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Grand Combin

Versante nord-ovest

7-8 agosto 1998
Mirko, Andrea, Silvano

Tardi è tardi, ma alla fine anche il Grand Combin merita il suo spazio tra queste pagine, perché non si può dire che la salita del ’98 sia stata solo una camminata come tante altre.

Una vista serale sul Grand Combin, dalla Cabane du Panossiere

Le sue particolarità le ha avute come ne hanno avute tutte le salite di questi anni di montagne, ognuna certamente in diritto di vantare la propria unicità e di reclamare il proprio posto tra i ricordi di queste nostre piccole avventure, ma per una sopra a tutte - in positivo o in negativo dipende dai punti di vista - questa salita si è guadagnata un posto molto speciale tra questi ricordi, una particolarità che possiamo riassumere nel semplice fatto che oggi siamo ancora qui a scriverne, quindi, dopotutto, tanto male non può essere stata.

Per mettere le cose in ordine dovrei iniziare col parlare della situazione che precede la salita. Siamo a inizio agosto e ci troviamo in pieno GRAC Tour; siamo in giro da qualche giorno, nella zona di Courmayeur, reduci da una bella salita al Dente del Gigante e da un tentativo di traversata della Cresta di Rochefort; abbiamo lasciato ieri il rifugio Torino.
Oggi è venerdì 7, e quando ci svegliamo ci troviamo al campeggio di Planpinceux, pronti per la terza tappa del Tour. Abbiamo già fatto i nostri programmi: pensiamo di trasferirci a Fionnay e raggiungere la Cabane Panossiere, a nord del Grand Combin; speriamo di riuscire a salirci domani. Ci alziamo piuttosto tardi, non abbiamo fretta, abbiamo parecchio tempo da perdere perché la mattinata sarà dedicata semplicemente al viaggio in macchina. Smontato il campo e sistemati i bagagli partiamo per Fionnay. Viaggio di routine, attraverso Aosta e il Gran San Bernardo; facciamo la barba a Martigny, entriamo nella Val de Bagnes, tocchiamo Fionnay e infine Mauvoisin.
Arriviamo a destinazione proprio intorno all’ora di pranzo. Vicino al parcheggio scorre un torrentello e ci sono dei tavolini da pic-nic; mangiamo su una panchina all’ombra di freschi alberi. Solo quando ci siamo ben riempiti ed il sole ha raggiunto lo zenith ci decidiamo a partire alla volta della Panossiere. A dispetto della temperatura saliamo piuttosto velocemente; stiamo tutti abbastanza bene, anche Silvano nonostante il poco allenamento di quest'anno. La valle che attraversiamo mi appare incantevole; non mi rendo conto se lo sia davvero o se piuttosto non mi trovi in uno stato di allucinazione indotto dalla disidratazione. La nota dolente della salita è proprio la mancanza d’acqua: siamo partiti senza perché Andrea, che è già stato qui tre anni fa, dice che se ne trova ovunque, in valle, ma, per la prima ora e quaranta, nemmeno l’ombra: la disidratazione gioca brutti scherzi anche alla sua memoria.

Andrea e Silvano di fronte al nuovissimo rifugio

Arriviamo al rifugio alle cinque e mezza; ci insediamo all’esterno, spanteghiamo la nostra roba un po' dappertutto, sperando di asciugare il maggior numero possibile di indumenti sudati. Passiamo la nostra serena serata mangiando, scattando fotografie e godendoci il piacevole fresco del posto. Mi piace qui. Il Grand Combin appare splendido. La Panossiere poi è un bellissimo rifugio, nuovo e molto efficiente; è stato completamente ricostruito negli ultimi anni, non è più il vecchio stabile in cui era stato Andrea nel '95: di quello non rimane che qualche rudere, a poca distanza dal nuovo. Notiamo la comodità delle luci delle stanze (corridoi, servizi, la stanza dove ci cambieremo la mattina...): non esistono interruttori, ma ci sono sensori sensibili al movimento e le luci si accendono automaticamente quando qualcuno entra in un locale. Fantascientifico, building automation ai massimi livelli. Peccato quello che capita quando qualcuno si trova già in una stanza e ci deve rimanere per un po’ senza muoversi: pare che i sensori di movimento non siano posizionati molto bene, sono molto sensibili nelle zone di ingresso, in prossimità delle porte, e molto poco verso l'interno; se ci si trova seduti da qualche parte per troppo tempo non c'è verso: dopo un po' le luci si spengono e per quanto uno si sbracci non si riaccendono, si è costretti a rialzarsi e farsi una passeggiata verso una porta per farle tornare.
Passiamo la notte un po’ stretti, siamo in tre compressi in due letti, consapevoli che il tre per due non sarà valido al momento di saldare il conto; vabbè, niente di male, nonostante tutto passo una buona nottata, riesco a riposare bene; non so se vale lo stesso per i miei compagni.

La sveglia suona presto perchè la camminata sarà parecchio lunga: alle 2 siamo in piedi, pronti per la colazione. Ci arrangiamo con quello che i gestori ci hanno lasciato su un tavolo, quindi andiamo a prepararci per la salita.
Abbiamo immediatamente la conferma di quello di cui avevamo avuto impressione ieri, ascoltando i discorsi serpeggianti per il rifugio: pare che quasi nessuno abbia intenzione di andare verso il Grand Combin. Sembra che la maggioranza dei presenti sia diretta al Petit Combin; molti pensano a cime minori; altri sono qui solo per una passeggiata e non si muoveranno nemmeno dal rifugio. Qui constatiamo che oltre a noi solo altre tre persone si sono alzate: una cordata e uno scialpinista solitario; saremo gli unici sei diretti al Grand Combin; e tra tutti pare che noi tre siamo gli unici intenzionati a toccarne tutte le tre cime.
Durante i preparativi abbiamo modo di chiacchierare con i presenti; due conoscono bene il posto e ci confermano le poche nozioni che abbiamo appreso sulla via di salita. Tre anni fa Galis era stato qui da solo, con l'intenzione di salire per il 'Corridor'; per sua fortuna aveva trovato chi gli aveva spiegato che non si trattava di una buona idea; aveva poi seguito per un tratto una cordata che si era diretta verso la nord-ovest e ne aveva dedotto che si doveva trattare della via migliore e più sicura. Già allora sapeva che il Corridor avrebbe potuto essere un azzardo, ma non aveva idea di 'quanto' azzardo potesse rappresentare. Oggi siamo qui con l'intenzione di ripetere insieme la nord-ovest, di completare la traversata delle tre cime, e quindi di scendere per il Corridor il più velocemente possibile. I nostri due interlocutori ci confermano che la salita per la nord-ovest è la scelta migliore per chiunque abbia a cuore la propria incolumità. Noi ne abbiamo. Ci raccomandano di fare attenzione anche se solo per la discesa: pare che per le scariche di ghiaccio sul Corridor non sia mai abbastanza presto e mai abbastanza freddo. Tanto per rendere le cose chiare fin da subito: ancora non ne abbiamo la piena consapevolezza - purtroppo l'avremo solo più tardi - ma è vero che a causa delle frequenti scariche di ghiaccio l'attraversamento del Corridor è in tutto paragonabile ad una specie di roulette russa, dove la differenza tra uno sparo e un colpo a vuoto è solo una questione di probabilità.
L'intera conversazione è resa piuttosto movimentata dai famosi sensori per la luce, che costringono a continue interruzioni e passeggiate indesiderate. Il buio non è particolarmente dannoso per la conversazione in sè, ma i preparativi purtroppo non ne traggono giovamento se ogni volta che stai per finire di annodare una stringa ti devi alzare, farti un giro, risederti e ricominciare tutto da capo. Al tempo avevo ancora l'abitudine di mettermi le mie inutili ghette: solo per quelle e per i nodi agli scarponi devo avere impiegato più di un quarto d'ora; una delle operazioni più sfibranti dell'intera giornata.

Alle tre meno cinque, nonostante i complotti della tecnologia, partiamo per il Grand Combin.
L'avvicinamento è infinito. Il ghiacciaio che attraversiamo - che oggi che scrivo apprendo chiamarsi Glacier de Corbassiere - non è faticoso, grazie alla poca pendenza che ci si deve affrontare, ma è parecchio crepacciato e davvero sembra non finire mai. Lo risaliamo tenendoci sempre piuttosto vicini alla sponda destra, al di sotto dei versanti di tutti quei piccoli Combin (Petit, Corbassiere, Boveyre...) che fanno compagnia ai 'Grandi', ancora lontani. Troviamo un po' di pendenza solo poco prima del plateau delle Maisons Blanches, quindi, dopo un ultimo lungo semicerchio verso sud, raggiungiamo i piedi del 'nostro' versante nord-ovest.
Per tutto il tragitto ci siamo mantenuti a poca distanza dai due che ci avevano fatto compagnia al rifugio. Anche ora non sono molto distanti da noi, ma prima di attaccare la parete ci fermiamo per un bel po' e da qui in avanti perderemo progressivamente strada; da metà salita in poi non li avremo più in vista.

In salita lungo lo scivolo del versante nord-ovest

Ci impegnamo dunque nella risalita della rampa di questo versante che non ci si prospetta semplice. La troviamo ripida e molto ghiacciata: a tratti troviamo ghiaccio poroso e gibboso, tutto sommato piuttosto semplice, ma a tratti ghiaccio liscio e nero, molto fastidioso. Mai neve decente. I racconti della prima salita di Andrea parlavano di un bel manto nevoso e di una bella traccia (che Galis da solo aveva salito e ridisceso); quello che troviamo oggi, purtroppo, ha tutt'altro aspetto. La pendenza inizialmente non è particolarmente impegnativa, ma aumenta progressivamente fino a portarsi intorno ai 50° a metà altezza; insieme alla pendenza peggiora la qualità del terreno, che si fa sempre più infido, il ghiaccio sempre più compatto e liscio. Tra questo e l'accresciuta esposizione inizio a trovare la salita decisamente più psicologica di quanto non mi fossi aspettato inizialmente. Non mi sento molto sicuro: sto bene per me e sono sicuro di quello che faccio, ma non riesco a sentirmi tranquillo per il resto della cordata e non riesco a non pensare che non saprei fare niente per aiutare la cordata in caso di scivolate. E’ una situazione che non mi piace per niente e mi procura parecchio stress.
Verso il termine della parete, finito questo scivolone di ghiaccio che ci ha tenuti impegnati per parecchio tempo, ci troviamo di fronte ad una particolare gobba ghiacciata, molto pronunciata: rovina la regolarità dello scivolo e ci mette davanti ad un dilemma. E' chiaro che si tratta dell'ultimo problema prima dell'accesso ai seracchi di uscita dalla nord-ovest, e che una volta passata ci si dovrebbe trovare su terreno migliore, ma dobbiamo decidere da quale parte passarla: se aggirarla a destra o a sinistra. Sarebbe bello avere ancora in vista i nostri due vecchi compagni, ma davanti non si vede più nessuno ormai, e tracce nel ghiaccio non ce ne sono. Decidiamo per la destra, solo per il fatto di esserci più vicini, perchè la possiamo raggiungere più direttamente e perchè ci sembra più breve: da qui non possiamo dire quale sia effettivamente il lato più semplice; la sinistra sembra meno ripida ma richiederebbe un aggiramento più lungo su ghiaccio vivo.
Dobbiamo superare un bel muretto di ghiaccio, molto ripido; lo trovo molto impegnativo, il ghiaccio è durssimo, faccio parecchia fatica e continuo a non sentirmi molto sicuro. Per la prima volta decido di mettere mano alle viti: ne metto una nel mezzo del muretto più ripido, quindi mi impegno in una breve diagonale verso destra per cercare terreno più abbattuto. Metto una seconda vite nel punto in cui mi fermo per una sosta; recupero mentre mi raggiungono Silvano e Andrea, quindi riparto per un secondo tiro, in diagonle più pronunciata verso sinistra, in direzione del culmine della gobba. Uso l'ultima vite necessaria a metà del traverso, quindi raggiungo più facilmente la breve rampa di uscita. Ci trovo inaspettatamente della buona neve compatta, ma proprio mentre sono lì a rallegrarmene, ormai conscio del termine delle difficoltà, sento che la placcona di neve su cui mi trovo ha un cedimento: si sente un tonfo, quindi tutta la placcona ha uno scatto verso il basso; in una frazione di secondo tutto il mondo mi si è spostato in avanti di un paio di centimetri. Al momento mi immobilizzo, raggelato, spaventato come sono; mi concedo il tempo di riprendermi chiedendo ai ragazzi se si sono accorti del botto; mi dicono di si, e mi fanno presente che non è il caso di starci a pensare sopra per troppo tempo, lì in mezzo. Infatti riparto, molto più veloce di quanto non sia stato fino a questo momento. Complice soprattutto la semplicità di salita su questa bella neve gelata. Solo un paio di metri, fino al termine della gobba, dove mi posso fermare per assicurare la salita degli altri.

Mirko in cima al Grand Combin de Valsoray; sullo sfondo il Monte Bianco

Qui ci troviamo definitivamente su neve buona e la pendenza diminuisce parecchio nel tratto che ci separa dai seracchi di uscita. Tra l'altro torna a farsi vedere qualche traccia della cordata che ci ha preceduto e vediamo che i due sono saliti dalla sinistra della gobba. Ovviamente.
Superiamo l'ultimo tratto di pendio, facile con questa neve, quindi ci infiliamo in un bel caminetto tra i seracchi: una sottile rampa scavata nella neve, divertente e suggestiva, piuttosto ripida ma per niente esposta e con neve molto buona, tutto sommato decisamente agevole. Poi un breve traverso su ghiaccio, non ripido, e infine un ultimo pendio, che porta sul plateau tra il Valsorey e il Graffeneire.
Ci troviamo finalmente sul facile versante nord del Grand Combin de Graffeniere. Silvano decide di slegarsi e fermarsi qui per un po': si dice stanco e preferisce non proseguire con me e Andrea fino al Valsoray; ha intenzione di riposare qui e quindi di incamminarsi in direzione del Graffeneire mentre noi completiamo il nostro giro. Io e Galis invece proseguiamo velocemente fino al colle tra Valsorey e Graffeneire e quindi saliamo al Valsorey lungo la facile cresta sud-est. Rimaniamo in cima per pochissimo, il tempo di una stretta di mano e un paio di fotografie, quindi scendiamo e iniziamo la risalita del Graffeniere. A metà cresta ritroviamo Silvano, che ci ha aspettato per parecchio tempo al colle; saliamo insieme fino in cima.

Iniziamo qui a porci il problema della discesa, che mi preoccuperà fino a cose fatte, in un crescendo inimmaginabile. Prima penso con calma al Corridor, poi sempre con maggior apprensione. Ci domandiamo anche a tratti se non sia il caso di pensare a una discesa alternativa, ma scartiamo con decisione la discesa per il versante appena salito, ed ogni altra direzione ci si presenta troppo lunga: spalla Isler, arete du Meitin e via dicendo, sono tutte soluzioni che non possiamo prendere in considerazione in questo momento.

Andrea e Mirko in cima al Grand Combin de Graffeneire; sullo sfondo il Mont Velan

Tra il fatto che non conosciamo bene il Corridor e il fatto che teniamo anche alla salita al Tsessette, ci decidiamo a continuare con la traversata: il programma originale ci sembra sempre il migliore.
Quando iniziamo a scendere dal Graffeniere sono preoccupato ed ho fretta. Seguiamo la cresta nevosa di discesa, inizialmente elementare, poi sempre più ripida ma mai fino a diventare davvero impegnativa. La seguiamo fino in cima all’Aiguille du Croissant, poi scendiamo fin sotto al Grand Combin de Tsessette, lungo il ripido Mur de la Cote, che ci impegna nel lungo tratto centrale, di ghiaccio duro e infido; è molto bravo Silvano che scende per ultimo dopo aver assicurato me e Andrea dall’alto del tratto più ripido. Arriviamo al plateau alle dieci e mezza.
E' tempo di nuove valutazioni per la discesa. Siamo alla testa di un comodo plateau; a destra c'è il Combin de Tsessette, a sinistra la rampa del Corridor; la domanda è: scappiamo subito o saliamo davvero al Tsessette? Silvano dice subito che preferisce scendere; eventualmente ci aspetterebbe lì se io e Andrea volessimo continuare fino al Tsessette. Io ho sempre fretta perchè il pensiero del Corridor non mi lascia tranquillo; ho fatto tutta la discesa fino a qui con il pensiero di un ritorno il più possibile veloce. Solo Galis mostra l'abituale incrollabile voglia di salite; il ragionamento comunque è ovvio: siamo in un posto in cui difficilmente penseremo di tornare, siamo a due passi dalla cima del Tsessette, da lì dove ci troviamo in una ventina di minuti potremmo salire e scendere; è vero che più passa il tempo e più il sole scalda, più la discesa si fa pericolosa, ma questi venti minuti non sembrano così determinanti.

Silvano e Andrea ai piedi del Comben de Tsessette; alle loro spalle il Mur de la Cote e l'Aiguille de Croissant; spunta la cima del Graffeneire

Conveniamo di salire. Ci andiamo solo io e Andrea; Silvano resta a riposare e dice che terrà d'occhio il Corridor, per vedere (o sentire) se si notano segni di crolli. Io e Galis raggiungiamo la cima molto velocemente, quasi di corsa, leggeri come siamo, senza zaini e senza corda. Al solito solo il tempo di qualche foto, quindi via di nuovo verso l'appuntamento con Silvano per la discesa.
In tutto impieghiamo esattamente i venti minuti preventivati. Una volta di ritorno ci prepariamo, sistemiamo gli zaini, ci concediamo l'ultimo sorso d'acqua. Silvano ci dice che tutto è rimasto tranquillo fino ad ora, niente scariche, quindi ci diciamo: bon, non restano che venti minuti di Corridor, poi siamo a casa. Sono le undici precise.
Gli ultimi movimenti sono quelli per caricare lo zaino in spalla. E' esattamente nell'istante in cui faccio scattare la fibia dello zaino ed alzo gli occhi per l'ultima volta verso i seracchi che succede il finimondo.
Sul centro esatto del Corridor si stacca la più grande valanga che abbia mai visto in vita mia: un seracco enorme si piega dalla sommità degli strapiombi, è immenso; si apre in alto, si piega verso l’esterno, poi cade, comincia a scivolare e infine a precipitare verso il basso, con un fragore indimenticabile. Sembra un unico immenso blocco di ghiaccio che durante la caduta inizia prima a spezzarsi, poi a sbriciolarsi al contatto con le rocce dei dirupi sottostanti, in un fronte di un centinaio di metri almeno. Non ho nessuna reazione quasi, mi sembra di assistere al crollo di un iceberg gigantesco, come in un bel documentario, dove chi riprende è a 2 chilometri di distanza con una telecamera con uno zoom da 5000 mm. Solo che questo è un tantino più reale. Me ne resto lì immobile con la bocca aperta e gli occhi sgranati a pensare a quale imprecazione potrebbe rendere giustizia a questa cosa pazzesca, ma non ne trovo nessuna. Intanto sento l'eco di quelle di Galis e Silvano, che invece ne trovano in abbondanza; purtroppo un po' sommerse sotto il boato del crollo. La valanga che segue spazza l’ultimo quarto della nostra via di discesa. Non possiamo negare che se fossimo partiti venti minuti fa - e dico venti minuti non a caso - in questo esatto momento saremmo la sotto. Sarà per questo che quando la valanga si ferma e il rumore finisce mi accorgo che sto tremando.

Il ripido versante orientale del Grand Combin de Graffeneire, dalla cima del Tsessette

Ultimo meeting per una decisione definitiva: cosa facciamo? Dobbiamo passare di la? Quali concrete alternative abbiamo a questo punto? Qualcuno dei presenti ha forse adesso la forza necessaria per una via di discesa che non sia questa? Alternative in realtà non ne abbiamo e i motivi sono gli stessi che abbiamo considerato per tutta la mattina; ci poniamo tutte le domande del caso tanto per convincerci a vicenda di non essere semplicemente gente che sta per andarsi a suicidare a cuor leggero, ma alla fine sappiamo già che la sola strada per casa ormai passa per il Corridor. Decidiamo di slegarci per scendere con più libertà, di corsa, il più velocemente possibile. Scenderemo tranquilli fino a quando non saremo sotto il tiro dei seracchi, poi lo sprint tra i blocchi della valanga.
Partiamo che ancora mi tremano le gambe. Andiamo tranquilli, lenti, per non stancarci, fin dove non c’è pericolo; ci fermiano un minuto ad osservare la situazione, poi, arrivato il momento di passare sotto ai seracchi, acceleriamo. Ognuno tiene il passo che riesce, vogliamo scendere il più velocemente possibile, cerchiamo di correre quanto più possibile. Il pendio, nel tratto pericoloso, si fa anche più ripido; tra questo, il fatto che nella parte bassa ci troviamo tra i piedi anche i blocchi di ghiaccio della scarica a cui abbiamo appena assistito, e il fatto che ormai le energie rimaste - dopo le 8 ore di cammino già accumulate - sono quelle che sono, l'impresa non è delle più elementari. Spremiamo tutto quello che riusciamo per toglierci di mezzo alla svelta. Io sono quello che riesce a correre di meno, penso di essere il più stanco, gli altri sono più veloci. Cominciano a distanziarmi un po'; Silvano si preoccupa per me, a tratti rallenta e controlla dove mi trovo, per capire se ho problemi, mi vorrebbe aspettare, ma gli dico ogni volta di non pensarci e di continuare con la sua discesa.
Ad un certo punto, quando siamo ormai nella parte bassa della discesa, nel mezzo dei resti della valanga, sul pendio irregolare tormentato da radi blocchi di ghiaccio, correndo metto male un piede: non realizzo bene la dinamica della cosa, ma immagino di avere inciampato con un rampone in un blocchetto un po' troppo saldo... Di fatto cado ed inizio subito una scivolata a gran velocità: non ho nemmeno bisogno di tempo per prendere velocità visto che già stavo correndo. Mi trovo inizialmente a scivolare a testa in giù ma non impiego nemmeno un secondo per rigirarmi: complici le esperienze di scivolate passate mi risulta istintivo cercare immediatamente una posizione utile per provare a fermarmi (stranamente perfettamente consapevole durante la giravolta del ricordo di quando, l'anno passato, mi ero trovato in una situazione simile al ritorno dal Grunegghorn, a scivolare a testa in giù su un bel pendio di neve, ridendo come un deficiente per la velocità che non voleva diminuire). Ho la vaga percezione dei richiami di Silvano e Andrea che mi urlano di usare la piccozza; cerco a più riprese di piantarla nel ghiaccio, ma sempre senza risultato, non riesco ad usarla come si deve, la becca se ne va solo dove vuole lei, invece che dove vorrei io; il pendio è troppo gelato e con la velocità non riesco a combinare niente, la punta salta sempre via. Ad un tratto finalmente, dopo un’ultima sbracciata, sento che la lama inizia a frenare; è lì nel ghiaccio per meno di un centimetro, non è esattamente piantata, sta facendo semplicemete un po' di attrito, ma è sufficiente a farmi rallentare e alla fine a fermarmi. Galis e Silvano mi raggiungono in fretta e sembrano parecchio più spaventati di me; da parte mia non ho avuto il tempo di preoccuparmi: mi è stato appena sufficiente per cercare di fermami e per prendermi una botta sui denti da un moschettone. Non restiamo neanche un secondo perchè siamo ancora nel Corridor; in questo momento sono solo contento di aver risparmiato la fatica di una cinquantina di metri di corsa, fatti in scivolata. Silvano e Andrea sono sollevati; riprendendo la discesa mi chiedono come ho fatto a fermarmi; mi dicono di avermi visto passare come un razzo mentre li superavo in scivolata. Mando mentalmente un bacio alla mia Woodpecker nuova, appena promossa capo-piccozza. Gliene mando un altro quando passo a fianco di un crepaccio enorme, poche decine di metri più a valle del mio punto di arresto. Solo per la cronaca, pochi giorni dopo questo episodio avremo notizia della morte di Reinhard Patscheider, formidabile alpinista e himalaista, che nel corso di una salita come guida al Grand Combin cadrà in un crepaccio in questo stesso posto.
I miei due compagni mi distanziano subito nuovamente; completiamo la discesa della zona ricoperta dalla valanga, ma ci fermiamo solo dopo un altro centinaio di metri, quando valutiamo di essere perfettamente al sicuro, definitivamente fuori dal tiro dei seracchi. Io arrivo un minuto dopo gli altri. In tutto 22 minuti di discesa dal plateau a qui, al di fuori del pericolo di cadute: dovrebbero essere poco meno di 600 metri di dislivllo, di cui forse i due terzi fatti di corsa.

Ultimo sguardo sul Grand Combin e sul Corridor, che taglia il massiccio nel suo centro esatto

Solo ora posso respirare con calma, scaricare la tensione, e constatare che le dita delle mie mani, dopo la caduta, sanguinano copiosamente: sono pieno di graffi e spelature, e da due dita della sinistra ho perso pezzettini di carne piuttosto consistenti. Grazie al freddo fanno solamente molto male. Andrea ha dei cerotti nello zaino; me ne da qualcuno per riparare alla meglio le ferite peggiori; poi mi osserva mentre mi infilo un paio di guanti, magnanimamente astenendosi dal chiedermi perchè non li avessi indossati prima. Il bilancio è alla fine comunque assolutamente in attivo, visto che siamo tutti decisamente vivi.

Non è ancora il momento di riposare perchè dal rifugio siamo ancora lontani; la discesa del ghiacciaio sarà più lunga della salita. La marcia di ritorno è molto faticosa, un po' per lo stress appena scaricato, un po' per la fatica sopportata fino a qui, e un po' - soprattutto - per il fatto che tutti ormai abbiamo esaurito i liquidi che ci eravamo portati: le nostre borracce sono già state spremute fino all'ultima goccia e non troviamo da fare di meglio che riempirne una di granatina di ghiaccio, ed attendere di cogliere i frutti della fusione durante la marcia. La giornata è caldissima, il sole picchia fastidioso adesso, ma almeno è utile a scaldare la borraccia e sciogliere il ghiaccio. Accogliamo come un'oasi in un deserto la vista di un ruscelletto glaciale di acquerugiola torbida, vicino alle pendici del Corbassiere, poco prima dell'attraversamento del ghiacciaio in direzione del rifugio.
Ci arriviamo intorno alle tre, dopo 12 ore quasi precise di peripezie.
Ci adagiamo stremati su una panca, ad un tavolo all'esterno. Siamo i soli presenti ad essere di ritorno dal Grand Combin; in molti ci si avvicinano per scambiare qualche parola e per farci i complimenti. Tra tutti, ad un certo punto, si fa avanti un tipo che ci chiede se prendiamo qualcosa da bere; lo scambiamo immediatamente per qualcuno della gestione del rifugio, e senza esitazione gli ordiniamo tre coche e tre Gatorade. Solo un minuto più tardi, quando torna con le coche scusandosi perchè i Gatorade sono finiti, e si siede lì vicino a noi ci rendiamo conto che non si tratta del gestore, ma semplicemente di uno che voleva offrirci qualcosa; possiamo dire di avere la scusa della lingua: il francese non è la nostra prima scelta. Non ci sentiamo scemi quanto ci si aspetterebbe solo per il fatto che stranamente siamo abituati a fraintendimenti di questo genere: per cose tipo ordinare delle birre a qualcuno che non è il cameriere del locale di turno o come accaparrarsi un intero vassoio di dolci quando ci viene offerto un solo pasticcino, ci vuole una certa predisposizione. Sbrogliamo l'equivoco tra le risate e passiamo parecchio tempo in compagnia dell'amico improvvisato. Più tardi ci chiede addirittura se vogliamo qualcos'altro; per amore di decenza rifiutiamo... In compenso un'altra signora ci regala delle barrette energetiche alla frutta.
Non lasciamo trascorrere troppo tempo perchè ci attende una discesa in valle ancora lunga. Un paio d'ore per riprendersi, rifocillarsi e mettere ordine al carico, poi è ora di ripartire per Fionnay. Strano a dirsi, ma la fatica mi è passata del tutto e trovo quest'ultima discesa quasi riposante; me la godo con leggerezza, come un premio per la giornata trascorsa. Me la osservo come titoli di coda accompagnati da una bella musica, sull'avventura appena finita.
Finisce quando arriviamo alla macchina. Poi ne inizierà un'altra: questa sera ce ne andremo a Martigny; pensiamo di cercarci un campeggio e di cenare alla meno peggio in un fast food. Per domani invece abbiamo in programma un trasferimento a Tasch, come prologo alla quarta tappa del Tour: una salita all'Obergabelhorn, che già si è guadagnata il suo spazio tra questi diari.


Mirko Sala Tesciat
2007

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