LA CITTA’ DOLENTE







 

Le azioni condotte dalla follia schiudono varchi insondabili nella mente degli uomini. Sebbene ora io sia cresciuto ed abbia facoltà di ragionare e giudicare gli avvenimenti della vita, c’è un alone di tenebra che avvolge in me quel ricordo... tanto che non saprei dire in quale dolente città mi trovassi quel giorno, né perché o come. Né ho saputo mai il nome di quel nobile, il suo volto rimane oscurato e sepolto nei più intimi recessi della mia mente e in quei labirinti, fantasma d’inumana ferocia, persevera inesorabile a muovere i suoi passi, senza quiete. Tremare, soltanto tremare possiamo noi mortali di fronte allo sguardo assente di un morbo che deturpa più della lebbra, tanto diffuso da riempire interi volumi negli annali del mio evo. Tra tutti gli esempi, valga un episodio in particolare di cui fu vittima mio padre. Un giorno si presentò al re di Francia un pastorello dodicenne di nome Stefano e mostrò una lettera ricevuta da Gesù in persona che gli ordinava di predicare la nuova crociata per la Terra Santa. Il re rimandò subito a casa il ragazzino ma questi, per nulla scoraggiato, fu rapito da mistico zelo e proclamò che avrebbe egli stesso guidato una crociata di fanciulli. Come il Mar Rosso s’era diviso per lasciar passare le schiere di Mosè e dei figli d’Israele, così il Mediterraneo avrebbe prodotto un varco per il passaggio dei fanciulli diretti a Gerusalemme. In poco tempo il pastorello trovò al suo seguito migliaia e migliaia di partecipanti della sua età e più giovani ancora, sia di origine contadina sia di nobile famiglia, e presto all’esercito in erba si aggiunsero altri ventimila ragazzi e ragazze tedeschi decisi a convertire i pagani. Benedetti dai genitori e accompagnati dai preti, si diressero al mare seguendo a piedi il baldacchino del coloratissimo carro di Stefano. A Marsiglia ne arrivò meno della metà, molti erano morti sul ciglio della strada per la fame e gli stenti, altri erano finiti dispersi nel tentativo di tornare a casa. Grande fu la delusione dei superstiti allorché gridando corsero verso la riva per vedere il miracolo delle onde che si dividevano: non successe nulla, invano attesero, il mare continuava inesorabile e indifferente a mugghiare sul porto. Ma la divina provvidenza non abbandona mai chi ripone nella fede la sua fiducia e due mercanti, gratis et amore Dei, offrirono loro sette magnifiche navi per salpare verso la Palestina. Per fortuna mio padre rinunciò a salire in quelle navi. Il destino dei fanciulli si conobbe solo diciotto anni più tardi da un sacerdote che li aveva accompagnati: i due mercanti li avevano condotti in Algeria per venderli come schiavi e quelli che là non avevano trovato compratori furono condotti ad Alessandria d’Egitto, ove gli schiavi franchi erano ancor meglio pagati. Quanto labile, ahimè, è lo stretto confine tra l’infatuazione del mistico e il dedalo in cui si smarrisce il senso dell’esistere. La via è sul filo del rasoio. Un passo più in là, solo poco più in là, vedremmo la genuina essenza della follia partecipare di un mistero più vasto, un abisso senza fondo che rompe le nostre misere certezze e ci sbatte in faccia i mondi e i baratri dell’incomunicabile. Il caos è qui, ora, a un passo da noi. Dietro il muro, intorno a noi, sotto i nostri piedi. Basta un nonnulla perché la voragine si spalanchi e ci obblighi a trasalire scorgendo onde spumeggianti nell’oceano dell’informe. Erebo terribile, fratello della Notte, schiuma di spazio e tempo in un mare burrascoso ribollente di miriadi e miriadi di bollicine casualmente create e annichilate, effimere creste di spuma del disordinato e tenebroso regno dell’incerto. Ad interrompere questi insondabili silenzi, emerge il Fato ed insieme sorgono la Vecchiaia, la Morte, l’Assassinio, la Continenza, il Sonno, i Sogni, la Discordia, la Miseria, l’Ira, la Vendetta, la Gioia, l’Amicizia e la Pietà. Entro questo agitato vocìo si colloca dunque la storia di ognuno di noi ed io voglio raccontarvi la mia, di secoli antica come il cuore antico delle nostre città. Vi parlerò della misteriosa morte di mio zio e delle atrocità commesse da un potente Signore, uso ad avvalersi di qualsiasi mezzo pur di portare a termine i suoi piani. La perversità sta all’animo umano come egli sta alla carne del demonio e allora troncate pure la lettura, e richiudete subito questo libro, se la follia dell’umana ferocia vi spaventi tanto da farvi serrare gli occhi inorriditi, lasciate stare... se preferite fingere che male e insania non esistano nell’ordine del mondo. Altrimenti, se credete che in ogni modo alla ferocia si possa opporre la dolcezza e alla bassezza la nobiltà e la purezza dello spirito, non tappatevi le orecchie con la cera. Imitate Ulisse e legatevi ben saldi alla vostra nave, così potrete udire il soavissimo canto di quelle creature per metà donna e per metà pesce senza cadere fatalmente attratti e divorati. L’interesse vi convincerà allora a spingervi fino in fondo e a leggere, leggere e rileggere queste pagine, poiché tra le righe v’è celato il messaggio di un sommo arcano taciuto e dimenticato nelle pieghe del tempo: l’oscuro mistero della Pietra Filosofale. Eh sì, in guardia, il linguaggio dell’Alchimia è fatto di velate astrazioni ma se si sa associare la corretta chiave si scopre un significato intimo e vero. Chi ha successo nelle operazioni dell’Arte Regale, e riesce nell’audace e difficile impresa di trovare la Pietra, può trasformare ogni metallo vile in oro, oro purissimo, metallo della migliore qualità e, non solo, con l’Elisir della Pietra può guarire da ogni imperfezione e ricoprirsi di un corpo di luce.

Io sono bresciano, ho ventisei anni, appartengo ad una nobile famiglia che vanta nomi illustri nella parte guelfa. Quand’ero poco più che un ragazzo mio zio Filippo degli Ugoni, ricoprendo a Bologna la carica di podestà, lanciò i fedelissimi guelfi bolognesi contro il nutrito esercito degli Imperiali. Era il maggio 1249, a Fossalta mio zio sbaragliò e catturò Re Enzo. Il figlio dell’Imperatore aveva dato prova d’essere comandante di valore nel coordinare al meglio i generali e la moltitudine degli alleati, sebbene per la verità avesse lasciato sfornite alcune fortificazioni determinanti. Un corteo trionfale in onore di Filippo degli Ugoni trasferì a Bologna centinaia di prigionieri, soprattutto Cremonesi e Modenesi, e tra loro Re Enzo che sarà alloggiato ospite coatto nel Palazzo Comunale della città. Pur trattato con ogni possibile riguardo, il giovane re di Sardegna resterà per sempre sottomesso all’infelice destino di trascorrere ivi rinchiuso il resto dei suoi giorni, lontano dal padre e dalla moglie veronese che solo da un anno aveva sposato. Sua unica consolazione il poetare:

Va canzonetta mia,

e saluta Messere,

dilli lo male chi aggio:

quelli che m’ha ‘n balia

sì distretto mi tene,

ch’io viver non poraggio;

salutami Toscana,

quella ched è sovrana,

in cui regna tutta cortesia;

e vanne in Puglia piana,

la magna Capitana,

là dov’è lo mio core nott’e dia.

L’imprigionamento di re Enzo, che era il figlio prediletto di Federico II, portò l’imperatore del Sacro Romano Impero ad una crisi di profondo sconforto. Lo sgomento paterno di Federico II si legge dietro le argomentazioni politiche, dietro i ricatti e le lusinghe rivolte ai Bolognesi: "Che essi non si lascino sedurre dalle false promesse dei Lombardi, bramosi solo di coinvolgerli nella loro rovina; non dovevano i Bolognesi andare troppo fieri della loro vittoria, che tenessero in conto il capriccio della sorte. Se subito non si fossero ravveduti, nessuno avrebbe potuto salvarli una volta precipitati nella fossa per colpa dei Milanesi. Se avessero liberato Re Enzo la loro città sarebbe stata esaltata al di sopra di tutte le città della Lombardia, in caso contrario si sarebbero visti assediare da una moltitudine di vessilli con sopra le aquile nere di Svevia, l’Imperatore avrebbe decapitato davanti alle mura tutti i prigionieri, mutilato chi gli faceva resistenza e raso al suolo ogni torre e ogni palazzo di Bologna."

Brusca e inamovibile la risposta di Filippo degli Ugoni:

"Non siamo canne palustri che si agitano per poco vento, parole vane non sortiscono l’effetto di spaventarci. Né ci potrà turbare uno smisurato numero di Imperiali sotto le nostre mura, si è visto che da cane non grande spesso è preso grande cinghiale, se crede usi pure la forza l’Imperatore: Re Enzo resta prigioniero, lo è stato e lo sarà per sempre".

.........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

Per gli esponenti della parte ghibellina il capriccio della sorte annunciava una fase di declino: un destino dominato dall’incalzare delle forze avverse faceva supporre che presto si sarebbe toccato il fondo. E così fu con la successiva morte di Federico II, avveratasi il 13 dicembre del 1250 a Castel Fiorentino di Puglia. Rimaneva però nel settentrione d’Italia un feroce e irriducibile ghibellino che seppur politicamente isolato, e sempre più bersagliato dal Papa, si difendeva con estremo accanimento fino a contrattaccare attivamente la stessa Lega Lombarda. Nemico del genere umano, belva assetata di sangue, nato dal demonio, quel feroce tiranno era Ezzelino III da Romano. Costui teneva in pugno le maggiori città della pianura veneta: Padova, Verona, Vicenza e, in aggiunta nel pedemonte, Feltre e Belluno. Le sue azioni traevano immagine di legalità dal conservato legame con la casata sveva degli Hohenstaufen, cosa che giustificava il suo ergersi a paladino dei diritti imperiali anche se, oramai, si trattava solo di un pretesto ufficiale per colpire indiscriminatamente i nemici personali e per dare libero sfogo alle sue ambizioni di dominio. Un anno dopo la morte di Federico II, l’erede al trono Corrado IV s’era imbarcato a Latisana e dal Golfo di Venezia aveva raggiunto la corte pugliese in qualità di nuovo Imperatore. Ciò era valso, dopo la breve tregua, a riaccendere la lotta risvegliando gli animi sopiti dei guelfi. L’8 marzo 1252 è rinnovata a Brescia la Lega Lombarda: Milano, Brescia, Alessandria, Parma, Modena e Reggio, giurano fedeltà alla causa anti-imperiale. Si preparano alla riscossa finale tutti i vecchi nemici di Ezzelino a cominciare dal marchese D’Este, in Ferrara, e dal conte di Sambonifacio che subito arma i castelli di Valeggio sul Mincio, Gazzo e Garda, formidabili punti strategici a costante minaccia sui confini dell’avversario. Alla Lega aderisce prontamente Papa Innocenzo IV e mette a disposizione dell’esercito ben trecento suoi nobili cavalieri. Trascorrono due anni dal solenne giuramento e ancora Ezzelino spadroneggia illeso in mezzo alla bufera enunciando di voler restaurare l’Impero. Spazientito da tanta impenitenza, il Papa scaglia contro di lui la potente e temutissima arma della scomunica: "Ezzelino belualis animus sanguinis sitibundus, pantherae surdidissime filius! L’umana società - proclama il Pontefice - fu da Dio istituita al fine di schiacciare le iniquità dei potenti ed invece, sembra indegnamente dare sostegno alla rabbia truculenta ed alla barbarie selvaggia di un uomo inumano fra tutti, che la dismisura della sua funesta malvagità ha reso famigerato e che una moltitudine di fatti atroci, ben conosciuti al mondo, ha reso cupamente celebre. Sia perciò scomunicato il tiranno che s’è macchiato di delitti orrendi e mostruosi, il promotore di raccapriccianti sevizie, spietato e crudele assassino di amici e nemici, senza compassione per nessuno, né considerazione per le donne o gli anziani, né per i bambini innocenti che castra, ut dicitur".

La lama d’acciaio luccica al riflesso della torcia, incide la cute glabra dello scroto con una linea dritta e precisa, per un attimo la ferita non sanguina ma poco dopo macchia il bianco-azzurro dell’albugìnea che avvolge il testicolo. Con mossa meccanica, sperimentata, due dita strizzano il testicolo al di fuori dell’incisione e lasciano disabitato il sacco di cute rugosa. L’ovoide bianco-azzurro rigato dai capillari sinuosi sembra un piccolo uovo avvolto dalle spire di un serpentello che, da sotto la prima spira, sporge la piccola testa. Il coltello taglia infine il funicolo che fissa il testicolo all’inguine come una cordicella. Solo adesso, un urlo di terrore lacera l’aria. Non cambiano espressione i lineamenti grotteschi del boia, sembra sordo, nemmeno ha battuto ciglio. La vittima è un ragazzino, ha orrore dell’assenza di umano che legge nel carnefice. L’infelice è slegato dal tavolaccio e condotto via stremato, viene ora il turno di un altro ragazzo appena quattordicenne, pallidissimo. Si agita e si dimena tra le braccia del boia che cerca a fatica di immobilizzarlo e legarlo.

A lato un nobile di media statura, né magro, né corpulento, dai denti aguzzi, d’occhi vivissimi, capelli tra il biondo e il rosso, osserva impassibile:

"Quello chi è?" avvicinando la torcia per vedere meglio.

"Il figlio di Gisla, la padovana" farfuglia il boia, perplesso.

"Lascialo andare, imbecille!" tuona il nobile facendo vibrare i lembi della pelliccia grigia.

Il ragazzo morde la mano del boia, si divincola e fugge, attraversa il corridoio gremito di soldati, esce all’aperto e corre nella nebbia, urta due passanti con la cappa, rovescia un cestino di mele dal banco e ruzzola a terra. Un nano sgraziato con le penne sul capo gli ha fatto lo sgambetto e salta addosso per bloccarlo, il giovanetto lancia un urlo di paura, si libera, veloce si rialza e fugge, a grandi falcate, nella nebbia.

Brescia, 29 aprile 1258. Eccoci dunque all’inizio della nostra storia, siamo già alla fine di aprile e la primavera sembra svanire in un nuovo inverno, fuori la temperatura tende a scendere anziché salire, fa quasi freddo, un freddo secco senza piogge. Entro la cucina la ruota della fortuna è scolpita sulla pietra del focolare, curvo sul pentolone il mio servo bergamasco smette di rimestare e assaggia dal mestolo.

Si lamenta parlando da solo:

"Brod bu de laàs zo i botassoi! (Brodo buono per lavare i polpacci). Ecco il cibo che mi riserva il padrone, nobile illustre della guelfa famiglia degli Ugoni. Bella ricompensa, per uno come me che lavora dall’alba a mezzanotte e per trecento sessantacinque giorni l’anno, compresi i bisestili. Chi lauruna mangiuna (chi lavora tanto mangia tanto). Bella sfortuna capitare con questo spilorcio, mi sa tanto che è giunta l’ora di separarci, cambio padrone e ognuno via per la sua strada. Sono stufo di mangiare sempre la stessa brodaglia mentre per lui devo cucinare per intere giornate a preparare leccornie. A noi altri che si cammina coi zoccoli ci piace di avere un chiodo fisso: verrà, verrà anche per i servi l’Età dell’Oro, dicono sotto il segno dell’Acquario, allora toccherà ai padroni cucinare e servire in tavola in buon ordine per il nostro piacere. Al ma grigna a’ ‘l cul (mi ride anche il culo), saprei ben io cosa ordinare al signorino per il mio pranzo domenicale: antipasto di asparagi allo zafferano e di funghi saltati con un pizzico di zenzero e noce moscata; prima portata Ravioli al pecorino e... Biancomangiare oltremontano, un’oncia di riso, due once di petto di pollo, una scodella di latte di capra e zucchero e lardo; seconda portata Ambrogino di pollo alla frutta secca, piccioni alle mandorle, oca arrosto con la salsa... già dimenticavo le salse! Mi dovrà portare in tavola una lista che non finisce più: Agliata paonazza, Peverada senza pepe, Salsa celeste d’estate al succo di more selvatiche da intingere col pane bianco... no, pane bianco meglio di no. Il pane dei nobili mi farebbe ammalare, preferisco il mio buon pane grezzo di campagna. A fine pasto, un dolcetto sì che me lo posso mangiare: Caliscioni al marzapane e allo sciroppo di rose, noci al miele bollito, scorzette d’arancia candite. Ahimè sono solo fantasie, purtroppo col suo grande intelletto raffinato messer Ugoni non sarebbe capace di cucinare un passato di fave secche. Chissà come resiste quello lì a far di uccel di bosco dalla mattina alla sera, non l’ho mai visto impegnarsi in alcunché. Messer volatile si diletta di un’unica cosa, tirare di scherma ogni santo giorno e, però, finito di esercitarsi si guarda bene dal portare addosso la spada, il codardo. Va ‘n malura, ma dov’è andato? Tarda a tornare, doveva essere qui già da un pezzo... Eccolo, eccolo nel suo abito tenebroso, si veste di nero per dar risalto al biondo della capigliatura".

"Ah, sei qui scanna-minestre! La città è piena di ghibellini infuriati come sciacalli e tu... Dunque, non te n’eri neanche accorto?".

"Ehm... ma..." accelerando i giri di mestolo.

"Ho perso un sacco di tempo a cercarti. Presto andiamo - con voce tesa e ansiosa - se mi fai arrivare in ritardo ti uccido, ho un appuntamento importantissimo. E’ l’occasione della mia vita, oggi si decide il mio destino e, anche se c’è in giro sommossa, devo assolutamente andarci. Uscirò apposta disarmato per evitare rogne. Via, veloci".

Dalla nostra contrada orientale, detta di Ercole, percorriamo al buio la scacchiera di strade del quartiere nobiliare di Brescia fino a passare davanti al monastero del Salvatore, abitato da suore benedettine di alto lignaggio. Per regio privilegio risalente al re longobardo Desiderio il monastero riceve le decime e possiede ricchi possedimenti coltivati da un folto stuolo di servi della gleba. Siamo sotto le pendici cespugliose del Colle Cidneo, in alto c’è il castello e la torre cilindrica della Mirabella che mostra appena sotto i merli la sua collana di finestre, opalescenti in una luce sinistra. Verso occidente entriamo nel quartiere artigiano e le vie si fanno strette e tortuose tra il disordine dei caseggiati. All’improvviso un canale ci sbarra la strada.

"Per me si va di qua" indico una via.

"Per me si va di là".

"Non vedi che abbiamo perso la strada - rimprovero Batocchio -, mi vuoi far venire i piedi gonfi a forza di camminare?".

"Messere, non vorrete mica che si passi per il centro, finiremo in bocca ai ghibellini".

Finalmente torniamo sulla strada giusta, mi rilasso: "Oggi la mia divina uscirà dalla sua beata indecisione, deve scegliere tra me e quell’altro, le ho dato tempo sette giorni per pensarci, o me o lui. Se ha scelto me fra poco le alzo le gonne...".

"Ardet dal bus che arda per tera. (Guardati dal buco che guarda per terra) ".

"Che dai d’intendere?"

"Quella donna mette paura".

"I capelli... i capelli di Melenide sono splendidi e ondulati, hanno il colore intenso delle ali nere della notte, un colore senza riflessi come l’ebano che assorbe ogni luce. Oh, quanto dolcemente profumati all’olfatto e a stringerli fra le dita... seta pregiata. E poi, la tonalità plumbea dei suoi occhi belli e impenetrabili come il buio che non conosca giorno, sguardo profondo d’una sera senza stelle".

"Con quel leggero strabismo non si capisce mai a cosa pensa".

"L’hai detto, è una tenerissima sfinge".

Ah, mi vien da ridere, pensa fra sé Batocchio. Una sfinge? Ormai è finito tra le sue sgrinfie. Le unghie da gatta e le tettine di donna, i fianchi da vacca e le piume d’oca sul culo. Avrà pure il sorriso enimmatico, come dice Messere, ma secondo me i bei labbroni di Melenide sono fatti apposta per prenderlo in bocca.

Girato l’angolo, in fondo vediamo arrivare un gruppetto di armati in corsa. Escluso il volto, ogni loro pezzettino di pelle è fasciato dalla maglia ferrata, sopra quella hanno una tunica senza maniche e lunga al ginocchio, portano tutti spada e scudo e uno ha l’ascia in mano. Occupano tutto il passaggio e vestono insegne ghibelline.

Batocchio rimane pietrificato dallo spavento, desta inevitabilmente il loro sospetto. Sono disarmato e, dopo un attimo di perplessità, non trovo di meglio che fare le fiche con il pollice tra l’indice e il medio dei pugni chiusi. Poi dietro-front e fuga a gambe levate.

"Fermo!" i ghibellini c’inseguono appesantiti dalle armature.

Ci tuffiamo nel buio intrico delle viuzze e corriamo a tutta velocità, imprendibili. Seminarli non è tuttavia così facile. In direzione del centro i passanti man mano aumentano, nella penombra qualcuno si volge a protestare per i nostri spintoni. Ecco la "Rotonda", dal primo giro di finestre esce la luce fioca della Cattedrale, sotto la cupola il secondo giro di finestre è a nicchia cieca, a grandi falcate ne costeggiamo rasente le mura circolari ostacolati dalle case che stanno loro addossate. Dannazione! Finiamo per sbucare nella piazza stracolma di truppe ghibelline, rallentiamo, freniamo la corsa in un passo impacciato. Gli inseguitori ci hanno intanto raggiunto e ci bloccano giusto davanti al portale, sotto la statua vistosamente dipinta del patrono.

Due di loro mi tengono per le braccia: "Recita il tuo nome".

Rispondo ansimante: "A come alfa, Z come zeta, O come omega, Azzo degli Ugoni".

Un terzo mi squadra minaccioso e rivolto agli altri: "Sta con la Lega, è uno degli Ugoni".

Si forma intorno un cerchio di curiosi, alzo la voce: "Ma lo vedete o no che sono disarmato, questa volta ho deciso di starmene fuori da quelle teste di legno della Lega. Se pure porto il nome degli Ugoni non ho l’obbligo di partecipare ad ogni rissa di pollaio! C’è chi dice di dare contro a Verona e chi ha in odio Milano e così avanti, a forza di discutere e bastonarci fra noi, il carroccio non uscirà dalle mura né contro l’una né contro l’altra".

"Cercate il pugnale, perquisitelo per bene".

"Ficcatemi pure il naso nel culo".

I due che mi hanno tastato: "Niente".

"Bene, ora toglietevi di mezzo e alla svelta, che ho un appuntamento importante".

Il caporione mi squadra dall’alto in basso: "Ma sì lasciamolo andare il biondino, dev’essere un bastardo... non è certo che sia figlio di Raimondo".

"Tu invece, sei di certo figlio di uno sciacallo".

Estrae la spada dal fodero tracciando dal basso verso l’alto un semicerchio verticale finché la punta si ferma davanti alla mia gola: "Sei in arresto in nome della parte ghibellina di Ezzelino. E ringrazia se per questa volta non ti stacco la testa dal collo".

Ora come minimo mi condanneranno all’esilio. Scortati attraversiamo la piazza divisa in due dalle case dei canonici e saliamo nella sua metà sopraelevata. Sotto il tetto romanico a capanna, vetri a mosaico ed agili colonnine formano il rosone della seconda Cattedrale. Brescia è tutta speciale: è l’unica città al mondo che ha un Duomo rotondo, ad imitazione del Santo Sepolcro, ed è l’unica ad avere due cattedrali, l’una utilizzata dal Vescovo in inverno l’altra in estate. Subito accanto c’è il Broletto con l’altissima torre del Pegol e la "loggia delle grida" con le cinque statuine che ne sostengono il balcone. Calcando il cortile interno del Broletto cresce in me l’astio anti-imperiale: un serpente velenoso morde al gallo la coda, il gallo becca il culo al maiale e il suino grufolante insegue il serpente. Così gira qui la vita, il veleno ghibellino ammorba i galletti bresciani, quel suino di Ezzelino se li tira dietro e la nostra città si trasforma in uno squallido porcile. Ognuno di noi vi può vedere riflessa la propria storia condizionata da un doloroso percorso di circoli viziosi e illusorie promesse dei capi ghibellini. Di grado in grado le cose sono andate peggiorando ed ora la misura è colma: Ezzelino, demone ghignante con la testa coronata di crani, sta inghiottendo Brescia nei suoi artigli e nelle sue orribili fauci. A cosa ha giovato che le nostre Famiglie abbiano dato lustro alla città, percorrendo per generazioni la lunga catena delle nascite e delle morti, se ora Brescia è data in pasto alle razzolanti mandibole dell’Impero? Siamo davvero senza difesa, il nodo dell’ignoranza spinge molti concittadini ad aggrapparsi ad Ezzelino come se non se ne potesse fare a meno. Illusione, odio, avidità, si rinforzano l’un l’altra e ottundono loro la mente con profonde radici.

..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

Quale delle due parti in lotta sta avendo la meglio? Ha forse già vinto Ezzelino? In realtà il Palazzo del Comune, il Broletto, è ancora tenacemente conteso tra le due fazioni. I guelfi ne hanno in mano l’ala meridionale, con la sala delle adunanze del Gran Consiglio e le ricche stanze sottratte al podestà. I ghibellini tengono il rimanente sotto controllo grazie al capitano del popolo, che si è venduto ad Ezzelino ed ha tratto dalla sua le guardie di Palazzo. Sicché i notai ed i giudici del maleficio, quasi tutti di parte guelfa, sono fuggiti precipitosamente dalle loro stanze orientali. Pure i magazzini delle spezie e del grano sono in mano ghibellina ed anche la stalla delle guardie, che è stata adibita a nostra prigione provvisoria.

Il nuovo carcere è affollato, cerchiamo uno spazio libero per sistemarci. A differenza di Batocchio che porta una rozza cintura e tunica verde a frange larghe e quadrate al ginocchio, la mia veste è alquanto raffinata. Nera, di cotone pregiato, scende sotto le ginocchia trattenuta da una ricca cintura e s’apre lateralmente in due spacchi che risalgono fino all’anca. Troviamo in disparte un angolino libero, Batocchio si siede tranquillamente nello sporco sotto le ragnatele che pendono dal soffitto colme di polvere. Non è il caso di sottilizzare, accenno ad assidermi quando scatto dritto volando sulle punte dei piedi: un gigantesco ragno peloso fugge a nascondersi in una fessura del muro. Cambiamo zona inorriditi. Fatto qualche passo Batocchio rimane paralizzato qualche secondo a fissarmi negli occhi: è affondato inavvertitamente nel letame di cavallo. Capelli rossi come le carote, il mio servo di casata ha l’iride di un verde insulso e gli manca un incisivo superiore spezzato mentre si allenava al combattimento di bastone. Caschetto biondo, occhio celeste e malinconico su di un viso che ispira simpatia, naso appena all’insù, labbra intagliate e mascelle larghe, io possiedo lineamenti vagamente tedeschi. Ci sediamo fra gli altri, vicino a un tipo imbacuccato in una cappa viola con tanto di cappuccio abbassato sugli occhi.

Batocchio impreca per la nostra cattura: "A èss desfortunàcc al piòf sol cul ach a èss sentacc".

"Boia di un tedesco!" il vicino lo prende per lo stomaco tirandogli la veste.

Intervengo a forza per dividerli: "Ehi sta calmo... è di Bergamo".

Mortificato, Batocchio spiega: "Pota! Stavo dicendo che agli sfortunati piove sul culo anche da seduti".

"Cazzo se è vero - aggiungo sconsolato -, se non mi presento all’appuntamento oggi la donzella sceglierà il mio rivale".

Il vicino scopre dal cappuccio un folto cespuglio di capelli grigi che contrastano con il suo volto ancora fresco e giovanile: "Piomba sciagura sulla città e tu pensi a una donnetta?".

"Donnetta la chiami, se tu sapessi chi veramente è Melenide".

"Le milizie tedesche si sono intrufolate, si è scatenata una rissa sanguinosa, ci sono morti e feriti - agitando l’avambraccio fuori dal foro delle false maniche che oltre il gomito proseguono vuote e ampie fin giù al ginocchio -. Purtroppo bisogna prenderne atto, nemmeno le prediche del benamato domenicano Everardo sono riuscite a rappacificare le parti. Tutta colpa del solito gruppo di fanatici, quei ghibellini che tramano per la consegna della città a... ma che puzza! Cos’è questo odore di marcio?"

Puntiamo entrambi Batocchio che ridacchia paonazzo. Appena la scoreggia si dilegua, lo sconosciuto riprende: "A che è valso l’aver richiamato gli esuli e liberato i guelfi prigionieri? I ghibellini al potere non sanno tollerare la presenza pacifica degli avversari".

"Ogni pretesto è buono per azzuffarci fra noi. Se potessero, perfino le contrade della città si dichiarerebbero guerra l’un l’altra. Tu chi sei? Un politicante?"

"Mi chiamo Guardalupo, sono un guelfo padovano e ho studiato Teologia all’Università di Padova".

Batocchio s’intromette: "Laureato?"

"Baccalaureato".

"Ah ho capito. Baccalà con la laurea".

Guardalupo lo ignora. Con stile d’eloquio bizantineggiante, pedante, cavilloso, carico di preziosismi e raffinatezze verbali, racconta che si è allontanato da Padova quattro anni e mezzo fa, non che fosse stato messo al bando né che la sua persona fosse ad oggetto di persecuzione diretta. Certo soffrì alquanto degli arzigogoli burocratici con i quali ad un ecclesiastico, suo maestro diletto, fu impedito d’insegnare all’Università. Ma non fu nemmeno questo il motivo per cui troncò gli studi ad un passo dalla laurea: fuggì perché la città era diventata invivibile. A Padova vigeva un vero clima di terrore e Guardalupo ne tinteggia un quadro acutissimo. La gente si sfuggiva, si chiudeva in un cupo mutismo, ognuno doveva stare attento a chi dare confidenza, a chi poteva rivolgere la parola, perché anche sopra la più innocente chiacchierata con uno sconosciuto erano montate terribili accuse di complicità con i ribelli. La paura di essere denunciati da una spia, il divampare dei reciproci sospetti, portavano a negare ogni minimo senso di solidarietà. Ognuno pensava solo per sé, i cittadini s’ingannavano a vicenda e si erano abituati a vivere in una meschina ipocrisia. Alcuni si rifugiavano nella vita monastica solo per non suicidarsi dalla disperazione. Fuggire era praticamente impossibile: la città era circondata da altissimi bastioni e sopra questi c’erano ovunque delle guardie. Nessuno poteva entrare o uscire liberamente dalle mura, e se qualcuno si azzardava a tentare la fuga gli veniva mozzato un piede. Non era accettata nessuna scusa per abbandonare la città. Egli stesso, che pure era teologo, dovette ricorrere al lasciapassare del vescovo in persona.

"Chi era là il podestà?" chiedo.

"Quel maledetto lupo di Ansedisio! Era una bestia ringhiosa e famelica. Anche a gettarlo nel rogo e consumarlo interamente era in grado di rinascere più famelico di prima, capace di inghiottire il corpo di un re con tanto di corona addosso. Sciagura, sciagura! La sua era pura follia omicida, inferociva sui sospetti, sui semplici indiziati, su chiunque gli desse il minimo fastidio. S’era circondato di guardie del corpo, di sgherri infami e di uno stuolo di spie. Federico II in persona l’aveva investito e addirittura nominato vicario generale".

"Questo non meraviglia affatto".

"Con malizia, rabbia, furore e veleno, mortale veleno, io ho visto sterminare intere famiglie. Chi fra i nobili non aveva un parente esiliato o costretto alla macchia? Insigni famiglie padovane divise, ridotte sul lastrico, i loro palazzi rasi al suolo, i beni confiscati. Quanti furono obbligati a soffocare la rabbia e la disperazione per i propri cari condannati alla forca, piegandosi all’umiliazione di accettare come giustizia quelle turpi angherie?".

"Da come ne parli sembra che abbia sterminato l’intera città".

"I morti, i torturati, i mutilati si contavano a centinaia. Non finiva mai la schiera degli avvolti come d’uso nella cappa nera".

"La cappa nera?" interviene Batocchio soffocando un rutto in gola.

"La veste prescritta per calcare il patibolo della decapitazione. Imbacuccati nella cappa i nobili non lasciavano riconoscere il volto finché la testa non rotolava sanguinante in terra e, raccolta per i capelli, il boia la mostrava al pubblico. Credimi, alle spalle di Ansedisio c’era l’anticristo in persona...".

"Intendi lo scomunicato Federico II?"

"Peggio! L’anima dannata di Ezzelino".

All’improvviso, si odono delle grida all’esterno.

"Sciagura, sciagura!" fa eco il Padovano.

Batocchio si tocca le palle e si alza spazientito. Ne approfitto per montare rapido sulle sue spalle e guardare dalle inferriate della finestrella: in lontananza nella via movimenti di soldatesche, sono i Mantovani di Leonisio di Sambonifacio.

"Padova era divenuta tristemente nota come la Città dei Mutilati - continua Guardalupo -. Per un nonnulla Ansedisio mutilava di persona una mano o un piede o il naso. Voleva sempre conoscere i nomi dei complici, ma v’era chi pur di non denunciare i compagni si staccava la lingua con i propri denti. Al corso di Teologia noi si viveva in uno splendido isolamento, non uscivamo dal nostro quartiere ma ci arrivavano di volta in volta le terribili notizie diffuse dalla parte Estense: alle bambine impuberi estirpate le ovaie, alle donne strappati occhi e mammelle, e così straziate sono state viste mentre le trascinavano per la città. Si parlava di molti condannati legati ad una ruota e le loro ossa ridotte in poltiglia a forza di bastonate, e poi innalzati a monito sulla pertica. I ribelli scovati fatti a pezzi dagli sgherri e le membra disarticolate infilzate sulle spade e arse nel cortile del palazzo comunale".

"E’ agghiacciante. Ansedisio non andava certo per il sottile" con voce filiforme.

"Le tetre prigioni di Padova si riempirono presto, straripavano di carcerati. Ogni giorno erano estratti a carrettate decine di corpi in necrosi, li seppellivano alla svelta nelle fosse comuni ma nottetempo erano dissotterrati e divorati da frotte di lupi. Ansedisio dovette costruire delle nuove prigioni: le famigerate Malte. Ricavate dal girone delle mura di cinta di Cittadella, le Malte erano più orribili del Tartaro. Colme fino all’inverosimile, i dannati che vi finivano dentro non conoscevano riposo per via della calca, non riuscivano né a coricarsi in terra né a sedersi. Spesso non c’era cibo per tutti e dovevano lottare fra loro per appropriarsi di un pezzetto di pane. Dentro c’era un tanfo irrespirabile, i cadaveri non venivano nemmeno allontanati, imputridivano e galleggiavano negli escrementi che da mesi nessuno portava via".

Rimango ammutolito e turbato. Egli conclude commosso ricordando quando due anni fa era in marcia per ristabilirsi nella città natale dopo che il Legato pontificio aveva guidato gli Estensi alla liberazione di Padova. Guardalupo non era mai stato così felice in vita sua, entusiasta, raggiante, voleva andare a mischiarsi ai vincitori per festeggiare. Per strada incrociò uno spettacolo terrificante che lo sconvolse, togliendogli per sempre ogni desiderio di ritornare. Lo sdegno e la rabbia furono sopraffatti dallo stupore e quella visione rimase scolpita nella sua memoria, incubo atroce, e ogni volta che ripensa alla sua città li rivede... loro... no non poteva più restare. Da Cittadella i liberati dalle Malte erano diretti a Padova in processione: sul ponte si affacciò un crocifisso scuro e dietro a quello dei volti che portavano impresse tutte le possibili sofferenze, tutto il male di cui potesse farsi carico un’umanità piegata, umiliata, straziata senza remissione. Più di trecento di loro ridotti a fiere selvagge, annientati nel lume della ragione, abbruttiti dalla fame, dai patimenti. Miseri esseri umani accecati, storpiati, col labbro superiore strappato, mutilati delle due mani, del naso, delle orecchie. Laceri e scalzi avanzavano, addosso l’odore di morte assorbito dai cadaveri coi quali nel buio della cella erano giaciuti. Da quel giorno Guardalupo lavora alla Biblioteca di Brescia e nella sua città non ha più rimesso piede.

Sento un peso sullo stomaco e mi gira la testa come se il cervello stesse evaporando, impressionato batto i pugni contro il muro e mi lamento a voce alta: "Azzo degli Ugoni, ora tu sai che filo passa sotto l’ordito".

Guardalupo allunga il dito indice: "Tu degli Ugoni? Potevi dirlo subito, dunque sei parente di quel Rettore che morì avvelenato a Padova?".

"Cosa? Sì, mio zio morì a Padova, ma non è mica stato avvelenato. Tu di chi stai parlando?"

"Di Obizo, Obizo degli Ugoni".

"Ma ne sei sicuro? Come conosci queste cose?"

"E’ notizia certa confidatami dagli Estensi. Negli annali della Biblioteca ho compilato nome, data di nascita e causa di morte, di tutti i Rettori bresciani della Lega".

I carcerieri ci dividono per assegnarci a due diversi gruppi, i nobili vengono portati avanti ed i popolani relegati nel fondo, come quando dentro l’alambicco il liquido volatile viene allontanato dalla feccia che si depone sul fondo. Altre grida si succedono all’esterno, gli scontri e i duelli si protraggono fino a notte tarda allorché il podestà Griffo de’ Griffi entra prigioniero nella stalla. Poco dopo riesco finalmente a prendere sonno steso sulla paglia. Al risveglio filtrano le prime luci del giorno, tra nubi nerastre brilla uno squarcio di cielo e si accende di rosso: in quel colore carico e intenso c’è un qualcosa di umano, il sangue che sgorga da una ferita dolorosa, antica, che separa il cielo dalla terra.

 


CONTINUAZIONE PRIMO CAPITOLO; clicca qui!


* * * *