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Dente del Gigante

Via normale, parete sud-ovest

20-21 luglio 1996
Mirko, Andrea (Barbara, Tiziana)
 Dente del Gigante - 26-27 luglio 1997

Sabato partiamo tardi, come al solito. Arriviamo a La Palud alle quattro passate, prendiamo la funivia verso il Torino, ma la usiamo solo per il primo tratto, fino al Pavillon (2100 m). Da qui al rifugio (3372 m) andiamo a piedi. Il primo tratto di cammino passa velocemente, comprese quelle prime facili roccette dopo i prati. Quando iniziano gli sfasciumi della cresta finale invece iniziano anche le sorprese, il passo rallenta e la fatica aumenta. La strada sembra non finire mai e il rifugio pare rimanere sempre alla stessa distanza. Arriviamo alla stazione superiore della funivia (nonché Rifugio Torino Vecchio) solo alle otto, dopo tre ore buone di cammino.

Il Dente del Gigante e la cresta di Rochefort al tramonto

Quando, appena arrivati sotto al rifugio vecchio, avevo detto "non siamo ancora arrivati: può ancora succedere di tutto", in realtà intendevo solo scherzare, al pensiero delle poche decine di metri che rimanevano fino al rifugio Torino Nuovo. Non pensavo che da lì ci sarebbe occorsa un'altra ora di tempo per raggiungerlo! Il punto è che per passare da un rifugio all'altro, se si arriva a piedi dal basso, l'unico sistema è attraversare il rifugio vecchio, perché nell'intorno ci sono solo vie superiori al IV grado o mortali canali di sfasciumi, il tutto ben difficilmente praticabile da chiunque abbia a cuore la propria incolumità. Ma c’è un problema purtroppo: quando arriviamo il rifugio è chiuso. Un cartello "Torno Subito" lo avremmo visto solo più tardi perché affisso solo all’interno del rifugio (visibile solo a chi lo avrebbe raggiunto dall’alto): nessun essere umano, in questi posti, ha mai pensato che qualcuno potrebbe voler raggiungere il rifugio vecchio a piedi, dal basso, e non in funivia, come fanno tutti, perciò deve essere sfuggita ai geniali architetti che hanno progettato l'edificio e i dintorni della struttura che ospita funivia e rifugio l’eventualità di un passaggio che consenta di superare il rifugio vecchio quando il gestore decide di assentarsi. Ad ogni modo la situazione in cui ci siamo trovati è semplicemente questa: sono le otto passate e siamo al freddo, al di fuori dell'edificio, senza la possibilità di raggiungere il rifugio e senza nemmeno sapere il perché: chi lo sapeva che bastava attendere SOLO un paio d'ore che arrivasse il gestore del rifugio? Chi lo sapeva che la porta che avevamo chiusa davanti era quella di un rifugio? Chi arriva qui senza conoscere il posto deve sapere per forza che questo è un rifugio e non solo la stazione della funivia? Chi arriva qui lo deve sapere per forza che se vuole passare a piedi lo deve fare obbligatoriamente dopo le dieci di sera?
Soluzioni non se ne prospettano. Mi incarico di fare un sopralluogo intorno alla costruzione per individuare un accesso; non so come fossero le condizioni negli anni passati e non so come diventeranno nei prossimi, ma oggi l'unico sistema possibile per superare il rifugio è l'ingresso da uno dei tunnel della funivia! Il tunnel vuoto (quello senza cabina) ha ai suoi piedi una ripida e malsicura scaletta a pioli, un po' troppo verticale e instabile, specie per uno con uno zaino da diciannove chili in spalla. Supero la scaletta, lascio lo zaino sul pianerottolo a due metri d'altezza (lo avrei recuperato solo più tardi con l'aiuto di Andrea), mi arrampico a fatica per i restanti tre metri di tunnel in cemento, inclinato a 45°, liscio, unto, scivoloso e riesco miracolosamente ad aggrapparmi, infine, alla ringhiera superiore e così a raggiungere il corridoio. Ispeziono i dintorni frettolosamente e mi accorgo dopo un minuto che anche gli altri miei compagni sono riusciti ad entrare dalla porticina del terrazzo, quella che avevamo trovato chiusa al nostro arrivo: Andrea era riuscito a sbloccarla con metodi d'artista. Il loro ingresso li aveva portati dentro al bar del rifugio e quindi fino alla porta di uscita nel corridoio; il mio ingresso mi aveva portato alla stessa porta dalla parte opposta. Ci siamo trovati, in pratica, loro dentro al bar e io fuori, con una semplice porta di legno con ampi vetri a separarci; naturalmente chiusa. L’Artista si fa beffe anche di questo nuovo baluardo. Risultato: tutti insieme di nuovo, finalmente con la possibilità di condividere le più belle e fantasiose imprecazioni. [non è cosa che si possa scrivere in luogo pubblico poi la soddisfazione concessaci più tardi a parziale risarcimento per la fatica, il ritardo e l'incazzatura]. Da lì abbiamo trovato la porta che dava all'esterno, sul sentierino che comodamente collega i due rifugi. Siamo arrivati al Torino Nuovo solo alle nove.
Il resto è una nuova prova dell’immane cortesia dei gestori dei rifugi di queste zone affollate: ordiniamo e paghiamo tre minestre per la cena, ce le danno (nel senso che ci consentono di ordinarle e di pagarle) e ci informano che dobbiamo andare a mangiarle al piano superiore, quindi andiamo al piano superiore (dove si trova la mensa) per mangiare, ma lì ci dicono che non fanno più minestre, perciò torniamo giù per farci rimborsare i soldi, ma giù ci dicono sgarbatamente (e sottolineo sgarbatamente) che però la pasta la fanno ancora (e noi ci domandiamo perché qui ce lo possano dire, mentre dalla cucina invece no), ora torna su solo Andrea a sentire la prossima gentile osservazione che hanno da fare; dalla cucina dicono che è vero, la pasta la possono ancora fare (dircelo prima costava troppo), Galis torna giù ad avvertirci, quindi finalmente risaliamo e ci accomodiamo insieme per mangiare e per sentire altri personaggi sempre meglio educati che si lamentano perché erano convinti di avere finito di lavorare e invece devono portare altri piatti (se non mi vuoi dare da mangiare me lo dici subito e la finiamo lì, ma per favore evita di farmi pagare prima solo per rompermi i coglioni dopo perché non hai più voglia). Stessa cosa per i letti: avevamo prenotato dicendo che saremmo arrivati tra le sette e le otto. Ci avevano detto che non c'erano problemi, ma in realtà un problema c’era: avevamo scoperto dopo, arrivando, che secondo il gestore (sempre molto gentile, e sottolineo molto gentile) e secondo una regola CAI istantaneamente inventata (e sottolineo inventata), tutte le prenotazioni scadono alle sei (!) e non possono più essere considerate valide oltre. Dopo un paio di insulti (nel senso di insulti suoi, perché è l'incarnazione della gentilezza che dicevo prima) ci manda al rifugio vecchio dove ci avrebbero assegnato i nostri posti. Il risultato è positivo, alla fine: una stanzetta tutta nostra, bella e spaziosa, al contrario di quanto tocca agli ospiti del rifugio nuovo, molti costretti a dormire ammassati insieme in stanzoni enormi, o su materassi stesi nei corridoi. Vabbè. Ci consoliamo con la comodità della nostra posizione, ma non possiamo certo dirci contenti per la constatazione della pochezza di certa gente che non trova di meglio da fare che sfogare la propria frustrazione sul prossimo.

La notte passa comoda e rilassante; la sveglia è alle cinque, la partenza alle sei.

Monte Bianco all'alba, durante la risalita alla Gengiva

Dal rifugio si risalgono i primi pochi metri che portano sul ghiacciaio; lo si attraversa dapprima in leggera discesa e poi in salita aggirando a sinistra lo sperone che si interpone tra il rifugio e il Dente (che un giorno forse saprò anche come si chiama) sempre su tracce ben marcate sul ghiacciaio. Ci si porta al di sotto del pendio roccioso che sale alla Gengiva e se ne guadagna la cresta per un semplice colatoio ghiacciato a 45°. Da qui, per facili rocce e rari tratti ancora nevosi, su tracce non sempre ben individuabili e spesso non uniche, si arriva fino alla Salle à Manger; il tutto in meno di due ore. Da qui lo vedi, il Dente, solido, verticale, liscio. La via di salita non è facile da individuare per chi non ne sa niente, specie perché quando vedi l'attacco speri di esserti sbagliato. E' quello che è successo a noi: arriviamo quando ci sono già altri due gruppi ad aspettare di salire: nessuno ha voglia di fare il primo passo, oppure tutti stanno aspettando ore più calde. Ci facciamo avanti io e Galis, ci portiamo sotto alla parete; sappiamo che dobbiamo aggirarla verso sinistra, fino a portarci sul versante Ovest, e a me sembra che il modo migliore sia quello di scendere per un angusto canalino di tre o quattro metri e di aggirare lo spigolo alla sua base, verso sinistra, fino ad un comodissimo terrazzo; il solo problema è che l'aggiramento dello spigolo richiede un passaggio non duro, ma abbastanza tecnico, veramente singolare. Appena lo vedo penso di essermi sbagliato e decido di tornare indietro: sapevamo che la via non doveva richiedere passaggi più difficili del III ed ero perciò sicuro di essere nel posto sbagliato.

Parete sud del Dente del Gigante

Si fanno avanti in quella due ragazzi francesi che chiedono un po' di spiegazioni. Dettogli come erano andate le cose, il primo, un tipo atletico, biondo, capelli a spazzola, occhiali a specchio, attrezzato di tutto punto, una specie di dio degli alpinisti, decide di provare da una cengetta poco più in alto del "nostro" canalino, la supera, scavalca lo spigolo a cui porta, risale un paio di metri ancora e raggiunge un chiodo. Dopo cinque minuti di esitazione e di attesa, ci accorgiamo che non si sposta più di un metro, fino a quando lo vediamo calarsi; i due recuperano la corda, caricano la roba e se ne vanno, spariscono nel nulla; non li vedremo più per tutta la giornata. E' il turno di un nuovo gruppo, tre persone, italiani questa volta, che io e Andrea lasciamo passare felici che qualcuno abbia voglia di cercare la strada mentre noi ce ne stiamo ancora un po' a sonnecchiare con le mani al caldo sotto le ascelle, al riparo dal vento. Il capo-cordata ripete la via del francese fino al chiodo, dopo di che traversa ancora di più verso sinistra e ne trova un altro; attrezza la sosta, ci comunica di aver trovato la via e inizia a far salire i due compagni; molto lentamente.
E' solo a questo punto, dopo aver sentito che i ragazzi appena saliti valutavano le difficoltà del posto di V grado (il capo cordata, anche, aveva detto che dal chiodo le difficoltà si abbassavano di due gradi e diventavano di III), che decido di voler riprovare dal passaggio in fondo al canalino. Il risultato è che riesco a superare il famoso spigolo e a raggiungere il terrazzo all'estremo sinistro; vedo il chiodo dieci metri sopra di me e mi accorgo che le difficoltà, in realtà, non sono superiori al III; a certa gente piace esagerare: se quello era quinto, allora in Grignetta ho fatto del X. Galis mi raggiunge, facendo un po’ di fatica per superare lo spigolino tecnico. Proseguo fino al primo chiodo e ancora Galis mi raggiunge. Si vedono subito i problemi veri della salita: fa un freddo cane, c'è un gran vento, e la roccia è gelatissima. Galis non riesce ad arrampicare, la roccia è troppo fredda e ha le mani completamente insensibili; è solo tenendosi alla corda che riesce ad arrivare al chiodo. Un paio di minuti di attesa, i tre che abbiamo davanti lasciano la sosta e io la raggiungo: cinque o sei metri di traverso verso sinistra; poi Galis. Andiamo avanti così, pochi metri alla volta, prima io poi lui, senza mai allontanarci troppo, tanto i tre che ci precedono sono lenti e dobbiamo comunque aspettare che ci lascino spazio per arrampicare.

Mirko all'inizio delle placche Burgener

Dopo il traverso è la volta di un facile sperone, da scavalcare ancora verso sinistra, un po' esposto. Si arriva alla base di un canale - "sembra di essere nel Porta" avevo detto - che si risale fino alla sommità di un nuovo terrazzo. Un tiro più lungo questa volta, saranno una trentina di metri; attenzione solo verso la sommità del canale: non lasciarsi ingannare da quelli che ti precedono che si accaniscono su per il diedro finale, ma traversare a sinistra su elementari cengette e raggiungere il terrazzo dalla sinistra di un grosso masso. E' esattamente quello che ho fatto: grazie al cielo un po' di intuito nel vedere la via mi è rimasto. Poi Galis. E' da questo terrazzo che, finalmente, vediamo tutta la parete Ovest del Dente, con le sue corde fisse. Ci danno fiducia e decidiamo di proseguire più vicini, in conserva, assicurati anche alle corde fisse; le useremo solo più in alto, quando le difficoltà della roccia si inaspriscono e la fatica si fa sentire. Al termine del primo tratto di parete, una cinquantina di metri, vediamo che i primi tre attrezzano una doppia e si calano: il capo-cordata sta arrampicando con delle scarpette da falesia e ha troppo freddo ai piedi. Rimaniamo soli sul Dente, senza nessuno davanti e soprattutto, cosa buona, senza nessuno dietro. Completamente soli. Peccato la fatica: la quota a questo punto si fa sentire molto e l'ascesa è veramente faticosa; dapprima si avverte poco, dopo aumenta; alla fine della parete, dopo altri quaranta metri e dove la roccia risulta più difficile e gli appoggi per i piedi sono scarsi, l'arrampicare è troppo faticoso: dobbiamo fermarci ogni pochi secondi, ogni movimento costa una fatica incredibile, la respirazione è affannosa, il cuore impazzito. Impieghiamo uno sproposito di tempo per issarci fino alla sella, dove arriviamo distrutti poco prima di mezzogiorno.

Dru, Aiguille Verte, Droites e Courtes, di pressi della cima del Dente del Gigante

Arriviamo stanchissimi, troviamo appena la forza per bere qualcosa; vediamo la punta Sella a una ventina di metri ma non abbiamo la forza per proseguire. Decidiamo di tornare indietro. Il bilancio, a questo punto, fatica a parte, è la perdita di alcuni componenti fondamentali della cordata: un costosissimo guanto di Andrea e il mio "otto": entrambe cose non gradite, la prima per l’esorbitante costo, la seconda perché la discesa sarà tutta in doppia. L'otto mi era partito dalla cima della parete Ovest, mentre al di sotto i tre italiani avevano appena finito la doppia; è strano sentirsi gridare “ottooooo” invece di “sassoooo”. Ancora non so come sia successo: deve essere stato un movimento strano che mi ha portato a muovere con la corda la leva del moschettone che lo tratteneva; il moschettone si è aperto e io ho visto il mio preziosissimo attrezzo prendere velocità, fare tre rimbalzi lunghissimi e finire dritto nel ghiacciaio del Gigante, cinquecento metri più in basso. Peccato, ero affezionato a quell'otto tutto rovinato e consumato. Per un pelo non fa la stessa fine anche un friend.
La discesa, dunque, in doppia. Galis ha il suo otto; io mi adatto con un mezzo barcaiolo nel moschettone più grosso che ho. Due calate corte per i caminetti sommitali, una calata in diagonale fino al centro della parete Ovest, una calata da cinquanta metri fino alla fine della parete, una calata nel canalino. E' qui che al recupero della corda, questa si impiglia in uno spuntone cinque metri sopra di noi; il recupero non è problematico perché il terreno è facile e faccio in fretta ad andare a disincastrarla: ci è andata bene. Poi è la volta del traverso fino alla prima sosta; lo facciamo in due tratti, perché davanti, sull'ultimo chiodo, ci sono ora altri due che avevano da poco iniziato a salire e che stanno già scendendo e ora ci stanno davanti in discesa: stanno attrezzando una doppia dall'ultima cengia. Arriviamo anche noi e la doppia non è problematica, corta, appena una decina di metri. Infine siamo di nuovo alla base del dente, unici ad avere visto così da vicino la cima, tra quanti avevano provato a salire. Unica eccezione una coppia di marziani con tanto di antenne e colorito verdastro che avevano fatto una via di VI sulla parete Sud.
Il resto è ovvio: pochi minuti di riposo - siamo entrambi sfiniti - poi la discesa per le facili roccette del mattino, il colatoio di ghiaccio che si era trasformato in poltiglia malsicura e che abbiamo evitato per le rocce di destra, e poi il ghiacciaio. Stanchi come siamo riusciamo comunque a superare il necessario, in discesa, attirati dal miraggio dell'ultima funivia che avrebbe potuto partire senza di noi. Arriviamo al rifugio alle cinque e un quarto, mezz'ora prima della chiusura. Stanco morto; riesco appena a trovare il fiato per dire "ciao" e a momenti stramazzo al suolo per la mancanza di ossigeno. E’ strano pensare a quanto possa essere divertente a volte il ridursi in certe condizioni.


Mirko Sala Tesciat
1996

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