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Vezzolano: inquadramento naturalistico.

Indice:

Localizzazione geografica;

Vegetazione naturale potenziale e reale;

Geologia e litologia;

Fauna;

Geomorfologia;

Pedologia;

Clima;

Bibliografia.

 

 

- Localizzazione geografica.

 Regione Vezzolano è una piccola area di alcune decine di ettari, situata a sud-ovest di Albugnano (AT), particolarmente nota per l’Abbazia ivi presente e per la bellezza del suo ambiente, naturale ed agrario. Le dolci colline dalle terre quasi bianche ospitano antichi cascinali e moderne ville, dove la tranquillità regna sovrana ed avvolge prati, boschi ed i vigneti, autentiche perle di questo paesaggio. Essa amministrativamente appartiene al Comune di Albugnano, dista circa 40 km dal capoluogo piemontese e circa 25 km da Asti. E' raggiungibile in auto da Torino (50 min), percorrendo la strada che tocca i paesi di Chieri e Castelnuovo D. Bosco, da Asti (35 min) e da Chivasso (25 min) mediante la direttissima passante per Casalborgone.

Regione Vezzolano, Albugnano (AT).

L'inquadramento naturalistico di Vezzolano viene effettuato prendendo come base di riferimento l'area di studio oggetto della mia tesi di laurea in Scienze Naturali dal titolo: "Indagine ambientale di una unità di paesaggio collinare del Monferrato Settentrionale". Questa porzione di territorio (26 km2 circa) ingloba suddetta regione, inoltre, essendo essa stessa all'interno di una unità di paesaggio, può essere utilizzata sia per delineare gli aspetti naturalistici di Vezzolano e sia per correlarli in rapporto al paesaggio limitrofo.

L’Abbazia di Vezzolano e, sullo sfondo, Albugnano (Asti).

La scelta dell’area di studio - intesa come delimitazione spaziale del territorio da analizzare - è stata fatta in funzione di alcune peculiarità naturali - geologiche, geomorfologiche, di deposito - che la zona offre, per alcuni tratti invece si sono seguiti i confini cartografici. L’idea di sceglire dei confini naturali mi sembra dia l’impressione di un qualcosa di svincolato e libero da quelli che sono i rigidi canoni imposti dall’uomo e dall’odierna società, inoltre una delimitazione spaziale più naturale e non dettata da confini economico-politici penso sia la miglior scelta, dove possibile, per una tesi mirata allo studio degli aspetti naturali di un territorio.

Dopo il primo sopralluogo, la visione delle foto aeree ed un attenta analisi cartografica si è notato come la zona fosse soggetta ad una netta spartizione delle acque di precipitazione, che andavano ad alimentare due differenti reticoli idrografici: a nord e nord-ovest quello inerente il bacino del Po e a sud e sud-est quello inerente il bacino del Tanaro. Ovviamente il bacino del Tanaro rappresenta praticamente un sottobacino del Po, ma visto le dimensioni che esso ha e l’orientamento diverso che manifesta si è preferito tenerli concettualmente separati. Addirittura si è visto che il rilievo collinare su cui giace l’abitato di Cinzano (q.s.l.m. 491), segna il punto di unione di tre linee spartiacque, che individuano a N il versante del Monferrato che guarda verso la valle Po nel tratto compreso tra Chivasso e Casale Monferrato, ad E la bassa valle del Tanaro e ad W il bacino del torrente Banna, affluente del Po a monte di Torino, in località Bauducchi. Dalla parte opposta, in direzione N-NE, il Rio Freddo, come sarà più specificatamente descritto al capitolo riguardante la geologia locale, rappresenta una sorta di confine profondo ed a tratti affiorante e ben visibile al piano di campagna tra il substrato alpino e quello appenninico. Per quanto riguarda la parte sud si può notare come alcuni lembi di depositi fluviali di origine quaternaria comincino ad essere presenti nei fondovalle, determinando un graduale e diffuso limite tra collina e pianura alluvionale.

Prendendo come base di riferimento la Carta Tecnica Regionale in scala 1:10.000, sezione n 156120 (Moncucco Torinese), possiamo delimitare perimetralmente l’area d’indagine rispetto ai punti cardinali. Verso N vi è una delimitazione scaturita dallo spartiacque Po-Tanaro sulla direttrice Cinzano-Berzano di S. Pietro, terminante mediante un breve tratto a confine cartografico con l’incontro del Rio Freddo. La parte W è totalmente delimitata dallo spartiacque Po-Tanaro nascente come abbiamo detto sul rilievo collinare su cui giace l’abitato di Cinzano e successivamente passante per l’abitato di Moncucco Torinese. La parte E viene divisa in due: verso N-NE il Rio Freddo e verso E-SE il confine cartografico. A S troviamo il confine cartografico alternato a delle lingue di deposito alluvionale quaternario che a tratti s’insinuano verso N, senza per’altro grossa incisività.

Nel complesso la superficie studiata non è molto vasta, però questo non è un problema vista l’uniformità del paesaggio che risulta essere abbastanza marcata, per molti km al di fuori dell’area scelta, inoltre i confini naturali rilevati sul campo e successivamente riscontrati mediante la cartografia geologica locale consultata e la fotointerpretazione, consentivano di identificare questa superficie. Un vantaggio che si ottiene dall’avere un campo d’indagine relativamente ristretto sicuramente è il poter effettuare un tipo di elaborazione più di dettaglio, concentrando l’intero operato. Tutto il lavoro cartografico è stato eseguito su questa base e la relativa ortofotocarta, arrivando a produrre la cartografia tematica costituente gli allegati 1 e 2 della tesi di laurea.

Descriviamo ora i tratti somatici della regione che ingloba l’area di studio, una regione storicamente, economicamente e culturalmente importante: il Monferrato. Questa regione offre un paesaggio dolce e romantico, con le sue colline modellate più che scolpite dagli agenti meteorici.

Il Monferrato, come le Langhe, manca di confini naturali ben definiti; si presenta come un altopiano collinoso e, staccandosi a sud dall’Appennino ligure, si protende, attraverso il casalese, nella Valle Padana, con una configurazione geografica e paesaggistica dalle caratteristiche differenziate; il basso Monferrato o Monferrato settentrionale o alto astigiano - in cui è inserita la zona di studio - che si affianca alle colline di Torino verso ovest ed al basso Canavese verso nord; l’Alto Monferrato, che comprende le vallate del Belbo, del Bormida, del Lerro e dell’Orba, caratterizzato da un paesaggio più arioso e da dorsali parallele che degradano nella pianura alessandrina. I deflussi delle zone collinari del Monferrato vengono convogliati negli affluenti Borbore e Versa che terminano in sinistra orografica nel Tanaro ad Asti. La lunghezza di oltre 200 km, l’ampiezza del suo bacino e l’eterogeneità dei territori attraversati, attribuiscono al fiume Tanaro particolari caratteristiche che lo differenziano sia dai corsi d’acqua alpini, sia da quelli appenninici; presenta infatti magre estive notevoli ed eventi di piena nei periodi primaverili ed autunnali assai rilevanti. Il trasporto solido è attivo ed in esso prevalgono sabbie ed i limi lungo il percorso di pianura.

L’area di studio rientra amministrativamente in nove Comuni, di cui due appartenenti alla Provincia di Torino; Cinzano e Moriondo T.se e sette a quella di Asti; Albugnano, Aramengo, Berzano di S. Pietro, Castelnuovo D. Bosco, Moncucco T.se, Passerano Marmorito e Pino d’Asti. Essa è situata tra i 45°03’00’’ e i 45°06’00’’ di latitudine N e i 7°55’00’’ e i 8°00’00’’ di longitudine E. L’area totale è di 25,5 km2 ed il perimetro di 23,9 km. La lunghezza massima E-W è di 5,4 km, mentre quella N-S di 5,6 km. Dal punto di vista topoaltimetrico la minima quota sul livello del mare è di 245 m rilevata al Rio della Morra in località Freis, mentre la massima quota è di 553 m in prossimità della chiesa parrocchiale di Albugnano. I suddetti parametri sono stati rilevati da CTR n 156120 e misurati mediante digitometro professionale presso l’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica nel Bacino Padano di Torino (CNR-IRPI).

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- Geologia e litologia.

 La geologia della zona studiata è uno degli aspetti più complessi e nello stesso tempo più affascinanti qui trattati, visti i numerosi cambiamenti iniziati in epoca Terziaria e continuati con una certa successione di eventi sino agli inizi dell’era Quaternaria. A. Desio definì l’Italia come uno "sfasciume geologico" e sicuramente non sbagliò, riferendosi alle numerose situazioni simili ed intricate sotto l’aspetto geologico-evolutivo, presenti sull’intero territorio italiano.

Innanzitutto va precisato che le terminologie di uso comune identificanti geograficamente la Collina di Torino ed i Rilievi del Monferrato non posseggono uguali confini rispetto alla storia geologica reale, cioè esiste una tendenza a delimitare visivamente come Collina di Torino il rilievo che fisicamente accarezza verso E l’area urbana del capoluogo regionale, da Moncalieri a Gassino, considerando invece Rilievi del Monferrato il versante E di questa anticlinale, verso l’abitato di Chieri ed il proseguimento naturale sino a Valenza ed Alessandria (ecco perché nel titolo di questa tesi compare la terminologia "Monferrato settentrionale"). In realtà però non è così: vi sono profonde differenze di natura essenzialmente geologica che possono essere meglio interpretate solo inquadrando l’argomento su scala regionale e successivamente illustrando in dettaglio la geologia locale. Per far questo vengono riportate alcune considerazioni ricavate da lavori presentati al Convegno: "Rapporti Alpi-Appennino", tenutosi a Peveragno (CN, 1995), edito da R. Polino e R. Sacchi, nonché estratte dalla bibliografia consultata (2,9,48).

La Collina di Torino ed i Rilievi del Monferrato sono il risultato di una serie di processi sedimentari, verificatisi in ambiente marino di piattaforma, di scarpata e batiale, uniti ed intervallati a movimenti tettonici, avvenuti dall’Eocene superiore al Miocene superiore in seguito alla graduale compressione della Tetide, dovuta alla collisione fra la placca africana e quella europea. La datazione dei più recenti sedimenti interessati da ripiegamento indica un’età post-miocenica. A scala regionale possiamo dire che le differenze stratigrafiche e strutturali tra la Collina di Torino ed il Monferrato a nord e le Langhe a sud erano già state riconosciute in passato; tuttavia tutto il sistema collinare tra Torino e Valenza (Collina di Torino e Monferrato) veniva considerato un dominio unico, costituente la terminazione nord-occidentale della catena appenninica profondamente indentato nell’arco alpino. La sua evoluzione era considerata unitaria, anche se erano descritte differenze nello stile di deformazione (blande anticlinali nella Collina di Torino, anticlinali fagliate con nuclei eiettivi di tipo diapirico nel Monferrato). Recenti lavori hanno delineato un quadro geometrico che mostra una marcata indentazione tra le due catene alla scala crostale. Si è quindi potuto, alla luce delle nuove esperienze, delineare un quadro dell’evoluzione del Piemonte meridionale nel quale vengono distinti domini crostali separati cui corrispondono in affioramento la Collina di Torino ed il Monferrato. I domini sedimentari più meridionali (Bacino Terziario Piemontese s.s.: Langhe e alto Monferrato) si sviluppano su un substrato alpino e subiscono più o meno passivamente l’evoluzione crostale della catena rappresentata in superficie dal sistema Monferrato/Collina di Torino. L’insieme dei bacini sedimentari terziari del Piemonte si sviluppa su due elementi crostali distinti, uno di pertinenza "alpina" (Collina di Torino e Langhe) ed uno di pertinenza "appenninica" (Monferrato). La superficie che li separa, evidente almeno a partire dall’Oligocene, è una discontinuità crostale lungo la quale avviene il sovrascorrimento del basamento metamorfico alpino sulle unità Liguridi. Tutto il sistema è inoltre sovrascorso globalmente sul basamento "insubrico" e sui relativi sedimenti padani che agiscono come avanpaese dell’intera catena. Il limite fra Alpi ed Appennino, come pure la "pertinenza" strutturale ed in definitiva la paleogeografia dei vari bacini sedimentari terziari che si sviluppano alla giunzione alpino/appenninica, è un problema puramente semantico ed è legato alla denominazione del substrato su cui si sviluppa ogni singolo bacino. Su queste basi si possono quindi distinguere tre domini principali: nel primo, su substrato "alpino" (falde metamorfiche della catena cretacico-paleogenica), si sviluppano Langhe e Collina di Torino; nel secondo, su substrato "appenninico", si sviluppano quei sottodomini che diventeranno le diverse unità tettonostratigrafiche del Monferrato; il terzo corrisponde all’avanpaese appenninico che si sviluppa su crosta insubrica, nell’attuale pianura padana.

Le differenze stratigrafiche più significative tra i due domini della Collina di Torino e del Monferrato, interessanti maggiormente ai nostri scopi, sono brevemente illustrate qui di seguito. La successione sedimentaria che costituisce la Collina di Torino si estende dall’Eocene superiore al Messiniano e riposa su un substrato di tipo alpino relativamente superficiale (2-4 km). Nel suo complesso, la successione stratigrafica della Collina di Torino appare più potente di quella monferrina ed è caratterizzata dall’abbondanza di facies terrigene grossolane di ambienti marini profondi. In particolare in questo dominio non sono riconoscibili i depositi carbonatici di piattaforma di età miocenica inferiore e media che caratterizzano il Monferrato. In tale intervallo vengono infatte riconosciute nella Collina di Torino unità costituite da facies terrigene più o meno grossolane, note come Complesso di Termoforà e Complesso di Baldissero. L’assetto geometrico della Collina di Torino è caratterizzato da anticlinali asimmetriche vergenti verso N-NW e la deformazione ha un età prevalentemente post-messiniana.

Il Monferrato è un dominio complesso che mostra una notevole frammentazione in elementi autonomi. La sua successione stratigrafica è costituita da flysch calcarei ad affinità ligure, riferibili al Cretacico superiore ed all’Eocene medio, seguito in discordanza da una successione terrigena e carbonatica di età compresa tra l’Eocene superiore ed il Pliocene. Il settore occidentale del Monferrato corrisponde all’area più complessa ed intensamente deformata. Questo settore, corrispondente alla zona di confine E-NE del territorio studiato, è composto da quattro unità tettonostratigrafiche, elencate in successione da nord a sud come segue: l’unità di Aramengo-Marmorito; l’unità di Moransengo; l’unità di Bric Carrassa e l’unità di Po. L’assetto geometrico e l’evoluzione cinematica di queste unità sono stati condizionati dall’attività di una importante zona di taglio a direzione NNW-SSE, allungata tra il margine padano e la fascia di depositi plio-quaternari che bordano a sud il Monferrato. L’attività di questa zona di taglio ha determinato lo sviluppo di una fascia tettonizzata denominata "Zona di deformazione di Rio Freddo" (RFDZ: Rio Freddo departure zone), che separa la Collina di Torino dal Monferrato. Questa RFDZ presenta una larghezza variabile da 2 a 3 km circa ed è delimitata lateralmente da faglie a direzione media N155, subverticali o generalmente immergenti ad alto angolo verso SW, caratterizzate da movimenti trascorrenti sinistri e da movimenti inversi, con numerose evidenze di riattivazioni in senso destro ed in senso normale. La RFDZ coinvolge prevalentemente unità del Monferrato occidentale. Questa zona di deformazione e di taglio transpressiva ad evoluzione polifasica è stata interpretata come l’espressione superficiale del sovrascorrimento della crosta metamorfica alpina sulle unità di copertura appenniniche, inoltre essa ha condizionato, durante l’Oligocene ed il Miocene, la diversa evoluzione tettonostratigrafica della Collina di Torino e del Monferrato.
Di conseguenza, essendo l’area d’indagine situata ad W della RFDZ, il territorio studiato appartiene geologicamente alla Collina di Torino e non al Monferrato settentrionale come potrebbe a prima vista sembrare.

Un discorso a parte merita l’evoluzione che la zona ha subito in età post-pliocenica. Durante il Quaternario l’azione geodinamica ancora in atto è stata la causa principale di tre importanti fenomeni di deviazione fluviale avvenuti in età pleistocenica ed interessanti il reticolo idrografico dell’alta pianura padana: la diversione della Dora Baltea, quella del Po e la cattura del Tanaro. Innanzitutto, dei tre fenomeni di deviazione fluviale sopra menzionati, soltanto gli ultimi due hanno contribuito all’evoluzione geomorfologica della zona studiata, mentre il primo, relativo alla diversione della Dora Baltea non ha avuto risvolti significativi in tal senso, quindi, proprio per questo motivo, se ne tralasciano i chiarimenti.

La diversione del Po - con il termine diversione si suole indicare un fenomeno di deviazione fluviale predisposto da processi di sedimentazione - è avvenuta grazie all’evoluzione geodinamica della Collina di Torino unitamente all’evoluzione erosivo-deposizionale del conoide fluvioglaciale dell’Anfiteatro Morenico di Rivoli-Avigliana, durante il Pleistocene inferiore. Questa concomitanza di fattori ha comportato la chiusura verso N, in corrispondenza della soglia di Moncalieri, del Bacino Piemontese Meridionale. Da quel momento la direttrice dei deflussi si è impostata a S della Collina di Torino e dei Rilievi del Monferrato (Paleo Po). L’evoluzione quaternaria ha successivamente prodotto l’incremento della compressione dell’anticlinale della Collina di Torino unitamente ad un incremento dell’inclinazione verso SW del loro asse. Conseguenza principale di questi processi è stata la subsidenza del settore nord- orientale della Pianura Piemontese Meridionale, che ha provocato una struttura di deformazione, la "Flessura marginale dell’Altopiano di Poirino", con asse diretto circa N-S, unitamente ad un abbassamento tettonico dei Rilievi dell’Astigiano. Il progressivo fenomeno ha determinato il richiamo del drenaggio del Bacino Piemontese Meridionale verso N ed ha indotto la diversione del percorso fluviale del Po che ha ripreso a scorrere, per’altro con una conformazione diversa, a N della Collina di Torino e dei Rilievi del Monferrato.

Per quanto riguarda invece il Fiume Tanaro, esso ha subito una sorta di cattura fluviale - con il termine cattura fluviale si indica un fenomeno di deviazione fluviale avvenuto a seguito di un processo di erosione regressiva - avvenuto durante il Pleistocene superiore e che ha visto il verificarsi di una tracimazione per sedimentazione operata dallo stesso Tanaro nell’incisione di un corso d’acqua impostato nei Rilievi del Braidese, a seguito di un processo di sovralluvionamento della Pianura Piemontese Meridionale.

Le vicende strettamente legate al cambiamento di direzione dei Fiumi Po e Tanaro hanno modificato in maniera sostanziale il paleoreticolo presente in età pleistocenica, portando le acque provenienti dall’area di studio, dapprima ad alimentare il Paleo Po e, successivamente, gli affluenti in sinistra orografica del Tanaro.

Pertanto i Rilievi dell’Astigiano hanno sostanzialmente avuto cinque tappe fondamentali nei processi erosivo-deposizionali quaternari: 1) Deposizione dei sedimenti del Complesso "0" (parte inferiore del Pleistocene medio) quando ancora l’area era un’unica pianura di erosione fluviale nella quale i maggiori corsi d’acqua, che avevano il proprio bacino di alimentazione nell’attuale Pianura Piemontese Meridionale, defluivano in direzione W-E; 2) Deposizione dei sedimenti del Complesso "A" corrispondenti ad una culminazione assiale della struttura principale (parte media del Pleistocene medio), dove, nell’ambito dell’evoluzione della Sinclinale di Asti si è verificato il sollevamento dell’area di nostra competenza; 3-4) Deposizione dei sedimenti del complesso "B" (parte superiore del Pleistocene medio), dove è iniziato il sollevamento differenziato dei Rilievi dell’Astigiano nei confronti delle due aree limitrofe verso W e verso E. In conseguenza a ciò i depositi dei Complessi "0", "A" e "B" costituiscono una sequenza terrazzata nei Rilievi dell’Astigiano, mentre nei due settori limitrofi appaiono in rapporto di sovrapposizione; 5) Ribassamento tettonico in seguito alla "Flessura marginale dell’Altopiano di Poirino" (9). Le quattro glaciazioni avvenute in età pleistocenica, non hanno contribuito in termini geografico-fisici quantitativi a rimodellare e modificare la morfologia dell’area di studio.

Le unità litostratigrafiche presenti nei Fogli n 56 e 57 e sulle relative note illustrative (48), per quanto riguarda l’area in esame, sono state verificate mediante sopralluoghi specifici, con l’ausilio anche di scavi per la determinazione dei profili pedologici. Seguendo un ordine cronologico deposizionale, dalla più antica alla più recente, si rilevano:

Complesso indifferenziato (E-C), Eocene-Cretaceo. Risulta costituito da frammenti, lembi e zolle disarticolate di flysch eocenico, di pietre verdi, di argille variegate, grigie rosse o verdicce, con intercalazioni di strati e banchi più resistenti di tipo calcareo o calcareo-marnoso.

Formazione di Gassino (E3), Eocene superiore. Costituita da marne e argille verdastre o rossastre a fessurazione galestrina, localmente contraddistinte da intercalazioni calcaree risedimentate. Nella parte inferiore della formazione, la cui base non è conosciuta in quanto il limite con le formazioni sottostanti risulta costantemente tettonizzato, si nota la comparsa di arenarie, talora conglomeratiche, alternanti con siltiti.

Arenarie di Ranzano (O2-E3), Oligocene medio-Eocene superiore. Si tratta di un complesso essenzialmente clastico, caratterizzato dalla presenza di conglomerati caotici grossolani, con blocchi che possono superare il metro di diametro. Tuttavia la formazione è spesso anche costituita da alternanze arenaceo-argillose a sedimentazione ritmica, che sembrano corrispondere alla risedimentazione di depositi detritici originariamente più costieri.

Marne di Antognola (M1-O3), Aquitaniano inferiore-Oligocene superiore. Serie monotona, poco fossilifera, di potenza compresa tra 200 e 500 m, costituita da siltiti, talora marnose, grigio-verdognole e grigio-azzurrognole, con subordinate intercalazioni arenacee ed ancora più rare passate conglomeratiche.

Marne a Pteropodi Inferiori (M1), Aquitaniano. Alternanze regolari di peliti siltose grigio-azzurrognole, fogliettate e friabili e di marne silicee dure, grigio-verdognole, in strati di 5-20 cm, con spalmature manganesifere nerastre e con vene di opale. La frazione silicea appare in prevalenza costituita da spicola di Spugne e da Radiolari. Molto più rare le intercalazioni arenacee, sempre nettamente gradate.

Complesso di Baldissero (M3II-M3IV); Formazione di Baldissero (M3-2), Miocene medio. La serie inizia con un orizzonte arenaceo-conglomeratico risedimentato, riccamente fossilifero, di potenza variabile tra 30-40 m, seguito per circa 50-80 m da un alternanza di siltiti argillose e sabbie fini in strati sottili, caratterizzate dall’abbondanza di Pteropodi e di Aturie. Il Complesso di Baldissero termina infine con un orizzonte potente di 50-80 m in cui si alternano siltiti argillose e sabbie fini, di colore giallastro, con rari macrofossili e ricche microfaune.

Marne di S. Agata Fossili (M4), Tortoniano-Serravalliano sommitale. Sono riferibili a questa formazione una serie di argille e marne argillose grigio-azzurre, talora con intercalazioni sabbioso-conglomeratiche oppure interamente passanti a sabbie e argille sabbiose grigie, localmente fossilifere. La potenza si aggira intorno ai 100-150 m.

Formazione gessoso-solfifera (M5), Messiniano. E’ costituita da argille grigie, scarsamente fossilifere, marne fogliettate con filliti, frammenti lignitici e resti di insetti, lenti di calcari a cellette e banchi di gesso selenitico estratto in numerose cave (Moncucco T.se).

Argille di Lugagnano (P2-1-P3), Piacenziano-Astiano (Pliocene). Il Piacenziano è tipicamente rappresentato da un orizzonte potente circa 50 m di argille azzurrognole, alquanto siltose nella parte più alta della deformazione, con ricche micro e macrofaune indicanti un ambiente di sedimentazione tranquillo e piuttosto profondo. Alle argille piacenziane fanno seguito sabbie quarzose di colore giallastro, con livelli riccamente fossiliferi sedimentati a profondità minore rispetto al Piacenziano. Agli orizzonti sabbiosi si alternano localmente calcareniti arenacee.

Alluvioni sabbioso-ghiaiose post-glaciali (a1), Alluvioni antiche. Queste alluvioni, che sono talora debolmente terrazzate ed in parte ricoprenti i precedenti depositi würmiani, sfumano gradatamente nelle Alluvioni medio-recenti, da cui si differenziano in quanto non sono soggette ad inondazioni da parte dei fiumi attuali.

L’apporto in termini quantitativi che queste formazioni esercitano nell’ambito della zona studiata è molto diverso tra loro; infatti, mentre un esigua porzione di territorio poggia su formazioni quali il Complesso Indifferenziato, la Formazione gessoso-solfifera, le Argille di Lugagnano e sulle alluvioni sabbioso-ghiaiose post-glaciali, la restante parte (circa l’85%) della superficie totale, ha come substrato pedogenetico materiale derivato dalla disgregazione di unità litostratigrafiche essenzialmente mioceniche, formate prevalentemente da sabbie poco cementate e con componente fine assai modesta, unite a marne calcaree (Formazione di Baldissero e complessi marnosi di Antognola, a Pteropodi, di S. Agata). Questa situazione rende il substrato facilmente disgregabile e quindi propenso alla formazione di terreno agrario, sicuramente poco evoluto, poiché sempre asportato a seguito di processi erosivi, di natura prettamente superficiale, come sarà ampiamente descritto in seguito.

Sequenza di strati marnosi e arenacei facilmente disgregabili.

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- Geomorfologia.

 La geomorfologia dell’area di studio viene preventivamente affrontata effettuando un sopralluogo nella zona, sfruttando alcuni dei diversi punti panoramici presenti e cercando di trarre alcune considerazioni di massima, utili per le successive fasi di fotointerpretazione, di cartografia e di valutazione inerente i fenomeni di dissesto in atto. L’occhio e lo spirito del naturalista non possono esimersi, ove ve ne sia la possibilità, dal vedere come la natura, attraverso i suoi processi endogeni ed esogeni, modifichi l’aspetto e la forma del paesaggio e come i tempi geologici abbiano lasciato inevitabilmente il segno delle vicende trascorse. L’interpretazione del "cosa si vede", cogliendone gli aspetti essenziali, è materia del naturalista.

Pertanto, i punti d’osservazione (p.o.) individuati ed utilizzati a tale scopo sono stati i seguenti:

p.o.1. in prossimità della rosa dei venti posta al Parco della Rimembranza in Albugnano (q.s.l.m. 553 m);

p.o.2. al colle di Regione Vezzolano, in fronte all’Abbazia, adiacente "la Crocetta" (q.s.l.m. 441 m);

p.o.3. sulla strada comunale Cinzano-Moncucco T.se, in prossimit‡ del bivio per Frazione Torrazza (q.s.l.m. 429 m);

p.o.4. sulla strada comunale Albugnano-Castelnuovo D. Bosco, alle spalle della Cascina Bonetta, verso E (q.s.l.m. 408 m).

Siccome le quattro postazioni sono facilmente riconoscibili sul campo, non si è ritenuto opportuno determinarne il punto cartografico e riportarne le coordinate geografiche. La visione a 360° di tutta la superficie studiata ha permesso di trarre le seguenti considerazioni di massima. In questa sede esamineremo solamente gli aspetti squisitamente geografico-fisici.

Innanzitutto, la prima sensazione che viene percepita una volta giunti sul punto d’osservazione, soprattutto sul p.o.1, è la maestosità del panorama che da essi si può ammirare. Non di rado capita di poter osservare gran parte del territorio piemontese e quando dico gran parte sicuramente non esagero, questo grazie soprattutto alla posizione quasi centrale che l’area di studio riveste nell’ambito territoriale regionale ed alla quota media nettamente più elevata rispetto ai rilievi collinari vicini. Dal p.o.1 - che corrisponde anche al luogo più alto di tutti i Rilievi del Monferrato - si può ammirare verso N la zona del Canavese, l’imbocco della Valle d’Aosta e lo splendido anfiteatro morenico d’Ivrea con, all’estrema destra la sua morena laterale sinistra molto ben conservata (La Serra d’Ivrea) ed alla sua estremità meridionale il punto in cui la Dora Baltea ha superato lo sbarramento morenico frontale, iniziando a "meandrizzare" verso il Po, sino a Crescentino. Spostando lo sguardo verso NE la pianura vercellese è facilmente identificabile con le aree risicole nettamente emergenti dal panorama agricolo confinante, poco sopra la zona di Biella con il suo capoluogo. Spostandoci ancora verso NE vediamo le due torri della centrale elettronucleare di Trino V.se e, poco sopra, Vercelli. In direzione E-NE, durante giornate particolarmente favorevoli, è possibile osservare Novara e Milano (binocolo alla mano anche il Duomo). Spostando lo sguardo verso E si può vedere tutto il rilievo monferrino che sfuma gradatamente lasciando il posto alla pianura alessandrina. In direzione SE abbiamo un ampio tratto di pianura padana che successivamente diventa, verso S territorio appartenente alle Langhe e, verso SW la zona di Chieri, l’Altopiano di Poirino e la parte meridionale della Collina di Torino. La netta anticlinale della Collina di Torino - direzione SW-NE - nasconde totalmente il capoluogo piemontese e porta ad osservare il Faro della Vittoria e la Basilica di Superga con, dietro di se, verso W, la Sagra di S. Michele in cima al Monte Pirchiriano, il Müsiné e l’imbocco della Val di Susa. Per quanto riguarda l’arco occidentale della catena alpina ovviamente è totalmente visibile, dalle Alpi Marittime, alle Cozie, alle Graie, con le sue cime principali in netta evidenza (Monviso, Rocciamelone, Monte Rosa, Gran Paradiso, e Monte Bianco). Dal p.o.2 oltre a tutta la parte N-W già osservata al p.o.1, si può vedere molto bene il Monte Cervino, parzialmente nascosto al p.o.1 ed il versante E dello spartiacque Po-Tanaro in tutta la sua lunghezza relativa all'area d'indagine. Dal p.o.3 è particolarmente visibile la parte S verso Castelnuovo D. Bosco ed in particolar modo Colle D. Bosco e la sua Basilica. Il p.o. 4 offre soprattutto verso NE la vista migliore, dando la possibilità di osservare la zona del Rio Freddo, importante ormai sappiamo perché. Lo spettacolo notturno, a parte la sensazione di "presepio" che tutti i punti panoramici offrono, non ha particolari caratteristiche degne di essere menzionate se non quella di far risaltare i grossi conglomerati urbani molto ben illuminati.

Dopo questa prima sensazione, che sicuramente contiene tutti i presupposti per una gradevole osservazione anche durante le più rigide e limpide giornate invernali, si può notare come non vi sia nei rilievi una orientazione preferenziale, cosa molto evidente invece nelle Colline delle Langhe. L’ordine sparso delle dorsali collinari è accompagnato sempre da una netta asimmetria dei rispettivi versanti; tendenzialmente più acclivi in destra orografica rispetto al lato sinistro. Questa disformità nell’aspetto collinare, unita alle differenze di esposizione, viene a creare differenze estremamente marcate nella distribuzione vegetale e nell’utilizzo antropico. Non sono visibili evidenti fenomeni di dissesto in atto anche se in alcune zone dove sono state eseguite lavorazioni agricole di scasso, di arature oppure lavorazioni su terreno nudo, sono visibili processi di erosione superficiale limitati sempre a piccole porzioni di territorio.

La fotointerpretazione eseguita in funzione di questo lavoro - quindi non solo per quanto riguarda gli aspetti geomorfologici, ma anche per la scelta dei siti ove effettuare i profili, per la distribuzione della vegetazione e per lo sviluppo antropico, ha utilizzato fotografie aeree scattate il 16 dicembre 1994 dalla Compagnia Generale Riprese Aeree (PR), durante un volo effettuato per la Regione Piemonte (pancromatico), allo scopo di documentare i danni provocati dalle ripetute precipitazioni cadute su tutto il Piemonte nel novembre 1994 e che hanno provocato i ben noti disastri lungo il bacino del Fiume Tanaro. Il lavoro è stato eseguito presso la fototeca del CNR-IRPI di Torino. In dettaglio, le fotografie osservate sono state le seguenti:

strisciata n 29B - fotografie nn 7477¸ 7481

strisciata n 30C - fotografie nn 7494¸ 7499

strisciata n 31C - fotografie nn 7408¸ 7412

La fotointerpretazione ha, sia confermato tutti gli aspetti già rilevati dai quattro punti d’osservazione, sia fatto emergere nuove caratteristiche morfologiche, dando così la possibilità di stilare un quadro geografico-fisico dettagliato.

Per quanto riguarda l’aspetto morfologico si rileva chiaramente una netta asimmetria dei versanti, più acclivi in destra orografica anziché in sinistra orografica. In alcuni punti questo fenomeno è meno evidente, ma comunque sempre presente costituendo praticamente una costante dell’intero paesaggio. Gli stessi tipi litologici costituiscono sia l’Alto Monferrato, sia le Langhe, ma l’assetto strutturale, qui riconoscibile, è meno perturbato, in quanto le formazioni mioceniche presenti evidenziano giaciture costantemente immergenti verso nord. Un’aspetto tipico delle Colline del Monferrato - che risulta molto utile per l’interpretazione del paesaggio in sede di fotointerpretazione - è la presenza di strade ruderali, di campagna o anche comunali, sugli spartiacque.

Il sistema idrografico è rappresentato da alcuni rii principali con circolazione idrica assai ridotta, ma permanenti e con andamento subparallelo e relativamente regolare N-S. L’ampiezza dei bacini, considerati naturalmente solo alla sezione di valle riferita ai confini dell’area in esame, è al massimo di una decina di km2 (15). Si differenziano sempre nettamente la parte a monte dei rii, con versanti acclivi e incisi da numerosi micro-affluenti a "spina di pesce" e la parte a valle con compluvi più dolci e versanti poco incisi. Le portate cosiddette normali, pur nel significato generico del termine, sono di pochissimi litri al secondo ed in caso di stagioni secche prolungate possono ridursi quasi a nulla, anche se non si ha mai un vero prosciugamento (15).

Il sistema collinare presenta un reticolo idrografico sicuramente sovradimensionato rispetto ai corsi d’acqua attuali; le forme fluviali presenti - molti ruscelli e qualche rio - non avrebbero l’energia sufficiente, sia in termini di portata, sia in termini di velocità e di dislivello, per poter modellare il territorio arrivando all’attuale paesaggio. Questo sovradimensionamento porta a considerare la morfologia attuale come in parte ereditata da una situazione precedente, anche se comunque non sembrano esserci i presupposti per pensare ad un paleoreticolo ben sviluppato. Praticamente tutte le testate di bacino sono in erosione regressiva, questo è dimostrato da una evidente nicchia di distacco a forte acclività - agevolata soprattutto da microcrolli dovuti alla scarsa compattezza e discreta friabilità del materiale litologico - non accompagnata da una superficie di accumulo sottostante. Si tratta di un tipo di erosione superficiale e non profonda, con progressivo arretramento della testata che può verificarsi in tempi abbastanza brevi e che sicuramente porta come principale conseguenza alla cattura fluviale. Un fenomeno di questo tipo è molto comune in questa zona ed è ben visibile, in fotografia aerea, nel tratto collinare tra i centri abitati di Berzano S. Pietro ed Albugnano, a N di Regione Vezzolano.

Non si rilevano evidenti fenomeni di dissesto in atto, certamente si notano processi erosivi in lenta evoluzione (soliflussi, creep) oppure di erosione superficiale su terreni nudi (colture viticole ad interfilare lavorato e seminativi) che vengono facilmente aggrediti dalle acque meteoriche, come ad esempio tra Cascina Bonetta e Cascina Vironi oppure attorno a Cascina Bardella (Comune di Castelnuovo D. Bosco). Esse sono zone d’instabilità potenziale abbastanza marcata poiché è sufficiente l’infiltrazione di acqua tra le superfici di scorrimento di frana affinché questa venga nuovamente riattivata. Il movimento gravitativo esistente viene provocato da zone di rottura nella compattezza del substrato oppure da linee di scivolamento preferenziali interstrato.

Quindi, riassumendo, la maggior parte della superficie d’indagine è soggetta a problemi di rischio generico - fenomeni d’instabilità naturale - che interessano essenzialmente versanti e testate di bacino. Per quanto concerne i versanti abbiamo fenomeni franosi non più recenti, sia oramai stabilizzati, sia latenti e quindi che potrebbero riattivarsi (esempi sopra citati) e fenomeni attuali localizzati a piccole porzioni di territorio; mentre per quanto riguarda le testate di bacino abbiamo fenomeni di erosione regressiva abbastanza intensi, come risulta particolarmente evidente in alcune località poste a E del Comune di Moncucco T.se ed a N del Comune di Albugnano. Tenuto conto del periodo in cui sono state eseguite queste foto aeree, è possibile affermare che le precipitazioni cadute nei primi giorni del novembre ’94, artefici dei disastri provocati in Val Tanaro, non hanno creato particolari danni sia al territorio e sia alle popolazioni su di esso insediate.

Per poter comprendere meglio le diverse tipologie inerenti i fenomeni di dissesto geomorfologico presenti, risulta utile delinearne a priori alcuni aspetti prettamente teorici (1, 4, 5, 10, 17, 33).

I pendii sono le più comuni forme del rilievo, e sebbene nella maggior parte dei casi essi appaiano stabili e statici, sono invece sistemi dinamici ed in evoluzione. I versanti rappresentano la superficie terrestre ad eccezione dei fondovalle e delle pianure. L’altezza di un versante corrisponde al dislivello verticale e la lunghezza alla distanza orizzontale fra le due estremità. L’inclinazione è l’angolo fra un piano orizzontale ed il versante stesso. Il profilo di un versante può essere rettilineo, convesso, concavo oppure complesso nel caso in cui vi siano varie combinazioni dei precedenti. Le superfici si possono considerare planari, quando le isoipse sono parallele o rettilinee; tronco coniche convesse quando le isoipse sono convesse verso le quote minori e le linee di massima pendenza divergono; tronco coniche concave, quando le isoipse sono concave verso il basso e le linee di massima pendenza convergono. I materiali che costituiscono la maggior parte dei pendii sono in costante movimento, a velocità che variano impercettibilmente come i creep, oppure possono essere molto veloci come i crolli. Si definiscono (secondo VARNES) lentissimi i movimenti che avvengono con velocità inferiori a 6 cm/anno, molto lenti quando sono compresi tra 6 cm e 1,5 m/anno, lenti tra 1,5 m/anno e 1,5 m/mese, moderati tra 1,5 m/mese e 1,5 m/giorno, rapidi tra 1,5 m/giorno e 3 dm/min, molto rapidi tra 3 dm/min e 3 m/s e rapidissimi quando superano i 3 m/s. Le frane e i fenomeni correlati come le valanghe e la subsidenza, sono eventi naturali che avvengono anche senza l’intervento dell’uomo. Possono essere incrementati o innescati, ad esempio, con escavazioni nel terreno, o ridotti, eseguendo opere bonificatorie (GIORGI, 1997). Le frane vengono classificate - in base alle caratteristiche morfodinamiche - nel modo seguente:

Soliflusso (Solifluction). I materiali limosi ed argillosi, anche inglobanti detriti grossolani, hanno la capacità di imbibirsi d’acqua, diventano plastici e sotto l’azione della gravità tendono a scivolare verso valle, anche con pendenze dei versanti inferiori a 5 gradi. E’ un processo molto lento (alcuni dm/anno) e le superfici interessate sono vaste. Sui pendii appaiono ondulazioni e decorticazioni del manto erbaceo.

Reptazione (Creep). Questo tipo di movimento avviene su terreni detritici e non coerenti e si esplica con spostamenti individuali di ciascun granulo. Questi movimenti non sono dovuti alla gravità, ma a diverse cause quali l’alternanza gelo-disgelo, l’umidificazione e disseccazione del terreno, le dilatazioni termiche, il movimento radicale della vegetazione, l’azione di animali scavatori o al pascolo (striscie di pedonamento), lavori di aratura e così via. Sulla superficie appaiono decorticazioni e scarpatine.

Crolli (Falls). Si tratta di un movimento veramente rapido che avviene in prevalenza nell’aria mediante caduta libera, rotolamento e salti di materiale roccioso.

Ribaltamenti (Toppless). Avvengono quando un pendio molto ripido subisce un ribaltamento, facendo perno su un punto che si trova sotto al baricentro della massa rocciosa.

Scivolamenti o scorrimenti (Slides). Comportano uno spostamento lungo una o più superfici. Possono essere rotazionali quando sono il risultato di forze che producono un movimento di rotazione attorno ad un punto posto sopra il centro di gravità della massa, traslativi quando lo spostamento avviene lungo una superficie debolmente ondulata o quasi piana quali giunti di stratificazione, faglie e fessure (soil slip). Le frane per saturazione e fluidificazione dei terreni sciolti superficiali (coperture detritiche eluviali oppure depositi glaciali) si sviluppano in concomitanza a precipitazioni intense. In un’area non estesa se ne possono contare diverse centinaia anche durante un solo evento idrologico. Questa tipologia di frana si sviluppa con maggior frequenza in ambiente prealpino e in zone collinari, su versanti con pendenze comprese fra 30° e 45°, in zone a pascolo o a prato. Coinvolge per lo più limitate porzioni di terreni incoerenti della copertura superficiale che le acque di percolazione hanno portato alla saturazione. Il dissesto si manifesta inizialmente come uno scivolamento di suolo che si evolve quasi subito in un colamento molto rapido, sovente incanalato nelle ripide incisioni torrentizie di ordine inferiore. Questa possibilità, collegata al fatto che l’attivazione del fenomeno si verifica durante periodi di piogge intense, crea le condizioni perché una frana si trasformi in un processo di trasporto solido, rientrando così nelle fenomenologie d’instabilità che si sviluppano a carico della rete idrografica minore. La particolare pericolosità di questi fenomeni è da mettere in relazione con la loro rapidità di sviluppo e con la difficoltà di prevederne l’ubicazione, ma anche con l’elevata densità di distribuzione delle singole frane.

Espansioni laterali (Lateral spreads). Sono movimenti connessi a masse fratturate generalmente dovuti a deformazioni del materiale sottostante.

Colate (Flows). Possono avvenire in ammassi rocciosi sotto forma di movimenti lenti e differenziali, anche profondi, nei quali le unità coinvolte rimangono relativamente intatte. Avvengono spesso in terreni sciolti quando i suoli sono imbibiti d’acqua per uno spessore di alcuni metri ed appaiono sottoforma di lingue che si spostano a velocità simili a quelle dei fluidi viscosi. Sotto certi aspetti hanno caratteristiche simili agli scivolamenti o scorrimenti.

Complessi (Complex). Si classificano in questa categoria quei movimenti che risultano dalla combinazione di più tipi.

La frana morfologicamente risulta composta di più parti: una scarpata principale corrispondente alla superficie che delimita il terreno stabile dalla parte superiore della frana. Il suo prolungamento al di sotto del materiale spostato prende il nome di superficie di distacco. Il piede è la parte di frana che si trova a valle del movimento, mentre la testa è la parte più elevata. Il corpo di frana costituisce tutto il materiale interessato dal movimento. Il tipo di movimento è in parte legato alle caratteristiche della roccia. Le frane rotazionali sono più comuni in rocce debolmente cementate, mentre i crolli avvengono in rocce cementate che presentano piani preferenziali di fratturazione o giunti di strato subverticali, oppure quando viene a mancare un sostegno da parte di rocce più erodibili sottostanti. Gli scivolamenti coinvolgono generalmente rocce cementate ed avvengono lungo fratture, giunti di stratificazione o sottili interstrati argillosi. Le colate sono invece tipiche di materiali incoerenti. La pendenza dei versanti influenza le forze traenti. Una massa di una tonnellata, che agisce su un pendio di 30 gradi, è soggetta ad una forza traente di 500 kg, mentre la stessa su una superficie inclinata di 60 gradi sarebbe sottoposta ad una forza traente di 866 kg (GIORGI, 1997).

Il clima e la vegetazione possono influenzare il tipo di movimenti che avvengono sui versanti. Il clima è importante perché controlla la natura e l’estensione delle precipitazioni, quindi il contenuto in acqua della roccia costituente il pendio. Sia le colate di terra sia quelle di fango richiedono movimenti di materiale saturo in acqua. La vegetazione è importante poiché costituisce una copertura che minimizza l’impatto della pioggia sul terreno, facilitando quindi l’infiltrazione d’acqua nel versante e limitando l’erosione superficiale; inoltre l’apparato radicale penetrando nel terreno conferisce un’ulteriore coesione apparente della roccia, inoltre la copertura vegetale aggiunge peso al versante. In taluni casi la presenza di vegetazione può facilitare la formazione di frane. Ciò avviene quando sono presenti specie vegetali con apparati radicali che giungono alle medesime profondità. Poiché la vegetazione tende a favorire l’infiltrazione, si può formare uno strato intriso d’acqua sotto le radici, creando così un piano preferenziale di scivolamento. Sono invece più stabili quei versanti sui quali siano presenti piante aventi differente sviluppo radicale. La rimozione della vegetazione provoca per contro un aumento della probabilità che avvenga una frana. Il grado di evapotraspirazione viene enormemente ridotto, aumentando così l’umidità nel suolo, l’infiltrazione dell’acqua è favorita, in particolare in terreni permeabili e con lieve pendenza. Le radici, infine, dissolvendosi col tempo, ridurranno la coesione apparente della roccia, ciò spiega come alcune frane siano avvenute parecchi anni dopo il taglio di una foresta (GIORGI, 1997).

L’acqua è spesso direttamente o indirettamente implicata nei movimenti franosi e il suo ruolo è perciò particolarmente importante. L’acqua è il solvente principale e la maggior parte dell’alterazione delle rocce riduce lentamente la resistenza al taglio. Gli effetti dell’acqua sui versanti e nelle frane sono abbastanza variabili. In primo luogo la saturazione del terreno provoca un aumento della pressione dell’acqua tra i pori. In generale, ad un incremento della pressione interstiziale corrisponde una diminuzione della resistenza al taglio della roccia ed un aumento del peso. La capacità erosiva dell’acqua influenza la stabilità, infatti l’erosione al piede di un versante fa si che aumenti la pendenza, incrementando la componente traente delle forze in gioco (GIORGI, 1997).

I movimenti franosi sono spesso preannunciati da segni premonitori quali fessure nel terreno e nei manufatti. A volte i crolli sono preceduti da cadute di massi. Nelle aree instabili vengono collocati dei capisaldi che permettono, usando appositi strumenti di misura, di controllarne la posizione e quindi i movimenti del terreno. Misure possono essere eseguite anche con metodi fotogrammetrici ed aerei. Gli spostamenti sotterranei si misurano utilizzando inclinometri che rilevano i mutamenti lungo la sezione verticale di un pozzo. L’acqua, come precedentemente detto, costituisce una delle principali cause dei franamenti, si deve quindi cercare di allontanare dalle aree in movimento sia le acque in superficie sia quelle che si trovano in profondità. Le prime sono eliminate mediante fossi che impediscono alle acque di giungere alle aree dissestate, le seconde sono eliminate mediante drenaggi profondi ottenuti tramite trincee e gallerie. La riduzione delle forze traenti può essere ottenuta riducendo la pendenza dei versanti, oppure alleggerendo la parte superiore dei pendii mediante sbancamenti. La protezione dai crolli può avvenire facendo precipitare la componente instabile del pendio, oppure costruendo alla base dello stesso delle pareti paramassi. E’ possibile ancorare masse instabili alla roccia sana sottostante mediante chiodature e micropali (GIORGI, 1997).

Dopo queste brevi premesse teoriche passiamo ad analizzare in dettaglio i fenomeni di dissesto presenti nell’area d’indagine. Tenuto conto che le unità litostratigrafiche dell’area di studio risultano formate prevalentemente da sabbie poco cementate e con componente fine assai modesta, unite a marne calcaree, i principali processi di degradazione che si pongono in atto sono: isolati crolli, tendenzialmente di piccole dimensioni; erosioni lineari per ruscellamento, profonde e incanalate; numerosi piccoli soil slip, soliflussi e fenomeni di creeping a piccola scala. La permeabilità delle sabbie garantisce, in condizioni normali, un efficiente drenaggio idrico con brevi tempi di corrivazione (13). Per contro la scarsa permeabilità intrinseca delle siltiti marnose o argillose, delle marne e delle argille, è in parte compensata dalla diffusa fratturazione e dalla modesta potenza delle singole bancate (15). Da quanto esposto appare evidente che nelle aree di affioramento delle sabbie sono da temere soprattutto le frane di crollo, per scalzamento delle scarpate naturali ed artificiali e dei versanti nudi delle vallette più incise (13). L’erosione per ruscellamento, normalmente ridotta, può diventare accentuata in mancanza della copertura vegetale. Dove la coltre superficiale è più potente e con più matrice limoso-argillosa, possono anche instaurarsi fenomeni di soliflusso (13).

Un’area particolarmente dissestata la si riscontra a N del comune di Castelnuovo D. Bosco, lungo la Valle del Rio di Nevissano. A valle di Madonna del Rocco, la forte pendenza accentua il parametro della franosità, che si manifesta con una serie di movimenti già in atto da 8-9 anni; la stessa strada provinciale risulta ribassata di 3-4 m. Più a N un vasto movimento franoso dipartentesi da Casa Pozzo, in parte lesionata, discende per il pendio sino a raggiungere il sottostante rio. Tutte le strade poste su questo corpo di frana risultano smosse e spanciate verso valle. Stesso fenomeno franoso si manifesta sul versante orografico opposto, con due evidenti nicchie di distacco. Il territorio di Castelnuovo D. Bosco, nel suo insieme, può essere classificato come area soggetta a dissesti idrogeologici mediamente accentuati (13). Spostandoci a N ed entrando amministrativamente nel Comune di Moncucco T.se, va segnalata come potenzialmente dissestabile tutta la fascia di versante W della Valle del Rio della Morra. Pur non presentando evidenze di smottamenti in atto, nei versanti particolarmente acclivi, sono presenti caratteristiche geomorfologiche, litologiche e giaciturali tali da rendere relativamente facile l’innesco di fenomeni gravitativi (15). La morfologia collinare piuttosto movimentata che costituisce il territorio del Comune di Albugnano fa si che vi siano numerose zone con evidenti fenomeni di dissesto recenti oppure passati, classificando il territorio comunale, nel suo insieme, come area soggetta a dissesti idrogeologici accentuati (12). Nella località S. Lucia-Roncaglio, un avvallamento in testata alla locale vallecola è il fenomeno più manifesto di tutta un’area da considerarsi potenzialmente dissestabile. Altro e correlato areale di potenziale dissesto lo si riscontra lungo la strada comunale fra Cascina Vallana e la Frazione Cavani; infatti nei pressi del tornante, un colamento raggiunge il sottostante Rio Freddo. Più a N tutta la vallecola a valle di Cascina Bertacca risulta interessata da fenomeni diffusi, infatti un colamento ha provocato il crollo di un ponte lungo la campestre in loco. A N-E di Cascina Campolungo è individuabile un altro areale con potenziale parametro di dissesto idrogeologico. Tutta la fascia collinare posta al di sotto del concentrico di Albugnano, a girapoggio, è da considerarsi, anche per la zonale accentuata clinometria, di potenziale franosità. A valle di Cascina Cola, appena al di sotto della strada provinciale per Berzano S. Pietro, si individuano aree smosse con fuoriuscita di acqua ("tampe"), che imbibiscono la coltre argillosa in loco. La serie di colamenti in atto è di tipo superficiale e rialza il terreno di 2-3 m. Il dissesto si prolunga a valle, lambendo Cascina Serra e sino oltre Cascina Valle che risulta inoltre lesionata. Una frana di colamento prima del bivio di Pino d’Asti, a valle della strada provinciale, scivola con un fronte che raggiunge il rio sottostante, in zona da considerarsi di rischio idrogeologico (12).

Dicembre 1994: soil slip in una valletta collinare, antropizzata ed adibita a prato-pascolo turnato.

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- Clima.

 I numerosi parametri climatici utilizzati per le elaborazioni dei bilanci idrologici, del regime pluviometrico e del regime di temperatura ed umidità dei suoli, sono stati rilevati presso la stazione meteorologica presente nell’Azienda agraria sperimentale di Vezzolano (CNR-IMA). Questa stazione meteorologica - situata ad una quota di 426 m s.l.m., ad una latitudine di 45° 04’ 47" N e ad una longitudine di 4° 29’ 31" W (merid. Roma M. Mario) - opera da ormai più di trent’anni, con ottima continuità, osservazioni principali e, dal 1981, anche accessorie. Questo ha dato la possibilità di usufruire di una buona base di dati su cui effettuare le successive elaborazioni statistico-climatiche. La relativa ristrettezza dell’area d’indagine, unita ad un buon rapporto area/perimetro (1,06 km), indicante un accorpamento decisamente marcato tendente ad una superficie quasi circolare, ci permette di considerare questi parametri come rappresentativi dell’intero territorio monitorato. Va precisato, però, che non è stato possibile elaborare i parametri climatici avendo a disposizione un numero maggiore di stazioni meteorologiche - cosa sicuramente migliore - vista la mancata presenza di queste all'interno dell'area di studio.

La conoscenza del clima si basa su elaborazioni statistiche di dati numerici rilevati in serie sufficientemente protratte nel tempo (almeno trent’anni). Essa è uno degli elementi più importanti al fine di una corretta valutazione del territorio e di un razionale utilizzo del suolo, infatti al variare delle zone climatiche variano anche i tipi di suoli e, di conseguenza, le attività che su di essi vengono effettuate; però, va aggiunto che, se esiste ed è evidente una zonalità del clima, esiste ma è meno evidente una zonalità dei suoli. Inoltre, in zone collinari, l’azione dei diversi elementi climatici, riveste una notevole importanza sul modellamento dei versanti e quindi sulla morfologia dell’intero paesaggio. L’importanza del clima nella formazione del suolo - e quindi anche per chiunque debba intraprendere uno studio pedologico - è fondamentale, perché attraverso la distribuzione annuale della temperatura e delle precipitazioni ne controlla direttamente gli sviluppi a livello zonale e ne predispone alcuni elementi anche nelle più articolate e frammentarie pedogenesi regionali e locali. Questa partecipazione diffusa a tutti gli stadi evolutivi comporta la necessità di una conoscenza sufficientemente approfondita del clima, estesa dalle più generali condizioni atmosferiche, fino alle più specifiche realtà pedoclimatiche (33). Le variazioni spaziali e temporali del clima atmosferico dipendono dalle modificazioni che si hanno nella qualità, quantità e distribuzione degli elementi climatici (temperatura ed umidità relativa dell’aria, pressione atmosferica, precipitazioni, vento ecc.) e dalle azioni modificatrici che alcuni importanti fattori esercitano su tali elementi (sia cosmici, sia geografici).

Molti sono i metodi e le formule che vengono applicate per classificare climatologicamente una zona geografica. In questo lavoro viene adottata la metodologia proposta da Thornthwite & Mather (1957).

Lo scopo ultimo è quello di fornire un bilancio idrologico - sia sottoforrma di tabella, sia sottoforma di grafico - in cui evidenziare l’andamento e la disponibilità delle risorse idriche in funzione del tempo. Il bilancio idrico consiste in un confronto tra la domanda di acqua (evapotraspirazione) che si verifica sulla superficie terrestre come conseguenza dell’interazione di determinati fenomeni fisici e biologici (temperatura, albedo, vento, umidità dell’aria, copertura vegetale ecc.) e l’offerta naturale, costituita dalle precipitazioni e/o da corpi d’acqua influenzanti in qualche modo la superficie terrestre in questione (33). Nel bilancio si tiene ovviamente conto della natura del terreno con le sue caratteristiche pedologiche e morfologiche.

Il metodo applicato - Thornthwite & Mather - si basa sul calcolo dell’evapotraspoirazione potenziale e reale mediante una formula che è legata ad un ristretto numero di parametri climatici. La formula ha quindi una validità variabile a seconda delle diverse zone climatiche. Va precisato che nei climi temperati umidi, come il nostro, i risultati sono buoni anche se il metodo fornisce dati sottostimati per quanto riguarda il periodo primaverile, mentre il contrario si verifica in autunno; questo è dovuto al fatto che, a parità di temperatura, i mesi primaverili sono tendenzialmente più secchi e soleggiati di quelli autunnali. Per contro, il metodo offre una buona semplicità di calcolo e può essere applicato avendo a disposizione poche variabili climatiche; questa peculiarità fa si che esso sia di largo impiego e venga maggiormente utilizzato rispetto ad altri metodi.

Dall’elaborazione dei dati rilevati e dal bilancio idrologico relativo, l’andamento del clima in Regione Vezzolano risulta caratterizzato da un Indice di umidità del 31,9%, un Indice di aridità dell’8,2% ed un Indice di umidità globale del 23,7% che definiscono il sistema climatico come: "Umido, Primo mesotermico, senza deficienza idrica in estate oppure molto piccola e con una concentrazione estiva dell'efficienza termica superiore all’88,0%". In base a queste definizioni la formula climatica che ne deriva risulta essere:

B1B1'rd'

Il regime di temperatura del suolo viene definito come "mesico", riscontrando una temperatura media annua di 12,0°C ed il regime di umidità del suolo viene definito come "udico" (50).

Diagramma ombrotermico (Bagnouls e Gaussen) , bilancio idrologico e regime idrico del suolo (Thornthwite & Mather).

 

Appare interessante la constatazione del fatto che i bilanci idrologici sviluppati attraverso l’elaborazione di misure quantitative di temperatura e precipitazioni, pur mantenendo una validità accettabile, rispecchiano maggiormente la realtà in zone pianeggianti rispetto a zone collinari, poiché l’acqua caduta sul terreno sotto forma di precipitazioni piovose, causa i fenomeni di erosione superficiale, trasporto solido e sedimentazione, nelle sue forme più o meno accentuate in funzione della pendenza dei versanti e della natura del suolo, non penetra regolarmente nel punto esatto di caduta ma viene dilavata oppure accumulata in zone preferenziali (avvallamenti o conche).

Dopo aver esaminato i principali aspetti del clima presente nell’area d’indagine, è possibile ora effettuare un analisi climatologica di massima e definire il regime climatico predominante. Innanzitutto va ricordato che l’area geografica studiata rientra in quello che viene definito su grande scala "Clima continentale umido", avente, in Europa, un estensione in latitudine da 45° a 60° N. E’ la zona caratteristica di scontro fra masse d’aria polari e tropicali. Vi sono forti contrasti termici stagionali ed il tempo è molto variabile di giorno in giorno. Si possono avere massimi estivi di precipitazioni per invasione di aria marittima tropicale - non è il nostro caso - mentre gli inverni, freddi e tendenzialmente siccitosi, sono dominati da incursioni d’aria continentale polare o anche artica. Le precipitazioni sono in relazione con l’arrivo di masse d’aria polare marittima proveniente dall’Atlantico settentrionale (10).

All’interno di questa vasta area geografico-climatica europea si trova quello che viene definito da molti autori il "Clima temperato di transizione", cioè un clima che si interpone tra quello freddo subpolare, quello caldo mediterraneo e, nel senso della longitudine, tra il clima umido marittimo dell’ovest e quello continentale secco o peridesertico dell’est. Le condizioni atmosferiche particolarmente instabili provocano un’accentuata variabilità stagionale con escursioni termiche marcate ed una piovosità molto differenziata da una zona all’altra, sia in termini quantitativi, che nella distribuzione annuale, con massimi nelle stagioni primaverile ed autunnale (vedi diagramma ombrotermico).

Restringendo ancor più il campo d’indagine arriviamo a definire quello che risulta essere il regime climatico della "Regione padana"; un ampio bacino circondato da rilievi a nord, a ovest e a sud, ma aperto a oriente. Esso è limitato - sotto il profilo climatico - dall’isoipsa 1000 m sul versante alpino e dalla linea spartiacque su quello appenninico. In autunno, in inverno e in primavera sono abbastanza frequenti le depressioni sottovento e le depressioni d’origine mediterranea, la cui sequenza è spesso interrotta da periodi di tempo stabile, dovuti all’influenza dell’anticiclone dell’Europa centrale. Nel periodo invernale, l’intera vallata è coperta da uno strato d’aria fredda stagnante dello spessore di un migliaio di metri e a tale strato si devono le fitte nebbie che con tanta frequenza investono la regione. L’anticiclone delle Azzorre determina nel corso dell’estate pressioni livellate e una debole circolazione atmosferica con conseguente formazione di foschie. La depressione di natura termica che s’instaura nelle ore più calde favorisce manifestazioni locali d’instabilità (10).

Arrivando a definire il clima del Monferrato settentrionale - e quindi anche quello dell’area d’indagine - dobbiamo dire che esso, data la posizione quasi centrale che la zona occupa in ambito regionale piemontese e data la geomorfologia del territorio collinare, che s’innalza quasi isolatamente dal resto della pianura padana, risente di numerose situazioni climatiche che si sviluppano grazie ai contributi delle masse d’aria provenienti da nord, correnti fredde continentali e polari, da ovest, correnti atlantiche e da sud, correnti calde marittime e tropicali. Il tutto determina una particolare distribuzione delle precipitazioni come facilmente riscontrabile osservando il diagramma ombrotermico, inoltre si può notare la marcata disformità delle precipitazioni a livello stagionale ed il picco minimo presente nel mese di luglio; questo è un tipico andamento delle zone interne collinari piemontesi con due picchi di maggior precipitazioni, ma quello primaverile sempre più accentuato rispetto a quello autunnale. Il valore medio mensile di temperatura più alto si rileva in luglio, però questo parametro, unito alla considerazione fatta precedentemente in merito alle precipitazioni, non crea i presupposti per un clima di siccità estiva particolarmente pronunciata (mai si ha P<2T).

Quindi, concludendo, la situazione climatica dell’area d’indagine rispecchia fedelmente le considerazioni sopra menzionate e le elaborazioni climatiche effettuate ne sono un giusto riscontro. Analizzando i dati relativi ai 35 anni del periodo considerato possiamo dire che mediamente si ha una piovosità di 837 mm, con massimi registrati nel mese di maggio, in cui si raggiunge una piovosità media mensile di circa 110 mm ed un minimo medio mensile rilevato nel mese di luglio. La temperatura media mensile è di 11°C, con un massimo in luglio, 21,3°C ed un minimo in gennaio, 1,3°C. Il mese più caldo è luglio, con una media mensile delle temperature massime di 27°C circa ed il mese più freddo è gennaio, con una media mensile delle temperature minime di circa -2°C. La temperatura massima assoluta registrata è stata di 33,3°C e quella minima assoluta di -12,9°C.

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- Vegetazione naturale potenziale e reale.

 Il concetto di vegetazione appare a prima vista tanto semplice e ovvio da non richiedere una definizione; in realtà però una tale definizione è assai difficile e solo raramente è stata tentata. Possiamo definire la vegetazione (Westhoff) come una massa di individui vegetali coerenti con il posto nel quale essi crescono e nella disposizione che essi stessi hanno assunto. Questa definizione si applica ad ogni gruppo di vegetali che assolvono alle condizioni sopra indicate, dalla patina di alghe verdi che ricopre una pietra umida fino alla foresta equatoriale. Il concetto di associazione vegetale - oggetto di studio della fitosociologia - deriva da quello di vegetazione. Ma con alcune essenziali condizioni caratterizzanti, che aggiungono all’associazione un carattere di quasi-organismo: si ottiene così una limitazione dell’oggetto, che tuttavia permette un importante approfondimento dell’indagine. La vegetazione come oggetto concreto si distingue essenzialmente dalla flora, che invece è rappresentata da una enumerazione di taxa, cioè il frutto di una astrazione (Pignatti, 1976).

Chiariamo ora brevemente quello che si intende per vegetazione naturale potenziale. Sulla base del clima e del suolo di una zona, tendono ad insediarsi, in successione nel tempo, determinati popolamenti vegetali che, in assenza di fattori di disturbo esterni, evolvono spontaneamente verso uno stadio "maturo", cioè caratterizzato da un complesso di specie in equilibrio tra loro e stabile nel tempo. Tale stadio di maturità è denominato climax e rappresenta la vegetazione che potenzialmente esisterebbe in una zona se questa fosse condizionata solo dai fattori naturali, senza l’influsso di azioni esterne (36). L’associazione climax rappresenta la più complessa vegetazione che si può sviluppare in quelle determinate condizioni climatiche, cioè la vegetazione che raggiungerebbe il massimo sfruttamento possibile dello spazio, della luce, dell’acqua e di tutti gli altri fattori necessari alla vita delle piante. Per ogni territorio avente una sufficiente unitarietà dal punto di vista floristico e climatico esiste una sola associazione climax possibile (Pignatti, 1976).

Iniziamo ora col descrivere e caratterizzare la vegetazione naturale potenziale del settore geografico piemontese che vede inclusi i territori collinari centrali (Monferrato, Langhe e Colline del Po), successivamente allargheremo la scala di dettaglio ed analizzeremo l’attuale situazione vegetazionale dell’area d’indagine riferita ai tipi forestali presenti.

Facendo riferimento ai ben noti piani di vegetazione riferiti da Montacchini, (1990), la zona esplorata fa parte dell’orizzonte submontano e collinare (500÷1100 m), inserito nel piano basale (0÷1100 m). Va comunque precisato che, nell’ambito di questa suddivisione, non è possibile definire se non in modo approssimativo le quote separanti i vari piani e orizzonti, in quanto fortemente variabili da zona a zona e ciò non solo per questioni ecologiche ma spesso anche a causa dell’intervento umano: i limiti altitudinali riportati sopra risultano lievemente sovradimensionati poiché rappresentano una media dei valori per le Alpi occidentali. Questo orizzonte va dai limiti della pianura (oscillanti nella nostra regione tra 100÷500 m) sin verso i 1000 m circa, interessando anche i rilievi collinari interni. Le specie che, in funzione del clima e del suolo, tenderebbero spontaneamente a svilupparsi in questo orizzonte raggiungendo lo stadio climax, formerebbero querceti e boschi misti di latifoglie eliofile, con prevalenza di Quercus pubescens, Quercus petrea, Ulmus campestris, Fraxinus excelsior e, più in alta quota, Fagus sylvatica e Castanea sativa (36).

L’esame dello stato attuale della vegetazione naturale nei riguardi della pressione antropica - riferita all’area d’indagine - evidenzia per gli ultimi due decenni fenomeni dovuti alla ricolonizzazione di terreni abbandonati dall’agricoltura. Occorre tuttavia registrare anche alcuni fenomeni legati direttamente o indirettamente all’azione dell’uomo, riconducibili a:

            1. utilizzazione di specie non autoctone nei rimboschimenti;
            2. naturalizzazione di specie forestali esotiche naturalizzate nei boschi;
            3. disboscamenti per la realizzazione di opere pubbliche;
            4. danni di vario tipo ai boschi.

L’utilizzazione nei rimboschimenti di specie non autoctone e spesso inadatte per esigenze ecologiche agli ambienti collinari (soprattutto conifere e, in particolare, Picea abies, Pinus strobus e Pinus nigra) appartiene soprattutto al passato. Attualmente, infatti, proprio la riespansione spontanea della vegetazione arbustiva o arborea ad habitat idoneo, rende meno attuale il problema. Si osserva pertanto che le superfici occupate da rimboschimenti irrazionali, dove spesso gli accrescimenti sono scarsi oppure di difficile gestione e, salvo casi isolati, la copertura artificiale non migliora il suolo, sono sede di parassiti animali, in particolare la processionaria del pino. La diffusione nei boschi naturali di specie esotiche naturalizzate riguarda soprattutto Robinia pseudoacacia che, ceduata sovente in passato, si è estesa velocemente a spese del bosco misto di latifoglie e dei cedui di castagno. Una sua conversione a fustaia per invecchiamento può essere un primo passo per agevolare la ridiffusione delle specie forestali autoctone (36).

La flora del Piemonte, particolarmente ricca, forse una fra le più ricche tra quelle di tutte le regioni italiane, comprende circa 2500-3000 entità, a seconda dei diversi tipi di nomenclatura adottata. Questo numero è notevole se confrontato con un totale per il nostro paese di 5599 specie; infatti il contingente piemontese rappresenta oltre il 53%. Anche il numero delle famiglie rappresentate nella regione è elevato: 154 su un totale di 168 (92%). Le ragioni di questa notevole ricchezza floristica sono da individuarsi nella posizione geografica del territorio regionale, nei suoi dislivelli, nella vicinanza al mare, nella varietà di ambienti climatici e tipi litologici. In tale modo risultano bene rappresentate, sotto il profilo corologico, le specie mediterranee, in particolare nella parte meridionale della regione. Come all’opposto sono frequenti le artico-alpine alle quote elevate delle Alpi. Molto numerose sono le circumboreali, ad areale tendenzialmente nordico, giunte sulle Alpi durante i periodi glaciali, le eurasiatiche e le europee in senso lato; nelle vallate alpine aride sono presenti specie steppiche, originarie dell’Europa orientale e Asia centrale, mentre, in particolare nelle aree più piovose a suoli acidi, sono discretamente diffuse le subatlantiche (36). Con l’affermarsi in questi anni di una selvicoltura a carattere spiccatamente naturalistico e il parallelo consolidarsi dell’assestamento forestale polifunzionale è diventata sempre più sentita la necessità di avere a disposizione idonei metodi di classificazione della vegetazione forestale per fondare su presupposti ecologici il governo del bosco. La meta che oggi si vuole raggiungere è la creazione di una idonea tipologia forestale, basata su un corretto inquadramento ambientale della cenosi (Tipi forestali) e sulla conoscenza del loro attuale stadio evolutivo. Tale tipologia può essere definita come un sistema di classificazione dei boschi (e, secondariamente, degli arbusteti) i quali vengono fatti ricadere in unità distinte su base floristica, ecologica, dinamica e selvicolturale ai fini pratici della pianificazione degli interventi forestali o, in senso più ampio, del territorio. Con la creazione di una tipologia forestale su base naturalistica tutti i boschi verranno ad essere collegati ai vari Tipi forestali, anzi questi ultimi entreranno in diretta correlazione con le diverse unità di gestione, ognuna delle quali sarà appunto assegnata ad un determinato Tipo e, se del caso, alle sue unità subordinate. In effetti, sino a pochi anni fa, l’elaborazione di tipologie forestali per il nostro paese, contrariamente a quanto già avveniva per altre nazioni, non era stata ancora presa in considerazione (42). La metodologia di classificazione presa come riferimento per inquadrare il paesaggio vegetazionale boschivo ed arbustivo presente nell’area d’indagine è quella elaborata dalla Regione Piemonte in funzione del programma di pianificazione forestale recentemente applicato (42). Le caratteristiche fondamentali della metodologia seguita sono:

          1. le comunità forestali (Tipi) costituiscono delle entità riconoscibili attraverso la loro composizione floristica specifica;
          2. la tipologia si basa sulla elaborazione di dati raccolti nei rilievi che, se in numero sufficiente, hanno un valore statistico;
          3. la deduzione dei Tipi forestali è fatta non solo su base floristica, ma anche strutturale ed ecologica;
          4. dal confronto floristico dei rilievi vengono ad evidenziarsi delle liste di entità botaniche (la terminologia è quella di Pignatti, 1982) che caratterizzano i Tipi come Specie indicatrici (specie guida); esse vengono invece definite, se presenti solo in certe unità e non in altre, Specie differenziali fra diversi Sottotipi pertinenti ad un altro Tipo).

A questo punto è necessario premettere alcune definizioni relative alla gerarchizzazione delle unità relative al metodo di classificazione scelto. L’unità di base della classificazione è il Tipo, mentre più Tipi affini si raggruppano nella Categoria che costituisce l’unità di rango più elevato. All’interno dei Tipi, subordinatamente, si possono distinguere ancora dei Sottotipi e delle Varianti. Brevemente queste unità si possono descrivere come segue:

Categoria: E’ un unità puramente fisionomica, in genere definita sulla base della dominanza delle specie costruttrici e che corrisponde di solito alle unità vegetazionali comprensive normalmente utilizzate in selvicoltura (castagneti, faggete, lariceti, ecc.). La categoria è utile per operare una prima discriminazione e raggruppamento dei tipi.

Tipo: E’ l’unità fondamentale della classificazione, omogenea sotto l’aspetto floristico e selvicolturale-gestionale, che contiene nella sua denominazione qualche caratteristica ecologica, strutturale e, talvolta, anche floristica o geografica, particolarmente importanti per la sua distinzione.

Sottotipo: I Sottotipi - in ambito regionale piemontese - sono fondati su fatti evolutivi (boschi primari o secondari), sull’origine del bosco (ad es. rispettivamente robinieto antropogeno e di sostituzione), oppure su variazioni floristiche dovute a differenziazioni del substrato, meso-microclimatiche (Sottotipi acidofilo e basifilo, interno ed esterno, ecc.); ciò permette, tra l’altro, di evitare la creazione di un numero eccessivo di Tipi. Le differenze fisico-chimiche del suolo o, in mancanza di questo, del substrato litologico possono ovviamente riflettersi sul grado di fertilità e in qualche variazione delle tecniche selvicolturali.

Variante: E’ un’unità caratterizzata in particolare, nell’ambito di un Tipo, da una composizione differente nello strato arboreo, senza che il sottobosco risulti diversificato in modo notevole. I Tipi forestali che sono stati individuati all’interno dell’area di studio sono essenzialmente 5, unitamente al Tipo di arbusteto rilevato:

          1. robinieto;
          2. querco-carpineto mesofilo d’impluvio su sabbie di Asti;
          3. orno-querceto di roverella;
          4. querceto di rovere a Physospermum cornubiense dei substrati misti della Collina di Torino;
          5. castagneto ceduo a Physospermum cornubiense;
          6. arbusteto collinare mesoxerofilo di Prunus spinosa e/o Cornus sanguinea.

Qui di seguito i Tipi forestali individuati verranno descritti singolarmente, riportandone i principali elementi di caratterizzazione tipologica.

1. Robinieto. Questo Tipo forestale si articola in due Sottotipi aventi diversa origine e con sottobosco differenziato:

1a. Sottotipo antropogeno d’impianto o d’invasione di terreni già a coltura, con prevalenza di specie ruderali e nitrofile, in particolare di specie caratteristiche della cl. Artemisietea;

1b. Sottotipo di sostituzione di boschi preesistenti, Variante con farnia e frassino, da collegare all’ordine Fagetalia, alleanza Carpinion, con elementi dei fisospermo-querceti.

Gli interventi antropici più frequenti sono stati: dopo l’ultima guerra frequenti impianti nelle vigne abbandonate. Ceduazione generalizzata con frequente allungamento dei turni e, talvolta, tendenza spontanea a costituire fustaie. La ceduazione facilita l’emissione di polloni da ceppaia e radicali da cui la rapida diffusione negli incolti e nei boschi radi circostanti. Data la facilissima moltiplicazione vegetativa e la rapidità di accrescimento i robinieti sono boschi stabili se ceduati regolarmente. I robinieti d’impianto o di recente diffusione spontanea sono riconoscibili per l’assenza quasi totale di specie del bosco naturale e per l’esistenza di specie nitrofile ed infestanti nel sottobosco (Parietaria officinalis, Urtica dioica, Galium aparine, Rubus sp). La presenza, non di rado anche nello strato arboreo, di specie infestanti indica un’invasione secondaria della robinia in preesistenti boschi misti mesofili benché, molto localmente, anche i robinieti d’impianto possono essere invasi con gradualità, nelle zone più fresche, da specie del bosco originario. Per l’elenco delle specie indicatrici si rimanda alla bibliografia consultata (n 42, pag. 93). Il Tipo in esame ricopre, unitamente al Tipo 3, gran parte della superficie boschiva dell’area di studio.

2. Querco-Carpineto mesofilo d’impluvio su sabbie di Asti. Questo Tipo forestale rientra nell’Ordine Fagetalia; alleanza Carpinion con debolissime infiltrazioni marginali di specie più acidofile e un po’ più xerofile del querceto di rovere a Physospermum cornubiense delle sabbie di Asti, mentre, nelle zone più fredde, sono frequenti specie dell’alleanza Fagion. Vengono distinte due Varianti: a castagno e a robinia. La localizzazione preferenziale di questo Tipo è quella dei bassi versanti e impluvi di vallette di secondo e terz’ordine più o meno incassate.

Gli interventi antropici più frequenti sono stati: fortissima riduzione della superficie potenziale del Tipo per ottenere prati stabili, pioppeti artificiali e robinieti. Ceduazione o selezione negativa delle specie accessorie mentre la farnia, a gruppi più o meno distanziati e isolati, è sempre a fustaia. La ceduazione dei robinieti adiacenti facilita la loro infiltrazione nella compagine forestale già sovente diradata.

Nel ciclo evolutivo del Tipo possiamo considerare questi frammenti di bosco come relitti dell’antica copertura forestale di ridotta superficie, relativamente stabili senza interventi antropici ma di facile degradazione dopo il taglio di grandi esemplari di farnia per ingresso della robinia e di specie nitrofile banali in una zona a bassa piovosità ed a reticolo idrografico degli ordini inferiori con acqua scarsa o assente durante l’estate. Fenomeni di rinnovazione di farnia su vigne abbandonate sono frequenti però diffusi su piccole superfici. Questi querco-carpineti planiziali dovevano entrare superiormente in contatto con il Querceto di rovere e misto a Physospermum cornubiense delle sabbie di Asti sui dossi (di cui rimangono rarissimi esempi): ne è una prova la sporadica presenza nel Tipo in esame di alcune specie più o meno xerofile. Per l’elenco delle specie indicatrici si rimanda alla bibliografia consultata (n 42, pag. 113). In qualche zona la farnia tende ad infiltrarsi nei coltivi abbandonati, specialmente vigne, anche sui dossi perché è questa l’unica Quercia che conservi una certa potenzialità d’espansione. Il Tipo in esame risulta poco presente nell’area di studio.

3. Orno-Querceto di roverella. La caratterizzazione fitosociologica vede inserito questo Tipo nell’Ordine Quercetalia pubescentis con modesta presenza di specie dell’ordine Fagetalia sylvaticae. Nell’area d’indagine vengono rilevati due Sottotipi:

3a. Sottotipo a orniello (di invasione di colture abbandonate);

3b. Sottotipo a pino silvestre su scoscendimenti marnosi (primaria);

Gli interventi antropici più frequenti sono: dissodamenti estesi per scopi agricoli (specialmente vigne), ceduazione generalizzata, selezione negativa delle specie accessorie.

Il Quercetum pubescentis può costituire un bosco chiuso d’alto fusto: la densa vegetazione trattiene l’umidità così da permettere la vita delle specie di ambiente ombroso e fresco; però in generale questi boschi sono da tempo degradati come cedui e trasformati in boscaglia caducifoglia. Per ulteriore degradazione si forma una steppa antropogena inquadrabile nei Brometalia (Pignatti, 1976).

Questo è un tipo di bosco relativamente stabile però con fasi meno evolute ad orniello, anche dominante sui suoli più superficiali o negli stadi secondari (d’invasione). La localizzazione preferita è nelle zone più asciutte o a suolo più superficiale, in aree di cresta o su pendenze poco adatte alle colture. La tendenza evolutiva si sviluppa verso una forma più mesofila, con arricchimento locale di roverella e, generalmente, di specie accessorie con tendenza alla scomparsa del già raro pino silvestre. Aspetti di ricostituzione del bosco (zone già a vigna) sono arbusteti dell’Ordine Prunetalia a Cornus sanguinea del tutto prevalente su Prunus spinosa, insieme con Ligustrum vulgare e Viburnum lantana, spesso con buona partecipazione di orniello, talvolta di pino silvestre, roverella e ciliegio. L’evoluzione, con la scomparsa dell’olmo, rimane per ora bloccata allo stadio arbustivo salvo i casi di riaffermazione della roverella o, quelli più frequenti, dell’orniello con poco pino silvestre. Talvolta vi è la presenza di Spartium junceum, oggi rara specie di bordo del bosco in esposizioni a S su dossi già coltivati. Per l’elenco delle specie indicatrici si rimanda alla bibliografia consultata (n 42, pag. 126). Il Tipo in esame ricopre, unitamente al Tipo 1, gran parte della superficie boschiva dell’area di studio.

4. Querceto di rovere a Physospermum cornubiense dei substrati misti della Collina di Torino. Cenosi dell’Ordine Fagetalia, è la forma più mesofila dei fisiospermo-querceti con poche specie degli ordini Quercetalia pubescentis e Quercetalia robori-petraeae. Vengono individuate tre Varianti:

3I. a robinia (non molto diffusa) solo nell’area di diffusione del Tipo;

3II. a castagno (regressiva), come sopra;

3III. con pino silvestre (su dossi erosi).

La collocazione ideale per questo tipo di bosco è sugli alti e medi versanti, in preferenza in posizione di displuvio e di dosso, comunque mai negli impluvi. Frammenti di fustaia esistevano ancora negli anni ’60, ma tutti i boschi sono attualmente allo stato ceduo. Parte dei boschi pertinenti al Tipo vennero dissodati in passato per creare colture agricole, ora in gran parte abbandonate e piantate o invase da robinia che non trova comunque in queste zone il suo optimum, la robinia penetra difficilmente nel querceto. Tale specie ha invece invaso largamente i cedui di castagno che avevano parzialmente sostituito questo bosco di rovere per opera dell’uomo. Nel ceduo quasi puro di rovere (con cerro e/o roverella nelle stazioni più calde e modeste infiltrazioni di castagno) le specie secondarie sono state in gran parte selezionate negativamente e si incontrano spesso nel solo strato arbustivo (Sorbus torminalis e, sporadicamente, Acer campestre e Prunus avium).

In forme mature il Tipo costituirebbe il bosco stabile e definitivo delle aree di versante della zona collinare torinese. Sotto il profilo floristico questo Tipo è di transizione fra il Querceto di rovere e misto a Physospermum cornubiense delle sabbie di Asti e il Querceto di rovere a Potentilla alba presente fra le Valli Chisone e Lanzo. Lateralmente e inferiormente sulla Collina di Torino entra in contatto con i robinieti mesofili, Sottotipo di sostituzione di boschi preesistenti, Variante con Quercus robur e Fraxinus excelsior (vedi Robinieto). Per l’elenco delle specie indicatrici si rimanda alla bibliografia consultata (n 42, pag. 170). Il Tipo in esame risulta poco presente nell’area di studio.

5. Castagneto ceduo a Physospermum cornubiense. La caratterizzazione di questo Tipo forestale ricalca perfettamente quella già illustrata al Tipo forestale 2, includendo, però - nel settore dei Rilievi del Monferrato - una Variante con farnia. Questo è un bosco di origine antropica derivante dall’antica sostituzione di preesistenti querceti a Physospermum cornubiense. Risulta relativamente stabile poiché quasi ovunque è stata superata la fase critica dei forti attacchi di cancro corticale, mentre esso tende ad essere sostituito nelle zone collinari dalla robinia se i due tipi di boschi, come spesso avviene, sono a contatto. In questo Tipo sporadicamente si notano segni di evoluzione verso il bosco originario mentre sovente si assiste, come detto sopra, a fenomeni di degradazione, con incipiente sostituzione del castagno. Per l’elenco delle specie indicatrici si rimanda alla bibliografia consultata (n 42, pag. 201). Il Tipo in esame risulta poco presente nell’area di studio.

6. Arbusteto collinare mesoxerofilo di Prunus spinosa e/o Cornus sanguinea. La caratterizzazione vede inserito questo Tipo di arbusteto nell’Ordine Prunetalia, alleanza Rubo-Prunion spinosae. Sono state rilevate due Varianti a Prunus spinosa prevalente ed a Cornus sanguinea prevalente. La presenza di questi arbusteti - per’altro frequenti ma molto frammentati - è legata al recente abbandono (da non oltre 20-30 anni) delle colture, specialmente vigneti, un tempo sottoposti a lavorazioni profonde, per cui viene ad innescarsi un processo evolutivo ricostitutivo della vegetazione. Attualmente non vi è nessun tipo di intervento antropico in atto.

In generale possiamo dire che è troppo presto osservare stadi susseguenti allo stanziamento degli arbusti anche se, con il sanguinello, si può notare la presenza sporadica di olmo campestre che però, dopo qualche anno, in genere viene eliminato dalla grafiosi. Sui suoli calcarei iniziano a rinnovarsi e, in qualche caso, si hanno nello stadio di novellame o talvolta di giovani e rade fustaie, l’orniello, meno spesso pino silvestre, roverella e ciliegio.

Trattandosi di cenosi fisionomiche non vengono indicate specie indicatrici nelle entità erbacee, anche perché si tratta spesso di specie infestanti di coltivi, ruderali o di prato stabile. Più differenziati sono alcuni arbusteti di dosso più asciutti a sanguinello, risultando arricchiti di specie termoxerofile legate al bosco di roverella o alla sua vegetazione di bordo (42).

La composizione floristica formante il paesaggio vegetazionale prativo risulta fortemente influenzata dall’antropizzazione, mirata ad una foraggicoltura intensiva, sia verde sia secca. Le specie dominanti risultano essere: Arrenatherum elatior, Lolium perenne, Festuca spp, Bromus spp, Agropyron repens, Trifolium repens e Taraxacum officinale. In effetti non si è potuta formalizzare una vera associazione vegetale trovandoci di fronte al forte intervento di cure colturali causa i motivi su indicati (paraclimax antropogenico). Per la loro composizione è comunque possibile classificare dal punto di vista fitosociologico tali prati come riferibili alla Classe Festuco-Brometea, ordine Brometalia. La classe Festuco-Brometea raggruppa formazioni xeriche quasi sempre legate all’azione antropica con uno sfruttamento eccessivo del territorio che ha determinato una forte erosione e un impoverimento dei substrati. Racchiude i popolamenti delle praterie xeriche che trovano una certa diffusione nei settori collinari del Piemonte anche in considerazione alla penetrazione di un più forte influsso mediterraneo. Si tratta di praterie a cotica erbosa spesso discontinua, anche indicate come pseudosteppe, caratterizzate da una netta dominanza di graminacee cespitose, che ospitano spesso elementi submediterranei o mediterranei. Il loro sviluppo è il risultato concomitante di una carenza di precipitazioni e di una notevole azione antropica pregressa, legata soprattutto alla acclività dei suoli che favorisce fenomeni di erosione.

Concludendo, la vegetazione potenziale dell’area collinare, specialmente per quanto riguarda i Rilievi del Monferrato, è stata praticamente distrutta per far posto a coltivazioni e soprattutto ai vigneti. Dove questi ultimi vengono abbandonati s’insediano, sulle sabbie astiane, arbusteti e pruni, crespino, nocciolo, rose, mentre sui suoli marnoso-sabbiosi più caldi la specie più invadente è la ginestra comune, Spartium junceum insediata quasi esclusivamente ai bordi dei boschi. Fra le piante legnose sicuramente la più comune è oramai Robinia pseudoacacia, che, importata in Francia dall’America nel 1601 - in virtù della relativa velocità di crescita unita ad un buon valore combustibile - ha trovato un ottimo habitat ed ha allargato rapidamente il proprio areale "infestando" qualsiasi superficie boschiva compresa tra la pianura e la media montagna di tutta l’Europa centro-meridionale. Negli ambienti ruderali le avventizie sono particolarmente frequenti, come pure le piante di origine americana importate indirettamente con l’introduzione del mais. In linea generale la distruzione degli ambienti naturali ha portato ad un grave impoverimento della flora, che in alcune zone è costituita oramai da meno di 400 specie (comprese le avventizie) mentre in condizioni naturali il numero delle specie avrebbe dovuto essere quasi doppio.

Specie protette o di particolare interesse naturalistico presenti.

Con la Legge regionale 2 novembre 1982 n 32 e successive modificazioni (specie protette della Regione Piemonte) si è inteso tutelare il patrimonio naturalistico animale e vegetale in via di estinzione, oppure considerato di rara presenza, nelle sue forme più o meno accentuate.

In funzione di questo, nell’area d’indagine vi sono alcune specie degne di essere citate per l’importanza che esse rivestono, non tanto per l’utilità commerciale o produttiva, quanto per la loro bellezza oppure per la loro rarità o il loro significato di indicazione ambientale che può mettere in evidenza particolari condizioni meso-climatiche, pedologiche o di uso passato del territorio. Nelle descrizioni seguenti si cercherà di dare - ove ve ne sia la necessità - tutte le informazioni possibili per un riconoscimento rapido sul campo. Le specie descritte - elencate in ordine sistematico - sono le seguenti:

- Crataegus azarolus L. (Rosaceae). Il Lazzeruolo o Azzeruolo - vicino botanicamente al biancospino - è una pianta molto rustica, spinosa allo stato selvatico, dalle esigenze modeste in fatto di terreno. Si presenta con foglie a pelosità densa e persistente, con incisioni poco profonde e lobi appena più lunghi che larghi, più o meno triangolari; stili 1-2. Il frutto assomiglia a una piccolissima mela e a maturazione è tendenzialmente rossiccio con diametro di 2 cm, bruno-giallastro, di gusto simile alle nespole (34). Di questo azzeruolo ve ne è un bell’esemplare, di modeste dimensioni, sull’appezzamento prativo antistante la facciata dell’Abbazia di Vezzolano.

- Cornus mas L. (Cornaceae). Appare in primavera come una macchia gialla per il grande numero di piccoli fiori che si aprono prima della schiusura delle gemme a legno. Presenta foglie ovali ondulate, i fiori che compaiono in primavera sono insignificanti, ma vengono resi decorativi da delle brattee biancastre. Le foglie sono ondulate, verde chiaro, i frutti sono simili a delle ciliegie piccole ed ovaliformi, prima gialle, poi rosa ed infine rosso vivo (commestibili). Il legno di questo albero è assai apprezzato per la durezza e per la bellezza delle venature (34). Di questo corniolo o ciliegio del diavolo ve ne è un bell’esemplare, di grosse dimensioni, sull’appezzamento prativo antistante la facciata dell’Abbazia di Vezzolano. La buona esposizione di questo prato e la relativa pulizia della cotica erbosa mantenuta sempre bassa dal pascolamento bovino hanno permesso a questa pianta di crescere senza troppi problemi per lungo tempo.

- Lilium martagon L. (Liliaceae). E’ un bellissimo giglio selvatico, alto 30-60 cm o più, con fusti eretti, foglie allungate, per lo più verticillate. I fiori, da pochi a numerosi, sono portati in una infiorescenza terminale e sono penduli, di circa 5 cm di diametro, costituiti di 6 tépali di color rosso porpora con macchioline più scure, che nel pieno della fioritura (da maggio a luglio) si arricciano incurvandosi verso l’esterno e l’alto, lasciando esposti i 6 lunghi stami rossi e pendenti. I bulbi sono gialli e squamosi. Cresce nei prati montani freschi e ai margini dei boschi in tutta la catena alpina, su suoli da calcarei a debolmente acidi, sino a 2000 m. A bassa quota si rifugia nei boschi ombrosi - dove è stato localizzato anche in questa zona - ed è raro. Il giglio martagone è una delle piante più spesso raccolte per la bellezza e vistosità dei fiori e spesso se ne estirpano i bulbi per coltivarli nei giardini. In funzione delle Leggi sopra citate ne è vietata la raccolta o il danneggiamento su tutto il territorio regionale (34).

- Luzula nivea (L.) Lam et DC. (Juncaceae). Le specie di questo genere sono diffuse nelle regioni temperate e fredde dell’emisfero boreale, soprattutto nelle zone montagnose. La presenza di Luzula nivea in questa zona collinare posta sottovento rispetto alle principali valli di origine glaciale piemontese (vedi anfiteatri morenici di Ivrea e di Rivoli), deve essere interpretata come un relitto postglaciale che, in questa zona, ha trovato condizioni ideali soprattutto nelle zone ecotoniche separanti i prati polifiti dai boschi mesofili locali. La sua presenza non è molto massiccia (alcune piante/ettaro) e tendenzialmente mostra un’altezza di 30-80 cm, è una cattiva foraggera. Possiede foglie larghe fino a 4 mm, molto pelose; fiori in fascetti di 6-20 che compaiono verso tarda primavera, generalmente penduli; tepali bianchi 5-6 mm, gli esterni molto più brevi degli interni; il frutto è una capsula lunga circa la metà del perigonio (34).

- Orchis purpurea Hudson (Orchidaceae). Il Genere Orchis comprende piante erbacee perenni, fornite di due bulbi rotondeggianti, ovali o palmate. Il fusto semplice e solitario, foglioso almeno inferiormente, ha un’altezza variabile tra i 10 e i 60 cm, a seconda della specie. Le foglie da ovali a strettamente lanceolate, sono di dimensioni gradatamente decrescenti fino a ridursi in alto a brattee inguainanti il fusto. L’impollinazione di tipo entomogamo e la germinazione specializzatissima, previa infezione micorrizica, spiegano la grande diversità specifica e rendono questo genere particolarmente delicato e vulnerabile sotto l’aspetto riproduttivo e vegetativo. In funzione delle Leggi sopra citate, di tutte le specie componenti il genere ne è vietata la raccolta o il danneggiamento su tutto il territorio regionale.

La bellissima Orchis purpurea è facilmente riconoscibile in tarda primavera e inizio estate dalla tipica ed appariscente infiorescenza a racemo semplice che emerge dal verde prativo, col suo classico ed inconfondibile color porpora. Possiede un fusto robusto, generalmente guainato nella metà inferiore, con foglie oblunghe (2-6 x 6-15 cm), più o meno erette e lucide, ottuse all’apice e, le superiori, avvolgenti il fusto. L’infiorescenza, densa e multiflora è cilindrica a ovoide (4-6 x 5-20 cm); i tepali esterni sono saldati sin presso l’apice, purpurei; il labello possiede un lobo centrale triangolare bilobo a lobi laterali lineari, tutti biancastri o rosei con macchie scure formate da papille porporine (34). Nell’area in esame è stata rilevata in più stazioni, formante gruppi di 3-8 individui (su di una superficie mediamente non superiore ai 60 m2), localizzati essenzialmente nelle radure boschive ben esposte e parzialmente illuminate.

Orchis purpurea Hudson.

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- Pedologia.

Nella situazione geografica italiana, la giovinezza e l’articolazione del territorio determinano una vera e propria polverizzazione di unità fisiografiche che si succedono l’una all’altra entro spazi ridottissimi e variabilissimi e la cui identica ripetizione naturale trova minime possibilità di successo. Dal clima al tempo, tutti i fattori pedogenetici trovano un’azione sinergica o antagonista da parte di qualche altro fattore che finisce per mitigare la sua reale efficacia e quindi la possibilità di controllo della linea evolutiva principale. A fronte di numerosi elementi di differenziazione costituiti da un clima tutt’altro che omogeneo, una struttura geolitologica frazionata e diversificata all’inverosimile, un assetto geomorfologico multiforme e instabile ed uno sviluppo cronologico appena agli inizi o continuamente rinnovato, si inserisce una copertura pedologica che evolve verso un’acquisizione di elementi intrinseci di progressiva omogeneizzazione fisico-chimica (33). In funzione di quanto esposto sopra, risulta evidente come i suoli presenti sul territorio italiano siano raggruppabili in "associazioni di suoli" - qui di seguito elencate - relative soprattutto alle diverse caratteristiche fisico-climatiche presenti in Italia.

            1. associazioni di suoli dell’arco alpino;
            2. associazioni di suoli della pianura padano-veneta;
            3. associazioni di suoli dell’Appennino settentrionale;
            4. associazioni di suoli dell’Italia centro-meridionale.

Come facilmente comprensibile - anche in funzione di quanto esposto precedentemente - l’area d’indagine è collocata all’interno del punto 3 della precedente distinzione, quindi si accennerà brevemente a quelli che sono i lineamenti pedologico-evolutivi principali attinenti ai nostri scopi.

La morfologia generalmente accidentata, con forme d’instabilità più o meno marcate, non favorisce uno sviluppo adeguato del profilo che risulta mediamente più profondo nelle aree debolmente acclivi o subpianeggianti dei versanti interessati a vario grado da corpi franosi assestati e in alcune aree corrispondenti ai pianalti degli spartiacque principali. Anche la litologia prevalentemente marnoso-arenacea non favorisce lo sviluppo di suoli pedogeneticamente evoluti, mentre alcune manifestazioni più spinte sono riscontrabili in corrispondenza di affioramenti calcareo-marnosi e calcarei. Lo schema pedologico che se ne ricava è caratterizzato da due insiemi pedogenetici: il primo facente capo alla bassa montagna molto plastica e dissestata, il secondo riconducibile all’ossatura più rigida e meglio conservata del crinale. La fascia più bassa comprende i suoli collinari argillosi (Udorthents-Chromuderts) e sabbiosi (Xerorthents-Xeropsamments) e i suoli della montagna flyschoide, distinguibile in una associazione calcareo-marnosa (Eutrochrepts-Rendolls-Xerorthents) e in una associazione arenaceo-marnosa (Xerorthents-Eutrochrepts-Xerochrepts-Haplaquepts). La fascia più elevata comprende le associazioni di suoli dei versanti (Udorthents-Eutrochrepts-Dystrochrepts) e dei ripiani sommitali (Udorthents-Hapludolls-Hapludalfs). L’intero territorio collinare racchiuso tra le Langhe ed i Rilievi del Monferrato rientra nell’associazione Orthents-Eutrochrepts-Rendolls (33).

Il regime di temperatura del suolo è stato definito come "mesico" (50), riscontrando una temperatura media annua di 12,0°C. Questo regime rappresenta valori termici temperati, definiti da una media annua compresa tra 8° e 15°C, identificabile nei climi di transizione e continentali non eccessivamente caldi. Contrariamente a quanto avviene per l’umidità del suolo, la temperatura interna nel terreno differisce assai poco dal valore quantitativo misurabile nell’atmosfera perché la porzione di suolo valutata - in linea generale - è in rapporto all’approfondimento radicale limitato ai primi 100 cm circa. Queste considerazioni, unite alla difficoltà pratica di rilevarne il parametro con una certa costanza ed accuratezza, fanno ritenere sufficiente l’approssimazione che deriva dal considerare convenzionalmente la temperatura del suolo di 1°C superiore alla relativa temperatura atmosferica. Essa in effetti varia costantemente da un orizzonte all’altro e soprattutto segue con andamento non uguale, ma parallelo, le oscillazioni giornaliere e stagionali. Soprattutto in relazione all’escursione termica annua vi possono essere alcune differenze tra i valori atmosferici e quelli pedoclimatici.

L’umidità del suolo deriva principalmente dagli apporti meteorici e localmente dai contributi idrici di provenienza sotterranea. La distribuzione, il tipo e la quantità di tali apporti modificati a vario grado dalle condizioni ambientali indotte dalla litologia, dalla geomorfologia e dalla vegetazione presenti, conducono alla formazione di alcuni regimi pedoclimatici di umidità. La quantità d’acqua presente nel suolo, il suo moto prevalente e i tempi in cui si manifestano le eventuali oscillazioni di livello entro il profilo, rappresentano le condizioni più importanti per il verificarsi della maggior parte dei processi pedogenetici (33).

Fatta questa breve premessa possiamo iniziare col dire che il regime di umidità del suolo è stato definito come "udico", poiché, per la maggior parte degli anni, la sezione di controllo dell’umidità del suolo calcolata non è asciutta in ogni sua parte per 90 giorni consecutivi (50). Lo scopo della definizione della sezione di controllo è di facilitare la valutazione dei regimi di umidità del suolo in base ai dati climatici. Questo regime di umidità è comune a quei suoli dei climi umidi che hanno una piovosità ben distribuita o che hanno sufficienti piogge in estate così che la quantità di umidità immagazzinata, più la piovosità, è approssimativamente uguale o superiore all’evapotraspirazione. L’acqua si muove verso il basso attraverso il suolo in qualche periodo per la maggior parte degli anni (50).

Il suolo che si sviluppa in queste condizioni termiche e d’umidità è sicuramente un suolo scarsamente lisciviato in cui la stagione calda è anche la più umida e la distribuzione delle precipitazioni si concentra nelle stagioni più temperate, cioè primavera ed autunno come già detto (Figura 5.4), pertanto l’evapotraspirazione sottrae la maggior parte della quantità d’acqua disponibile per una filtrazione efficace (33). L’alterazione chimica è particolarmente intensa e la lisciviazione presente in maniera abbastanza marcata non impoverisce il suolo delle basi liberate poiché quest’ultime vengono continuamente fornite dall’alterazione del substrato, come si può anche notare dalle analisi dei profili riportate nelle Tabelle 10.1¸ 10.8 (degli 8 profili eseguiti nell'ambito della tesi di laurea se ne riporta qui soltanto uno a scopo indicativo). La filtrazione idrica risulta incostante negli anni ed i fattori litologico e geomorfologico possono giocare un ruolo essenziale nella determinazione di condizioni più o meno favorevoli alla lisciviazione complessiva (33).

Profilo n 7

Classificazione (USDA): Udorthent tipico, intergrado agli Uderts.

A1 (0¸ 2 cm). Bruno grigiastro (10YR 5/2); limoso-argilloso; aggregazione grumosa; consistenza friabile allo stato secco; radici comuni con andamento verticale ed orizzontale, medio-piccole; limite chiaro ondulato; alcalino.
A1C (2¸ 25 cm). Bruno grigiastro (10YR 5/2); limoso-argilloso; aggregazione grumoso-poliedrico-subangolare con dimensioni medie e grado moderato; consistenza allo stato umido resistente; radici scarse con andamento verticale ed orizzontale di dimensioni medio-piccole; pochi pori medio-piccoli; limite graduale discontinuo; alcalino.
C (>25 cm). Bruno grigiastro (10YR 5/2); limoso-argilloso; aggregazione poliedrica subangolare grossolana di grado forte; consistenza allo stato umido molto resistente; radici scarse e di piccole dimensioni; pochi pori medio-piccoli; limite graduale ondulato; alcalino.

OSSERVAZIONI:

Il profilo pedologico in esame mostra le seguenti caratteristiche principali:

  1. Una marcata uniformità strutturale lungo l’intero profilo, evidenziando inoltre un leggero compattamento presente nell’orizzonte "A1C", distribuito regolarmente in tutto il suo spessore;
  2. I valori di pH, calcare totale e calcare attivo presentano un andamento crescente lungo il profilo, mentre i valori di carbonio organico, azoto totale e C/N mostrano l’andamento opposto;
  3. Il rapporto C/N è attestato su valori medio-bassi (circa 5,5 e 6);
  4. Le percentuali di argilla sono tendenzialmente elevate, attorno al 25% circa, ma uniformemente distribuite su tutti gli orizzonti presenti.

Questo tipo di suolo viene utilizzato per scopi agricoli e quindi risente di una periodica ma costante azione di ringiovanimento effettuata mediante le lavorazioni più profonde quali ad esempio l’aratura e, occasionalmente, lo scasso. Il continuo rimescolamento del terreno interessa uno strato variabile dai 40-60 cm di profondità e non di rado, il suolo presenta numerose crepacciature profonde 50 cm circa e larghe a volte alcuni cm. Proprio in funzione di queste condizioni questo tipo di suolo si può considerare un intergrado verso i Vertisuoli e più specificatamente verso gli Uderts.

 

Determinazioni analitiche di laboratorio:

Param. chimico-fisici

(u.m.)

Orizzonti del profilo

 

 

A1

A1C

C

pH (acqua 1:2,5):

 

7,6

7,9

8,0

pH (KCl 1:2,5):

 

7,0

7,1

7,1

Calcare totale:

(%)

14,37

15,79

16,38

Calcare attivo:

(%)

8,69

9,35

9,73

Calcare attivo:

(% tot.)

60,5

59,2

59,4

Carbonio organico:

(%)

1,40

0,98

0,86

Sostanza organica:

(%)

2,41

1,69

1,48

Azoto totale:

(‰)

2,17

1,76

1,63

Rapporto C/N:

(meq/100g)

6,44

5,57

5,27

Cap. sc. cationica:

(meq/100g)

21,9

20,2

21,0

Basi di scambio:

 

17,2

18,4

18,3

Saturazione delle basi:

(%)

78,5

91,1

87,1

Massa volumica reale:

(g/cm3)

2,27

2,38

2,29

Sabbia grossa:

(%)

5,98

4,96

2,94

Sabbia fine:

(%)

21,99

18,16

20,57

limo grosso:

(%)

12,03

13,19

13,04

Limo fine:

(%)

32,98

37,85

37,13

Argilla:

(%)

21,99

25,85

26,32

Tessitura (SISS):

 

L-A

L-A

L-A

Tessitura (USDA):

 

F-L

F-L

F-L

 

Profilo pedologico n 7.

Siccome praticamente tutti i profili rilevati appartengono all’Ordine degli Entisuoli, Sottordine Orthent, Grande gruppo Udorthent - anche se sono state osservate diverse forme intergrado verso pedon più evoluti - diamo brevemente le caratteristiche discriminanti queste classi. Il concetto centrale relativo agli Entisuoli è quello di suoli scarsamente evoluti in cui non si evidenziano orizzonti diagnostici sufficientemente sviluppati. Il profilo del suolo in senso stretto è quindi tendenzialmente poco profondo e le sue caratteristiche chimico-fisiche rispecchiano fedelmente quelle del substrato geologico d’origine. L’assenza di una adeguata pedogenesi è in stretto rapporto con il tempo di alterazione troppo breve, con le caratteristiche litologiche del substrato, con l’assetto morfologico del rilievo, con le condizioni climatiche oppure con l’intervento antropico. Tutti questi fattori, singolarmente o congiuntamente, tendono ad arrestare i normali processi di alterazione della roccia, mantenendo il suolo in uno stadio di immaturità che viene estrinsecato attraverso l’assenza quasi completa di elementi pedologicamente significativi. Tutto ciò corrisponde alla creazione di un suolo caratterizzato da uno scarso rilievo dei fenomeni tipici della differenziazione orizzontale. Le foto inerenti i profili rilevati sono una dimostrazione di quanto indicato in precedenza. La differenziazione del profilo non corrisponde ad una reale evoluzione pedogenetica, con formazione di orizzonti diagnostici profondi, ma rappresenta invece, la fase iniziale di alterazione chimico-fisica della preesistente stratificazione geologica del substrato. La successione non risulta pertanto di tipo "A-B-C" ma di tipo "A-C". Questa caratteristica similitudine con il substrato geologico sottostante è forse l’elemento di maggiore interesse nel riconoscimento e nella classificazione degli Entisuoli, che, se da un lato possono risultare facilmente individuabili quando si sviluppano debolmente su una roccia compatta, altrettanto non può dirsi quando coinvolgono nel profilo livelli litologici profondi di tipo incoerente. In questo caso è proprio la mancanza di tracce relative ai processi pedogenetici che ci consente di distinguere un Entisuolo da un Inceptisuolo, un Aridisuolo, un Mollisuolo o qualunque altro ordine di suoli più evoluto (50). Tante altre considerazioni interessanti potrebbero essere fatte in merito a questo Ordine, ma esulano purtroppo da questo scritto, quindi passiamo ad accennare brevemente le principali caratteristiche del Sottordine di nostra competenza.

Gli Orthents, molto sviluppati nelle zone collinari e montuose in forte pendenza, derivano essenzialmente da substrati soggetti a forme di erosione che ne limitano lo sviluppo pedogenetico. Possono rinvenirsi in qualsiasi clima e sotto qualunque vegetazione.

Gli Udorthents sono gli Orthents delle medie latitudini che hanno un regime di umidità udico. Il regime della temperatura va da frigido a ipertermico ma non iso. La vegetazione naturale potenziale è comunemente rappresentata da una foresta a foglie caduche, oppure i suoli vengono utilizzati a scopo agricolo.

Volendo descrivere brevemente i tipi di suoli rilevati, tentando successivamente di schematizzare un modello di evoluzione pedologica ipotizzabile, possiamo dire che questi suoli subiscono un processo di ringiovanimento generalizzato, che li riporta costantemente verso stadi evolutivi iniziali. Questo fenomeno risulta inoltre maggiormente accentuato grazie all’utilizzo del suolo per scopi agricoli. L’apparente potenza del suolo è dovuta alla roccia tenera ed in fase di alterazione e non a specifici orizzonti profondi. Quindi, in funzione di tutti i fattori rilevati e concorrenti al dinamismo dell’ecosistema presente possiamo individuare due orientamenti pedologico-evolutivi distinti (Figura sotto): il primo, sviluppantesi in condizioni naturali e quindi non condizionato dall’antropizzazione, porterebbe, molto probabilmente, ad un Inceptisuolo a grado di maturazione limitato ma non nullo, in cui s’individuerebbero già alcuni elementi diagnostici, appartenente al Grande gruppo degli Eutrochrepts. Questo tipo di suolo si svilupperebbe principalmente su versanti e vallecole; Il secondo, più presente in zone colluviali, si svilupperebbe sotto l’influenza delle pratiche agricole, quindi un Vertisuolo e, più specificatamente, un Udert.

 

Evoluzione pedogenetica ipotizzabile nell'area in esame.

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