successo.
La salita è decisa per un fine settimana di luglio. Probabilmente non sono ancora abbastanza allenato, e sicuramente non sono acclimatato alla quota, visto che si dovrebbe trattare del primo 4000 della stagione, ma qualcosa abbiamo già fatto, anche un paio di 3800, la Gran Casse e il Monviso, così non sono preoccupato; sono solo curioso di vedere come reagirà il mio stomaco ai 4200 della nostra meta. Quanto alla fatica, quella me l'aspetto, ma mi va bene così: abbiamo deciso di non tornare a fare visita a quei simpaticoni della Rothornhutte (tralascio ragioni e descrizioni per non rovinarmi la giornata col loro ricordo), quindi ci porteremo tenda e materiale da campo, e a me va più che bene: si faticherà un po' di più, per il peso del materiale e per il fatto che dovremo accamparci parecchio più in basso del rifugio, ma il pensiero di una notte all'aperto, senza il caos del rifugio, in un posto come quello, ripaga di ogni cosa.
Partenza, al solito, il sabato intorno a mezzogiorno: non abbiamo problemi di orari, funivie da prendere, rifugi da raggiungere, ma la camminata sarà lunga, perciò nonostante gli impegni lavorativi di Galis cerchiamo di non tardare troppo. Un viaggio tranquillo fino a Tasch, e poi la solita routine: il mega-parcheggio, i preparativi, il trenino fino a Zermatt... Tra tutto una sola nota descrittiva del clima del viaggio: l'attraversamento della dogana svizzera al Sempione, quando alla domanda del doganiere su dove fossimo diretti, Galis risponde sincero e innocente: "in montagna...!"
Saliamo piuttosto lentamente, prima in paese, poi lungo i primi prati, poi sui tornanti che portano al primo bar-rifugio di cui ovviamente non ricordo il nome, poi lungo il sentiero che costeggia a sinistra la scoscesa valle intagliata proprio sopra Zermatt. Si fanno sentire sia il peso degli zaini, molto carichi, in modo particolare quello di Galis che porta anche la tenda, sia il caldo, anche se in questo primo tratto abbiamo la fortuna di dover seguire un sentiero spesso protetto dall'ombra del bosco. Arrivati al ponte, anche questa volta, come anni fa, ci fermiamo qualche minuto, per scendere al fiume e riposare. Il sentiero prosegue meno faticoso ma più caldo, tra prati, fino al secondo rifugio, il Trift Hotel. Qui non ci fermiamo; sfiliamo incuranti davanti alle persone sedute ai tavoli all’aperto. E' già tardi, sono già passate le sei, e da qui alla Rothornhutte mancano almeno un paio d'ore di cammino; dovremmo avere suscitato parecchia curiosità a passare così carichi a quell'ora.

Il Breithorn dai pressi del campo

Facciamo qualche foto, quindi proseguiamo tra prati e detriti morenici, senza ancora sapere dove ci saremmo fermati per la notte. Saliamo incerti, ci fermiamo spesso per scattare qualche altra foto e per controllare dove ci potremmo accampare. Alle sette e mezza ancora non abbiamo deciso, ma dovremo fermarci prima di raggiungere la base dell'ultima rampa morenica che porta al rifugio, quindi ora la nostra priorità è quella di trovare il posto adatto. Troviamo un paio di posti che ci sembrano buoni, comodi e riparati, ma in questo tratto della valle non si trova quasi acqua, e dopo ogni sosta decidiamo di ripartire e di continuare la ricerca. Arriviamo proprio fino all'ampio anfiteatro al termine della valle, dove ripidi prati, pareti rocciose verticali e altissime cascate provenienti dai ghiacciai soprastanti, circondano un vasto spazio pianeggiante, un fondo di morena attraversato da innumerevoli ruscelli e torrenti, con numerose pozze, tratti stagnanti, guadi e prati. Ci portiamo verso destra, in un tratto che sembra meno tormentato da sassi e acqua, e dietro a una duna ghiaiosa ci imbattiamo nel posto perfetto: una piazzola erbosa perfettamente piana, circondata su due lati da muretti di rocce eretti da precedenti campeggiatori, e su un lato protetta dalla duna morenica; è un posto comodo, protetto dal vento, c'è acqua in abbondanza, siamo nascosti al rifugio, ed è un posto mozzafiato: pareti, cascate, tranquillità e un panorama grandioso sul Rosa, il Lyskamm, i Breithorn... assolutamente perfetto.
Prepariamo il campo, alziamo i muretti,

Una luna sorta tra le cime del Rosa e il Lyskamm

Galis aggiunge un muro anche sul quarto lato della piazzola; io intanto preparo la cena: risotto e salsicce... liofilizzato. Non male; idem i panini, le insalate di tonno, le sardine, il solito scatolame da campeggio e i soliti numerosi tè. Dopo il tramonto immortaliamo una luna che nasce tra il Rosa e il Lyskamm, proprio sopra alla Ludwigshoe; poi a nanna. La sveglia è fissata per le 2:15. Contiamo di partire per le 3 e di raggiungere in un ora la Rothornhutte, più o meno quando prevediamo che dovrebbero partire le prime cordate per la nostra stessa meta.
La mattina rispettiamo perfettamente i piani: una colazione con tè e biscotti, ci prepariamo e poi via, in orario. Saliamo con calma, consapevoli della lunga camminata che ci aspetta, e pochi minuti prima delle quattro abbiamo completato la risalita della morena e passiamo all'esterno del rifugio mentre inizia il viavai dei primi alpinisti che si stanno preparando; non è partito ancora nessuno. Continuiamo senza fermarci, seguiamo il sentiero sopra al rifugio, proseguiamo lungo le prime macchiette di neve e poi, quando diventa chiaro che il cammino deve proseguire solo su ghiacciaio, ci fermiamo ad attrezzarci con corda e ramponi. Rimaniamo fermi parecchio e quando ripartiamo stanno già arrivando le prime cordate partite dal rifugio.
Non conosciamo la via, ovviamente,

Andrea al campo

e c'è solo una labile traccia nella neve, che seguiamo fino a quando possiamo, lungo i primi pendii più ripidi che aggirano il bastione roccioso che sovrasta il rifugio. Passiamo qui una prima volta su roccia, per pochi passaggi di arrampicata e un tratto di facili gradoni appoggiati; poi di nuovo neve per un pendio che affrontiamo direttamente, poi ancora qualche roccetta e sempre lo stesso facile terreno a gradoni. Tutto mi ricorda la vecchia salita al Lagginhorn, con Silvano, Galis e Michele. Ci aspetta un nuovo tratto di neve, un lungo traverso a sinistra, e poi di nuovo roccia, questa volta lungo una dorsale più definita. Questo tratto di salita è tutto così, un'alternanza di nevai e facili roccette, ramponi da mettere e togliere in continuazione, la direzione da cercare. Siamo sempre i primi fino all'inizio di un lungo traverso su neve, dove ci fermiamo per mettere i ramponi per l'ennesima volta; qui una cordata di due alpinisti, che avevamo visto avvicinarsi decisa, ci supera. La vediamo allontanarsi costante, la terremo in vista per meno di mezz'ora, poi la perderemo definitivamente.
Arriviamo all'inizio di un ennesimo tratto nevoso dove dobbiamo scegliere tra due possibili tracce. Non conosciamo il posto, quindi ci affidiamo al caso e all'intuito: una traccia a sinistra taglia un ampio pendio nevoso, ma ci sono un paio di macchie che intuiamo di ghiaccio, quindi lasciamo perdere; la seconda traccia, che noi seguiamo, sale prima più decisa, poi si sposta vicino ad uno speroncino roccioso, che prendiamo per comodità. Raggiungiamo una facile cresta nevosa, che pianeggiante conduce fino all'edificio sommitale dello Zinalrothorn; da qui possiamo vedere la cima e l'intero lungo tratto di arrampicata che ce ne separa. Dietro di noi salgono le altre cordate; alcune hanno scelto la nostra stessa traccia, altre sono passate sul pendio nevoso, ma le vediamo in difficoltà, rallentate proprio in quei tratti che ci sembravano ghiacciati. Una cordata finalmente ci raggiunge e ci supera mentre siamo fermi a riposare all'inizio della crestina di neve; proseguono verso la cima, lungo la cresta, ma al termine della neve si fermano e rimangono perplessi ad osservare. Quando ripartiamo e li raggiungiamo di nuovo, sono ancora lì; sembra che stiano prendendo decisioni sul da farsi.
Guardando l'arrampicata che ci aspetta l'ambiente inizia a mettermi soggezione: ci sono una serie di cenge spioventi e sporche di sabbietta che non mi piacciono, poi un canalino che taglia l'intera parete in direzione di una evidente forcella. La forcella è il punto che dovremmo raggiungere prima di prendere la cresta finale che porta fino alla vetta, ma il canale - da seguire a volte sul fondo, a volte lungo gli speroni di sinistra - appare molto sporco e friabile. Il tutto mi da una grande impressione di instabilità e visto dal nostro punto di osservazione sembra parecchio ripido e complicato. Senza restare lì a rimuginarci troppo sopra parto deciso con un "andiamo a vedere".
Andiamo alla base del tratto roccioso, abbandoniamo piccozze e ramponi, ci attrezziamo con il materiale da roccia, qualche moschettone e qualche fettuccia, e poi andiamo. Stiamo sempre in conserva e ci muoviamo abbastanza bene; da vicino, come sempre, le cose sono più semplici di come appaiano all'osservazione. Procediamo tranquilli; io comincio a sentire la stanchezza della camminata ed inizio a farmi un po' incerto, ma l'arrampicata non è complicata, anche se qualche punto esposto non va d'accordo con i miei sbadigli, e la testa inizia a girarmi un po’, immagino per la quota. La linea di salita è più o meno quella che avevamo intuito dalla base e più o meno quella che Galis ricorda di avere letto nella relazione che ha studiato. Si segue un tratto di canale, molto sporco, poi ci si porta a sinistra e si arrampica su roccia buona e salda, ma più difficile. Arrivati ad un doppio canalino che taglia la parete a sinistra del canale principale dobbiamo decidere da quale parte andare; la totale assenza di indicazioni questa volta ci permette di sbagliare: niente segni di ramponi, niente roccia consumata... probabilmente abbiamo già sbagliato direzione più in basso, probabilmente siamo già dove non dovremmo essere, ma di scendere non abbiamo voglia,

Mirko sulla cresta in vista della cima

quindi decidiamo di proseguire fino a un punto che vediamo essere più facile, più vicino al canale. Dobbiamo superare uno strapiombino poco appigliato e esposto; io non mi sento sicuro, quindi lascio andare Galis, che in questo tratto si fa capocordata, e supera il passaggio molto bene; quando tocca a me mi accorgo che una volta in più non raggiungo la maniglietta che vorrei raggiungere e che quei cinque centimetri di lunghezza che madre natura mi ha negato mi avrebbero fatto davvero comodo. Con un po' di incertezza raggiungo Galis, quindi proseguo su roccia più facile fino alla forcella.
Do un'occhiata da qui in direzione della cresta, ma non mi sembra molto bello; Galis ricorda che la relazione che conosce dice che dalla forcella è necessario scendere sul versante opposto per parecchi metri; in effetti c'è un canalino spaccato che porta alla base di un diedro e una serie di fettucce appese lungo la linea di salita del diedro, quindi proviamo, anche se in realtà non mi piace per niente: la parete da risalire non sembra per nulla facile, non sembra per nulla stare entro quel terzo grado che ci annunciavano le relazioni. Comunque scendiamo fino alla base del diedro e poi inizio a salire; prima abbastanza facile, poi difficile, poi molto difficile; salgo per una decina di metri, ma poi le cose si complicano parecchio e la roccia che trovo conferma le difficoltà osservate dalla forcella. Decido di scendere e di provare a cercare un passaggio direttamente sulla cresta. Mentre scendo arrivano alla forcella le cordate dei primi inseguitori che ci chiedono se stiamo scendendo. Raccontiamo quello che abbiamo fatto e loro ci informano che in realtà la via giusta segue davvero la cresta.
Mentre loro proseguono, quindi, torno da Galis, risaliamo alla forcella, e poi andiamo a trovare l'attraversamento giusto alla cresta, veramente facile. Per una inesattezza della relazione di salita abbiamo

Mirko e Andrea in cima allo Zinalrothorn

perso una buona mezz'ora, tra salite discese incertezze e decisioni. Vabbè; ci accodiamo alle cordate che ormai sono passate. Sono tutti molto lenti, ma va bene lo stesso. Rimaniamo in coda, andiamo piano e tranquilli; nel frattempo mi riposo e mi riprendo dalla stanchezza che mi era caduta addosso da quando avevamo iniziato l'arrampicata. La cresta è dapprima complicata, per via della presenza di neve e ghiaccio tra le roccette: un misto non difficile ma che richiede attenzione; troviamo anche uno spezzone di corda fissa che facilita la risalita di una spaccatura più esposta delle altre. Poi con la roccia pulita diventa tutto molto più facile; oltretutto, una volta raggiunto il vero filo di cresta, troviamo anche il sole e finalmente il caldo che il vento gelido del versante in ombra ci aveva fatto sognare.
Con gli ultimi passi di arrampicata raggiungiamo la cima del primo 4000 della stagione, un po' delusi per l'errore appena commesso, ma confortati dalla constatazione del nostro buono stato di preparazione e ripagati dal posto in cui ci troviamo: con il Weisshorn su un lato e sull'altro una incredibile vista su Obergabelhorn, Wellenkuppe, Dent Blanche e Cervino, facciamo in fretta a finire le poche fotografie che ancora avevamo a disposizione.
Rimaniamo in cima per parecchio, ma poi con il pensiero della lunga camminata che ci aspetta fino a Zermatt, decidiamo di ripartire. Scendiamo velocemente, lungo la cresta, lungo il tratto di misto, raggiungiamo la forcella, scendiamo lungo le pareti e gli speroni che costeggiano il canalone... Abbiamo una sola cordata sotto di noi e mentre arrampichiamo in prossimità del canale arrivano alla forcella tutte le cordate che ancora ci seguono. Alcuni tra di loro decidono di non scendere in arrampicata, ma di fare una serie di doppie proprio dentro al canale: uno sfacelo! Cominciano a scaricare un sasso dietro l'altro e insulti e bestemmie iniziano a risalire dagli abissi. Per un po' si placano, ma poi ricominciano. Non resta che levarsi di torno alla svelta, ed è quello che facciamo.
Arriviamo alla base delle rocce molto velocemente, ci attrezziamo di nuovo con il materiale da neve e ce ne andiamo. La discesa la facciamo per la via più diretta, attraverso il ghiacciaio: con il caldo le macchie ghiacciate si sono ammorbidite, sono rotte e porose, ed è molto facile attraversarle. Poi quello che ci aspetta è di nuovo quell'alternarsi di nevai e

Il panorama dalla cima dello Zinalrothorn comprende Cervino, Dent d'Herens, Obergabelhorn e Wellenkuppe

tratti rocciosi, che percorriamo con calma, sempre più lenti, perché la stanchezza ormai si fa sentire pesante. E' da quando abbiamo ricominciato la discesa su neve che la tensione e la concentrazione sono sparite e hanno lasciato spazio a rilassatezza e stanchezza; insieme anche gli effetti della quota accumulati cominciano ad uscire.
Attraversiamo la stessa via di salita fino al rifugio. Avevamo programmato di fermarci qualche minuto per comprare qualcosa da bere e per riposarci, ma non abbiamo voglia di toglierci gli scarponi per entrare, né di stare lì ad aspettare in mezzo al chiasso, quindi proseguiamo dritti senza fermarci, lungo la morena, in direzione della nostra tenda. Ci fermiamo solo qualche minuto oltre il rifugio, dove troviamo uno spiazzo e un ruscelletto, che usiamo per riempire le borracce ormai vuote da parecchio. Senza problemi raggiungiamo la tenda; quando ci arrivo mi sento meglio, meno stanco, ma nell'ora di tempo che impieghiamo per smontare il campo e ricaricarci con tutto il peso del nostro materiale ricomincio a risentire dei sintomi di un tardivo mal di montagna. Come succede sempre, il fermarsi troppo a lungo peggiora i sintomi, ma quando si riparte, al di la della stanchezza, tutto passa in pochi minuti.
Raggiungiamo Zermatt che sono già passate le sei, dopo 15 ore di cammino, meno un paio di pause. Da qui in avanti la storia finisce: si beve una coca, si rientra a Tasch in treno, si recupera la macchina, ci si sistema, e poi si torna a casa... chi guidando... chi dormendo. Per fortuna la macchina era di Galis.


Mirko Sala Tesciat
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