home Green Rock Alpine Club

attivita

4000

arrampicata

alpi

relazioni

diari

storie

fotografie

4000

arrampicata

altre montagne

club

membri

contatti

guestbook

link

vari

sito

mappa

news

updates

disclaimer

diaristorie


attivita

relazioni

fotografie

club

link




home diari Monte Bianco scheda       precedente successivo

Monte Bianco

Cresta delle Bosses

14-15 agosto 2000
Mirko, Andrea, Silvano, Tiziana, Michele

E’ la seconda partenza per un viaggio di diversi giorni, in questo agosto rovinato dal brutto tempo. Dopo i primi dieci giorni di attesa e frustrazione, passati tra Diano Marina e Courmayeur ad aspettare giornate decenti e durante i quali io e Galis siamo riusciti a salire su una sola delle montagne a cui avevamo pensato (risollevati solo dal fatto che la Dent Blanche che abbiamo trovato è stata una montagna davvero divertente e di vera soddisfazione), torniamo finalmente a sognare montagne ed organizziamo una settimana di campeggio tra Chamonix e dintorni. Non sappiamo cosa ne verrà fuori, ma le previsioni meteorologiche sono incoraggianti e ci permettiamo di pensare con ottimismo alla salita al Monte Bianco che abbiamo in programma da diversi mesi.
Una meta per il Club al completo, un programma unanimemente accettato, con entusiasmo variabile da persona a persona e da momento a momento, secondo la voglia, l’allenamento e l’umore di ognuno. Io e Galis non abbiamo particolari problemi, con tutto l’allenamento e l’acclimatamento accumulato nelle ultime settimane e, consapevoli di poterlo fare senza troppa fatica, siamo chi rassegnato (io) e chi determinato (lui) a salire in fila indiana lungo la più facile delle vie normali alla vetta più alta delle Alpi; Silvano è quasi totalmente privo di allenamento dopo gli impegni di lavoro che lo hanno tenuto lontano dalle montagne per quasi tutta l’estate ma, armato di una convinzione incrollabile, è fermamente deciso ad affrontare l’ascensione; Michele sembra meno determinato e meno felice della scelta della via, a causa del prevedibile affollamento, ma è ben allenato; Barbara sembra essere contenta del progetto ed è forse la meglio allenata del gruppo dal punto di vista aerobico dopo tutte le corse in pianura e in montagna che ha fatto ultimamente, in modo particolare nella prima metà del mese; da ultima Tiziana, con poco allenamento e ancor meno voglia, instancabile dispensatrice di costanti e ripetute lagnanze circa la stupidità degli organizzatori dell’escursione (cioè Galis in primo luogo ed io a ruota, in qualità di parafulmine delle lamentele meno mirate).
La scelta della via è stata obbligata: per l’ampiezza del gruppo e le difficoltà tecniche affrontabili da tutti, le poche vie normali sono state scartate ad una ad una: impossibile salire dai Cosmiques perchè la pendenza del Maudit ed i prevedibili tratti di ghiaccio sarebbero stati troppo complicati per alcuni; impossibile partire dal Gonella per via del ghiacciaio troppo crepacciato che avrebbe atterrito il morale di molti. Obbligatoria dunque la scelta della salita dal Goûter e dalla cresta delle Bosses. Ci dovremo adattare, se vogliamo sperare di salire tutti, all’affollamento della zona. Il sigillo definitivo alla scelta lo mette Andrea una decina di giorni prima della partenza, quando telefona alla Tête Rousse per prenotare per la notte. Ci troviamo al mare, a Diano, in questo frangente: dobbiamo prenotare sei posti per la notte tra il 14 e il 15 agosto, ma quando io telefono al Goûter mi dicono in un inglese appena comprensibile che non è possibile prenotare e che il rifugio è completo per tutto il mese (come era prevedibile). Io gongolo davanti all’impossibilità di passare una notte in un rifugio enorme e sovraffollato. Un rifugio da 250 posti già al completo, senza contare quel centinaio di persone in più che arrivano senza prenotazione e che devono essere stipate sotto ai tavoli ed in ogni angolo rimediabile. Stò già pregustando il pensiero di una notte in tenda quando Galis telefona al refuge du Tête Rousse e con un francese impossibile riesce ad ottenere la prenotazione. Ma come è possibile? Un rifugetto da 45 posti dove ti accettano una prenotazione per 6? E va bene, allora faremo così: passeremo la notte in questo primo rifugio, 650 metri più in basso del Goûter, snobbato dalla maggioranza degli escursionisti perchè le due ore di tempo supplementari di salita sono considerate troppe per il giorno della cima. Mi immagino un rifugio accogliente e semi-deserto, ma mi sbaglio di grosso. Per ora però mi posso cullare nelle mie illusioni.
Dunque il programma è fatto: il lunedì salita al Nid d’Aigle con il trenino e quindi passeggiata (800 metri di dislivello) fino alla Tête Rousse. Il martedì sveglia presto e salita dei rimanenti 1650 metri di dislivello che attraverso Goûter, Vallot e Bosses portano in cima al Bianco.

Le sorprese per me iniziano ancora prima della partenza: Galis viene con il furgone a casa nostra; dovrebbero esserci lui, Tiziana, Barbara e Michele che vengono a caricare me e Silvano ma, quando arriva, Barbara non c’è. La motivazione è riportata da Andrea: sappiamo che pochi giorni prima ha partecipato ad una corsa competitiva dove si è qualificata seconda e perciò, secondo il fratello, ha voluto rimanere a casa per partecipare a qualche altra corsa ed approfittare del momento di buon allenamento. Siamo rimasti in cinque, un buon 16,6% del club è assente.
Sul furgone si sta larghi, ma abbiamo talmente tanti bagagli e materiale da alpinismo e campeggio che lo spazio sembra bastare appena. Da questo momento per una settimana la metà posteriore del furgone si trasforma in un caos di borse, zaini e scatoloni dove si perde di tutto e dove si ritrova l’insperabile. Abbiamo tutto. Tranne l’indispensabile pentolona da pasta senza la quale in campeggio non potremo prepararci le storiche spaghettate, i garganelli al pesto, le pennette con caponata di melanzane… aaahhh!. Dovremo comperarne una appena possibile!
Il viaggio è privo di note di qualsiasi rilevanza: per oggi non abbiamo in programma che un trasferimento, il più veloce possibile, al refuge du Tête Rousse. Partenza da casa intorno alle 9:30; tutta autostrada fino ad Aosta, quindi passiamo il tunnel del Gran San Bernardo (anche se i più - G.S.Bernardo - si ostinano a chiamarlo Gruppo Sportivo Bernardo); dopo Martigny, poco prima del colle della Forclaz ci fermiamo per un pranzo veloce, a base di panini, salame, affettati assortiti, formaggio, tonno, carne in scatola, salmone, sgombri, biscotti al cioccolato… una cosettina leggera. Quindi proseguiamo per Chamonix e poi Les Houches. Ci fermiamo quando troviamo la stazione della funivia che ci dovrebbe portare a Bellevue. Saliamo in una cabina insperabilmente vuota; io sono molto preoccupato per il peso dello zaino: non riesco a spiegarmi come mai nonostante il poco materiale che porto e l’apparentemente poco volume, sia così gravoso; non me lo spiego soprattutto dopo i confronti con gli zaini degli altri. Arrivo a sospettare che sia un problema dello zaino e non del contenuto: mi riprometto per il futuro di comprarmi uno zaino più leggero! Oppure di rinunciare alla giacca a vento in favore di un capo più leggero e possibilmente altrettanto protettivo. A Bellevue lasciamo la funivia e percorriamo le poche decine di metri che ci separano dalla stazione del trenino a cremagliera che arriva da Saint Gervais e che dovrebbe portarci fino al Nid d’Aigle. Dobbiamo aspettare pochi secondi, facciamo appena in tempo ad acquistare i biglietti, che il treno è già arrivato. Un paio di fermate e poi siamo arrivati anche noi. Al Nid d’Aigle. Trasferimento finito. Adesso è ora di camminare.

Quando partiamo sono quasi le 16:00. Il cammino si snoda attraverso terreni elementari per tutto il tratto fino al rifugio. Dalla stazione del trenino si sale per sentieri ampi e comodi in direzione della cresta delle Rognes che vediamo alla nostra sinistra. Andiamo pianissimo e siamo in compagnia di molte decine di altri escursionisti; io non posso che sperare che la maggior parte di questi abbia come meta il Goûter. Il tempo non mi piace molto e i rannuvolamenti che vedo intensificarsi mi danno da pensare; a tratti cerco di accelerare il passo per abbreviare il cammino, ma le mie iniziative non riscuotono successo nel gruppo e ancora non posso fare altro che rassegnarmi ad una speranza: che il tempo veramente brutto sia solo un’impressione o che ritardi abbastanza a lungo.

Uno degli stabmecchi poco sopra al Nid d'Aigle

Terminato il tratto più ripido del sentiero ed avvicinatisi alla cresta si arriva all’imbocco di un lungo tratto di modesta pendenza, attraverso la parte superiore del vallone che conduce fino alla sommità del crinale della cresta delle Rognes e alla casetta forestale. Ci attardiamo molto in questo tratto perchè siamo rapiti da un gruppetto di stambecchi che, per nulla timorosi, si lasciano avvicinare fino a pochi metri di distanza; una pacchia per chiunque abbia una macchina fotografica e un po’ di tempo da perdere. Questo non lo capisco, ma pare proprio che tra tutti gli escursionisti - un buon centinaio tra chi sale e chi scende - noi cinque siamo gli unici a nutrire un interesse per l’eccezionalità del fatto. A me sembra davvero strano, non riesco a spiegarmi l'indifferenza degli altri escursionisti, ma evidentemente da queste parti considerano tutt'altro che eccezionale la possibilità di guardare negli occhi uno stambecco senza uno zoom da 3500.
Nella parte superiore del vallone è possibile tenersi sul sentiero di destra, in basso, oppure su quello di sinistra, più alto e vicino alla cresta. Il migliore è quello basso, ma questo lo sappiamo solamente adesso (adesso che siamo andati e tornati): quello che abbiamo scelto noi, ovviamente, è stato l’altro, quello più alto, a sinistra, perchè avevamo visto una sequenza di bollini rossi che sembravano indicare la strada migliore; invece quella che indicano è una via che attraversa roccette e un tratto attrezzato a fittoni. Ma chi è quel malato che ha segnato quel tratto a bollini, quando in valle c’è un sentiero elementare? Non è né difficile né faticoso, ma ci scoccia vedere chi passeggia comodamente e speditamente sul sentiero.

Michele, Tiziana e Andrea in vista dell'Aiguille du Gouter

Alla fine si arriva alla casetta forestale e da qui si attraversa in pianura un centinaio di metri di sfasciumi e labili trace di sentiero (che normalmente ci dicono essere coperte di neve). In breve arriviamo all’attacco dell’ultima salita, lungo la cresta che dovrebbe portare fino al nostro rifugio.
Il cammino è ancora semplice; si sale sempre su sentiero, comodo, ma siamo ancora lenti e il tempo va peggiorando rapidamente, ormai. Per ingannare la fatica componiamo a tratti rime e canzoncine da includere nel prossimo inno del club; roba del tipo: «Erto il cammino, pesanti i sacchi / Lungo la strada ripida e stretta / Ma se chi guida non mostra fretta / Giunti al rifugio non sarem fiacchi», e altre stronzate del genere. Purtroppo le mie previsioni si avverano e con circa due minuti di anticipo sul mio pronostico inizia a piovere; il vento si intensifica e a tratti ci prende anche un po’ di grandine. Non ci mettiamo addosso niente di più pesante, per non bagnare inutilmente altra roba, ed è fastidioso - se non a volte doloroso - sentirsi sul collo gli aghi di ghiaccio spinti dal vento. Fortunatamente ci bastano pochi minuti per arrivare al termine della cresta, dove inizia il ghiacciaio della Tête Rousse.
Qui gli altri si fermano; Tiziana indossa la giacca a vento, poi lei e Galis si mettono in testa i caschi! Silvano e Michele, poi, procedono lenti. Io non mi voglio mettere niente e non voglio restare fermo a prendere freddo, inzuppato come sono, quindi proseguo da solo, spedito, attraverso il ghiacciaio, in leggera salita, seguendo le tracce che dopo pochi metri scompaiono tra le nuvole. C’è visibilità molto ridotta e io non so dove si trova il rifugio; non ho la minima idea di quanto sia distante, se pochi minuti o un’altra ora, ma vado ugualmente avanti, infastidito dal gelo del vento; quando la traccia si biforca in un bivio provo a seguire quella bassa, a destra, per pochi metri e alla fine intravedo nella nebbia la sagoma del rifugio. Sono sicuro che si tratta di quello giusto solo quando leggo il nome sopra alla porta: Refuge du Tête Rousse, m 3167. Non più di un minuto da quando avevo lasciato gli altri per iniziare il traverso sul ghiacciaio. Due ore precise dall’inizio della camminata. Solo il giorno dopo potrò vedere che il tratto di ghiacciaio da attraversare era davvero ridicolmente corto e che, con il sole, dal momento dell’inizio del traverso, il rifugio è già perfettamente visibile e a portata di mano. Entro nel corridoietto d’ingresso ed inizio ad asciugarmi e a cambiarmi. Poco dopo sento da fuori Silvano che grida il mio nome: lui e gli altri sono fermi nel punto del bivio delle tracce nella neve, non perchè non sappiano quale sia quella giusta, ma perchè hanno paura che io possa avere preso quella sbagliata. Più tardi Galis mi chiederà come avevo fatto a scegliere la traccia giusta e a trovare il rifugio senza sapere dove fosse; a pensarci razionalmente non ne ho la minima idea; credo che sia stato solo perchè quella traccia che si staccava dalla principale e proseguiva in pianura mi era sembrata insolita ed appropriata in un posto dove si sarebbe potuto scegliere tra l’andare al Goûter (molto frequentato) piuttosto che alla Tête Rousse (meno frequentata e più vicina). In ogni caso se non l’avessi trovato in fretta sarei tornato indietro. Caso ha voluto che fosse quella giusta.

Quello che ci aspetta al rifugio è un casino fuori dal comune. Ci sono uno sproposito di persone all’interno: sembra quasi che il brutto tempo abbia bloccato qui tutti gli alpinisti in transito; chi doveva salire al Goûter ed è in ritardo si ferma; lo stesso chi doveva scendere a Chamonix. E’ solo un’ipotesi, probabilmente falsa, ma qui ci sono una sessantina di persone e lo spazio a disposizione non basta nemmeno per la metà. La prima impressione, poi, è ancora più disastrosa della realtà perchè pare che l’attività preferita dai presenti sia quella di rompere le balle a chi si sta cambiando in corridoio cosicchè, invece di restarsene comodamente seduti ai tavoli nella sala, tutti se ne stanno stipati nel corridoio a schiacciarsi a vicenda, a prendere freddo e ad impedire a chi si deve cambiare - come il sottoscritto - di farlo senza doversi continuamente strusciare tra quelle giacche a vento fradice. La stupidità dei presenti mi fa talmente incazzare che decido di andare a cambiarmi all’aperto, nonostante la fine pioggerellina che cade ancora. Per fortuna Galis trova infine l’ingresso in un gabbiotto esterno coperto, deserto, dove possiamo sistemare la nostra roba e terminare di cambiarci all’asciutto.
Deve essere per il fatto che di montagne e rifugi ne ho visti fin troppi; soprattutto per il fatto che, ultimamente in modo particolare, ho frequentato solo luoghi, montagne e rifugi dove ho avuto la fortuna di incontrare alpinisti veri e, per la gran parte, persone con un minimo di rispetto per il posto in cui si trovano e per le persone che li circondano… Deve essere per questo che tutto quello che vedo adesso e che vedrò per il resto di questa e della prossima giornata è e sarà, per me, fonte esclusivamente di depressione ed avvilimento. La calca a cui sono costretto mi è insopportabile ed il comportamento delle persone presenti è quanto di più stupido e frustrante. Ringrazio il cielo di non trovarmi al Goûter.
Terminato di sistemare la nostra roba negli scaffali che abbiamo trovato, prendiamo comodamente posto ad un tavolo al centro della sala da pranzo, semi-deserta, e contempliamo con un misto di tristezza e incredulità la gente che passeggia e si spintona nel corridoio all’incomprensibile ricerca di un posto in piedi e al freddo. Ma cosa diavolo stanno facendo? Rinuncio a darmi una risposta e mi limito a catalogare il fatto tra i numerosi ed incomprensibili misteri dell’intelletto umano. Silvano si fa assegnare i cinue posti letto che abbiamo prenotato; il suo francese quasi perfetto non basta al gestore del rifugio che, per mostrarci che è più bravo lui, cerca di farsi capire con un misto di italiano e spagnolo. Il punto è che il francese di Silvano è sicuramente migliore di quello del gestore, che conosce solo uno strano dialetto chamoniardo e allora ci parla come può. E’ comico constatare ancora una volta come per la maggior parte dei francesi la lingua italiana e quella spagnola facciano parte di un tutt’uno inscindibile: non riescono a capire la differenza. Particolarmente maltrattati sono i numeri: se mi devi dire che i nostri letti sono nella camera numero ‘due’ me lo puoi anche dire in francese, visto che sai che lo capisco, tanto più che ‘deux’ non è poi così lontano dall’italiano; ma ‘dos’ che cosa c’entra?
Restiamo al tavolo a chiacchierare fino all’ora di cena; nell’ora scarsa che ce ne separa assistiamo agli episodi di vita di questo posto sconsolante. La gente che va e viene dalla sala viaggia indifferentemente con ciabatte o con scarponi infangati ai piedi; per passare da una panchina all’altra, da una parte all’altra di un tavolo, non si fa problemi a salirci con i piedi e a sporcare senza remore il posto dove dopo pochi minuti avrebbero dovuto mangiare e sedersi lui ed altri. A tratti arrivano dall’esterno persone amiche di altre già presenti; sono per lo più ancora abbigliate con imbragature e giacche a vento fradicie e non si danno premura di cambiarsi prima di farsi largo in sala; arrivano senza problemi a sedersi di fianco o di schiena, a contatto con i presenti - me compreso - così bagnati e sgocciolanti. Io non sono un tipo schizzinoso, non mi fa male né l’acqua né il freddo, non mi fa schifo il fango, ho passato notti a -20° senza attrezzatura, ho fatto bivacchi sotto la pioggia e sotto la neve, i disagi che si possono attraversare in montagna non sono certo questi, causati da queste persone poco riguardose, ma quando sono a contatto con una tale somma di imbecilli che ostentano il loro comportamento prepotente e menefreghista e non si curano di niente e di nessuno, a me girano i coglioni. E pure velocemente.
Nel tavolo di fronte al nostro c’è un tipo con una pila frontale in testa (non sono nemmeno le 18:00 e ci si vede perfettamente); interesse, divertimento e scuotimento di testa. Di fianco a noi un gruppo di francesi chiacchiera, parlotta a proposito di italiani e simili e schignazza a tratti; nervosismo, incazzatura e scuotimento di testa. Uno dei francesi si alza e per uscire dalla sala scavalca il tavolo e mette uno scarpone più o meno dove io avrei dovuto avere un piatto; incazzatura supplementare e scuotimento di testa. Alle mie spalle un nutrito gruppo di alpinisti di lingua slava o russa - chi ci capisce? - imita a più riprese il francese; il russo alle mie spalle si appoggia con la sua maglietta fradicia alla mia schiena; io attendo; disinteresse; spingo lievemente con la schiena; disinteresse; esclamo a voce piuttosto alta: “ma la tua cazzo di schiena puzzolente non la potevi lasciare nella tua patria sovietica invece di venire a rompere le palle a me?”; disinteresse; nuova spinta di schiena, decisamente più energica; interesse, finalmente, e scostamento della schiena appiccicaticcia. Incazzatura e quasi definitivo scuotimento di testa. In un momento di relativa calma uno dei russi collassa: proprio quello che mi sembrava il più sveglio di tutti all'improvviso sviene; nel trambusto generale i suoi compagni lo fanno distendere sulla panca, gli tengono le gambe sollevate e gli schiaffeggiano il volto per farlo rianimare; hanno bisogno di una buona decina di secondi di incertezza e di urla del tipo “un docteur”; alla fine il tipo rinviene, spaesato e totalmente bianco; dopo poco se ne esce dalla sala e si va a sdraiare prima all’esterno, al freddo, e dopo in camera da letto; un po’ indeciso. I miei scuotimenti di testa si fanno più incerti fino a quando non vedo un ragazzo uscire dalla camera da letto: ha l’aria di uno che ha passato le ultime settimane a dormire e a vomitare; inizialmente gli do credito e penso: “avrà dormito fino ad adesso”, ma dopo dieci minuti lo rivedo di nuovo e ha una faccia ancora peggiore e allora mi ricredo; sei nel posto sbagliato, ragazzo; soprattutto mi ricredo quando lo vedo provare a sedersi su una scaletta a pioli, piuttosto ripida: si sistema sul lato strapiombante, sottosopra, e non ha l’aria di capire il perchè della precarietà della sua posizione. Definitivo ampio scuotimento di testa.
Finalmente arrivano le 18:40 e la cena. Mangiamo bene, questa sera: c’è una portata di formaggio che io ovviamente non mangio; c’è la solita minestra (brodo, non minestra, per la verità) densa e calda, a cui aggiungiamo abbondanti quantità di sale e pepe, pane e, dalle nostre tasche, pezzettini di grana che fanno invidia a tutti i presenti; c’è una grande zuppiera piena di riso, fin troppo abbondante per noi cinque, ma ovviamente di un’insipidità inimmaginabile; ci sono delle fette di arrosto, credo di tacchino ma potrebbe essere anche qualche altro animale francese di cui ignoro l’esistenza; c’è infine una tazzina di budino di cioccolato, molto buono. Nel complesso una cena abbondante e gustosa, rovinata purtroppo dalla guerra, schiena contro schiena, con i russi alle mie spalle; Silvano, Michele e Tiziana, dall’altra parte del tavolo ci prendono in giro, ma dalla parte di me e Galis si va restaurando una cortina di ferro e tornano i presupposti per la rinascita di una guerra fredda tra est e ovest.
All’ora di andare a dormire l’ultima sorpresa: ai nostri posti ci sono altre persone. Dopo una serie di contestazioni andiamo dai gestori del rifugio che ci danno ragione e spiegano di nuovo agli altri quali sono i loro posti (ma siete francesi anche voi, cazzo, è posibile che non capiate due numeri di letto?). Andati loro, ai nostri posti c’è ancora un’altra persona: è il russo che era collassato poco prima di cena. Tocca ancora ai gestori spiegargli che il suo posto è un’altro. Ma si può sapere cosa diavolo sta succedendo, questa sera? Sistemiamo le nostre coperte, lasciamo sui letti i maglioni e poi facciamo un giro all’esterno, a prendere un po’ d’aria. Io e Silvano assistiamo al distacco di un seracco dalla parete Nord dell’Aiguille de Bionnassay e alla cascata di ghiaccio che ne segue, imponente ed impressionante. Ad un certo punto arriva all’esterno Michele che ci dice che il suo pile è sparito. Mi chiedo un’altra volta dove siamo capitati. Dopo una ricerca nella camera da letto scopriamo che quel gruppo di francesi deficienti, quando era andato a sistemarsi ai nostri posti, aveva deciso di impossessarsene ad ogni costo e tutto quello che c’era sopra prima lo avevano preso e buttato in un angolo senza dire niente. Ultimo vaffanculo della giornata. Sono definitivamente sconsolato e intristito. Speriamo di arrivare in cima, domani, perchè io in questo posto del cazzo non ci torno più.

Ci mettiamo a dormire intorno alle 21:30 e la sveglia è alle 0:20. Delle tre ore a disposizione dormo per più di due, ed è un successo, considerato il fracasso che regna nella stanza. Di noi cinque sono quello che dorme meglio; anche Silvano passa una notte decente, mentre gli altri non dormono quasi per niente. Al risveglio ripieghiamo alla luce intermittente delle frontali le coperte, e poi guardiamo avviliti i grumi informi lasciati da chi si è alzato prima di noi. Capiamo definitivamente di non trovarci in un rifugio di montagna e di non essere circondati da alpinisti. Una volta alzati abbiamo tutto il tempo per prepararci con calma perchè i gestori distribuiscono la colazione alla 1:00 e noi abbiamo deciso di adeguarci ai loro orari. Qualche minuto dopo di noi si alzano tutti quelli che devono partire e alla fine ci troviamo seduti assieme ad una ventina di persone. Nella sala ci sono alcuni che hanno passato la notte sdraiati sulle panche e che ora devono farci posto, anche se non hanno in programma di alzarsi e di partire. Facciamo la solita colazione con pane, marmellata e té, ci attreziamo, e alla 1:30 partiamo.
All’esterno si vedono le luci delle frontali delle cordate partite prima di noi, alcune sul ghiacciaio, altre - un paio - già impegnate sulla costola dell’Aiguille du Goûter. Il tempo è splendido, non si intravedono ombre di nubi ed il cielo stellato è perfettamente limpido ed invitante. Mi dimentico delle ore passate al chiuso ed inizio a sentirmi più vicino a questa montagna - che è pur sempre una montagna. Con tutto quello che significa.
Partiamo slegati; in ordine casuale, mi trovo io davanti, poi c’è Silvano, poi Galis, poi Tiziana e in coda Michele. Attraversiamo il ghiacciaio verso sinistra fino alla traccia principale, quindi seguiamo il traverso a destra che porta alla bastionata dell’Aiguille. Dapprima siamo su neve, poi, man mano che traversiamo più vicini al pendio roccioso, passiamo su terriccio e roccette. La traccia attraversa un primo canalino nevoso, quindi aggira una costola rocciosa, la risale sulla destra lungo un semplice pendio terroso e si porta all’inizio del grand couloir, che sappiamo essere pericoloso per le scariche di sassi. In alto, sopra le nostre teste, ad una distanza variabile tra i due ed i tre metri dal terreno, scorre un cavo metallico che viene solitamente utilizzato come assicurazione, ma è raggiungibile solo se il canale è pieno di neve; in caso contrario servono cordini da tre metri per poterci restare agganciati. A quest’ora non dovrebbe essere molto pericoloso, questo canale, ma l’isoterma dello zero è superiore ai 4000 anche oggi e abbiamo già altra gente davanti, quindi cerchiamo di attraversarlo il più in fretta possibile.
Dopo il canale incrociamo un paio di persone che stanno scendendo. Non chiediamo cosa abbiano fatto o cosa debbano fare. Ci riuniamo tutti dove termina la neve del couloir, quindi procediamo in ordine variabile. La linea di salita percorre tutta la costola su cui ci troviamo, a zig zag per tracce di sentiero, oppure su roccette elementari. Ci leghiamo nel momento in cui iniziamo ad utilizzare le mani, per superare le roccette sul filo della cresta; siamo in due cordate: io sto con Silvano; Galis con Tiziana e Michele. Il terreno è facile ma in prudenza è meglio eccedere. A metà altezza la roccia inizia ad essere incrostata di ghiaccio ed il passo si fa più lento. Nell’ultimo tratto troviamo un’inaspettata serie di cavi metallici: tutta la parte superiore della costola è attrezzata come una vera e propria ferrata. Saliamo velocemente, legati, in conserva. Al refuge du Goûter arriviamo dopo 1h45 e ci fermiamo per una sosta e per sistemarci: ci mettiamo i ramponi, visto che da qui in poi cammineremo solo su neve, ed alleggeriamo gli zaini: possiamo abbandonare in uno scaffale i caschi, le pile frontali, le custodie dei ramponi, una borraccia. Beviamo e mangiamo anche qualcosa; formidabili le prugnette secche conservate dalla colazione.
Alle 3:30 ripartiamo. Le cordate sono quelle di prima e l’ordine di salita variabile. Prima resto avanti io, con Silvano; cerco di tenere un passo il più possibile lento e regolare, per non farlo affaticare troppo,

Monte Bianco ripreso dalla cima del Dome du Gouter; visibile la Vallot e l'intera cresta delle Bosses

visto il poco allenamento che ha; è confortante, però, sentirlo chiacchierare ogni tanto, e sentirgli dire che si sente bene e che è contento di trovarsi qui. Risaliamo il breve pendio sopra al rifugio, quindi raggiungiamo la cresta dell’Aiguille du Goûter. All’inizio ci troviamo decine di tende piantate e di piazzuole scavate nella neve, per ospitarne altre, un vero e proprio campo d’alta quota. Seguiamo la cresta che con leggeri sali-scendi porta sotto ai pendii del Dôme du Goûter, quindi iniziamo a salire in modo più deciso. Man mano che saliamo il freddo si fa più intenso ed il vento più forte. A tratti mi sembra che Silvano abbia bisogno di rallentare, ma non da segni di particolare stanchezza. Da parte mia, io mi sento benissimo; mi da solo un po’ di noia il vento. Intorno alla metà del pendio ci fermiamo tutti ad indossare le giacche a vento ed approfittiamo della sosta per una bevuta. Ripartono per primi Galis e compagni, che da qui ci resteranno sempre davanti. Io e Silvano ripartiamo dopo una quindicina di secondi e proprio da qui Silvano inizia progressivamente a rallentare il cammino. Dapprima si fa più lento, poi inizia a chiedere di fare soste, sempre più ravvicinate; siamo intorno ai 4000 metri e come osserva lui è sempre questa la quota in cui inizia a sentirsi male, se non ha allenamento e acclimatamento. Sul principio mi dispiace molto vederlo così affaticato ed abbattuto, ma poi, a sentirlo parlare così piano ed incerto, a vederlo respirare a fatica e a sentirgli dire della nausea e del suo mal di testa, inizio a preoccuparmi, anche seriamente: l’ho già visto stanco altre volte, ma mai fiacco fino a questo punto. Galis, Tiziana e Michele sono sempre più lontani, ma ormai non me ne curo più: mi interessa solo di Silvano che stà sempre peggio e che si deve fermare sempre più spesso e più a lungo. Riesce a raggiungere la spalla del Dôme, da dove si vedono le Bosses e la cima del Bianco, poi si ferma e decide di rinunciare. Mi dispiace molto per lui, ma ancora più grande è la mia preoccupazione. Ci sleghiamo. Non tento di convincerlo a raggiungere la Vallot, non per via del tempo o della lentezza della cordata - non mi interessa impiegare un’ora in più o in meno - ma perchè sò che se ci arriverà non potrà fare altro che passare tutta la mattinata con gli stessi sintomi di adesso, senza speranza di farsi passare nausea o mal di testa, mentre se ritorna al Goûter avrà la possibilità di riposare al caldo 600 metri più in basso, che qui possono significare parecchio. Ci lasciamo alla spalla del Dôme; lui ci resterà per qualche minuto, poi, per il vento e per il freddo pressante, inizierà a scendere da solo lungo i facili pendii di neve. Mi racconterà più tardi della discesa, del freddo che gli gelava i piedi, del sonno, delle volte che si era trovato ad addormentarsi durante il cammino stesso e che era rimasto in piedi per caso. Sono riconoscente per la presenza della luna splendente sulla neve e per la totale assenza di crepacci da questi pendii.
Io riparto da solo con i venti metri di corda arrotolati in mano e faccio il tratto di strada che mi separa dalla Vallot praticamente di corsa, supero una decina di cordate e raggiungo Galis e compagni poco prima del rifugio.

La capanna Vallot e il Dome du Gouter, dalla cresta delle Bosses

Fisicamente posso dire di stare perfettamente, ma sono contrariato e dispiaciouto per l’abbandono di Silvano. Tra tutti era forse quello che ci teneva di più a raggiungere la cima. Appena prima di raggiungere i miei compagni sento Galis che esclama: “Ma è Jack lo Squalo che si avvicina a noi? Jack, dove è finito John?”. Gli spiego tutto e percorriamo insieme l’ultimo tratto fino alla Vallot. Mi dice di avermi riconosciuto dalla corda: “ho notato uno che saliva da solo con una corda rosa e mi sono detto: è uguale alla corda di Mirko e Silvano; poi ho guardato meglio e ho visto che eri tu davvero”. Tiziana e Michele sembrano molto stanchi, non dicono una parola. Io mi fermo un momento fuori, lascio corda e picozza sulla neve e poi mi avvio verso l’ingresso del rifugetto. Entriamo tutti, ma quello che vedo inizia a deprimermi allo stesso modo del rifugio dove avevamo passato la notte: decine di persone stipate una contro l’altra che cercano di dormire, chi deve spostarsi passa incurante sopra alle persone sdraiate, sporcizia ovunque, scarponi e scarpette singole vaganti e sparpagliate. Comincio a sentirmi afferrare da un senso di claustrofobia insopportabile, non ce la faccio più, ho bisogno di una montagna deserta. Estraggo dallo zaino la macchina fotografica, gli occhiali, la crema solare e un pezzetto di cioccolato e me li infilo nelle tasche della giacca a vento; lo zaino con il resto del materiale lo abbandono in un angolo, poi esco. Tiziana è molto stanca e decide di fermarsi qui; non prosegue per la cima ma ci aspetterà fino al nostro ritorno. Michele decide di proseguire, ma ha bisogno di qualche minuto di sosta, per riposare un po’ e per dare tempo ai piedi di riaversi dal freddo che avevano iniziato a soffrire. La sosta al bivacco si fa lunga ed io inizio a dare segni di impazienza, continuo ad entrare ed uscire, bevo qualche sorso d’acqua, mangiucchio un po’, non riesco a restare fermo. Fuori dal rifugio c’è freddo e vento ed è fastidioso rimanerci fermi; dentro non riesco a resistere per la mancanza di spazio; non so cosa fare, mi viene voglia di ripartire da solo. Avrei bisogno di un po' più di decisione da parte di Galis, ma sembra un po' preoccupato per Tiziana, bloccata dalla stanchezza, e rimane un po' con lei.
Finalmente da dentro si riscuotono, Galis e Michele tornano fuori, pronti a ripartire; sono le 6:30. Ci leghiamo insieme alla corda da venti, in testa Galis, poi Michele e poi io. Il primo tratto è su pendio aperto, è quello più ripido dell’ascensione, intorno ai 35°, e porta in cima alla Grande Bosse; poi segue il tratto di cresta pianeggiante, il raccordo con la Petite Bosse, più affilata e la risalita alla sua sommità su traccia meno ripida della prima;

Panorama dalla cima del Bianco sulla cresta verso il Mont Maudit, Mont Blanc du Tacul e Aiguille du Midì; all'orizzonte Aiguille Verte, Droites e Courtes

poi di nuovo un breve tratto in falso piano e quindi il tratto di cresta finale, affilato, trafficato, infinito. C’è un gran via vai di cordate, siamo incolonnati come su un’autostrada. Stiamo tutti benissimo, avrei potuto fare di corsa tutta la salita, Galis pure, a quanto pare, e anche Michele ora che si è riposato cammina molto bene e non risente dell’altezza, ma con questo traffico di cordate non ci possiamo muovere, siamo costretti a camminare pianissimo e ad adattarci alla velocità di chi precede. La cresta sembra non finire mai, non perchè sia particolarmente lunga o faticosa, ma perchè a questa velocità non arriviamo mai da nessuna parte. Anche qui abbiamo la possibilità di assistere a qualche episodio di cinema alpino, come a quei caratteristici millepiedi di nove persone legate in un’unica cordata o alle cordate che si devono fermare ad ogni incrocio perchè non sono capaci di proseguire con un piede fuori dalla traccia. Ogni volta scuoto la testa e penso: “ragazzi, avete sbagliato posto”. L’ultima volta mi sono fermato, ho scosso la testa ed ho pensato: “Mirko, hai sbagliato posto”.
Poco prima delle 8, finalmente, finiamo di salire. Ci concediamo parecchio tempo per goderci lo spettacolo, perchè la giornata è assolutamente fuori dal comune: il tempo è splendido, non c’è una nuvola in cielo ed il vento è persino calato; il clima è inusualmente caldo per una mattina a 4800,

Michele, Andrea e Mirko in cima al Monte Bianco

è piacevole rimanere qui a riposare, a scattare qualche fotografia, a godersi questi momenti... Ci sarà pur sempre casino, è vero, ma ormai è chiaro: siamo in cima al Monte Bianco.
Io e Galis avevamo in programma una puntata al Bianco di Courmayeur, per “dare un’occhiatina di sotto”, ma decidiamo di lasciare perdere per questa volta, per non fare aspettare troppo Tiziana e Silvano che sono fermi ad aspettarci. Ripartiamo intorno alle 8:30 ed il percorso di cresta tra la cima e la Vallot si lascia attraversare senza troppi incrocci ed imbottigliamenti. Camminiamo bene; dove il pendio è aperto la neve, gelata e spazzata dal vento, permette di camminare fuori dalle tracce senza problemi di affondamenti o di croste. Ci fermiamo a tratti per qualche altra foto e alle 9:00 siamo alla Vallot. In perfetto orario sulle previsioni di attesa preannunciate a Tiziana. Ripartiamo dopo parecchio tempo di riposo. Si ricostituisce la cordata originale di Galis, Tiziana e Michele, mentre io resto slegato perchè ho in programma di scendere più spedito, da solo, fino al Goûter per vedere prima come sta Silvano e per non farlo preoccupare inutilmente. Poi però arriva il pensiero del Dôme du Goûter dove avremmo dovuto andare tutti insieme, quindi ci avviamo in compagnia. Al Col du Dôme Michele si slega e va da solo verso la spalla, mentre io, Galis e Tiziana andiamo verso la cima. Facciamo qualche foto e ci rimaniamo pochi minuti, poi io inizio la discesa; sono le 10:05. Attraverso il ghiacciaio facile raggiungo il refuge du Goûter in venti minuti. Michele, che non si era fermato alla spalla, è arrivato poco prima di me. Appena arrivo Silvano mi vede e mi viene incontro; ormai sta bene, ma mi racconta di avere passato una brutta mattinata, di avere impiegato parecchio tempo per riprendersi e di avere sofferto molto il freddo anche nel rifugio. Galis e Tiziana arrivano dopo un’altra ventina di minuti.
Ci fermiamo parecchio, qui, per bere, mangiare e sistemare la nostra roba. Non abbiamo fretta, se non quella suggerita dalle magliette bagnate gelate dal freddo.

Tiziana in prossimità della cima del Dome du Gouter; sullo sfondo l'Aiguille de Bionassay

Ripartiamo alle 11 passate, con caschi e imbragature, legati nelle stesse cordate della salita. La costola che dobbiamo ridiscendere fino alla Tête Rousse è molto affollata, un via vai continuo di cordate, in tutte le direzioni. Ci preoccupa parecchio il pericolo di scariche di sassi provocate dagli altri escursionisti. Io e Silvano partiamo davanti. Soprattutto nel tratto superiore attrezzato è molto penosa l’attesa del movimento degli altri: chi scende è molto lento e i continui incroci con le cordate che salgono rendolo tutte le operazioni troppo lunghe. In questo tratto ci avvantaggiamo su Galis, Michele e Tiziana. Dove la cresta si fa sgombra di neve e le cordate cominciano a diradarsi, rallentiamo progressivamente, fino a farci raggiungere dagli altri pochi minuti prima dell’inizio degli attraversamenti dei canali. Durante la discesa abbiamo avuto modo di assistere al distacco di frane molto pericolose, la maggior parte convogliate nel grand couloir, e non siamo per niente tranquilli. Ci sconcerta vedere come ci siano persone a cui non importa nulla della situazione, o che non se ne rendono conto, ed attraversano il canalone in tutta calma, a volte ci sostano perfino nel mezzo, si perdono in incroci privi di senso, non fanno la minima attenzione a quello che succede sopra di loro. E’ un posto, questo, orribile ed inutilmente rischioso, dove accadono periodici incidenti, anche gravi, e dove ha già perso la vita più di una persona. Come ci si possa abbandonare così, senza cura ed attenzione, ad una simile roulette russa è una cosa che non riesco a concepire.
Quando tocca noi ci fermiamo un momento, riposiamo, ci mettiamo i ramponi - che dovremo tenere fino al rifugio - ed attendiamo che la traccia che attraversa il canale sia totalmente sgombra. Poi partiamo: prima Silvano ed io; sta davanti lui, veloce e deciso, attento a non correre troppo; io seguo facendo attenzione a lasciare la giusta tensione di corda. Galis e compagni, intanto, scrutano la parte alta del canale per controllare l’arrivo di eventuali scariche. In pochi secondi terminiamo l’attraversamento. Poi è il turno degli altri; anche loro decidono di restare legati; prima Michele, poi Tiziana, poi Andrea. Concludono l’attraversamento in fretta e senza problemi. Il resto della discesa è breve: si concludono i traversi sotto all’Aiguille du Goûter, si attraversa il ghiacciaio e quindi si arriva al rifugio.
Qui recuperiamo la nostra roba, sistemiamo gli zaini, pranziamo e ripartiamo solo dopo le 14:30. Assistiamo, poco prima, alle spericolate manovre di avvicinamento dell’elicottero che porta i rifornimenti al rifugio, che rischia di farci volare via tutto il nostro materiale. Scendiamo con calma, noncuranti del fatto che non sappiamo l’orario degli ultimi trenini in discesa dal Nid d’Aigle, né delle funivie da Bellevue. Ci fermiamo solo pochi istanti a guardare gli stambecchi di ieri, ma nel cammino uno di questi, che deve ridiscendere il vallone, lo fa praticamente insieme a noi e ci rimane a pochi metri di distanza per un buon tratto. Poco prima di raggiungere la stazione sentiamo il fischio di un trenino in partenza: lo abbiamo perso per cinque minuti; il prossimo sarà solo dopo un’ora, perciò abbiamo un sacco di tempo da perdere. Quando arriva il momento non ci resta che farci portare nella calca da un trenino e da una funivia fino al nostro parcheggio.
Quello che resta della nostra settimana di vacanza è solo la cronaca di programmi rovinati dal brutto tempo. Il mercoledì avevamo in programma una giornata di riposo, dopo il Bianco, perciò rimaniamo a Chamonix a divertirci; visitiamo il paese; nel pomeriggio andiamo ad arrampicare un po’ alla falesia dei Gailland. Per il giovedì e il venerdì avevamo in programma una salita alle Droites, ma le previsioni sono pessime e la mattina di giovedì il cielo non promette niente di buono; lasciamo perdere le Droites, e speriamo di avere tempo decente almeno per quancosa di meno impegnativo, come l’Aiguille d’Argentiére; partiamo alla volta del rifugio dell’Argentiére, dunque, ma tutto quello che riusciamo a rimediare è solo qualche minuto di cammino ed una buona dose di pioggia, perciò ritorniamo in paese; nel corso della giornata conteremo l’alternanza di cielo sereno e di non meno di cinque temporali. Venerdì speriamo in qualcosa di meglio, dal tempo, perchè i programmi delle Droites o dell’Argentiére non sono totalmente scomparsi dalle nostre teste; meditiamo a proposito della trasferta a Grindelwald per Mönch e Jungfrau, ma una consultazione al bollettino meteo delle guide e una telefonata al meteo svizzero ci tolgono le ultime illusioni. Già in tarda mattinata partiamo verso casa e ci facciamo consolare solo all’ora di pranzo da una mangiata - non da poco - al Pizza Hut di Sion, saporita conclusione di troppe giornate di cibo francese.


Mirko Sala Tesciat
2000

scheda       precedente successivo
© 2007  Green Rock Alpine Club  v2.0             built: 27.05.2007