La strada Romea


Questo volume avrebbe potuto agevolmente intitolarsi " Le pievi del parmense fino a Berceto ", oppure ancora "Il romanico nel parmense, prima parte ", ma sarebbe stato un taglio ingannevole ed un titolo mistificatore; la catalogazione delle pievi, quelle che vediamo descritte nella seconda sezione da Mario Calidoni, è semplicemente una parte di un sistema più ampio che dobbiamo cercare di intendere nei suoi valori, caratteri e implicazioni. Ma di quale sistema si tratta e perché dunque questo preambolo? Il lettore deve rendersi conto, non può fare a meno di rendersi conto che, in età medievale, e anche più di quanto concerna i documenti, la falcidie del tempo ha infierito in maniera pesante sugli edifici non sacrali, sui castelli, sulle case rurali, sui ponti, sugli ospizi, su tutto ciò insomma che formava la struttura del paesaggio umanizzato, ed ha naturalmente infierito anche sui modelli di cultura, sulle dimensioni degli spazi coltivati nelle varie età, sul rapporto tra questi e le foreste, sulle essenze di queste e sulle forme di quelli. Il compito dello storico dunque è doppiamente complesso, doppiamente difficile; si trova davanti ad una serie di " monumenti ", di edifici eponimi, felicemente conservati per ovvie ragioni cultuali, ma che sono come la punta sporgente di una perenta montagna; tutto il resto, tutto quanto formava il tessuto del sistema è invece scomparso, o, almeno, va ricostruito pezzo a pezzo da sparsi indizi, da frammentari riferimenti, da parole a volte ambigue nei documenti, da tracce archeologiche ora e sempre più delete dalle intemperie e dalle fruizioni ulteriori degli uomini. E' il caso dei castelli, delle fortificazioni e dei ponti, ma anche degli ostelli e delle dimore rurali dove l'edilizia sostitutiva non ha naturalmente mancato di cancellare ogni traccia o quasi ogni traccia atta a determinare basi corrette per qualsiasi discorso tipologico, non si dice naturalmente analitico, di un singolo monumento.

Ma questo libro, a maggior ragione, sì intitola invece "La strada Romea ", un nome che è carico di sensi storici; e, ancora, avrebbe potuto intitolarsi " La strada di Monte Bardone ", oppure cc La strada Francigena ", a seconda che avessimo preferito porre l'accento sull'origine più probabile della via o invece sulla sua lontana partenza oltralpe. Torneremo su questo punto ma, fin da ora, vogliamo analizzare il tema nelle sue linee generali.

Monte Bardone, oppure le Alpes, e cioè gli Appennini come erano detti già in età longobarda e quindi oltre per tutto l'alto medioevo e per tutto il secolo XIII ma anche molto dopo, sono terminologia consueta nei documenti medievali; non indicano, essi, un luogo particolare, come a volte si mostra di credere, ma l'intero sistema montuoso che divide la fertile pianura padana dalla Toscana e dalla media Italia. Una delle più plausibili ipotesi nella successione dei vari nomi degli Appennini si lega al succedersi delle culture in questa zona e varrà forse la pena di avanzarla qui; Alpes dunque appare essere il termine primitivo latino generico per "montagne " attribuito quindi alla maggior catena che limita ad arco la piana padana. Ma perché dunque Monte Bardone? Le etimologie (1) proposte sono controverse e, come vedremo in nota, spesso elidentisi l'una con l'altra, eppure una motivazione comune esse presentano, sia che si faccia derivare il toponimo da Bardi (val di Ceno), l'insediamento in val di Taro, oppure da Bardone stesso, l'insediamento nella valle dello Sporzana; ma di quando sono, poi, a quando risalgono questi insediamenti, o, meglio, a quando si deve collegare il loro sviluppo che in seguito ha dato il nome al monte? Oppure, ed ancora, il nome stesso deriva da Bard, un termine germanico, e da quello cala ovviamente sui singoli toponimi? Le due linee interpretative possono forse essere conciliate restituendo alla zona specifica che veniamo esaminando le ragioni storiche, come potremmo dire, inserendola cioè non in una geografia astratta ma in una geografia legata alle vicende della regione.

E così proprio qui, nel punto focale e di frizione tra bizantini e longobardi, ai confini con la bizantina provincia della Maritima (2), che di fatto coincide con parte della moderna Liguria e che i longobardi conquistano nel 644 con Rotari (636-652), presso insediamenti bizantini immediatamente sotto il monte in questione, come Filattiera che significa presidio (3), si giocava un complesso rapporto politico tra le due contrapposte entità, quella centrata su Pavia, il " regno " longobardo, e l'impero bizantino che aveva come capisaldi a ovest della penisola appunto la Maritima ed a est naturalmente Ravenna, la Romagna attuale, la striscia fino a Grado della costa e, verso sud, la Pentapoli. Il monte insomma, le Alpes, erano anche politicamente il monte dei Tongobardi, come attestano toponimi numerosi oltre a quelli ricordati, e quindi sono queste presenze, e la costruzione di una vera e propria strada attrezzata, come vedremo, già organizzata all'età di Liutprando che deve avere determinata l'origine di una denominazione che poi ha avuto larga fortuna per l'intero medioevo restandoci attestata in singoli toponimi (Bardi, Bardone); dunque: mons Langobardorum, potrebbe dirsi.

Ma è, questo, semplicemente il secondo momento di una vicenda complessa sulla quale torneremo ancora più volte analizzando i temi della viabilità e quelli collegati della politica, per adesso invece limitiamoci a stabilire, a tentare di stabilire, le motivazioni dell'ulteriore denominazione, strada Francigena (4), che abbiamo sopra indicato.

Anche qui una sequenza di documenti notevole, particolarmente diffusa nel XII secolo (5), sembra indicarci una soluzione ovvia; via che origina dalla Francia, naturalmente. Ma sarebbe, una lettura del genere, quanto meno incompleta ed impropria; incompleta perché non si riferisce con esattezza a tutto il raggio delle strade che afferiscono a questo punto nodale della strada stessa, impropria perché non intende il senso storico della espressione e la collega non a "Franchi", come si conviene, ma a Francia, come è manifestamente errato. Francia, come del resto suggerisce Sestan in un noto splendido volume (6) si lega a un concetto di nazione che va distinto dall'attestata denominazione; e, dunque i Franchi non sono semplicemente i merovingi o i carolingi di Francia ma anche i Carolingi di Germania; insomma il problema è di storicizzare il termine e di intendere che la strada Francigena originava appunto sia dalla Francia odierna che dall'area Germanica e da quella che, nella partizione ben nota dell'impero di Carlo, fu chiamata Lotaringia, l'asse renano fino agli odierni Paesi Bassi e parte del Belgio. Dunque questo stesso toponimo suggerisce che la strada non fosse semplicemente una strada di collegamento occidente-Roma, ma anche Europa mediana-centro e meridione d'Italia, e il chiarimento evidentemente non può che dare la misura dell'importanza a livello europeo della strada medesima. Ma il nome indica, oltreché l'età delle sue prime attestazioni, una funzione della via ben precisa, la fruizione appunto dai " Franchi " in generale, e, dunque, attesta ancora una volta che la strada dei longobardi adesso diventa la strada carolingia. E' un punto importante, questo, da fissare stante invece l'oscurità, e la complessità dei problemi che riguardano la viabilità precedente nella medesima area, quella cioè che va dal tempo dei Liguri a quello dei Romani.

Il terzo nome, quello che abbiamo scelto per dare il titolo a questo volume, è strada Romea (7), e conviene soffermarsi un momento ad analizzarlo. In primo luogo esso ovviamente indica la destinazione della strada stessa, Roma appunto, la sede di un pellegrinaggio europeo di grandissimo momento, quello alle reliquie dei Santi Pietro e Paolo, ma suggerisce anche molto altro rispetto proprio alle antecedenti denominazioni della strada stessa. Il tema, che torneremo ad affrontare attraverso le parole dei cronisti del XII e XIII secolo, attraverso la Clianson de Geste, a volte ancora alternato con quello arcaico di Monte Bardone ed all'altro già discusso, via Francigena, il tema è quello dei pellegrinaggi europei (8).

Nella cultura medievale, soprattutto a partire dal secolo XI e sempre più dal XII ed oltre, una serie di luoghi, che sono nello stesso tempo grandi punti di incontro di cultura, di scambio, di traffici, diventano meta di pellegrinaggio; l'intera carta occidentale si innerva di strade, che a volte non coincidono più con quelle romane, altre invece le recuperano e le riattrezzano nel senso che indicheremo, e di luoghi a queste collegate. Nella " rinascita" insomma del secolo XI e del XII, nel sorgere di nuovi fatti economici, di nuovi e diversi rapporti all'interno del sistema civile il problema delle comunicazioni non va disgiunto da quello dei pellegrinaggi e le grandi mete di questi, in Francia, in Spagna, in Italia sono i punti di riferimento per ogni corretto discorso che voglia intendere l'universo medievale. Così dunque Compostela da un lato, dall'altro il San Michele sul Gargano, Mont San Michel e La Madeleine di Vézelay o ancora Bari col San Nicola e Roma sono, nel medesimo tempo, punti focali della risorgente cultura dello scambio e luoghi santi. Ora la nuova denominazione della strada che veniamo esaminando appare acquistare ancora una volta una dimensione occidentale, ma in un'ottica diversa, l'ottica appunto della peregrinatio, che è una peregrinatio simbolica. Il pellegrino è colui che viaggia in terra esule dall'orto del Signore, ma è anche colui che espia una colpa: ed ecco il viaggio penitenziale. Ma le strade del pellegrinaggio sono però anche strumento per attraversare l'intera, frazionata Europa occidentale fruendo di quelle indulgenze, di quelle esenzioni da pedaggi, tasse e carichi che altrimenti avrebbero reso tanto più difficile e periglioso il percorso del commerciante, dell'ecclesiastico, del nobile, del principe. Così, quindi, è l'ultimo nome, quello di Romea, che abbiamo scelto, il nome che più chiaramente esprime il significato totalizzante di una strada.

Ma, ecco un altro problema, via oppure strata? Evidentemente i due termini, nel medio e basso latino, non permettono agevoli distinzioni, che pure dovettero esservi, almeno in un primo tempo (9); comunque sia non sarà un caso che si parli di via francigena e di strada Romea. Il problema, a questo punto, è quello dell'immagine che dobbiamo cercare di restituire di questo asse di comunicazione, un'immagine che naturalmente non è facilmente documentabile, persisi come si sono persi tutti i documenti archeologici e carenti almeno finora scavi, non si dice sistematici, ma quanto-meno d'assaggio su quel percorso. D'altro canto chi, oggi, quasi assente ogni e qualsiasi tentativo di una archeologia medievale (10) organizzato a livello nazionale, chi oggi proporrebbe un'indagine non su un monumento, naturalmente una chiesa, e sposterebbe la propria attenzione sulla individuazione, non si dice del percorso, ma del fisico carattere di una strada? Comunque sia possiamo suggerire, per l'età longobarda e per quella franca, alcune indicazioni non irragionevoli, e avanzare l'ipotesi che quella prima strada fosse evidentemente non lastricata, non essendovi possibilità 4i considerarla una strada consolare romana, ma semplicemente una strada usata in età romana; del resto la distinzione tra Strata e Via, come appare per esempio in Isidoro da Siviglia (li>, sembra significativa nel senso che a noi pare di potere indicare. E dunque non era, la via longobarda di monte Bardone, una via provvista di pavimentazione. ma era, come vedremo, una via egualmente attrezzata, secondo una strutturazione che venne assunta e potenziata in età franca.

Il problema della strada romea (strata appunto) implica probabilmente una almeno parziale sistemazione del fondo della via medesima, implica opere più evidenti di contraffortatura, delimitazione e pavimentazione almeno parziale, ed infatti in poche aree dove si è potuto evidenziare il percorso della via sono affiorate tracce di tale impianto: nella zona di Bardone per esempio, di Cassio, di Berceto (12). Si può dunque motivatamente pensare che la ragione del mutato termine sia da addebitarsi in parte ad una differente strutturazione del manufatto. Altri elementi, e molto più cospicui dal punto di vista archeologico, soprattutto la presenza di ospizi, di luoghi cioè per il cambio degli animali, per l'alimentazione e il riposo del pellegrino, confermano, assieme alle modifiche subite anche dagli edifici religiosi, che la strada era divenuta un luogo di incrocio di traffici importantissimo e che, per necessità, aveva ottenuto un sostanziale miglioramento del proprio fondo anche se, si deve ribadirlo, la pavimentazione non deve essere intesa come a lastroni per tutto il percorso (e del resto lo si controlla agevolmente nelle linee di questo meglio individuate), ma semplicemente come una sistemazione noi diremmo del fondo, mescolando sassi e pietre alla terra spostata onde impedire che nei mesi invernali le difficoltà del percorso e i pericoli, già comunque notevoli, sia per gli animali che per gli uomini, diventassero eccessivi. Ma dove passava dunque, questa strada? E si intende, a questo punto, non tanto discuterne il percorso, di cui più oltre diremo, ma tentare di ricostruire quelli che lo storico avrebbe chiamati i paesaggi agrari della nostra regione. Che cosa vedevano insomma i pellegrini che, venendo dai passi delle Alpi, dal paese dei Franchi occidentali scendevano giù ad Aosta e poi per la pianura fino a Piacenza, oppure dalla Germania, la zona orientale, si è detto, dell'impero carolingio, attraverso le città allo sbocco delle vallate come Como scendevano a Milano e da qui a Piacenza per infilarsi in quella specie di imbuto di traffico che conduceva, dopo Borgo San Donnino, Fidenza d'oggi, al passo di Monte Bardone?

Dobbiamo evidentemente fare a questo punto tutta una serie di distinzioni cronologiche e cercare di risalire alquanto più indietro, all'età romana, per intendere le trasformazioni del paesaggio nella nostra zona.

La sistemazione della campagna attorno alla città e sui due lati della via Emilia, l'asse principale delle comunicazioni della pianura padana, e che attraverso Bologna e Rimini poneva in comunicazione quindi il nord col sud dell'Italia, rivela ancora evidenti tracce di centuriazione, cioè di suddivisione dell'ager in sezioni eguali destinate appunto ai coloni militari delle colonie e quindi proseguita, come divisione, fino all'età medievale (13). Solo la acrofotogrammetria potrebbe dirci con certezza per tutto il territorio mediopadano se quella centuriazione sia stata reimpiegata nel medioevo, poniamo nei secoli XI e XII, secondo un sistema di tripartizione del campo in strisce uguali che ha grande diffusione in Gallia, ed è molto evidente spesso ancor oggi in certe aree di quel paese e testimonia un singolare modo di lavoro del medioevo, appunto la coltivazione di due strisce di terra soltanto con una terza lasciata a riposo. Abbiamo, ma l'analisi di cui si diceva potrà in prosieguo rivelare l'ampiezza e i limiti di questa ipotesi, varie indicazioni e tracce di questa strutturazione dell'agro. Sappiamo comunque che la dislocazione delle famiglie romane dei coloni subì, dall'età repubblicana a quella imperiale, una profonda trasformazione nella nostra zona; sappiamo che la concentrazione delle proprietà, avvenuta soprattutto nel I secolo della nostra era, favorì e incrementò il costituirsi del latifondo, incentrato su delle villae, che trasformarono profondamente il paesaggio rurale della pianura; ma che cosa possiamo dire di quello della collina e della montagna? Le ricerche del Corradi Cervi relative alla identificazione di municipi ignoti pliniani (14) hanno permesso oltreché di confermare Forum Novanorum (Fornovo) anche di identificare, sembra plausibilmente, Forum druentinorum, almeno nel ricordo del toponimo, con Trevuntitim (Truventium), cioè Terenzo situato nelle valli dello Sporzana e del Baganza, tra la Colonia Parmensis a nord ed est e il municipio appunto di Forum Novanoruin ad ovest; oltre l'Appennino (Alpes) avevamo poi Luni, colonia romana dal 177 a.C. (15). Il problema a questo punto è di intendere il rapporto tra questi municipi e la eventuale via Clodia, ma preferiamo tralasciare qui l'argomento, su cui restano i contributi importanti dell'Andreotti (16). Analizziamo quindi i paesaggi agrari supponendo semplicemente, per ora, che una strada romana non consolare percorresse l'intera area, in parte ricalcando magari, come pure è stato autorevolmente suggerito, antichi itinerari liguri (17).

La costituzione del latifondo, assente una proprietà frazionata se non a livelli marginali, è quello che caratterizza, in età tardoimperiale, tutta questa sezione della nostra montagna, e ammesso che la dizione della tavola veleiate, di età traianea come sappiamo, " saltus praediaque Berusetis " possa alludere, come non appare improbabile, a Berceto, abbiamo implicitamente un'immagine di quello che era il dominante paesaggio boschivo di questa zona. Boschi di querce, di castagni, boschi con un rado sottobosco, boschi perigliosi, vuoi per gli animali selvatici (lupi per esempio, attestati a lungo fino all'età basso medievale) e, come già si accennava, per le presenze di predatori, cresciuti soprattutto alla caduta dell'impero e nel periodo attorno al X e XI secolo. Furono forse anche queste le ragioni che determinarono i re longobardi ad attrezzare quello che, per loro, era un asse di comunicazione tra nord e sud Italia non secondario come in età romana, ma un asse veramente principale. I romani infatti potevano comunicare attraverso l'Appennino per numerosi valichi e ammesso che la identificazione della via Clodia sia quella suggerita dall'Andreotti (18), e cioè la strada da Parma a Lucca, essa dovette rimanere in quell'epoca una strada marginale rispetto alle altre di attraversamento appenninico site molto più a sud e soprattutto irraggiantesi da Bononia, oltreché naturalmente rispetto alle litoranee, molto più agevoli e sicure, come quella da Ariminum e l'altra dalla Provincia (la Provenza) per Genova, Luni, Roma, appunto l'Aurelia.

Boschi dunque, e fitti, ma boschi sicuri in un primo tempo, eliminati i pericoli dei Liguri con la decisione consueta dei romani che non esitarono, come sappiamo dalle ricerche del Susini (19) a deportare intere stirpi di quelle popolazioni per liberare il nodo delle montagne tra nord e centro Italia.

Il problema del paesaggio in età tardoantica e al tempo del regno ostrogoto - ripeto - caratterizzato dall'organizzazione del latifondo, spesso coincidente con l'area del municipium, non può essere lo stesso dopo l'invasione dei Longobardi (569) la quale, come ormai tutti gli storici dell'economia ritengono in maniera concorde (20), determinò un notevole mutamento nel sistema della cultura settentrionale e implicò profondi rivolgimenti sociali. L'invasione, certamente violenta, anche se comprendeva, come sembra, poco più di duecentomila persone con forse non più di 20.000 combattenti, fu sufficiente a spezzare le resistenze dei bizantini nella pianura padana salvo il mantenimento di una serie di piazzeforti da Padova a Monselice a Cremona (21) che caddero solo in un secondo tempo in mano ai conquistatori. Questi, in generale, si stanziarono sui terreni pubblici oppure dei grandi monasteri e della ecclesia, e sui latifondi, lasciando probabilmente impregiudicato il sistema della eventuale piccola proprietà, ma distruggendo appunto il tessuto generale del sistema economico romano, che sempre più si fondava, in Italia, sugli scambi a lunga distanza e sulla funzione fondamentale dei porti, e trasformarono così, nel giro di qualche decennio, un'economia appunto internazionale in una economia di scambi locali. In Italia insomma il medioevo ", inizia in età longobarda e non oltre questa. La tesi del Pirenne dunque, che lega la crisi dell'Europa occidentale, la fine del mondo antico, all'invasione araba, alla presa del potere degli arabi appunto sul mare ed alla correlata sconfitta delle flotte bizantine nel secolo VIII, non trova ormai più consensi tra gli studiosi dell'economia per quanto concerne certamente l'Italia (22) ma anche e probabilmente per la Francia e solo mantiene la sua validità per la Spagna, pur con numerose limitazioni e riserve che qui non sembra luogo discutere. Certo è che di colpo, possedendo i bizantini nel breve arco di qualche decennio non più l'intero territorio italiano fino alle A4pi, ma soltanto l'area della Maritima, e cioè grosso modo la Liguria con varie stazioni nella Lunigiana, l'esarcato con per centro naturalmente Ravenna ed il porto di Classe, la Pentapoli, parte della Tuscia, la valle del Tevere e le ben note zone nel meridione, l'intera situazione politica della penisola venne a mutare e, con la ricordata perdita dei porti, si ebbe una trasformazione totale dell'economia nelle aree longobarde.

E' questo fatto che deve essere toccato con mano, si potrebbe dire, dallo studioso moderno, è questo fatto che deve essere valutato. Fine dunque de l'importazione di oggetti di lusso dall'oriente, fine soprattutto della importazione dei grani, del vino anche dalle altre zone dell'impero e, nel secondo caso, dalla Gallia, fine soprattutto di una economia monetaria di scambio che solo più avanti verrà, dai medesimi re longobardi, restaurata. Il problema è dunque di stabilire quale fosse il paesaggio agrario in questi anni.

Non si deve ritenere che l'occupazione longobarda significasse, soprattutto agli inizi, un inserimento di coloni sparsi o famiglie sparse nel contado; nel sistema politico parmense i gruppi longobardi si dovettero insediare prima di tutto nel contesto cittadino, in un'area ben determinata della città quadrata romana o della città rettangolare supposta teodoriciana (23), e quindi dovettero inserirsi progressivamente nel sistema della strada che da Parma appunto recava all'Appennino ed oltre, nella Tuscia longobarda e nella direzione della Lucca longobarda.

La situazione politica generale, assai complessa e varia nei circa 150 anni che vanno dalla entrata dei longobardi in Italia (569) alla fondazione del monastero di Berceto per volere di Liutprando e per mano di Moderanno, potrebbe essere riassunta nei suoi termini generali, ma non abbiamo sufficienti documenti per costruite una narrazione direttamente collegata all'area che ci interessa; abbiamo però alcuni indizi dai quali costruire una serie di ipotesi ed alcuni documenti relativi alla fondazione bercetese su cui far leva. Dunque l'impatto dell'invasione longobarda condusse, nell'arco di tempo che va dall'ingresso in Italia dei germanici fino a Rotari (636-652), ad un progressivo abbandono da parte dei bizantini delle loro posizioni prima nella pianura poi sulle coste della Liguria (24); il crinale appenninico restò per decenni il puntò di frizione tra le diverse sfere di influenza ma non si può dire che costantemente vi sia stata lotta armata tra le due parti; anzi proprio il passo di Monte Bardone (Mons Langobardorum), che probabilmente prese allora quel nome, come si è accennato all'inizio, per la tutela che esercitavano sopra di esso i longobardi, fu il canale attraverso il quale si inserivano i traffici bizantini che, invece di compiere il periplo della penisola per collegare la sede dell'Esarcato, Ravenna, con l'area della Maritima, risalivano invece la Romagna e quindi, per la via Emilia ormai in mano ai Longobardi salivano la strada fino agli Appennini ed andavano attraverso il passo stesso al mare. D'altro canto i longobardi, minacciati dagli stessi bizantini della Maritima, avevano tutto l'interesse a conservare libera da eventuali scorrerie, attacchi o conflitti la strada di comunicazione per la Tuscia o per Lucca stessa, sede di ducato. Dunque da un lato si incrociavano qui, in questo periodo tra 605 circa e 644 le strade da Ravenna alla Maritima, dall'altra quelle che da Pavia e dalle Alpes in genere scendevano alla Tuscia, a Lucca ed ai ducati dell'Italia centrale di Spoleto e di IBenevento più a sud. La situazione evidentemente dovette mutare nel tempo se ancora si individuano resti di toponimi bizantini nella zona oltre l'Appennino e in quella al cli qua del crinale, per esempio nell'alta valle del Taro e nella zona bobbiense (25). Pure, agli inizi del secolo VIII, quando Liutprando completa le conquiste del territorio bizantino (26) si dovette avere, ad opera del sovrano longobardo, una generale ristrutturazione della via stessa, non naturalmente nel suo percorso, ma nei servizi che questo percorso era in grado di offrire. Una strada longobarda non era certamente attrezzata come una strada romana, e dunque con cambi di cavalli, ostelli per agevolare e rendere facili le comunicazioni, soprattutto perché la strada di Monte Bardone, rispetto ad una strada romana consolare, doveva apparire poco più di una carrareccia, ma esistono elementi per supporre che Desiderio abbia cercato comunque di fissare alcuni punti fermi sulla via, alcuni ospizi in particolare che rendessero il passaggio dei monti più agevole.

Sappiamo che nei primi decenni del secolo VIII erano in funzione a Lucca degli ostelli (27), dei luoghi per pellegrini, dunque; il fatto che vi fossero tanti ostelli individua Lucca come tappa obbligata di sosta, dopo il passaggio appenninico, prima di riprendere il cammino vuoi verso l'interno e Spoleto, vuoi più verso il mare, seguendo forse la linea della antica Aurelia che portava a Roma. Scrive di Liutprando (morto nel 744) Paolo Diacono ancora nell'VIII secolo (28):

"Fuit autem vir multae sapientiae, consilio sagax, pius adrnodum et pacis amator, belli praepotens, delinquentibus elemens, castus, pudicus, orator pervigil, elemosinis largus.. litterarum quidem ignarus, sed philosophis aequandus, nutritor gentis, le gum augmentator". Un'immagine chiaramente post-svetoniana (le vite dei dodici Cesari) dove la pietas, la pudicitia, la fides si uniscono alla lode per le conquiste belliche, a quella della giustizia caratteristica del modello mitico del buon principe, del clemens imperator; certamente non era un dotto, ammette Paolo, ma era religioso, devoto, saggio (ecco il senso della espressione sed philosophis aequandus); ma come si dimostra la sua saggezza?

Se andiamo a leggerci l'epitaffio sulla sua tomba, che non è (Waitz) in Sant'Adriano martire come dice Paolo Diacono ma in San Pietro in Ciel d'Oro a Pavia (29), all'origine posta su quattro colonne all'ingresso della confessione ed ora terragna davanti all'altare, troviamo una prima spiegazione l'epitaffio (30) ricorda le vittorie del re, da Sutri a Bologna a Rimini, ricorda l'aiuto portato contro i saraceni a Carlo Martello, quindi passa a elencare i meriti diremmo oggi civili del suo regno e suona:

"Rege sub hoc fulsit, quod mirum est, sancta

[frequensque

Relligio, ut recolunt Alpes, ecclesia quarum

Hanc habuit vincente ipso et praegrandia templa,

quae vivens struxit, quibus et famosus in orbe

Semper et aeternus lustrabit saecula cuncta,

Praecipue Petro coelesti hac sede dicata

Clavigero, statuit Coelo quam providus Aureo ".

Si tratta dunque dell'edificazione di chiese e di due in particolare, una è appunto il San Pietro in Ciel d'Oro nella capitale del regno e dove sono deposte le spoglie, l'altra, pure essa notevole si deve indurre dal contesto, si trova sulle Alpes. Si è già detto agli inizi che il termine apparentemente generico per Appennini nel nostro caso appare non confondibile in quanto deve a sua volta essere collegato ad un passo importantissimo di Paolo Diacono, sempre dunque della sua Historia Langobardorum (31):

Hic (scii. a Pavia) gloriosissimus rex ubi degere solebat basilicas construxit. Hic monasterium beati Petri, quod foras muros Ticinensis civitatis situm et Coelum Aureum appellatur, instituit. In summa quoque Bardonis Alpe monasterium quod Bercetum dicitur aedificavit ". Il testo prosegue ricordando un monastero "in Olonna" dedicato a Sant'Anastasio, ma il punto focale del discorso di Paolo Diacono è quello riferito al monastero di Monte Bardone. Si dice qui che Liutprando "aedificavit " il monastero ma altre notizie di una precedente consacrazione non permettono di prendere alla lettera tale espressione.

Più avanti discutendo del problema specificamente bercetese torneremo su questo argomento, ma avvertiamo fin da ora che doveva esistere certamente, prima della ricostruzione di Liutprando, una chiesa a Berceto dedicata a Sant'Abbondio e, come del resto individua col Waitz la critica più avvertita (32), dovette trattarsi non di una fondazione ma di una rifondazione assai più ampia di un edificio preesistente; né potrebbe del resto pensarsi altrimenti quando vediamo Moderanno passare da Berceto ed appunto soffermarsi presso la stessa chiesa dedicata al martire ucciso a Spoleto. Può essere utile adesso, per intendere la politica generale. del re longobardo nel secolo VIII, citare l'epigrafe frammentaria di Leodgar al San Giorgio di Filattiera per esteso (34); l'autore, probabilmente un corepiscopo missionario come è stato ipotizzato (35), morto nel 752, quarto anno del regno di Astolfo, dunque "Benedicti almifici fundavit dochium aula ", e cioè costruisce lo xenodochio di Montelungo, citato anche in un diploma di re Adelchi dell'11 novembre 772 come situato " in loco qui dicitur monte (lungo) ", con annessa chiesa (aula). Una chiesa più piccola, "auleolam " appunto, dedicata a San Martino, viene costruita dal medesimo personag gio e la località può essere identificata, secondo il Formentini, con la chiesa del castello di Mulazzo, chiesa legata alla regia abbazia longobarda di Leno nel bresciano. Se a questi fatti sommiamo l'unico reperto superstite a Berceto del tardo sec VIII la frammentaria lastra di recinzione presbiteriale con i due pavoni, confrontabile, ma con lingua assai meno aulica, con pezzi bobbiensi ma soprattutto di area veronese, possiamo quanto meno renderci conto, attraverso una serie di fonti contemporanee, che l'intera strada, che era ormai longobarda, era stata completamente riattrezzata con ospizi e chiese soprattutto attraverso la rifondazione di un'abbazia, quella bercetese, che comprendeva certamente un sistema complesso di fabbriche amministrative e in genere funzionali. Certo vi era anche un chiostro, sebbene sia probabile che quello attestatoci in età tardomedievale e sito sul luogo dell'orto odierno affiancato alla chiesa, sia già opera più avanzata, dell'epoca del generale rifacimento romanico. I longobardi insomma costruirono nel secolo VIII un sistema di edifici relati e funzionali sulla strada, dei quali non sussiste più traccia, come non sussiste traccia del loro insediamento nella zona, peraltro certo, se non nei pochi superstiti toponimi (Bardi, Bardone, fra gli altri, come si è detto).

Ma quale era, conviene tornare a chiedersi, il paesaggio agrario in età longobarda, e quale era, in relazione a questo paesaggio, il rapporto con la città, perché, infatti, la città non può essere disgiunta dal contesto della nostra analisi. Sarebbe metodologicamente inaccettabile parlare di un territorio, di un " agro " senza la città proprio perché questa in Italia, diversamente da quanto accade nel resto del mondo occidentale, non " muore " neppure all'epoca della conquista longobarda. Le testimonianze di ciò sono numerose e trovano larga conferma negli studi più avvertiti, da quelli della Fasoli (36) a quelli più strettamente legati all'analisi dell'economia (37). Nel nostro caso, dobbiamo tener presente che il punto di riferimento dell'analisi resta Parma, piuttosto che Piacenza, e dove evidentemente si concentravano le Arimannie, il potere dunque dei guerrieri-amministratori, dei duchi longobardi nella nostra area (38).

Ecco quindi un primo punto per intendere il paesaggio agrario, esso era un paesaggio correlato alla città; non abbiamo quindi le mitiche, totali distruzioni, la fine della città antica, non abbiamo le mura dirute, la desolazione degli abitanti, la migrazione della popolazione magari in direzione delle aree rimaste sotto l'amministrazione bizantina. In Italia settentrionale, inoltre, rari sono i casi di abbandono dei prelati delle rispettive diocesi, come il caso di Siena o di Milano, rispettivamente cadute sotto l'amministrazione della prossima Arezzo o migrati a Genova (39), e, comunque, anche in questi casi, non si deve immaginare la diocesi stessa deserta di religiosi, deserta di amministratori del patrimonio spirituale (e materiale, si badi) della chiesa: restava, come è stato autorevolmente segnalato, un tessuto amministrativo fondato soprattutto sul basso clero, restava inoltre uno stretto rapporto tra questo e la popolazione ed un regime, dopo i primi scontri dovuti alla conquista, di reciproca tolleranza, che giungeva fino alla individuazione di aree di culto ben distinte mentre, rapidamente, e poi capillare nell'VIII secolo, veniva la conversione dei longobardi stessi (40). Dunque passiamo a Parma, città quadrata romana, di cui già si diceva, con mura riattate in età teodoriciana e quindi efficienti certamente anche in epoca longobarda; da questa città i longobardi stessi muovevano e facevano base per l'occupazione del territorio, che veniva del resto amministrato e militarmente tenuto attraverso una rete di presidii che si spingeva fino al passo di Monte Bardone lungo una strada, che vedremo di delineare, ma che non si discosta troppo dalla antica via Clodia per molte parti e che non si differenzia dalla strada di Monte Bardone se non probabilmente nel percorso iniziale. La strada dunque muoveva dalla città e passava lungo la valle del Taro, la sponda destra del Taro, toccando naturalmente l'antico centro di Fornovo nel quale sono oggi carenti tracce di insediamenti longobardi, dico tracce archeologiche, ma che non poteva avere perduta la sua originaria romana funzione di luogo munito, vista anche la sua situazione polare allo sbocco del Ceno e dello Sporzana nel Taro. Poi la via prendeva rapidamente la direzione dei monti seguendo un percorso lungo lo Sporzana che la conduceva a Bardone dove doveva essere riattato il ponte, più volte ricostruito in età medievale, sullo Sporzana, fino a toccare Terenzo, di origine romana come abbiamo veduto, e salire a Cassio evitando dunque il massiccio del Prinzera. Tutta questa zona evidentemente doveva essere munita di castelli, doveva cioè essere una strada fortificata in età longobarda, ma di quelle fortificazioni, a parte toponimi più tardi come appunto "Castello di Casola", o "Castello " vicino a Solignano, non si ha traccia archeologica proprio a causa delle ricostruzioni avvenute in prosieguo. Per noi quindi oggi la rete dei castelli è medievale e spesso tardomedievale grazie agli interventi pianificatori dei Rossi nel secolo XV, ma non si può rinunciare all'immagine del territorio come per la prima volta " munito appunto dai Longobardi. Una "via" insomma non era semplicemente una striscia percorribile, ma era un intero sistema strategico che innervava profondamente un complesso di spazi circostante e che presupponeva evidentemente una precisa presenza di guarnigioni, di stanziamenti, un rapporto molto stretto, molto più stretto di quanto si possa pensare, tra la popolazione residente e il gruppo dei dominatori. La via proseguiva dalla zona di Cassio per Berceto secondo il percorso poi confermato in età " romea", e la principale differenza quindi dalla strada del XII e XIII secolo consiste nel punto di partenza che era anche la città di Parma oltreché l'insediamento, già romano, di Fidenza cui si giungeva da Pavia per Piacenza.

D'altro canto non si deve essere schematici quando si tratta di viabilità medievale; infatti le tesi che tendono ad individuare nella strada attraverso Bobbio il punto focale della serie degli attraversamenti dell'Appennino da parte dei Longobardi non sembrano del tutto accettabili e l'analisi più avvertita infatti ha provveduto a dissipare queste ipotesi riduttive. Il passo del Borgallo era certamente punto di riferimento ancora una volta dei presidi longobardi (41), come altri passi più ad oriente e legati ancora all'attraversamento delle vallate verso la Tuscia. Certo nel nostro caso il rapporto tra la strada verso Monte Bardone e la strada che proveniva da Pavia era strettissimo e l'innervarsi dei due percorsi indubbio.

Dunque abbiamo analizzato la strada di Monte Bardone, abbiamo veduto il suo carattere, ma non abbiamo ancora valutato il paesaggio agrario, il tessuto che la circondava. Questo implica un accertamento della economia longobarda e di quella delle popolazioni sottoposte ai longobardi. Ne abbiamo fatto già cenno prima ricordando come l'insediamento longobardo dovette limitarsi all'appropriazione dei beni pubblici, dei beni dei latifondisti bizantini, dei beni dei fuggiaschi insomma, ma dovette lasciare immutata la situazione dei piccoli proprietari, il che significa che il tessuto fondamentale della piccola proprietà e la sua frammentazione non dovette subire sostanziali mutamenti. Ma vi è a questo punto da notare che mentre per il grande ager romano, per il territorio cioè che faceva capo alle villae, e dunque ai grandi insediamenti signorili e che in genere si situava nella pianura o sulle prime pendici (le più fertili) delle colline, si possono individuare ancora, specie attraverso l'acrofotogrammetria, le delimitazioni e le divisioni della centuriatio come abbiamo del resto già indicato a sud ed a nord della via Emilia, per quel che concerne la zona montana o immediatamente premontana le cose - ripeto - dovevano stare in maniera del tutto differente. Ed infatti l'insediamento medesimo romano non aveva in quelle aree un carattere di coltivazione continua, ed anzi lasciava notevole parte del territorio a bosco. Ecco quindi il primo problema, come si presentava il paesaggio sulla via di Monte Bardone all'epoca longobarda, superata la grande pianura e le terre coltivate un tempo come latifondi attorno alle villae ed ora, scomparse le villae, amministrate probabilmente vuoi dal Vescovo vuoi, e soprattutto, dai castaldi, dai milites longobardi legati alla autorità regia o piuttosto del Duca?

La sparizione della villa non vuoi dire la sua trasformazione oppure il frazionamento, non vuol dire dunque la fine della economia che faceva capo ad essa, ma piuttosto la riduzione del raggio della produzione della vi/la stessa, e la riconversione del genere di coltivi che ad essa facevano capo. In una economia di scambi come la romana, l'Italia era la regione dove si producevano alimenti "specializzati ", dall'olio al vino, pur con le difficoltà che la diffusione di questi coltivi su ben altra scala nella Gallia e nel sud della Spagna poteva determinare. Adesso che l'economia tendeva ad isolarsi in aree tendenzialmente autonome, ducato a fianco di ducato, in una specie di struttura federata dove il legame con Pavia fondato soprattutto (come del resto in seguito nello stato carolingio) sul possesso centrale di una serie di " domini " regali, non è certo sufficiente ad impiantare un sistema unitario se non assai avanti al tempo di Liutprando e, comunque, sempre lasciando a parte i due grandi insieme medioitaliani di Spoleto e di Benevento, adesso appunto il vero problema era di rendere funzionali ed autonomi questi sistemi territoriali staccati.

Il primo fatto che si può notare è la probabile diminuzione dell'uso del frumento come cereale principale, dovuta ad un insieme di cause; poco sappiamo della agricoltura romana, ma il sistema della rotazione da una parte e, dall'altra, la presenza di vaste mandrie, specie di bovini, doveva permettere un rinnovo ed una fertilità dei campi che non era certamente caratteristica dei tempi longobardi. La caduta dunque dell'allevamento determinata dalla frammentazione, dalla diminuzione delle aree libere, passate come sappiamo ai longobardi (i grandi appezzamenti di terreno pubblici che erano il luogo del pascolo e dell'allevamento) corrisponde alla necessità di una produzione di grani continuativa, grani per la panificazione e per l'alimentazione in genere, grani che, a questo punto, diventavano gli strumenti principali della sopravvivenza. Il farro, l'orzo, l'avena (42), che allora non serviva per i cavalli ma per i cristiani, e quindi anche il miglio, alcuni legumi (ma non il fagiolo che, in genere, nella gran parte delle specie attualmente diffuse fu introdotto più tardi, come è noto), la notizia della raccolta del fieno ma anche di erbe diverse e di fronde del sottobosco per alimentare gli animali ci mostrano un panorama dell'uso del territorio ben diverso da quello che ci immagineremmo ad una superficiale analisi. La struttura della alimentazione aveva come secondo pilastro l'allevamento, ma non di bovini e neppure di equini, che erano anzi assai rari; infatti il costo, che vari documenti ci attestano, di un cavallo, che veniva acquistato per cento soldi aurei e valeva quanto una casa con appezzamento di terra (43), appezzamento di cui non conosciamo l'ampiezza, ma che sempre doveva avere una entità minima: tutto ciò insomma dà l'idea della rarità dell'animale.

L'allevamento principe era quindi quello dei suini, un tipo particolare però di suini, dal pelo nero e irsuto, della razza medesima che ancora si vede nei paesi baschi, suini poi cresciuti non certamente in porcili o ambienti chiusi ma all'aperto, in genere appunto nei boschi e nei sottoboschi dei quali sfruttavano la vegetazione spontanea e i frutti di caduta, soprattutto, naturalmente, le ghiande. Da questo, allora, ricaviamo un altro elemento per intendere il sistema alimentare nel secolo VJII, ed appunto la presenza determinante della carne di porco in genere consumata salata e/o affumicata, e degli altri prodotti secondari dell'animale, prima di tutto il lardo e lo strutto. La carne di porco era la componente principale della dieta dei contadini dopo i cereali e alcuni legumi come la fava, non di quella degli abbienti che fruivano delle libertà tradizionali di caccia all'interno dei domini e delle foreste già dell'erario e dunque erano in grado di cibarsi di uccellagione, selvaggina minuta (lepri e simili, in genere prese al laccio e con reti) e selvaggina maggiore, di solito cervi. Abbiamo di questo notizie vuoi documentarie che indirettamente iconografiche, non però nella nostra zona, ma generalizzate, nell'editto di Rotari e in vari editti di Liutprando (44).

Ma come si presentava, dunque, questa campagna, come si presentava nella sua immagine ad un visitatore che la percorresse? Le massae erano, di fatto, recinzioni di forma rettangolare o quadrata occupate da un lato dalla casa, dall'altro dalla serie dei servizi, spesso anche, nei casi più complessi, e dove era tecnicamente possibile, da un mulino ad acqua. Il problema e l'importanza dei mulini, che sappiamo acquistano una vastissima diffusione soltanto nei secoli XI e XII (46) non è agevolmente risolubile per questi secoli; inoltre non lo sappiamo con certezza ma pare probabile pensare ad una panificazione parcellizzata con produzione nei singoli insediamenti di pane. Macinar grano a mano, nei mortai di pietra o con altri metodi era un'operazione di una lentezza incomparabilmente maggiore della produzione coi mulini ad acqua e in tempi in cui un cavallo era uno strumento raro quanto importantissimo per la produzione di energia pare possibile, almeno nei centri maggiori, che si sfruttasse la forza tanto più agevole dei corsi d'acqua secondo tecnologie romane notissime e certo in uso in area bizantina prima della conquista longobarda e ancora dopo questa.

Il paesaggio dunque: rare le massae isolate, rari gli insediamenti anche per una ragione facilmente comprensibile, l'esigenza di sicurezza, specie in una zona come questa di contestazione, almeno fino alla conquista della Maririma da parte dei Longobardi (con Rotari), tra Longobardi stessi e Bizantini.

Inoltre gli agglomerati, probabilmente attorno a torri o fortificazioni, potevano costituire delle entità autosufficienti per molti aspetti tecnici; nè si deve ritenere il secolo VIII come un'epoca sprovvista di tecnologia stante tutto quanto sappiamo dei " magistri cum machinis ", appunto i maestri commacini (46). Quale era, tornando al paesaggio che è il nostro problema in queste pagine, quale era torno a chiedermi il suo carattere? Sappiamo della presenza dei maiali, del resto un tipo di allevamento diffuso ancora per oltre un millennio in questa zona, induciamo che vi dovevano essere dei boschi di querce, con ricco sottobosco, cui possiamo aggiungere faggi e castagni. Ma quale la loro estensione?

La storia della foresta nell'Europa occidentale è stata oggetto di studi recenti assai significativi (47) di cui qua e là terremo conto nelle nostre pagine; immaginarsi il bosco, la foresta sugli Appennini come quella lungo il Reno, come quella delle Ardenne, come quella nella Germania, come quella nei dintorni di Parigi, immaginarsi cioè la foresta come fitta, ricca di sottobosco, di fatto non agevolmente attraversabile sarebbe un errore, sia perché in contraddizione coi dati forniti dalla storia sia perché in contraddizione con quelli ambientali. Una foresta in montagna, per l'andamento stesso del terreno, per i caratteri della vegetazione è senmpre, necessariamente, una foresta con un sottobosco non impenetrabile, una foresta che, oltre tutto, è sottoposta a lenti ricambi se non viene sfruttata ma che al contrario, se viene usata da prossimi o meno prossimi abitanti, rischia assai spesso di presentare ampie zone libere, ampie zone cioè dove ormai, al posto degli alberi, si trovano solo i tronchi, i ceppi recisi e dove gli animali possono pascolare. Jn questo caso si può pensare agli ovini in genere anche se, sulle nostre montagne, la loro coltura dovette avere una limitata diffusione rispetto almeno a quanto accade nel meridione e nelle isole.

A che cosa serviva la foresta? Prima di tutto e naturalmente a creare le condizioni dell'habitat umano stesso negli insediamenti, a fornire legname per la costruzione e legname per il riscaldamento; la casa nel secolo VIII, la casa del contadino, non èicerto sempre di pietra, anzi di pietra e dì legno secondo una tradizione costruttiva di cui abbiamo ancora tracce in tempi più tardi, tra XI e XIII secolo ed oltre; è probabilmente una casa bassa, con un piano terreno e al più un primo piano col pavimento retto appunto da travi e travetti; è una casa, con ogni probabilità, in questa area, ricoperta a lastre di pietra e, nelle zone più alte, con paglia e terra onde ottenere un sufficiente isolamento termico. Sappiamo poco della edilizia di questo genere, se non per induzione ed estrapolazione dall'area romanica più avanzata e dunque preferiamo discutere del problema romanico sulla base di esempi edilizi e lasciare in sospeso quanto concerne questa zona purtroppo per noi più oscura.

Eppure, restando alla foresta, essa non era solo fonte di legname per quel che concerne l'abitazione e per il riscaldamento, ma anche fonte indiretta del carbone per eventuali fonderie, carbone di legna appunto e fonderie di cui per adesso, senza la acrofotogrammetria all'infrarosso (48) " strisciata" sulla nostra zona, non possiamo dire nulla di preciso. La foresta era il luogo da dove si ricavava il materiale principe per gli strumenti della lavorazione dei campi che erano di legno. Strumenti la cui forma esatta non ci è attestata e i cui nomi quindi non sappiamo ricollegare ad un immagine, ma che dovevano certamente essere di legni duri, quercia o rovere o noce, tagliati naturalmente con strumenti di ferro e quindi bruciati alle estremità per rafforzarli. E' anche possibile che lamine metalliche, provenienti dalle fonderie della zona mediana del regno, tra Piacenza e Pavia, o magari, ma non abbiamo certe notizie documentarie, da Parma, potessero essere usate come rinforzo. Panca e banco, scranna sono tutti termini, nella lingua italiana, superstiti dell'occupazione longobarda ed identificano dunque arredi dell'abitazione che dovettero, non si dice, avere origine, ma sostituire diversi tipi di arredo romani o bizantini, ed erano, appunto, arredi lignei. Anche questo, e quanto si è detto sulla forma della casa e sulle sue strutture, ci fa intendere il valore per noi meno comprensibile, ma, allora, sinistramente evidente, della parola incendio, di solito legata ad una guerra, ad un assedio, ad un'occupazione.

Ecco quindi un'immagine più precisa della foresta, ecco quindi un'immagine meno generica della foresta degli Appennini, anzi delle "Alpes ", la foresta che è del resto attestata già nella tabula vele jate come abbiamo visto (" saltus praediaque Berusetis ") ma che dovette durare, pur con aperture e diradamenti, per molti secoli e ben oltre il XII. Certamente la foresta dovette mutare nel tempo la sua stessa struttura ed anche questo contribuisce non poco a farci vedere in luce diversa l'immagine di questo paesaggio: prima una foresta fitta di querce, di castagni, di noci, con minor presenza di faggi, quindi e sempre più, per il taglio degli alberi maggiori e di legno più duro e più pregiato, una foresta di faggi ed altre essenze analoghe; una foresta dunque che tra l'età romana e la romanica muta di forma, si dirada, anche se doveva esser ben estesa ancor in età romanica, sia pur con i mutamenti strutturali già detti (e che possiamo anche attribuire alla diversità di tempi di crescita delle querce, per esempio, rispetto ad altre essenze, lentissima come sappiamo per le prime) visto che la presenza di lupi è largamente attestata ancora nel secolo XV ed oltre questo.

Foreste dunque, larghi spazi prativi soprattutto sui declivi, rari agglomerati di case possibilmente insistenti sui vecchi insediamenti romani (Fornovo) un tipo di coltivazione estensivo soprattutto di cereali, ed horti, come vedremo, nei pressi delle abitazioni. Il paesaggio, questo paesaggio, non muta fino all'età romanica ed a una rinnovata moltiplicazione delle attenzioni alle colture. Ma come e quali? In questi anni, dopo alcune semine nello stesso campo la produttività già certamente bassissima (con una resa tra 1,1,5 e il 2,5 come massimo essendo i la quantità del seminato) (49) doveva crollare, da cui l'esigenza inderogabile di abbandonare per un certo periodo la terra ormai sfruttata. Da ciò forse la necessità di spianare lentamente aree boschive e di cercare là spazi per nuove coltivazioni, oppure di importare dalla pianura prodotti, ammesso che sia pensabile, come lo è, un ridotto regime di scambio a livello locale. L'orto, d'altro canto, era una componente necessaria del paesaggio, la sola probabilmente recintata, ed era direttamente funzionale alla famiglia ed alla sua dimensione; concimato questa volta col prodotto familiare e con quello degli animali stabulati, doveva avere, rispetto alle medie della campagna coltivata a grani, una redditività assai più alta. Era appunto l'orto il punto focale degli interessi dei coltivatori, e base alimentare non indifferente per integrare la dieta dei frumenti; quanto ai maiali, di cui si diceva, essi erano, ripeto, pascolati all'aperto, nel bosco, e quindi il loro concime non poteva essere fruito per l'orto medesimo. Abbiamo quindi, a questo punto, un'immagine più precisa del paesaggio che ci interessa ricostruire: i fiumi dal corso rapido, necessariamente molto più ricchi di acque stante la presenza delle foreste e la mancanza degli attuati prelievi per l'irrigazione, i fiumi che avevano verso la pianura anse larghe e vasti impaludamenti e, comunque, che avevano un letto assai più ampio e meno definito e su cui i ponti erano rari, a volte rarissimi come nella nostra zona, e, nel caso di quello sul Taro a Fornovo, in piedi solo fino al XIII secolo, i fiumi alimentavano, coi torrenti, mulini situati in zone di fili di corrente continua, a volte su canali se questi esistevano, come è possibile per Parma, da tempi tardoantichi. Le torri che chiudevano i punti focali della via secondo un tessuto probabilmente a raggiera sulle due rive del Taro, dello Sporzana e del Baganza costruivano una linea di difesa non facilmente espugnabile per la tecnologia del tempo; quindi vi erano gli insediamenti, certamente accentrati; tutto il resto era spazio libero, terreno aperto, stoppie lasciate a marcire per concimare in qualche modo la terra da rivoltare con la vanga dato che l'aratro, allora, certamente non aveva versoio e scavava un solco dritto e col sollevarsi eguale della terra ai due lati, un solco peraltro poco profondo, forse solo una ventina di centimetri. Anche questa, naturalmente, era una delle ragioni, con i problemi che poneva il debole attacco a collo e non a spalla degli animali (una scoperta che, anch'essa, data della " rinascita " del XII secolo o, quanto meno, che si diffonde largamente solo in quel periodo), della scarsissima produttività e dell'esigenza di una notevole quantità di manodopera per realizzare cibo sufficiente alla alimentazione. Quindi le case, della forma e caratteri descritti, sormontate, dominate dal castello, come per Berceto, le chiese, anch'esse di pietra ma col tetto ligneo, naturalmente, e, tra tutto questo complesso sistema, la strada, poco più di una traccia, segnata dalle ruote dei carri, che saliva con scoscendimenti improvvisi, con dolci pendii, con improvvise curve dinanzi ad ostacoli naturali, dal livello della ampia vallata del Taro fino a quella più scoscesa dello Sporzana e del Baganza.

Ma come erano, allora, le architetture-guida, e che senso aveva la pianificazione degli insediamenti longobardi anche fuori del nostro itinerario nella regione emiliana settentrionale?

Non vogliamo certamente qui tentare una ricostruzione, sulla base di dati archeologici inesistenti, dell'architettura nel secolo VIII a Berceto; quanto a Bobbio, come è ben noto, i resti plastici non trovano rispondenza nelle strutture architettoniche completamente rinnovate in età romanica ed ulteriore e lo stesso si può dire di Nonantola. Ma, a questo punto, il lettore avrà già chiara l'estensione, il raggio di queste abbazie " reali " fondate o dotate dai longobardi, queste abbazie che si situano o nella pianura, polari direttamente rispetto all'episcopio urbano di Modena come nel caso di Nonantola, oppure si trovano a presidiare, quasi punto focale e di riferimento, il sistema delle strutture fortificate che doveva organizzare la strada del Borgallo, peraltro innervata, come sappiamo da altre fonti, da presenze bizantine almeno in un primo tempo (50). La funzione di quegli insediamenti quindi e di Montelungo appena oltre il passo di Monte Bardone, non era semplicemente religiosa, né il pellegrinaggio era da intendersi un pellegrinaggio meramente religioso o penitenziale, si trattava invece di veri e propri ostelli, punti di riferimento fissi del viandante, probabilmente strutturati entro una cinta murata analoga alle massae già descritte, con edificio principale forse porticato. La presenza dunque delle abbazie, che avevano un'importanza e un potere economico cospicuo esteso su un vastissimo territorio unitario e oltre questo, sembra essere, in questo contesto, molto indicativa: essa infatti permette di intendere, ripeto, la linea della politica dei longobardi che vuole appunto creare, lungo le strade e nei punti focali dei loro domini, sicuri punti di appoggio, eventualmente alternativi ai vescovi o, comunque, da questi indipendenti e direttamente collegati alla corte regia di Pavia o, come nel caso di Montelungo, a monasteri di fondazione reale quale quello di Leno a Brescia (51). La politica dei monasteri Longobardi era quindi anche una politica del territorio e come tale, analizzando l'estensione dei possedimenti del monastero stesso, essa dovrà essere valutata. Di fatto possiamo dire, in breve, che tutto il territorio attorno alla strada e gli insediamenti prossimi, fuori del circondano della chiesa di Fornovo che doveva forse corrispondere al territorio antico del pago romano, tutto il territorio fino al passo dipendeva dalla abbazia montana di Berceto la quale era quindi, dopo la chiesa episcopale parmense, la potenza economica maggiore dell'intera zona, perfettamente simmetrica, anche in questo, a Bobbio ed a Nonantola. Ecco dunque chiarite le ragioni dell'importanza storica dei possedimenti dell'abbazia e il senso della lotta, conclusasi con il diploma di Carlomanno dell'11 maggio 879 in maniera sfavorevole per gli abati, tra vescovado parmense e abbazia stessa. Conviene ora mettere le basi per l'analisi del problema bercetese nel suo insieme e quindi venire alle fonti che sono in nostro possesso per definire con più esattezza l'episodio della fondazione, i suoi attori, e le vicende antecedenti ed immediatamente ulteriori. Abbiamo analizzato finora le sole fonti di parte longobarda, secondo le quali, dall'epitaffio di Liutprando alla Historia Langobardorum di Paolo Diacono, protagonista della vicenda è il sovrano dì Pavia, fondatore del monastero bercetese. Anche se dovessimo accettare come corrispondenti al vero quelle testimonianze dovremmo peraltro porre una limitazione preliminare, dato che non si tratta certo di una fondazione, ma, quanto meno, di una rifondazione, dato che un edificio antecedente quello di Liutprando si trovava nel medesimo luogo. E quale fosse questo luogo le fonti non lasciano alcun dubbio se esaminate con attenzione. Montelungo, Berceto, sono fondazioni longobarde su una strada di grande traffico e hanno, si è detto, precise motivazioni politiche per la loro collocazione; le ipotesi che paiono individuare al Tabertasco la sede originaria dell'abbazia liutprandea poi trasferita in Berceto per la rovina di una frana sono state respinte giustamente dalla più attenta storiografia (52). A questo proposito basti osservare, col Grisenti, che la collocazione del Tabertasco, come ci è testimoniata da resti archeologici mal giudicabili, ma certo parte di un edificio non alto- ma tardo-medievale, situato in mezzo alle montagne a quattro chilometri dalla strada di Monte Bardone, mal si presta allo scopo pel quale Liutprando stesso lo avrebbe fondato; non certo ad ospitare pellegrini, se non quelli diretti dalla strada di Monte Bardone verso la valle del Parma, Corniglio e l'attraversamento del suo ponte medievale sul torrente, tantomeno ad ospitare quel genere di monaci che i Longobardi tendevano ad insediare nei punti focali delle loro vie di comunicazione, monaci quindi capaci di coordinare l'intero sistema di un territorio, monaci stanziati entro un tessuto complesso e non, come in questo caso, tra monti popolati allora di perigliose foreste, a oltre 1000 metri di altezza, su una diramazione secondaria di una grande strada.

Eliminato così il falso problema del Tabertasco veniamo alle fonti " di parte religiosa" sul tema che ci interessa. Persa la vita antica di Moderanno, che dovette con ogni probabilità far da fonte sia allo scritto di Hincmaro che a quello di Flodoardo, abbiamo per primo da considerare Rincmaro di Reims il quale scrive, tra 877 e 878, la sua Vita Remigii Episcopi remensis (cioè di Reims) (53); nel manoscritto Vercellensis (arch. capitol. n. 205) del secolo X troviamo alcune interpolazioni (c. 30) su Moderanno che sono state a suo tempo edite dal Krusch.

Ed ecco il passo: " Quod tempore Chilperici regis francorum quidani Moderannus vita et acta moderatus Redonensis ecclesiae presul, obtentis reliquiis beati Remigii, Romam petiit et partem earundem reliquiarum in Monasterio Berceto sito in vertice Bardonis montis collocavit ". Dunque in questo primo periodo, assai schematico nel resoconto dei fatti, si narra di Moderanno di Rennes che muove con alcune reliquie di San Remigio di Reims per Roma lasciandone una parte nel monastero sito in cima al Monte Bardone; il monastero cioè esisteva già, era antecedente a Moderanno ed è il re Liutprando, come vedremo, ad investire il pellegrino francese del possesso. " Et qttod Leohrandus rex Italorum, auditis miraculis beati Remigii, eidem praesuli idem monasterium cum omnibus adiacentiis et ornui abbatia cuni carta et vestitura dedit; et quomodo praefatus Moderannus rediens Roma, ante sepulchrum sancti Remigii venit et eidem monasterium cum omnibus appenditiis, sicut praedictus rex sibi dederat, cum carta et vestitura ei donavit". Si fissano cioè in questo passo alcuni fatti importanti: la donazione di Liutprando, ma pure la cessione del monastero a Reims assieme a tutti i possedimenti, inoltre si specifica che la delimitazione dell'area dei territori del monastero non datava il tempo di Liutprando, ma era antecedente a quello. L'ipotesi del Krusch, in un articolo del 1894 (54) antecedente quindi alla edizione nei Monumenta della vita di Remigio scritta da Hincmaro, è che il passo riportato e che troviamo nel codice vercellese e in altri due manoscritti (55) sia testimonianza di una perduta vita di Moderanno.

Questa vita è a sua volta ripresa e ampliata da Flodoardo (che morì nel 963) nella sua Historia Remensis Ecclesiae; da chi e come dovremo vedere dopo avere analizzato il passo assai più circostanziato di Flodoardo, ma prima converrà riportare almeno in nota quello relativo a Radoino (56) reputato dal Krusch mediatore a Reims delle notizie su Moderanno e, dunque, di fatto colui che permise si potesse comporre l'interpolazione nella vita di Hincmaro del testo riguardante il santo sepolto a Berceto. Radoino è un longobardo venuto in Francia dal monastero di Monte Bardone ed attratto a Reims dai meriti e miracoli del grande santo.

Ma torniamo, abbandonando il problema dell'autore delle interpolazioni nella " vita " di Remigio, a Flodoardo ed alla sua trattazione, la più compiuta che si possegga su Moderanno e sul problema che ci interessa. Egli scrive subito che Moderanno è di nobile prosapia (57), fatto di cui non abbiamo conferma nella vita di Hincmaro o meglio nell'interpolazione, e che peraltro è anche un topos delle vitae sanctorum; ottenuto dal re il permesso di recarsi a Roma devia a Reims per fermarsi al monastero di Remigio ed ottiene da Bernardo, che custodisce le reliquie del santo, frammenti della stola, del cilicio e del sudano. Si può osservare a questo punto che le tre reliquie sono elencate in ordine crescente di importanza dato che, nella gerarchia medievale di questi oggetti, quelli più direttamente a contatto con il corpo del santo erano ovviamente più preziosi; sopra questo genere di reliquie santificate " per contatto " vi erano, evidentemente, le parti del corpo sacro anch'esse con una precisa, interna gerarchia; più in basso invece stavano le reliquie che erano venute a contatto con una reliquia o frammento di corpo del santo, come ampolle d'acqua o altro posate per un certo periodo sull'urna o le reliquie stesse. Ma lasciamo questo tema sacrale, importante però per intendere le gerarchie tra i santuari medievali e torniamo a seguire, passo passo, il testo di Flodoardo.

Il viaggiatore, Moderanno, giunge a Monte Bardone e decide di dormire lì, evidentemente spintovi dalla presenza di un qualche insediamento; il pellegrino appende la sera ad un ramo d'albero le reliquie, al mattino cerca di recuperarle, ma Vuifado, un chierico, non riesce a raggiungerle perché quelle si sollevano sempre più in alto. Moderanno dunque fissa immediatamente la propria temporanea dimora sul luogo del miracolo, ma non riesce a prendere possesso del suo sacro fardello finché non entra nel monastero dedicato a S. Abondio (ove ora è Berceto) e decide di dedicare a quello una parte delle reliquie stesse. Ed è a questo punto che nella narrazione si inserisce Liutprando, pio re, il quale, a seguito del miracolo, decide di assegnare l'intero monastero e ottocento mansi con quello, a Moderanno; l'autore del testo inserisce un " ut tradunt " significativo, e questa espressione lievemente dubitativa pare a noi da riferire all'estensione della donazione piuttosto che ad altra parte del racconto. Eppure, anche dalle notizie ulteriori relative alla proprietà della abbazia bercetese, non sembra che nell'amplissima area originariamente compresa in quel sistema i " mansi " fossero troppi; l'estensione del territorio ceduto sarà stata minore in età longobardica ma dovette non esserlo di molto rispetto ad epoche ulteriori anche se la dipendenza del vescovo di Parma a partire dal tardo secolo IX dovette mutare a fondo questo sistema. Tornando al racconto sappiamo che, dopo il viaggio a Roma, Moderanno torna a Reims alla tomba di San Remigio e trasferisce a quello il possesso della donazione Liutprandea; va quindi, prosegue il racconto, a Rennes, il suo vescovado, ordina il suo successore, e rientra a Berceto dove rimane fino alla morte (c. il 730).

Il racconto, che presenta una perfetta concordanza sostanziale con quanto già ho riportato dell'interpolazione di Hincmaro, merita, per quel che concerne il passaggio altrimenti incomprensibile della proprietà del monastero bercetese a Reims una spiegazione visto che esiste la donazione dell'11 maggio 879 con cui Carlomanno dona Berceto e tutte le sue proprietà a Vibodo vescovo di Parma; evidentemente sia l'interpolazione di Hincmaro, datata dal Krusch tra 877 e 888, sia il passo di Flodoardo ante 963, non intendono riferirsi ad una donazione formale, ma forse alla cessione di una qualche decima o tributo al grande santuario francese visto che il documento di Carlomanno è, lo si ripete, dell'879, e cioè ben anteriore e che, per quanto se ne sappia, il vescovado di Parma tenne ben saldamente in mano, almeno fino all'età comunale, il prezioso patrimonio dell'abbazia bercetese. Queste sono le fonti più antiche su Moderanno e sul monastero, fonti che - ripeto - confermano, a nostro vedere, l'ipotesi avanzata di recente dal Conti (58) che si sia trattato non di una fondazione di Liutprando oppure di una fondazione di Moderanno distinte, ma di una fondazione congiunta; aggiungerei che l'analisi delle fonti permette di motivare prima di tutto le ragioni delle diverse tradizioni nelle due ottiche contrapposte delle fonti medesime, quindi impone di ritenere che si sia trattato di ricostruzione o di ampliamento della chiesa dedicata a Sant'Abbondio con l'aggiunta di un monastero. Da qui dunque a Berceto il giustapporsi delle reliquie di vari santi, Abondio (59), Remigio (60), Moderanno, le cui vicende complesse non abbiamo ancora finito di analizzare. Manca infatti all'analisi un'altra fonte importante, gli Atti della traslazione di S. Abondio editi dai bollandisti (61).

L'epoca degli avvenimenti è quella dell'abate Tiberio e precisamente gli anni dall'844 all'847; siamo naturalmente a Berceto, al monastero " quod est sitam in cacumine montis, cui nomen est Bardo". E a questo punto abbiamo la prima interessante notizia architettonica sulla chiesa antecedente l'attuale, anzi su quella che potremmo chiamare Berceto I, l'edificio appunto anteriore alla venuta di Moderanno al principio del secolo VIII a Berceto; questo edificio doveva essere insufficiente circa cento anni dopo se Tiberio doveva ampliarne la capienza allungandolo alquanto; il passo suona: "Hic (Tiberius) cum sui coenobii ecclesiam, juxta quod necessitas commissae sibi con gregationis exigebat, ali quantulum in longum porrexisset, quae prius erat modica, vei vix capiens fratrum collectam, placuit, ut sub altari eiusdem basilicae, pararet con gruum locum, quo poneretur corpus S. Moderanni, quod istie ad laevam altaris jacet humatum. Sed non prius viri ossa mutanda praedictus Abbas dignum statuit, quam hoc precibus a Domino peteret, utrum fieri deberet an non ". Dunque, Tiberio medita di trasferire il corpo di Moderanno, già deposto alla sinistra dell'altare, al centro della chiesa, sotto questo, evidentemente perché il culto del santo abate era di tanto cresciuto da richiedere un tal mutamento di gerarchia; l'umile invito di Moderanno, che appare in sogno a Tiberio, deve naturalmente essere storicamente spiegato; in quel periodo, siamo a metà del IX secolo, il culto dell'abate non aveva ancora sopravanzato, come in seguito nel secolo X tardo e nell'XI, quello del santo cui alla prima dedica della chiesa, Abondio, e ciò spiega la cura di Tiberio ed anche la sovrapposizione, nella relazione della " traslatio " redatta più tardi, di una diversa temperie culturale. Il corpo dunque viene portato solennemente da Spoleto a Berceto con tappa a Lucca, città murata, menzionata nella traslazione stessa che ancora presenta una serie di miracoli che rientrano nello schema narrativo di questo genere di componimenti: dalle ossa che gocciolano sangue che non scorre a terra all'epilettico risanato proprio sulla soglia della chiesa bercetese.

Le notizie su Moderanno che ci vengono dalle fonti appaiono assai più tarde dei testi finora analizzati; così risale al XII secolo una tarda vita di San Moderanno (62) da non confondersi con la perduta "vita" da cui derivano sia Hincmaro che Flodoardo e una serie di versi inseriti nelle liturgie per Moderanno, nel Breviarium redonensis (63); tra questi interessante è la menzione, che testimonia di un ulteriore sviluppo del culto per il terzo santo di cui la chiesa bercetese possiede reliquie: vi si parla della fontana di Ripasanta, la fonte di Moderanno, che sgorga miracolosamente dove questi aveva appeso all'albero le reliquie: "Novus Berceti incola/novum produxit rivolum/dum ter ferit Deicola/Rippae Sanctae colliculum".

Ma conviene tornare all'analisi di altre fonti finora non prese in esame su Berceto, appunto quelle relative ai rapporti tra Berceto stessa e l'episcopato parmense. Non sappiamo cosa sia accaduto prima del diploma datato Otting 879, li maggio (64) e più volte menzionato; Carlomanno dona quindi a Vibodus, " sancte Parmensis ecclesie venerabilis episcopus dilectus fidelis noster ", " abbatiam de Bercedo sitam in monte Bardonis cum omnibus adiacentiis et pertinentiis eius in integrum tam in finibus Tuscie quamque et Longobardie cum omni integritate et soliditate sua iure perpetuo "; alla donazione totale di Berceto l'imperatore aggiunge l'intera corte regia costruita entro la città di Parma, il diritto sulla città, le mura, il " prato regio fuori le mura stesse. Ci troviamo insomma di fronte, in questo caso, ad un rivolgimento della politica generale dei carolingi quale era stata al tempo di Carlomagno nei confronti del potere episcopale e delle abbazie; la tendenza appunto è di collegarsi ormai alle città ed ai vescovi, che si trasformano di fatto in vescovi-conti, cioè in vescovi con larghissimi poteri amministrativi nel contesto urbano, ai quali viene anche affidato, di fatto, l'intero contado. L'abbazia di Berceto, che teneva l'intera montagna da Fornovo al crinale, al confine con la Toscana, non poteva evidentemente essere accettata nel nuovo sistema organizzato ed unitario carolingio; la sua donazione trasformò di fatto l'abbazia in una semplice chiesa sia pure ricca di tradizione e reliquie. Gli altri documenti che qui possono interessare sono un diploma di Re Ugo datato 4 settembre 926 (65) dove si conferma alla chiesa parmense il possesso di Berceto con vari privilegi. Uno sempre di Ugo datato Pavia 17 febbraio 927 (66) appare più utile perché dimostra che, dopo il trasferimento dei beni da Berceto al vescovado di Parma, i canonici bercetesi erano in condizioni economiche gravissime, infatti il diploma dice esattamente-.. "murmurarent atque non haberent ad ciborum seu vestimentorum necessitate, qualiter in ipso sancto loco deservire possent ", dunque non avevano cibo sufficiente, e per questo Ugo decide di dar loro una serie di mansi: due a Pagazziano, due a Mata/itulo, uno a Roationi, uno nell'insula, cioè due mansi a Casaca con la silva detta Orbitula e due mulini e un gajum, e tre mansi a Bergante, e due mansi in Bisitudo, uno in Ulmitulo, uno a Bante, e i terreni a prato già in precedenza posseduti, cioè Curticellam de Vinaio con 33 mansi, assieme ai servis e alle ancillis. Il passo forse più interessante non è quello relativo ai possedimenti di nuovo concessi oppure l'osservazione che ben difficilmente, nella situazione in cui versavano, i canonici bercetesi avrebbero in questo periodo potuto realizzare sostanziali modifiche di assetto architettonico ai loro edifici, ma proprio quello sulle terre donate che ci permette di avere, della zona prossima a Berceto, un'immagine assai efficace e che utilmente integra quanto noi sopra abbiamo indotto da pochi e sparsi indizi soprattutto per quanto concerne il secolo VIII.

Ora, circa 200 anni più tardi, il documento parla di " terris et clausuris, cultis et incuitis, cum vineis et campis, pratis pasquis, silvis, salcetis, sationibus, atque acquarum decursibus, molendinis, piscationibus, montibus, vallibus, alpibus planiciebus". Insomma abbiamo qui una descrizione efficacissima delle culture e risorse del territorio: vi sono prima di tutto terre aperte e terre chiuse, gli orti cintati ma, probabilmente, anche più vasti recinti per difendere dagli animali al pascolo, soprattutto i porci, il frumento o altri coltivi; vi sono terre coltivate e terre lasciate probabilmente a riposo, vi sono, nonostante la rispettabile altezza sul livello del mare, delle vigne, e prati, e boschi, e canalizzazioni - parrebbe di poter intendere - visto che, subito dopo, si parla di mulini, e ancora monti e valli, e pianure, il tutto collegato in mansi e dipendente dalla " curtem". L'abbazia è citata, ancora, in un diploma di Ugo del 16 settembre (67) 930, diploma in cui, come in quello sopra citato del 926, si afferma che da Rachis a quel tempo l'abbazia era stata in possesso della chiesa parmense, il che evidentemente è un falso, sia pure politicamente motivato.

La vicenda dell'indipendenza bercetese, o meglio, della contrapposizione di un sistema di fedeli monasteri al sistema degli episcopati, giusta la politica dei Longobardi e di Carlomagno almeno per quanto concerne la conquista della Germania è progressivamente trasformato nei nuovi rapporti con la chiesa dopo la incoronazione imperiale. Il papato ormai diventa l'interlocutore politico dell'imperatore e dei suoi successori e quindi è suoi vescovi che si tende a centrare il potere e la gran parte del patrimonio.

Ma seguiamo ancora, in un importante diploma di Ottone I datato Roma 13 febbraio 962 (68) e nel quale si elenca una serie di donazioni a Giovanni XII o, meglio, la conferma di precedenti donazioni, seguiamo ancora la indicazione indiretta, ma per noi sempre interessantissima, di un vero e proprio itinerario per la strada di Monte Bardone, un itinerario alla rovescia, dal sud al nord, ma non per questo meno significativo. Leggiamo dunque, nel lungo passo, una serie di località che segnano in genere l'asse della via; il punto che ci riguarda suona: "Itemque a Lunis cum insula Corsica, deinde in Suriano, deinde in Monte Bardonis, deinde in Berceto exinde in Parma, deinde in Regia, exinde in Mantua atque in Monte Silicis atque provincia Venetiaruin et 1stria... ". Dunque da Luni all'antica Surianum cioè Filattiera, quindi al Monte Bardone, di lì al passo ed a Berceto, quindi a Parma evidentemente lungo la via da noi indicata, poi a Reggio, a Mantova e quindi in direzione di Venezia secondo un itinerario che portava a innervare le strade verso l'est e il nord-est d'Europa. Meno ricchi di indicazioni altri diplomi, come quello del 5 aprile 980 di Ottone III dato a Quedlimburg (69) a favore del vescovo parmense Sigifredo II al quale si confermano come al solito i possessi precedenti da Borgo san Donnino alla abbazia di Berceto con le dipendenze e il distretto della città di Parma col muro e il teloneo.

Più interessante un documento di Sigifredo II, un decreto vescovile del 1007 (70), nel quale appare, quanto meno di scorcio, uno dei temi delle probabili controversie tra Parma e Berceto, la destinazione delle offerte agli altari della chiesa bercetese; in questo decreto un terzo delle donazioni ricevute dagli altari di San Moderanno e di San Remigio deve essere attribuito alla chiesa parmense; dal che si deduce che probabilmente l'altare di Abondio non suscitava l'interesse e la venerazione dei fedeli come gli altri due, ed inoltre che la presenza di Remigio non aveva impedito a Moderanno di salire progressivamente nell'affetto dei credenti, ipotesi del resto confermata da un decreto analogo al precedente, questa volta di Ugo, datato 1035 (71) dove si citano gli altari di Remigio e Moderanno a Berceto e non altri. Diversi altri documenti, del resto, ricordano Berceto, la sua abbazia, e la dipendenza di questa dal vescovo di Parma, così quello di Coirado II del 1027 (72), così quello, sempre di Corrado Il, del 1036 (73), ambedue indirizzati al vescovo Ugo.

La storia ulteriore, attraverso le testimonianze sul percorso del Monte Bardone, va letta collegando i racconti delle cronache e quelli delle Chansons de geste francesi. Sembra utile però mantenere distinti i gruppi di testi proprio per il loro intrinseco carattere: da un lato appunto attestazioni precise, su cui possiamo fondare un discorso analitico, o anche narrazioni di parte e, comunque, da giudicare in trasparenza, analizzando cioè il carattere delle singole fonti; dall'altro racconti "mitici ", se pur legati ad un grosso fatto culturale come sono appunto i pellegrinaggi, nella ricostruzione epica che di questi offrono le Chansons de geste.

Tornando ai documenti, molti testi dal 1056 al 1197 (74) ci dicono che la strada ormai ha assunto il nome di Romea e questo nome è riferito anche al suo percorso piacentino (75) e non solo parmense: era cioè romea l'intera strada verso Roma. Da altri documenti, un privilegio di Enrico VI ad Obizzo eletto vescovo parmense nel 1195 (76) dove si elencano le " pertinenze " di Monte Bardone da Cassio a "Coliculum cum curte sua " a " Monticulum cum carte sua ", a " Pupilium "; un privilegio di Ottone IV sempre ad Obizzo e datato 1210 (77), dove si ribadisce al vescovo la consueta concessione di Berceto e tutto quanto essa possiede sul Monte Bardone, appare chiaro che il potere della chiesa parmense era ben saldo in questa zona. L'ultimo documento che considereremo data il 30 giugno 1251 ed è redatto nella pieve e concerne la nomina a canonico di Nantelmino (78); l'atto è redatto a Berceto "in claustro dictae plebis ", il che conferma che la pieve stessa o, meglio, l'antica abbazia ridotta a pieve dopo l'unificazione sotto il vescovado parmense, possedeva ancora un chiostro evidentemente passato ad ospitare, dai monaci all'epoca dell'abate, i canonici regolari. Di quel chiostro, che sorgeva, come sappiamo da assaggi parziali e casuali scavi, nell'area dell'attuale orto a sud della chiesa, non resta in piedi più nulla.

Dunque siamo giunti alla strada romea ed alla denominazione che essa assume, unitamente a francigena, nel corso del tardo medioevo: ma, finora, per analizzare il tema della via, dopo un'analisi delle preesistenze, che era necessaria per renderci conto dei paesaggi storici, non abbiamo adoperato che documenti; dobbiamo però considerare che, della situazione dal secolo XI al XII ed al principio del XIII possediamo anche un altro genere di " fonti", gli edifici medesimi, e sarà a loro, dopo avere valutato i caratteri e la consistenza dei paesaggi storici, che dovremo rivolgerci; anzi, per non far perdere di concretezza alla nostra analisi, citeremo qui ancora alcuni dati che escono da atti che recano notizie o fanno riferimenti alle strutture ed all'ambiente; così in un testo datato Parma 28 agosto 1180 (79) si parla di " tota mea parte de runcis de bosco de Barche et de ipso bosco sicut tenet a strata Romea inferius usque ad Francescum"; il 25 agosto dello stesso anno in un documento datato Cavriago si riporta di fatto la medesima frase (80) e ancora in un altro sempre datato Cavriago, 27 settembre 1181 (81), dove si legge "in runcis de bosco de Barche de subtus stratam Romeam". Ancora, in un documento datato Fidenza 2 giugno 1187 (82), si cita la Romea come in un documento del 6 novembre 1187 (83), ed in uno datato Piacenza 19 settembre 1190 (84); infine in uno datato Piacenza 16 agosto 1197 (85) si legge "de loco molendini positum in territorio Pontenurii iustam stradam Romeam". Abbiamo dunque qui conferma che la strada Romea era l'intera via, e non un tratto specifico di questa, e che era un nome che includeva evidentemente un tratto (Pontenure, appunto) della antica via Emilia. Ma questa conservava certamente anche l'antico nome di Claudia o Clodia se troviamo, in un documento datato Parma 5 ottobre 1197 (86): " et eodem die in strata Claudia magister Lanfrancus cum veniret Parmam a ponte Taronis...

Ma la storiografia medievale, specie quella che descrive il viaggio, il pellegrinaggio (ecco un altro tema per noi da affrontare) porta molti altri elementi, e importantissimi, per comporre questo paesaggio di una " strata ", della "strata Romea ", appunto.

All'inizio dell'analisi dei testi storici, dei testi cioè che intendono narrare una vicenda effettivamente accaduta, dobbiamo naturalmente rammentare i limiti di questa rassegna che non pretende certo la completezza; basti quindi indicare i punti principali di questi ricordi cercando di mantenere un certo ordine cronologico.

Nella Vita Mathildis di Donizone, redatta dopo la morte di Matilde stessa secondo alcuni, secondo altri invece solo conclusa allora e invece scritta nell'ultimo periodo della vita della marchesa di Toscana, comunque redatta entro il secondo decennio del secolo XII, nella Vita Mathildis (87) troviamo la citazione della strada Francigena in due occasioni, ai versi 1165-1167 dove si descrive il viaggio di Enrico per la strada di Monte Bardone verso la Toscana (88), e, prima, ai versi 224-227 dove si descrive il percorso inverso del re da Roma verso il nord ancora una volta per la strada "francigenam " (89). E' evidente quindi che la denominazione di Francigena oppure di Romea, come del resto dicevamo al principio del volume, è collegata direttamente alla funzione della via stessa, meta di pellegrinaggio o punto di collegamento tra l'area italiana ed il resto dell'Europa.

Molto interessanti e ricche di informazioni sulla via e l'intero territorio sono le Gesta Friderici I imperatoris (90) databili circa 1153-1168. La parte di racconto che ci interessa comincia dunque ricordando il viaggio di avvicinamento di Federico, un viaggio che descrive, di fatto, l'itinerario settentrionale verso la via che passa l'Appennino, uno dei possibili percorsi per giungere dalla Germania all'Italia. Federico dunque dalla Sassonia passa in Baviera (91), quindi in Italia e " per Brixinoram itaque et vallem Tridentinam " giunge alla campagna di Verona presso le rive del Garda; infine, da qui, pianta un campo sul Po a Roncaglia(92). La parte più viva della narrazione è quella che si risolve, di fatto, in una descrizione geografica dell'intero bacino del Po con cenni anche al centroitalia ed alle isole; i limiti della regione sono dati dalle Alpi dette " Pyrenaeas Alpes " e dagli appennini detti " Apenninum ", e precisa " qui modo mutato nomine mons bardonis vulgo dicitur ". Lo scrittore mostra di conoscere bene la regione, ricorda il Po come uno dei tre maggiori fiumi d'Europa, lo dice fiume irriguo e cita la mitezza del clima che fa crescere frumento, vino, olio, alberi da frutta e principalmente castagni, fichi e ulivi (93). Ecco quindi, da Ottone di Frisinga, notizie precise non solo sulla generalizzazione di alcuni nomi di catene di montagne, come Pirenei riferiti a Pyrenaeas Alpes e Apenninum alternativo come si è detto al " popolare " Monte Bardone e cioè al longobardo monte Bardone, ma soprattutto sull'aspetto della pianura padana nel pieno e tardo secolo XII perché è di questa, evidentemente, che si tratta in particolare. Il paesaggio agrario, come avremo più avanti modo di meglio precisare, appare ora completamente mutato: campi coltivati, evidenti opere di irrigazione, spazi organizzati soprattutto per il frumento, ma anche castagni e fichi, i primi probabilmente da vedersi sui declivi, sulle colline, verso il passo di Monte Bardone e, in genere, verso gli Appennini. Vi è insomma, in questa descrizione del corso del fiume lento e fertile, al di là della mediazione letteraria virgiliana abbastanza evidente, una diretta immagine della pianura coltivata ma anche un'immagine del nuovo rapporto città-campagna e dei nuovi modelli di coltivazione del territorio. Questi sono strettamente legati, è certo, all'introduzione di diverse tecniche agricole, l'aratro a versoio soprattutto, diversi tipi di traino animale, l'attacco a spalla al posto di altri tipi di attacco degli animali, l'uso più diffuso del cavallo e una diversa alimentazione dei bovini addetti a coppie al traino dell'aratro o del carro, infine la maggior diffusione dell'uso del mulino ad acqua che determina, di fatto, una vera e propria rivoluzione tecnologica e libera, per altri lavori, i contadini. Il testo di Ottone di Frisinga prosegue con una dotta dissertazione sulla denominazione degli Appennini e delle Alpi, dissertazione che a noi interessa nei limiti in cui di fatto chiarisce la reale ambiguità terminologica con cui queste due entità geografiche erano indicate nel XII secolo; l'errore dunque (94) muove da Isidoro da Siviglia che ricorda come la Pannonia, l'Ungheria, sia circondata dai monti Appennini mentre, altri, prendendo spunto da Genova, identificano Appennini ed Alpi; Ottone naturalmente ribadisce il suo discorso precedente che individua le Pyrenaeas Alpes al nord e l'Apenninum o il mons Bardonis a sud, anch'egli peraltro non avvedendosi che la confusione terminologica permane egualmente quando si estende il nome di Pyrenaeus alle Alpi stesse. Dunque si può concludere, onde evitare fraintendimenti, che nella geografia medievale d'Europa i termini per indicare, almeno nel secolo XII, ma anche in seguito, le catene di montagne erano di fatto tre, Alpi, Pirenei, ed anche Appennini.

Non troppo distante nei tempo da quanto scritto da Ottone di Frisinga dobbiamo collocare un altro e importantissimo testo, la Cronica de gestis Riecardi I (95), che descrive il viaggio dalla Puglia a Roma al nord di Filippo Augusto re di Francia di ritorno dalla III crociata (1191). L'itinerario, preciso e dunque per noi di estremo interesse, risulta essere, anche più, utile strumento di lettura della geografia storica della penisola perché, di fatto, collega due percorsi che nelle cronache e nelle funzioni simboliche di solito sono presentati divisi, quello che reca al porto di Brindisi, oppure ad Otranto e a Bari e, prima, al Gargano e quello che reca a Roma; il primo è principalmente l'itinerario dei commerci ed anche delle crociate, il secondo invece è quello romeo e di cui abbiamo più volte parlato; ripercorrere queste tappe di viaggio è necessario per individuare, come si diceva, un buon tratto della nostra geografia storica ma anche per valutare, nel tardo secolo XIII, la componente fondamentale delle strade di comunicazione nel sistema europeo e per comprendere meglio l'importanza estrema del passo di Monte Bardone, filtro e punto di incontro, in certo senso vero e proprio imbuto, delle strade europee dirette al sud.

Tancredi re di Sicilia dà dunque a Filippo re di Francia licenza di attraversare la propria terra e le navi attraccano presso Otranto: ecco poi Lecce, Brindisi, Bari con la sua tomba di San Nicola, Trani, Barletta, " Salpi ", Troia, Sant'Eleuterio, Benevento, dove è il corpo dell'apostolo Bartolomeo, Maddaloni, Capua, Calvi, Teano, Caiazzo (?), Mignano, Cassino con la sua abbazia dove riposa il corpo di San Benedetto, Aquino, Frosinone. Filippo quindi ottiene licenza da Enrico, l'imperatore, per attraversare le sue terre, passa così per Anagni, Montefortino, infine arriva a Roma dove avviene l'incontro col pontefice, la visita delle reliquie di Pietro e Paolo e la Veronica, e la trama contro Riccardo re d'Inghilterra di cui non serve certo qui render conto. Il viaggio del sovrano prosegue dunque verso nord, per Castellum Sancti Petri, Sutri, Viterbo, Montefiascone, Santa Cnstina, Acquapendente, Radicofani, Le Bricole, San Quirico, Buonconvento, Siena, "la marche castellum ", " Seint Michei Castel/um ", Castelfiorentino, " Seint Denis de Bon revast ", l'Arno bianco e l'Arno nero (cioè due rami dell'Arno variamente attestati nel medioevo), "la Grosse-Geline ", Lucca coi suoi molti Ostelli. Prosegue quindi nel tratto che più ci interessa per Munt Cheverol che è Capriglia presso Pietrasanta, per " Saint Leonard " che è presso Massa, per Luni " maledictam civitatem episcopalem ", "Sanctam Mariam de Sardena " che è Sarzana, Lealville " che è Villafranca, " Punt Trembie " che è Pontremoli, "Muni Bardun" che è Montebardone, "Saint Benoit in monte Bardun" che è Montelungo, " Saini Morani (cioè Moderanno) in monte Bardun " che è Berceto, "Cassem" che è Cassio, "Mi/an " che è un'interpolazione al posto forse di altro nome ora non ricostruibile, "Furnos" che è Fornovo, "Semi Domin" che è Fidenza, "Florentia" che è Fiorenzuola, quindi Piacenza, Pavia, Mortara, Robbio, Vercelli, Maurienne e infine tocca la Francia (96).

Per il tratto della "via " che qui a noi interessa più da vicino, ho riportato tra virgolette i nomi indicati nella Cronica; si può osservare come, rispetto anche alla frequenza delle tappe nelle altre zone d'Italia, il percorso per Monte Bardone risulti notevolmente più fitto di stazioni, sia subito prima delle montagne e cioè nel tratto tra Lucca e il colle, sia nel tratto da questo a valle fino a Borgo San Donnino; al confronto la via delle Alpi appare molto meno guarnita, dotata cioè di molti meno servizi, con centri disposti a molto maggiore distanza. La strada infine aveva il suo punto focale nel passo che era, di fatto, un punto di raccolta di itinerari diversi; quello dalla Germania, per esempio nei Gesta di Federico I arrivava a Parma attraverso probabilmente Verona e Mantova, mentre la strada per guadagnar la Francia seguita da Filippo Augusto taglia verso Borgo San Donnino, Fiorenzuola, Piacenza, Pavia. Tutto questo evidentemente deve suggerirci di non essere eccessivamente schematici nel delineare l'itinerario della strada romea, anzi, come è ormai ben chiaro, gli itinerari romei (97).

Ma, lo abbiamo detto, queste non sono le sole fonti; ne restano altre, preziose, che la bibliografia specialistica di solito non considera e che pure sono di grandissimo interesse, alludo alle Chanson de Geste sulle quali il dibattito è ampio e ricco. Se vi è un problema che nella nostra storiografia artistica entra appena di sfuggita esso è proprio quello della Chanson de Geste e vi entra, naturalmente, per merito di uno studioso di scuola francese, cioè di quella scuola che alla Chanson de geste ed ai suoi temi ha dato i massimi contributi vuoi nel secolo XIX che nel nostro. Alludo ad Emile Màle ed alla sua trattazione del problema nel volume L'ari religieux du XII siècle en France (98) quando analizza il pellegrinaggio in Italia, un saggio che è di fatto ulteriore al nucleo principale delle ricerche del Bédier sulla Chanson de Geste (99) e che ha a sua volta dietro una grande tradizione e dibattito critico dal Paris (100) al Rajna (101).

Ma che cosa è una Chanson de Geste e perché essa interessa qui da vicino, in una ricerca sulla strada Romea?

Discutendo del vario ordine delle fonti sulla strada dei pellegrinaggi abbiamo distinto per comodità i documenti dalle cronache o dagli itinerari, ma quale è adesso l'incidenza dell'invenzione della Chanson de Geste sulla narrazione del viaggio stesso, quanto gioca insomma il racconto nella costruzione mitica dell'itinerario?

Le antiche tesi, quelle che vogliono vedere un " primo stato " della Charison de Geste attorno al IX secolo, in età immediatamente carolingia, dal quale deriverebbero poi, attraverso una serie di modifiche, le chanson del secolo XI e del XII, appaiono oggi largamente superate dalla analisi del Bédier (102)1 e superate anche sono quelle, più strettamente connesse alla Chanson de Roland, che vorrebbero l'autore della Chanson come una specie di ordinatore di antiche saghe precedenti, come nel caso del Nibelungenlied o, naturalmente, come la critica filologica tedesca ha accertato per Omero (103). Il problema della Chanson de Geste è un problema europeo ma non è semplicemente filologico e nostro compito, sia pure per il breve tratto che concerne l'analisi di queste pagine (ma un tratto della strada Romea che è focale, come sappiamo, nell'ottica della cultura d'occidente) nostro compito è cercare di restituire la complessità di questa tematica, le scelte, le motivazioni che stanno a monte collegando finalmente i vari piani. Cerchiamo dunque di rendere conto di tutta una serie di conclusioni che la storiografia nei vari ambiti ha raggiunto e che possiamo nella sostanza condividere: tramontata l'ipotesi di un blocco di leggende o di elaborate vicende storiografiche poi scomparso e che avrebbe lasciato appunto il posto ai cantari superstiti, resta il problema della ragione della loro origine che non può farsi certamente risalire, anche nel caso dei testi più arcaici, oltre il secolo XI. Insomma, si domanda giustamente, il Bédier, perché mai cantare, due secoli e mezzo o anche tre secoli dopo la sua morte, Carlomagno ed i suoi eroi, come mai ritornare all'immagine di un sovrano come questo, come mai inserire personaggi come i suoi cavalieri, come mai dunque Orlando, come mai, visto che parliamo dei pellegrinaggi in Italia, raccontare di Ogier de Danemarche?

D'altro canto Emile Màle si pone problemi analoghi ma principalmente nell'ambito della storia artistica anche se, evidentemente, ha dietro alle spalle, come si diceva, il lavoro quasi secolare della ricerca francese e non solo francese su questi temi. La risposta dunque dei due storici è coincidente: le strade dei pellegrinaggi sono la spiegazione d& sorgere dei cantari di gesta, e la loro origine deve vedersi all'interno di queste " vie" lungo le tappe verso i santuari, lungo gli itinerari che dalla Francia conducono a Compostela all'estremo nord ovest della Spagna o che ancora dalla Francia, umbilicus di questo universo feudale, portano all'Italia.

Abbiamo già detto più volte che la strada dei pellegrinaggi, peraltro, non è soltanto dei pellegrinaggi, che è la strada, anzi, sono le strade, delle grandi correnti di traffico, dei grandi rapporti internazionali, sono le strade europee per eccellenza, le strade che dimostrano l'unità di una cultura. La costruzione di Emile Màle per molti aspetti, e del resto essa nasce nei primissimi anni venti, risente di una impostazione metodologica che caratterizza in generale la scuola archeologica francese ed in particolare la ricerca di Marcel Aubert, e cioè tende a trasferire uno schema evolutivo di cronologia organizzato per i grandi cicli francesi a tutti i prodotti artistici d'Europa e in particolare a quelli italiani (104); il risultato naturalmente è che quanto, poniamo, accade in Italia agli inizi del secolo XII, pezzi plastici che sono scolpiti addirittura a fine XI secolo, sono spesso trasferiti quaranta, cinquanta anni dopo e monumenti architettonici importantissimi, come quelli nord italiani e, in particolare, quello modenese, per non parlare di quello parmense, sono portati avanti, fino verso la metà del secolo (105). Il problema evidentemente, nonostante i grandi contributi recati dai due studiosi, non poteva essere risolto nei termini della cultura dei primi decenni del nostro secolo o, almeno, non poteva essere risolto nell'ambito di una storiografia evoluzionistica come quella francese, storiografia che situava, come è noto, i grandi monumenti di Cluny III, l'abbazia borgognona centro di un vero e proprio sistema europeo di cultura, l'abbazia che produce la cultura rinnovata d'occidente, l'abbazia dove di fatto si forma, tanto per citare un nome soltanto, Gregorio VII e da dove escono decine di grandi prelati sparsi poi per tutto l'occidente, situava quei monumenti avanti nel secolo XII, circa al 1130 ed oltre ritenendoli troppo raffinati per essere stati prodotti a fine secolo XI quando i documenti storici, le cronache e un'attenta ricerca suggerivano porli. Era dunque la Languedoc, la grande Languedoc che aveva la palma, secondo quella storica ricostruzione, nelle antecedenze in direzione della creazione di una lingua romanica, era il Salnt Sernin de Toulouse, era il chiostro di Moissac, era il portale di Moissac stessa che venivano posti come monumenti guida di una intera civiltà. Siamo al Saint Sernin, come è ben noto, con i frammenti del portale ora murato nel deambulatorio nell'abside, verso il 1096, con il chiostro di Moissac entro il 1100, con il portale di facciata della chiesa di Moissac entro il 1115 circa (106). Questa ricostruzione archeologica, cioè evoluzionistica, che poneva il più raffinato, e cioè gli splendidi capitelli del deambulatorio di Cluny III (cioè della III chiesa di Cluny), alla fine di un percorso e non agli inizi venne smontata punto per punto e con geniale intuizione dal maggiore studioso che il medioevo d'occidente abbia avuto, e di gran lunga, il Kingsley Porter, prima di tutto un accanito filologo, quindi uno storico della cultura, cioè uno storico, appunto. Ecco, nella selvosa Borgogna, attraverso un'opera di concentrazione di energie culturali eccezionale, per l'azione di alcuni abati di alta cultura, vengono chiamati architetti a progettare la chiesa più grande della cristianità, l'abbazia di Cluny, la chiesa che diventa il fulcro di un ordine ramificato in tutto l'occidente; si crea in Borgogna una scuola scrittoria e di minio che ancora oggi, dopo le ricostruzioni dell'Oursel (107) è tra le principali mediatrici all'occidente da un lato della tradizione ottoniana dall'altro della cultura bizantina; si elabora qui l'analisi di testi antichi, si concentra una biblioteca eccezionale, si mettono a punto nuove tecnologie costruttive. L'antecedente esperienza dell'architettura borgognona, come il Saint Etienne di Nevers (108) oppure Charlieu (109) vengono intesi ma trasformati architettonicamente in un sistema profondamente diverso dalla cultura lombarda, la cultura delle volte, dei muri spessi, delle finestre solo in facciata ed in abside e della grande navata mediana buia; il problema architettonico di costruire una grande chiesa luminosa, organizzata all'interno per le processioni, per le cerimonie e i percorsi attorno alle reliquie situate nell'abside fa elaborare una tipologia nota già (se si vuol essere attenti al modello della fruizione delle reliquie) in età bizantino-ravennate nelle cripte ad anello e deambulatorio e conosciuta anche in età ulteriore (110) e fa elaborare però e su ben altra scala un sistema di copertura che rivoluziona completamente la tradizione del primo romanico lombardo, quello a volte a botte spezzata assai più funzionale rispetto a quello a botte semplice, sistema che in Italia sarà "tradotto " da Lanfranco a Modena, e dai suoi seguaci, in copertura a capriate. Ecco dunque, a livello europeo, il contributo di Cluny e del suo modello che, del resto, prima Porter e poi Conant, l'altro archeologo americano (111), hanno a fondo analizzato. Ma Porter per primo, nella scultura, intuiva che il centro culturale allora d'occidente, di un occidente organizzato sotto una regola più rigorosa, in parte riformatrice dei modelli del papato romano, quella regola che, come sappiamo, attraverso Gregorio VII (112), verrà esportata in occidente e che troverà propugnatori fino al tempo di Papa Pasquale Il, quel luogo non poteva essere venuto a rimorchio di aree culturalmente fecondissime ma tanto meno focali come la Languedoc. I capitelli del deambulatorio erano così restituiti alla loro esatta e assai arretrata cronologia, al 1088-1095 circa e, con loro, naturalmente arretravano tutta una serie di testi plastici nell'area borgognona, altrettanto importanti per l'occidente e direttamente da quei modelli derivati. Qualcuno a questo punto potrà anche domandarsi come si leghi questa vicenda apparentemente distante, questa storia di cronologie dibattute tra due scuole di storici dell'arte col nostro tema, con le vie dei pellegrinaggi; la risposta è semplice, anzi ovvia: se la nostra strada, la strada di Monte Bardone, è una strada europea, e, almeno a partire dal secolo XI, deve essere considerata tale, i problemi che essa ci pone sia a livello di rapporti internazionali che a livello di intersecati contatti nord-italiani andranno veduti alla luce della situazione europea e, ovviamente, non solo di quella " artistica "; " arte infatti, se non si accetta il modello funzionale a una certa classe che è quello idealistico, arte è strettamente legata all'universo della cultura, delle idee, alla riflessione, e, anche più evidentemente, alla politica. Vi sono fatti, dico " artistici ", fatti nella nostra regione, come chiariremo più avanti, che non si spiegano oggi che attraverso un'analisi delle vicende storico-culturali d'occidente. Ecco dunque perché la questione della cronologia della scultura in Borgogna ha riflessi diretti su quella della nostra scultura e, prima di tutto, su quella dibattutissima alla cattedrale di Modena che pare vada situata, ad un'attenta analisi (113), entro il primo quindicennio del secolo e forse entro il primo decennio; Wiligelmo, d'altro canto, e come mi è già accaduto di mostrare, è strettamente collegato a Cluny, e non solo formalisticamente, come del resto lo è il suo parallelo e, probabilmente, creato borgognone "Maestro delle Metope", ma proprio culturalmente, perché rappresenta, con la nuova iconografia, non solo e non tanto la "via dei pellegrinaggi ", il che sarebbe tautologico (ed infatti le tesi del Màle pur originalissime rispetto alla contemporanea storiografia regionale, sono tautologiche: gli scultori attivi sulla via dei pellegrinaggi sono scultori attivi appunto sulla via dei pellegrinaggi e ne illustrano dunque uno " stile "), ma un nuovo modello, una nuova ideologia. Se Wiligelmo è legato a Cluny stilisticamente, cioè formalisticamente, lo è ancora di più culturalmente, e lo sono molti dei suoi diretti e indiretti seguaci; ricercare le tracce della diffusione della lingua di Cluny in occidente vuol dire, di fatto, seguire la diffusione di una riforma della ecclesia, di quella riforma che falli nelle intenzioni e nei rigori di Gregorio VII (114) ma che venne sviluppata, arricchita dai pontefici ulteriori, specie da Urbano Il e quindi da Pasquale Il; fu una riforma che si trasformò per strada, da pauperistica e antisimoniaca divenne un generale tentativo della chiesa di Roma di rendersi indipendente dalla pesante tutela imperiale, e fu anche una riforma che costò di fatto al papato, come ha avvertito bene il Miccoli (115), l'intera scacchiera del potere episcopale nelle città del settentrione italiano che infatti in quel periodo, da città dominate dai vescovi-conti, si trasformarono in genere in liberi comuni. Fu questa comunque una riforma solo dall'alto che tentò di trasformare completamente la funzione della chiesa nei confronti del pubblico dei fideles. Uso le parole " dall'alto " e " pubblico " proprio per mostrare lo stacco dalle intenzioni della riforma al suo nascere che sognava una ecclesia povera, una ecclesia analoga a quella che i patarini, i riformatori milanesi, i lombardi " arnaldisti " poi diffusisi variamente nella seconda metà del secolo XII, chiedevano; riformatori che ben presto, nel secolo XTI e più nel XIII, diventarono " eretici " e come tali adesso ci sono consegnati dalla storiografia ufficiale di parte ecclesiastica, la sola fonte, purtroppo, che di quei movimenti ormai ci resti (116).

Il problema delle strade dei pellegrinaggi sta di fatto intersecandosi col grande tema della politica medievale, questione-chiave della cultura occidentale: il rapporto tra Chiesa ed Impero. Per comprenderne peraltro le valenze, per far toccare con mano al lettore la ricchezza di questa problematica, l'importanza della vicenda, il peso dei suoi attori, non potremo mancare di segnalare, per l'unica parte della via dei pellegrinaggi che sia stata studiata dagli storici dell'arte, quella che dalla Francia reca direttamente a Compostela, alcuni fatti, e soprattutto il senso di una organizzazione penitenziale, non saprei come altrimenti chiamarla, gestita tra ultimi decenni del secolo XI e XII secolo da Cluny. Quando prendiamo in mano il principale testo sulla strada dei pellegrinaggi, appunto il Codex Calixtinus, troviamo che esso si compone di varie parti collegate tra loro o, meglio, di parti che, ad uno sguardo superficiale, appaiono " stranamente" collegate tra loro e che sono: una raccolta di passi da Sant'Ambrogio, Agostino, Gerolamo su San Jacopo, quindi inni, sermoni, panegirici e poi passi di Beda il Venerabile, lo storico della gente angla; una rassegna di ventidue miracoli di San Giacomo stesso; la narrazione della traslazione del corpo di San Jacopo da Gerusalemme, dove era stato martirizzato, a Iria in Spagna, all'estremo nord della Galizia e quindi a Compostela, più all'interno; la cronaca dello pseudo-Turpin o di Turpin, supposto vescovo di Reims venuto al seguito di Carlomagno in Spagna dove si narrano appunto, di Carlo, le spedizioni nella Spagna occupata dagli arabi. Sono queste però mitiche spedizioni che nulla hanno a che fare con quanto in effetti avvenne, e che assegnano a Carlo la conquista dell'intera area settentrionale della Spagna e quindi l'organizzazione di fatto della via del pellegrinaggio fino a Compostela e dove si inseriscono anche l'episodio di Roncisvalle e molti altri che non hanno, come invece quello, storico fondamento, ma che sono però diffusi, come ha notato il Bédier (117) nella Chanson de geste contemporanea e cioè dei secoli XI e XII. Tutta l'opera viene attribuita a papa Callisto TI (papa dal 1119 al 1124) che avrebbe redatto il testo e lo avrebbe consegnato ai posteri con la notizia della sepoltura dei vari eroi di Roncisvalle nei grandi cimiteri tardoantichi come gli Aliscamps o nei santuari, e quella di Turpin stesso sepolto a Vienne. L'ultimo testo del così detto codex Calixtinus è la Guide du Pélerin, che spesso viene edita a parte (118) e che è una vera e propria illustrazione, come mi è già accaduto di segnalare (119) della strada dei pellegrinaggi dalla Francia a Compostela: è qui che si individuano le quattro vie che muovono dal Saint Martin de Tours, da La Madeleine di Vézelay, da Notre Dame du Puy, dal Saint Trophime di Arles e convergono, passando rispettivamente per St. Jean d'Angely, St. Hilaire de Poitiers, St. Eutrope de Saintes, St. Sernin di Bordeaux; per St. Leonard, St. Front du Périguetix per S.te Foy de Conques, St. Pierre de Moissae, convergono tutte e tre ad Ostabat e Roncisvalle, mentre l'ultima, che segue un percorso più meridionale che dalla Provenza va all'Aquitania, passa per St. Gilles, Montpellier, Toubuse, Taca e si unisce con le altre tre a Puente la Reina oltre ormai i Pirenei.

Il Bédier (120) ha acutamente notato che la prima pagina del codex Calixtinus offre la chiave della stia composizione e permette di dirimere la questione dello pseudo-Turpin e della eventuale unità di programmazione oppure semplicemente della casuale riunione di questi cinque testi in uno stesso manoscritto. Leggiamo dunque "Hunc codicem prius Ecclesia Romana diligenter suscepir. Scribitur enim in compluribus locis, in Roma scilicet in Hierosolimitanis oris, in Gallia, Theutonica, in Frisia, er praecipue apud Cluniacum ". Ecco dunque che il manoscritto viene detto redatto in vari luoghi d'occidente e di oriente, dalla Gallia a Roma, dalla Germania alla Frisia ma "soprattutto " a Cluny. La chiave sta evidentemente in questa affermazione finale, che il manoscritto appunto è stato redatto a Cluny. Ma allora viene da chiedersi che funzione hanno da un lato il papa Callisto II e Turpin dall'altro; nessuno dei due, lo mostra l'analisi dei testi, può avere collaborato alla redazione delle sezioni loro attribuite dal codice, nè Callisto a quella relativa ai miracoli e alla agiografia del santo, né Turpin, lo pseudo-Turpin per i moderni storiografi, a quella delle gesta di Carlo in Spagna. La chiave di questo intricarsi di fatti si deve trovare a due livelli, un primo ovviamente filologico, un altro storico culturale.

Dal punto di vista dell'analisi interna dei testi si deve riconoscere che la redazione dell'intero lavoro dello pseudo-Turpin non può andare più indietro del 1140-1150 circa visto che esiste del Liber una autentica, falsa come quella di Callisto II, di Papa Innocenzo 11(1130-1143) e che esso può certamente rispecchiare e rispecchia fatti precedenti, però non fatti storici, ma le leggende, i cantari di Gesta che erano diffusi ormai dal secolo precedente lungo tutta la strada dei pellegrinaggi. Ci si chiede, quindi, accertata la cronologia, che del resto un'analisi della " Guida ", l'ultima sezione del " Liber ", conferma anche se forse portando questo quinto blocco qualche anno indietro, rispetto agli altri testi, ci si chiede la motivazione di un'opera agli occhi del moderno studioso tanto composita, così da essere spesso edita per sezioni o frammenti e da non avere, in genere, mai una considerazione organica.

Coloro che si interessano di canzoni di gesta analizzano lo pseudo-Turpin e la sua cronaca delle imprese di Carlo in Spagna, gli storici dell'architettura e scultura medievale, compreso il Porter, la Guide du Pelerin, gli agiografi le sezioni della Traslatio del corpo di Giacomo e quelle che raccolgono un'antologia di scritti sul santo stesso. Conviene quindi volgere la nostra attenzione al tipo di struttura dei testi di riferimento " storico " che di consueto viene proposta nel secolo XII per intendere se il Codex Calixtinus è un centone casuale oppure un sistema organicamente pianificato. La logica interna, e il confronto con le " enciclopedie "da Isidoro di Siviglia (121) a Beda (122) permette di rispondere che il blocco dei cinque testi è necessariamente unitario, rappresenta evidentemente un pianificato insieme di fatti ad uso ed edificazione dei contemporanei, uno sforzo certamente collettivo, ma con origine in un punto soltanto della cultura occidentale, per organizzare a livello storico un fatto che ha a monte motivazioni politiche. Insomma il codice compostelano è organicamente costruito: abbiamo l'antologia dei testi che mostrano la santità e l'importanza storica di San Giacomo; la dimostrazione dei suoi miracoli e in particolare di quelli dopo il trasferimento da Gerusalemme alla Galizia; la " storica " narrazione delle guerre contro i saraceni (che avevano di fatto bloccato il proseguire del culto alle sacre reliquie) condotte da Carlo e dai suoi cavalieri; infine una guida, perfettamente costruita, per il pellegrino che dalla Francia volesse recarsi appunto in Spagna.

Se ora consideriamo che l'ordine di Cluny è non soltanto il principale organizzatore anzi, di fatto, l'unico organizzatore a livello architettonico, plastico e, per quanto possiamo indurre, pittorico, e quindi in genere culturale (manoscritti, insegnamento presso i monasteri, le chiese) della strada per Compostela dalla fine del secolo XI al XII secolo, se consideriamo che è Cluny a promuovere l'intero movimento politico, ancora nel secolo XI, di appoggio ai sovrani cattolici in Spagna per la riconquista " contro gli Arabi, se consideriamo che intere spedizioni sono organizzate dalla Borgogna, cioè dove è massima l'influenza di Cluny, intenderemo il senso e segno di questa organizzazione europea del pellegrinaggio ed anche il senso che il pellegrinaggio allora doveva assumere. Non dunque quello, vagamente pietistico e post-tridentino che vede il pellegrino penitente e umiliato, ma l'altro, ben diverso, del pellegrino soldato del Cristo, del pellegrino cavaliere armato che lotta, traversando tutto l'occidente, per una giusta causa e muore eventualmente, come i prodi di Roncisvalle, per quella giusta causa. Il sangue dei martiri, appunto, è segno e unzione di nuovi eroi, l'esempio di Carlo, l'imperatore-" santo ", si confonde sempre più con la vicenda contemporanea, quella appunto della cacciata degli arabi dalla Spagna. Ma, conviene domandarsi, che rapporto hanno i santuari sulla strada dei pellegrinaggi con le strade stesse, e sono quelle le sole possibili verso la Spagna, e, da ultimo, che senso ha questo iter compostelano in un momento tanto critico della cultura occidentale quando si era già elaborata nell'Europa cristiana una politica importantissima, quella che vedeva nella crociata il momento culminante, l'inveramento della funzione dei sovrani in quanto "unti dal Signore"?

Nel 1095, il 18 novembre, si apre a Clermont Ferrand il Concilio che Urbano II guida e il 27 novembre è qui, in Borgogna appunto, che il Papa predica la crociata; non solo in Borgogna naturalmente ma, dopo lì, per tutta la Francia ed in occidente dalla Germania all'Italia, da Genova a Bologna fino a cima; ma la predica della crociata, che è stata costruita storicamente dal Runciman (123) e a livello di mitologie collettive dell'Alphandery (124), secondo una concezione storiografica i cui limiti sono stati indicati dal Miccoli (125), è stata preceduta nel corso del secolo XI da una serie di più eloquenti e più larghi pellegrinaggi alla Terrasanta come attestano numerosi cronisti- tra cui Raoul Graber (126). Il tema del viaggio ancora una volta però si intreccia a quello della Chanson de Geste che " copre " quindi, né vi era bisogno di dirlo, anche questa altra grande branca del pellegrinaggio questa volta ad oriente; è Carlomagno quindi che guida, in un testo composto prima del 1095, una vera e propria spedizione per liberare dagli infedeli i luoghi santi (127). Storicamente, come sappiamo, la predicazione di Urbano II non chiedeva tanto la liberazione di Gerusalemme quanto l'aiuto la chiesa d'oriente oppressa e assediata dagli fedeli e la crociata si inseriva in una politica ormai mediterranea ed unitaria della ecclesia. Ma entro questo binario politico si trovavano altri filoni, quelli che spiegano il segno e il carattere te assume in occidente la via dei pellegrinaggi. ludo alle crociate dei poveri, alle crociate come movimento popolare, alle crociate quale quella, ben nota, di Pietro l'Eremita che precedono, di fatto, quella, sola efficace, dei " cavalieri ". Lasciare dunque i propri beni, lasciare i parenti, le mogli, figli per prendere la croce, che era anche fisicamente spesso incidersi sulla spalla destra con una croce, lasciare i propri beni sotto la garanzia della chiesa che li avrebbe, nel periodo del viaggio in Terrasanta, amministrati, votarsi alla crociata e quindi potenzialmente al martirio sono fatti che danno, al pellegrinaggio per le strade d'Italia, un sapore diverso da quello apparentemente disincantato, laico, narrativo che potrebbe a prima vista trasparire da una superficiale analisi della Chanson de geste.

L'itinerario italico, in molte canzoni di gesta francesi, appare perfettamente delineato e così lo sono tappe del percorso; qui, facendo rimando ancora una volta al Bédier (128) ricorderemo le principali che di tatto coincidono con quelle che già relazioni storiche da noi più sopra discusse ci hanno mostrato e in parte le integrano. Discutendo le La Chevalerie Ogier de Danemarche (129), dal nostro punto di vista il principale tra i testi in questione, in quanto descrive nei particolari proprio la Strada Romea fino al passo di Monte Bardone ed oltre, vedremo di cogliere alcuni dei temi simbolici della Chanson de Geste stessa e l'eventuale significato da attribuire quindi anche alle rappresentazioni così dette profane che troviamo, legate appunto alla Chanson in generale, sulla via dei pellegrinaggi verso Roma e soprattutto quella verso Gargano, Bari, Otranto.

I passaggi delle Alpi dunque erano numerosi, si varcava il Gran San Bernardo (Monjeu) e si percorreva la Val d'Aosta; la valle dell'Arc, il Moncenisio e la valle della Dora Riparia; il Monginevro o il Col di Tenda e si costeggiava la riva del mare lungo il percorso della strada Romana Aurelia. Dopo Aosta si veniva a Camera (Cambre) a nord di Ivrea; oppure dal Moncenisio si scendeva in Val di Susa dove era notissimo l'ostello che dipendeva dalla abbazia della Novalensa uno dei punti più citati sulla via dei pellegrinaggi d'Italia, tappa obbligata non solo degli itinerari storici ma anche di questi mitici della Chanson de geste. Dal Moncenisio si passava a Susa e quindi a Torino; dal Gran San Bernardo attraverso Ivrea si andava a Pavia, Piacenza; si seguiva quindi la via Emilia per Parma, Reggio, Modena, Bologna, Imola e si passava l'Appennino verso Bagno e quindi verso Arezzo dove si giungeva alla via Cassia che, attraverso Viterbo e Sutri, portava a Roma. Alternativa a questo percorso era la strada di Monte Bardone oltre il quale si andava a Pontremoli, Lucca, Siena e infine ancora Viterbo, Sutri, Roma.

L'analisi dei vari itinerari, a cominciare da quello di Sigecico arcivescovo di Canterbury (+994) da Roma alla Manica attraverso il Gran San Bernardo (130); a quello citato delle Gesta Ricardi del 1191; a quello di Albert abate di Stade presso Brema, negli Annales Sradenses (ante 1256) (131) da Stade a Roma percorrendo Belgio e Francia; a quello della Cronaca di Mathieu de Paris (+1259) dall'Inghilterra al Santo Sepolcro (132); l'analisi di tutti questi itinerari ci porterebbe evidentemente fuori strada, comunque è ormai dimostrato il fatto che, per ciascuna di queste tappe, la Chanson de Geste ha costruito una parte del suo racconto. Per ciascun santuario, per ogni luogo storico cioè esiste un episodio, l'accenno ad una sosta, una vicenda delle numerose che la chanson ha ambientato in Italia. Piuttosto che seguire però, tappa per tappa, le menzioni nelle Chansons de Geste, ricordiamo che due principalmente si svolgono in Italia e sono riconducibili a precisi punti della strada romea, Ami et Amile che fa centro su Mortara e La Chevalerie Ogier de Danemarche che si incentra su varie - stazioni - e su Monte Bardone in particolare. Quest'ultima Chanson de Geste quale oggi la vediamo è frutto di una rielaborazione del principio del XIII secolo (133), ma certamente riprende i temi di un racconto più antico, forse dell'XI secolo, c parallelo a quello che vede Carlomagno guidare una crociata in Terrasanta. Ma chi fu, nella realtà, Ogier? Un vassallo di Carlomanno che si rifugia nel 772 presso Desiderio re dei Longobardi recando con sé i due figli di Carlomanno che Carlomagno voleva invece eliminare e che, nel 773, combatte, al fianco di Desiderio, Carlomagno stesso. A questi fatti storici la narrazione sostituisce una vicenda molto più complessa; il figlio di Carlomagno Charlot uccide con un colpo casuale proprio il figlio di Ogier e questi chiede la vita di Charlot a Carlo che rifiuta; Ogier allora si rifugia presso Desiderio, combatte con lui Carlo, fugge quindi lungo la strada Romea da Pavia fino a Monte Bardone, è assediato quindi in Toscana in " Castelfort " per sette anni, infine è fatto prigioniero, mentre dorme, dal vescovo Turpin e portato alla corte di Carlo; qui, invece di essere ucciso, viene salvato dallo stesso Turpin che, nel carcere dove è rinchiuso - si ritiene - a morire di inedia, lo alimenta con uno stratagemma. Intanto i saraceni incalzano l'impero di Carlo e la nobiltà e i guerrieri chiedono a lui di far tornare Ogier; alla fine l'imperatore, che riteneva il cavaliere morto, apprende da Turpin la verità, manda a chiamare Ogier e gli dà il figlio perché sia sacrificato a patto che il guerriero lo aiuti nella lotta. Ogier accetta ma, mentre sta per uccidere il ragazzo, un angelo gli ferma la mano e, nuovo sacrificio d'Isacco, il gesto omicida non si compie; naturalmente e in compenso le schiere saracene sono battute. Ma ecco il passo della fuga di Ogier davanti a Carlo dopo la sconfitta di Desiderio a Pavia: dopo Borgo San Donnino viene " Maradan " (tra Borgo San Donnino e Fornovo); e quindi (134):

Fuit sen li deux davant le roi de France, (w. 5940)

Par nul endroit n'oisoit Kallon entendre;

Passa Pennuble et Fornel et Pontramble

Et Guillés et Perrot et Cerchamble;

A Malchitra en son chemin en entre

Tot droit vers Lun comenca a estendre.

Pennuble sta tra Pontremoli e Luni, Fornel è Fornovo, Pontramble è Pontremoli, Guillés non è identificato, Perroi sta tra Pontremoli e Luni, Cerchamble non è identificato. Le tappe sulla Romea di Ogier sono: Mongieu (Monginevro, Fabbazia di San Bcrnardo), Ivrea, Vercelli, Mortara, Pavia, Piacenza, Borgo San Donnino, Fornovo, Pontremoli, Luni, Capriglia, il Serchio e Lucca, l'Arno Nero e l'Arno Bianco, Chianni. Per avere un'idea del testo si possono ancora citare due passi, uno riferito al Monginevro, il secondo all'assedio del mitico castello (non identificato ovviamente) in Toscana dove è chiuso Ogier:

Hoiel de Nantes est la rice Namon, (w. 4595)

De dolce France les chevaliers barons,

Que de Mongieu repasseront le mons

Et ces pais tot quite vos lairons:

Ja de Romagne plain pié ne clameront.

Tant sisi li rois au castel en Toscaine (w. 8443)

Desus le Rosne dejoste la montaigne,

Qui li baron ont oblié lor femes

Et br enfans et lor maisnies gentes.

Li fourer corrent dusq'as pors de Romainne,

Per force prisent la terre d'Equitaigne,

et pechoierent et Valence et le Cemble.

Par sous la terre en Lombardie en entrent;

A icel tans une cité comenchent:

Li rois l'ama, sel mist a non Plaisence.

Quale dunque il senso da dare a questa avventura di Ogier? E quale quello da dare ad Ami et Amile (135), i due guerrieri che egli uccide e nel cui poema, dallo stesso titolo, torna citato ancora una volta Mont Bardon?

Par Monbardon s'en sont outre passé;

Ne me chaut mais des jornees conter,

Tant onì tuit troi esploitié et erré

De Rome virent les murs et les piliers.

Droit a Monjoie descent Ami li ber.

Dove Mongieu, come chiarisce il Bédier (136) è l'antico Clivus Cinnae, Mons Malus o Mons Marius nel Medioevo ed anche Mons Gaudii (Montjoie). Le citazioni delle tappe del pellegrinaggio dei cavalieri della Chanson de Geste in Italia potrebbero continuare ma preferisco chiuderle con una ancora una volta tratta dalla Chevalerie Ogier relativa a Lucca e dal Volto Santo.

[ (w. 9076-9084) (137)

Desus la rive s'estut li rois des Frans

Et s'oi messe a Saint Malme le grant.

Le Veu de Licques i estoit a cel tans;

Encor i est, ce dient li auquant:

Nicodemus le fist en ]ersalem.

Kalles i offre un paile a or luisant

Et trente mars, entre or fin et argent,

Que au Danois enovist Dex honte grant.

Du mostier ist et ses barnages granz.

Dunque ancora una volta alla lotta, alla battaglia si mescolano, anche sulle strade d'Italia, i santuari e la loro descrizione precisa, con l'assicurazione da parte del poeta che il venerato simbolo, in questo caso il volto Santo in San Martino a Lucca, è proprio al suo posto.

Quale dunque il senso di questa " seconda" immagine della strada dei pellegrinaggi? E, ancora, perché mai la storiografia, quella francese a cominciare dal Màle e quella americana col Porter (138) non la hanno analizzata come era necessario? Questa nostra riserva, al limite, vale più per il Màle che per il Porter; il primo infatti della vicenda della scultura europea e della sua diffusione ha fornita naturalmente una versione franco-centrica per la quale quindi anche le vie dei pellegrinaggi dovevano costruire itinerari funzionali, funzionali appunto alla costruzione storiografica a priori che stava a monte. Il capitolo dedicato alla via dei pellegrinaggi in Italia (139), per molti aspetti stimolante e ricco, ha una tesi da dimostrare e che viene " dimostrata ", a patto però di manomettere nella maniera più totale la cronologia anche documentaria dei monumenti, che è quella della derivazione dalla Francia della gran parte dell'iconografia plastica romanica in occidente e non vi sono, a questa tesi, alternative critiche suggerite anche in via di ipotesi. Il Porter invece stabiliva, almeno nelle linee generali, nel suo volume del 1923 Romanesque Sculpture of the Pilgrimage Roads (140), la strada anche verso il Gargano, Bari ed Otranto e indicava naturalmente anche l'altra via, per Roma. Ma mancandogli un'analisi adeguata degli itinerari e dei documenti e una lettura delle Chanson de Gesie non poteva certamente ricostruire il tessuto culturale che forma le motivazioni di fondo del pellegrinaggio.

Cerchiamo ora di trarre alcune conclusioni dalla nostra analisi, diramata e, per necessità di cose, assai difficile, della strada dei pellegrinaggi in Italia. La strada, prima di tutto, non è unitaria ma sono molte strade; abbiamo visto come ve ne siano provenienti dall'est, dall'area veneta, come ve ne siano dalla Germania che attraverso Trento scendono su Verona, Mantova e Parma e poi Monte Bardone; abbiamo visto come le strade dal Gran San Bernardo e dal Moncenisio dirigano su Piacenza e ancora, da lì, al Passo di Monte Bardone oppure lungo la Emilia (Clodia) a Bologna, ad Imola e quindi oltre l'Appennino; un'altra via, certamente non praticata nell'alto medioevo per le incursioni saracene, correva lungo la costa ligure passando le Alpi al Col di Tenda. Anche i percorsi della strada Romea nell'area di Monte Bardone sono molteplici; la discussione, evidentemente non bene impostata, che a lungo ha durato nella bibliografia locale (141) sul percorso della Romea stessa, se da Fidenza verso Fornovo oppure da Pontetaro verso Fornovo o da Parma verso Fornovo non può risolversi schematicamente stabilendo come valido il solo percorso Borgo San Donnino-Fornovo; esso era probabilmente il principale ma altri, egualmente interessanti per noi, vi erano certamente e in particolare era praticata la via che da Parma, direttamente per Vicofertile, saliva a Collecchio e Fornovo prendendo poi il comune cammino. Così ancora non ci sentiremmo certo di mantenere, anche al passaggio delle "Alpes ", cioè degli Appennini, una via unica quando sappiamo che in età bizantino-longobarda le vie erano almeno due, il Borgallo, appunto, e Monte Bardone, senza poi voler considerare i passi delle vallate parallele e più occidentali da quella del Parma in poi. Certo la Cisa, nettamente più agevole e bassa e, dal punto di vista delle attrezzature, per il viandante la meglio dotata, doveva essere l'ombelico di questo sistema e, se non altro, ce 10 dimostra la cura con cui le chiese lungo la via, e certo gli ostelli, vennero riattati per lo meno in due epoche distinte, una il secolo XI avanzato e il XII ineunte, l'altra la fine del XII e il principio del seguente; e non si dimentichi di mettere in parallelo questo dato archeologico, che la nostra analisi delle chiese verrà a confermare, con le notizie degli itinerari che sopra abbiamo cercato di collegare: l'uso reale, insomma della via romea coincide con quello che ci dicono, della stessa via, i testi scritti.

Ma torniamo alle leggende o, meglio, alle Chansons de Geste che giocano, a livello simbolico, una parte molto importante nella vicenda della " Romea". La loro origine, è questa la conclusione del Bédier ormai generalmente accettata dalla critica, la loro origine va di pari passo con quella della programmazione dei pellegrinaggi; in Francia, la Francia della Borgogna e di Cluny, essa coincide con le fortune culturali di quell'ordine che costruisce addirittura una via, quella per Compostela, gestita di fatto in proprio, con chiese, abbazie, ostelli, e, al termine, la grandiosa chiesa di Santiago la cui cronologia, come è noto, è da decenni oggetto di accanito dibattito tra storici della cultura spagnoli e francesi, ambedue alla ricerca di una anteriorità tra quel monumento e il Saint Sernin de Toulouse. Lasciando questa disputa, ancora di sapore nazionalistico, a coloro che di nazionalismi in momenti di unità culturale d'occidente pensano sia utile interessarsi, veniamo al problema di fondo, a chi insomma volle programmare la strada romea nel suo momento culminante di traffici e di significati simbolici per la cultura d'occidente. Non abbiamo, si deve riconoscerlo, le prove di un'organizzazione cluniacense lungo tutta la via; nel versante italiano abbiamo, semmai, l'indicazione assai probabile di una politica filo-cluniacense di Matilde di Canossa la quale, certamente di conserva con la chiesa di Roma, cercò di contribuire a riformare e consolidare nei suoi territori la chiesa ufficiale stabilendo una rete di pievi e di cattedrali ricostruite o riattate che presentavano un programma unitario vuoi a livello di strutture architettate che di scultura e, ma lo verificheremo altrove tra breve, forse anche di pittura e minio. Cluny dunque e Matilde, Cluny e le cattedrali di Modena, di Cremona, in parte di Ferrara, Cluny diffusa nell'area reggiana, infine una presenza cluniacense nel sistema della chiesa cattedrale parmense le cui vicende mi è già accaduto di analizzare (142).

Se dunque non era Cluny a programmare organicamente tutta la strada dei pellegrinaggi è indubbio che alcuni punti focali su questa via d'Italia furono stabiliti sotto lo stimolo cluniacense e che scultori francesi, specie borgognoni ed aquitanici, operarono in Puglia (e, si badi, scultore aquitanico significa, per io storico dell'arte avvertito, scultore di cultura cluniacense-borgognona). Ma allora il problema non sarà più, come per Màle, di indicare che la fortuna della lunetta istoriata deriva direttamente dalla cultura francese (143); l'osservazione, che appare nella sua sostanza giusta, pecca ancora una volta di un'impostazione nazionalistica e la vicenda deve essere veduta all'interno del problema della diffusione di un preciso modello, ancora una volta e certamente da Cluny III, lungo la strada dei pellegrinaggi. Ecco quindi, per l'area prossima a quella di Monte Bardone e dunque direttamente afferente, la lunetta, già a Cremona probabilmente al Duomo ed ora conservata al Museo del Castello di Milano (144), databile probabilmente entro il primo decennio del sec. XII, e ancora nel reggiano, a Castellarano (145), un'altra lunetta di minori dimensioni ma sempre di grande interesse in quanto rivela precisi rapporti, come la prima nominata, con la cultura di Borgogna. Siamo agli inizi del secolo dunque, e direttamente in rapporto con la scuola di sculptores che opera nella grande abbaziale, con coloro che realizzano, oltreché i grandi capitelli del deambulatorio, l'enorme sistema dei capitelli istoriati della chiesa e che, attorno 1106-09 (ante 1112) concludono il portale maggiore di facciata di cui vennero scoperti dal Conant preziosi frammenti ora ricomposti al Museo comunale di Cluny (146). Siamo dunque su una linea, è questo che conta rilevare, perfettamente distante dalla tradizione lombarda di centri come il Sant'Ambrogio a Milano, il San Fedele a Como, il San Michele a Pavia. Le strade europee che si intersecano nel secolo XII nella nostra zona in termini culturali sono strade che vengono di Francia, mentre dalla Germania renana troviamo diffondersi modelli meno consueti, per esempio nelle porte bronzee di San Zeno, non immuni però, come a suo tempo è stato notato (147), da rapporti anche con Wiligelmo.

La linea di interpretazione " cluniacense " comunque non è semplicemente caratteristica delle poche lunette superstiti (non di quella nonantolana che, come ho più volte indicato, appare di ricomposizione con frammenti di un pulpito e di una possibile recinzione presbiteriale) ma anche di interi altri gruppi di opere, della serie del così detto Maestro delle Metope, di quello della Verità e della Frode, in parte solo del così detto Maestro della Porta dei Principi al San Gemignano a Modena; di alcune parti degli stipiti dell'abbaziale di Nonantola, di pezzi ancora a Cremona, a Piacenza, a Castell'Arquato che rivelano l'operosa programmazione del centro culturale di Borgogna.

Ma, è tempo di chiedersi, può forse venire dalla scultura o dalla rappresentazione iconica in genere un chiarimento sulla funzione delle leggende, delle Chansons de Geste, appunto, nella nostra area italiana settentrionale e fuori di questa? Sono note le opere plastiche in qualche maniera collegate alla chevalerie ed ai suoi racconti: la porta della Pescheria a Modena (ante 1115) (148) che presenta uno stadio antecedente alla trascrizione letteraria della vicenda; la porta dei Leoni a Bari con una cavalcata di guerrieri; la parte frontale degli stipiti del Duomo di Verona con Orlando ed Ulivieri catafratti nelle loro armature (e siamo sul 1135 c.); nella nostra zona sono da aggiungere anche, a mio vedere, un gruppo di capitelli e fregi della cattedrale di Parma realizzati dopo il 1106 e entro il 1120-1125 circa (149), e cioè dopo che Bernardo degli Uberti, investito da Papa Pasquale II, prende in mano la già scismatica ed imperiale chiesa parmense e programma per quella nuove immagini, capitelli che, fra l'altro, rappresentano una cavalcata di armati cavalieri. Si potrebbe continuare, magari citando il mosaico d'Otranto o quello distrutto della cattedrale di Brindisi, ma preme mantenerci nell'area mediopadana che ruota attorno al passo di Monte Bardone oltre il quale, fra l'altro, al Duomo di Massa (150) troviamo attiva la stessa bottega che ha operato, come si è detto, alla Cattedrale di Parma e in varie chiese nel contado. Dunque le rappresentazioni delle Chanson de Geste in scultura, le poche superstiti, sono veramente "laiche "? O non hanno anch'esse, come ormai sembrerà ovvio, una precisa funzione simbolica?

Se il pellegrinaggio è percorso, attraverso l'Italia, verso l'oriente e soprattutto Gerusalemme, attesa della fine dei tempi, sacrificio promesso del proprio sangue alla causa delle crociate e quindi martirio per il Cristo, e se è vero che la mitica figura di Carlo suggerisce quella di un santo e di un evangelizzatore piuttosto che quella di un semplice sovrano guerriero, se infine, e come abbiamo veduto, le origini della Chanson de Geste vanno cercate sulle strade dei pellegrinaggi e in precisi luoghi deputati di questi, allora la funzione della Chanson stessa troverà chiarimento e soluzione dall'impianto, da noi analizzato, del Liber Sancti Jacobi: da un lato le cronache, dall'altro la Chanson de Geste, e tutte e due funzionali alla ricostruzione del mondo, anzi alla sua interpretazione in chiave religiosa. Naturalmente non bisogna ridurre tutto a schema e quindi banalizzare una affermazione dei genere; certo è però che, a questo punto, la presenza di Orlando e di Ulivieri a guardia degli stipiti del portale maggiore di una cattedrale diventa facilmente comprensibile: se leggiamo, infatti, lo pseudo-Turpin, ricordiamo che quegli eroi, raccolti dai compagni, sono seppelliti in vari cimiteri antichi (tardoantichi) d'Europa oppure in edifici religiosi e venerati come corpi santi.

Carlomagno predica una spedizione in Oriente; Ogier, l'eroe fortissimo, una specie di moderno Aiace, lotta contro la ingiustizia del grande sovrano, di Carlo, ma la soluzione viene soltanto da un intervento divino, e le sue tappe sono quelle penitenziali consuete, Volto Santo di Lucca (di cui un icone forse si identifica a Fornovo) compreso. Dunque anche nella Chanson de Geste la struttura è funzionale ad un discorso simbolico preciso, la Chanson insomma è, in volgare, una specie di narrazione con funzione educativa, non educativa nel senso di insegnare un passato, ma in quello di fornire una chiave per interpretare, per agire nel presente.

Ed ecco quindi individuato il programmatore principale in Italia delle modifiche culturali e strutturali della chiesa e dell'iconografia a fine secolo XI: appunto il Papato. La strada dei pellegrinaggi, insomma, è la strada simbolica dei grandi luoghi del martirio: la Roma di Pietro e di Paolo, la Gerusalemme del Cristo; oppure dei luoghi dove si conservano reliquie significative, come quella del San Nicola da Bari, l'orma mitica dell'Arcangelo Michele nel San Michele sul Gargano, il Volto Santo a Lucca, e - se vogliamo - a Berceto, il corpo di San Moderanno; ma è anche la strada della unione della cultura e degli scambi europei ed anche più lo sarà la strada che conduce a Bari ed Otranto. Gli eroi insomma della Chevalerie sono eroi cristiani e nella realtà del loro tempo ebbero la funzione certamente di costruire dei modelli per un pubblico attentissimo a questo genere di stimoli, ebbero il compito cioè di mostrare che il pellegrinaggio non è solo penitenziale ma è anche lotta e funzione di cavaliere del Cristo, è strumento insomma per costruire una chiesa universale che subentrasse, di fatto, all'impero universale.

A ben riflettere quindi non sapremmo quale delle tre fonti, da noi più sopra distinte, ritenere la più degna di affidamento; in apparenza i documenti, con la loro esattezza meccanica, forniscono dati certi, ma sono talmente parziali e privi di indicazioni sull'ottica con la quale sono trascritti che saremmo dell'idea di metterli in secondo piano; ed anche le cronache, gli itinerari, salvo qualche raro caso che, come si è visto, fornisce elementi per restituire un paesaggio agrario, non appaiono molto soddisfacenti; solo dalla Chanson de Geste, dai racconti spesso disorganici di fatti, noi cogliamo le motivazioni profonde della cultura di una società Non sappiamo, naturalmente, se le Chansons de Geste relative a Compostela e a quel pellegrinaggio furono tutte programmate a Cluny o semplicemente la cronaca dello pseudo-Turpin si limitò a raccoglierle, non lo sappiamo, questo è vero, ma in compenso sappiamo che quel riferimento inserito nel Liber Calixtinus conferma una intenzione programmatica precisa. Perché non pensare che assieme alla cultura plastica, assieme agli architetti, la cultura che muoveva da Cluny non abbia esportate alcune delle più stimolanti leggende, dall'Ami et Amile a Ogier de Danemarche? I tempi sono quelli delle crociate: il combattere per una causa, il morire per " la " causa significa la remissione dei peccati come predica a Clermont Ferrand il Papa; la strada di Monte Bardone diventa quindi un segno e simbolo di un viaggio ed il monte, come del resto tanti monti dei pellegrinaggi europei, da Mont Saint Michel in avanti, diventa una ascesa, luogo di meditazione e di simbolica espiazione; ogni monte, non bisogna dimenticarselo, nel pellegrinaggio stesso può essere letto come un Golgota e, allora, forse, potrà chiarirsi come mai le tappe, gli ostelli, le chiese del Monte Bardone siano tanto fitte e la cura della sua gestione tanto assidua ed infine perché il suo nome torni tanto spesso negli itinerari. I luoghi di sosta, gli ospizi, di fatto non fanno altro che identificare il punto del pellegrinaggio penitenziale, il punto di riferimento di una purificazione che viene compiendosi man mano, attraverso una serie di montagne e di luoghi deputati, dal Cenisio al San Bernardo alla fatal Mortara, luogo della strage dei Longobardi, al passaggio degli Appennini alla scoperta di Montjoi, Mons Gaudii da cui la vista domina Roma. La strada insomma che porta in Terrasanta è una strada simbolica e le Chansons de Ges te, lungi da essere testi " laici ", sono testi profondamente intrisi dell'epopea cristiana: tutte e due, quella di Spagna e quella verso Gerusalemme suonano, jl'orecchio del fedele del secolo XI, come " reconquista ".

La città. Parma, la città. Civitas, cives, i cittadini, e di fronte l'ager, la campagna. Che cosa era, come si presentava Parma ormai nel secolo XI tardo o nel primo XII all'occhio del pellegrino che, proveniente dalle grandi " vie", quelle che nelle pagine che precedono abbiamo tentato sia pure sommariamente di delineare (ma questo tracciato è una ricerca del tutto inusitata e dunque sostanzialmente " nuova " nella tradizione specifica di questi studi, e quindi saremo scusati per eventuali prime approssimazioni, per le ovvie non esaudite esigenze di ulteriori approfondimenti).

Dunque su Parma convergeva quella che era ancora la strada principale e la più breve per raggiungere Roma, la strada dal Cenisio e dal San Bernardo, poi quella che da Trento, dai monti alle spalle di Trento e lungo le rive del Garda ancora una volta, traversando le zone acquitrinose del Po, toccava la linea tra Piadena, Casalmaggiore e Colorno; per Parma naturalmente passava la Emilia (Clodia, allora) che da Milano toccava tutti gli antichi centri di fondazione romana, già occupati dai Longobardi, poi sede di vescovadi (i vescovi-conti), infine adesso, agli inizi del XII secolo, ormai Comuni. Per Parma passava anche la strada che, sempre da Est, recava al grande porto di Venezia, finita ormai la gloria - tutta bizantina - di Classe vicino a Ravenna; per Parma infine passava la strada che conduceva verso i porti di imbarco delle crociate, quelli siti a sud e in diretta concorrenza con Venezia nel tardo XII e XIII secolo ma, praticamente, veri punti focali di quel traffico tra fine XI e la prima metà del XII secolo, da Bari ad Otranto.

Ma, ancora, come si presentava la città? Altrove (151) abbiamo avuto già occasione di indicarlo, essa era veramente una città murata, cioè una struttura architettonica nettamente distinta dall'ambiente circostante; la fine del secolo XI e l'inizio del XII segnano infatti un sostanziale mutamento rispetto alla struttura politica delle città mediopadane, segnano - ripeto - la fine del potere temporale dei vescovi. La storia urbanistica di Parma, in questo senso, non si differenzia di molto da quella di Cremona, da quella di Piacenza, da quella di Reggio, di Modena, è la storia di un differente situarsi spesso anche spaziale del potere episcopale. In questo senso il trasferimento della " domus ecclesiae " fuori delle mura (152) e cioè il trasferimento extra moenia di quel complesso sistema amministrativo e di depositi che gestiva l'intero contado, insomma del luogo dove i prodotti delle decime venivano depositati, dove la politica cittadina veniva stabilita, dove il vescovo e i suoi amministratori ordinavano il potere, il trasferimento ha un preciso significato politico. La vicenda di Parma, legata fino al 1106 e fin dal tempo del vescovo e poi antipapa Cadalo, e cioè dalla metà circa del secolo XI al partito imperiale, è in parte diversa da quella di Modena direttamente legata alla politica di Matilde di Canossa e quindi alla chiesa romana, e se ne sono indicati i punti salienti (153), ma questo, sul piano delle strutture urbane, non doveva differenziare il sistema da quelli paralleli siti sulla " Clodia". In sostanza il " ponte di pietra " della città, quello adesso inutilmente sepolto sotto gli asfalti di via Mazzini, metteva in comunicazione la città, nel suo centro storico puntato sull'antico foro e le prossime terme, con l'oltretorrente, dove ormai si dovevano addensare i primi " borghi "; il teatro, poi usato come cava, il grande anfiteatro presso cui si insedia il palazzo dell'Arena (154) erano antichi punti focali ormai sostituiti dalle recinzioni dei due grandi monasteri, quello di San Giovanni Evangelista e quello di San Paolo, rispettivamente per i benedettini e le benedettine; la enorme cattedrale, che era un aperto cantiere dal principio degli anni '90 ai primi due-tre decenni del secolo seguente, era comunque già fruita nella sua parte terminale completata sulla cripta, al tempo dell'insediamento di San Bernardo degli Uberti (1106) come vescovo della città. Presso la cattedrale, verso sud, dovevano certamente essere in costruzione le fabbriche canonicali, ed anzi probabilmente esse erano state realizzate in parte, anche se furono certamente modificate un secolo circa dopo quando si dovette ripensare l'intera zona per situare il Battistero. In questo cantiere, in questo complesso sistema che si riorganizzava fuori dalle mura e che già doveva vedere costruito il palazzo episcopale con le sue quattro torri angolari, una delle quali ancora resta a segnare l'età originaria del primo " castello " del vescovo, veniva gestita l'intera politica della chiesa cittadina e della diocesi, compresa quella quindi dell'asse sulla strada Romea. I tempi dell'indipendenza dell'abbazia di Berceto e del suo potere sull'intera alta valle del Baganza, parte di quella del Taro e dello Sporzana fino ai confini con la val Parma sono ormai molto lontani, un'età perenta, appunto nel tardo secolo IX, come abbiamo veduto. Il resto della città si strutturava attorno ad una grande platea mediana, coi palazzi che, specie nei secoli XII e XIII, vennero costruiti, come altri ha già bene analizzato (155). Altri punti focali, come il Sant'Alessandro, come la vecchia cattedrale di San Lorenzo, come le varie chiese che sorgevano in genere fuori le mura, indicavano semplicemente le strade di accesso alla città ed erano sempre circondati da vaste aree libere, a volte limitate da canali. E' questo un altro aspetto del paesaggio urbano che oggi abbiamo completamente perso, che oggi non sappiamo restituire se non attraverso testimonianze più tarde, come le tarsie site nella sagrestia di sinistra dei Canonici in Cattedrale (156), tarsie che ci mostrano paesaggi traversati da canali, appunto, o in quella dei Consorziali, di Cristoforo di Lendinara forse come progetto, ma eseguite da Luchino Bianchino alla fine del secolo XV (157), e che presentano vedute urbane affacciate su rii, ponti a schiena d'asino, porticati che finiscono sull'acqua. Una Parma " strana ", quindi, all'occhio moderno, ma una Parma ben consueta a chi conosca la vicenda urbanistica delle altre città prossime e meno prossime nella stessa area, da Cremona a Mantova, da Ferrara a Modena a Reggio Emilia a Piacenza a Bologna.

I canali avevano una loro precisa ragione urbanistica che bisogna cercare di individuare, erano la principale forza motrice ma anche di trasporto dei rifiuti in questa età e sostituivano perfettamente il lavoro dell'uomo e degli animali; i canali alimentavano naturalmente i mulini, facevano cioè della città un vero e proprio punto di riferimento dell'intero contado, il luogo non solo degli scambi, ma della lavorazione e spesso della conservazione delle derrate alimentari. I documenti del XII secolo e del XIII, con attestazioni appunto di mulini lungo i principali corsi d'acqua, permettono di confermare queste ipotesi che le immagini quattrocentesche suggeriscono. Quanto all'aspetto dei monasteri esso non doveva essere molto diverso da una città murata, con un canale attorno, con porte o porta, come del resto vediamo nelle tarsie ora nell'oratorio dei Rossi ma già conservate al San Paolo e che a quel monastero si riferiscono (158).

Ma quali dunque i prodotti e quale il paesaggio? Abbiamo già detto che la palude, l'incertezza del corso dei fiumi e dunque la facilità delle piene per mancanza di argini caratterizzano l'ambiente; piene limitate dalle foreste a monte, ma che a valle, dove la pianura si distende, erano certamente più facili e, nelle stagioni primaverili ed autunnali, frequenti. Il passaggio dunque del grande fiume, del Po, a nord della città, in direzione di Cremona, di Mantova e della via verso Trento doveva essere sempre difficile e la zona, dai confini incerti, del corso d'acqua assai estesa. E' di questo periodo, come sappiamo, la iniziata " conquista" del contado che va dal secolo XI avanzato a tutto il XII, è da questi anni che si sviluppa un modello nuovo, si è detto, di coltivazione, con strumenti più efficaci e quindi con maggiore produttività del terreno. Il discorso non è agevole da condursi, per la scarsezza dei documenti, ma adesso però possiamo forse introdurre alcuni testi di solito non impiegati dagli storici della economia, le rappresentazioni dei cicli dei mesi, che vanno nella nostra area, da Modena a Parma appunto, dal 1099 al 1110-1115 c. per Modena (Pescheria) (159) ed a qualche anno più tardi per Parma (portale del Maestro dei Mesi rimontato nel protiro tardoduecentesco attuale) (160).

Se consideriamo per esempio il ciclo più arcaico o, comunque, quello che ha una cronologia accertatamente arcaica, quello appunto della Pescheria alla cattedrale di Modena, troviamo notevoli e interessanti indicazioni sui lavori dei campi agli inizi del secolo XII; in primo luogo vediamo attestato l'impiego del cavallo per i lavori agricoli nel mese di Maggio che poi, come sappiamo, diventerà assai spesso, specie alla fine del secolo XII o nel XIII secolo, nei vari cicli dei mesi postantelamici, " Maggio cavaliere " ma che, in effetti è Maggio che guida il cavallo cioè le arature primaverili. Dunque l'impiego del cavallo nei campi significa, rispetto all'età precedente, la disponibilità di una forza di trazione maggiore e, probabilmente, in collegamento con l'uso dell'aratro a versoio su cui già in precedenza abbiamo detto. Ma quali erano gli altri prodotti della terra? Se i documenti non ci venissero in aiuto dovremmo dire, da questi cicli dei mesi, che sono due principalmente, il frumento e l'uva, e quindi che la tavola del XII secolo doveva fondarsi su due tipi fondamentali di cibi, il pane ed il vino. Naturalmente, quando vediamo, a Modena, Giugno con la falce, dobbiamo anche pensare all'erba, evidentemente l'erba per alimentare gli animali da traino, dai bovini al cavallo, e quando vediamo il falcetto che taglia il mannello di luglio, sempre a Modena, dobbiamo pensare alla raccolta, appunto, delle messi. E dobbiamo anche ritenere, sempre in questo periodo, che non si tratti di vari tipi di grano,. come soprattutto nell'alto medioevo, ma che ormai la possibilità di coltivare principalmente il grano di frumento attraverso un sistema di rotazione tripartito, diffuso del resto in varie parti della Ile de France e della Borgogna e della Aquitania, permettesse di giungere a risultati notevoli sul piano della produzione. Ma torniamo adesso al ciclo, e notiamo come settembre ed ottobre siano impegnati nell'altro grande lavoro di raccolta e conservazione, quello dell'uva qui sintetizzato nella carpenteria delle botti e nella pigiatura. Di semine, nei mesi modenesi, sono rappresentate soltanto quelle autunnali (ottobre) il che conferma l'ipotesi che nella nostra area in questo. periodo ormai dovessero seminarsi principalmente grani di semina autunnale e non primaverile. Dicembre mostra un altro dei lavori che non si legano apparentemente a quelli di semina ma che ci offrono uno spiraglio per valutare meglio il sistema del paesaggio: dicembre a Modena presenta la scena del taglio del ceppo con uno strumento che in nulla differisce dal modello ancora in uso della scure, pezzo di ferro montato su asta di legno, Dunque falci, falcetti, scuri, ecco gli strumenti metallici ben diversi da quelli di legno, magari di legno indurito col fuoco in uso nell'età gotica e primo longobarda se non anche più avanti nella nostra zona e non solo in questa (161). Gennaio a Modena e febbraio non presentano lavori nei campi ma scene di interno, mentre marzo ed aprile alludono ai grandi impegni della sarchiatura e della potatura. Se adesso da Modena ci avviciniamo alla nostra zona e esaminiamo il ciclo del Maestro dei Mesi a Parma, troviamo interessanti coincidenze. Maggio è ancora cavaliere e si trascina dietro l'animale impugnando una specie di lancia che potrebbe alludere anche alla caccia e non soltanto a lavori di dissodamento dei campi; Giugno presenta l'affilar della falce, la grande falce da erba, come a Modena; Luglio il taglio dei grani con la pie cola falce ricurva; Agosto la preparazione della botte con il grosso martello di legno ed il cuneo per innestare le doghe di Ferro; Settembre rappresenta la raccolta dell'uva con il paniere di vimini intrecciati; Ottobre il vino già spremuto che è mostrato in un nappo da una figura coronata; Novembre, rispetto a Modena, porta un'interessante novità: appunto l'uccisione del porco; a Dicembre vediamo la preparazione dei pali e dunque lavori per le viti o - in genere - per le colture primaverili; Gennaio con due teste come Janus (il dio bifronte) si scalda al fuoco; Febbraio presenta, se non andiamo errati, un pescatore con la rete ed un cesto ancora di vimini per raccogliere le prede; Marzo ci fa pensare, col così detto cavaspini, che è un tema iconologicamente tardoantico, ai lavori nei boschi mentre Aprile col bàculo norito ci riporta al tema del crescere delle messi e delle piante. A Parma quindi, rispetto a Modena (ma evidentemente il confronto potrebbe continuare e sarebbe istruttivo coi mesi più avanzati di scuola antelamica per mostrare eventuali modifiche nei progetti di " cultura " dei campi in un secolo circa e cioè dagli inizi dei XII al secondo-terzo decennio del XIII) si evidenziano modelli di cultura diversi; l'artefice infatti invece di rappresentare soltanto il lavoro dei campi come nella vicina cattedrale estende i temi della sua rappresentazione a due altre componenti fondamentali della vita agricola, in particolare l'allevamento del maiale e la pesca. Non vogliamo insistere su questo secondo aspetto per l'incertezza della funzione della rete, del resto variamente interpretata anche altrimenti, e ci limitiamo quindi al primo punto. Il maiale è l'alimento base della dieta e ancora viene allevato, come sappiamo per. le età precedenti, non al chiuso ma all'aperto, nelle zone libere e nei sottoboschi; e i ceppi, e la raccolta della legna che troviamo enunciata nelle serie di questi mesi alludono chiaramente alla presenza ancora di vaste foreste, di boschi dunque anch'essi funzionali al sistema alimentare di questo periodo.

Ecco quindi che il viaggiatore che usciva dalla città, dalla città murata, che si lasciava alle spalle gli agglomerati dei " borghi ", le case di legno e sasso ad un sol piano, le grandi chiese e palazzi di cotto e pietra, si trovava davanti un paesaggio di coltivi, ancora molto regolari nella forma perché inseriti nel sistema della quadratio romana, ma tripartita per lasciare a maggese appunto una zona, e cioè farla riposare per un anno. Lo sviluppo tecnologico d'altro canto aveva permesso l'intensificarsi e il migliorare delle culture; rovesciare il terreno arandolo permetteva di usare le stoppie stesse del grano o quelle dell'erba come concime e lo sviluppo forse dell'allevamento dei bovini doveva provvedere di concimi anche per una parte almeno del campo arato. Non sappiamo con esattezza quando questo processo si produsse in maniera compiuta ma è certo che si ebbe uno svolgimento dal secolo XI al tardo XII in questa direzione ed è anche certo che la produttività, che era nel rapporto di 1 : 1,5 o 1 2 circa per l'età altomedievale rapidamente si accresce fin verso il rapporto 1 : 3 ed oltre, fino anche a 1..: S. Ciò vuole dire quindi che con una superficie coltivata identica si otteneva di produrre due volte e anche tre volte il cibo di un tempo, non piccolo contributo, questo, all'incremento demografico che caratterizza il secolo XI e il XII in Europa.

Dai documenti già in precedenza citati sappiamo che a fine secolo XI un'altra componente notevole della dieta, e questo per le zone più alte del territorio, erano i prodotti provenienti dalla raccolta nella foresta. In primo luogo le castagne, e boschi di castagne sono menzionati per tutta la fascia medio-montana dell'Appennino, quindi fichi; vivevano poi nei boschi e nelle medie colline le api che, col loro miele, fornivano la componente zuccherina di questo sistema alimentare tanto distante dal nostro. Fave ed altri legumi completavano, assieme a prodotti oggi ritenuti minori come le carrube, bacche varie ecc., il modo di cibarsi di questa età e, per converso, fornivano anche un elemento organizzatore del paesaggio, del paesaggio agrario del XII e del XIII secolo.

Scrivevamo del pellegrino o del viandante che usciva di città ma, prima di uscirne, avviandosi verso la strada che portava verso il passo di Monte Bandone, percorrendo il periplo degli insediamenti urbani, oppure venendo dal nord e cioè dalla via Clodia, il primo luogo d'incontro o di sosta doveva essere una Chiesa, sita appunto extra moenia, la chiesa di Santa Croce su cui conviene adesso soffermarsi brevemente.

Essa infatti presenta un problema archeologico di grande interesse anche se, per il penoso stato in cui gli interventi succedutisi e soprattutto i restauri dell'inizio del secolo l'hanno ridotta, non si può dire un testo di agevole lettura. La sua cronologia finora è rimasta ancorata alla notizia della data di consacrazione dell'altare col 21 agosto 1222 ad opera del vescovo Grazia (162); attorno a questa data gli studiosi hanno naturalmente intessuto tutta una loro costruzione di riferimenti, hanno parlato in passato di lingua popolare, di declinazione volgare della lingua antelamica. Il fatto è che una lettura accurata dei capitelli dell'interno ed una altrettanto accurata delle architetture o, meglio, di quanto rimane delle architetture permette di restituire di questa chiesa una fase di. storia finora non conosciuta ma che risulta facilmente provabile. Se noi infatti cominciamo col cercare quanto resti, nelle strutture attuali, dell'edificio primitivo, dobbiamo ammettere che ne avanza ben poco. Nella zona del presbiterio causa crolli avvenuti nel 1633 della volta sopra l'altare si ebbero estesi rifacimenti, ed un ovvio sopralzo, del resto, la chiesa dovette subire anche in precedenza, forse in età rinascimentale; ma quello che non è stato avvertito è che la chiesa così come la vediamo è soltanto la metà circa della chiesa originaria, probabilmente di sei campate con abside, chiesa che doveva proseguire verso l'attuale piazza come mostra anche la presenza di una finestra mal tamponata ed altri resti nel muro sud immediatamente a destra cioè, dell'attuale posticcia facciata; non si lascino poi ingannare i visitatori distratti, quanto si vede del paramento esterno è tutto frutto dei restauri del 1904-1909, e pure la torre, all'esterno, non lascia speranze di essere originale. La chiesa ha però, all'interno e nella zona inferiore, le sole parti medievali non manomesse; vediamo qui degli interessanti e inconfondibili pilastri formati da quattro semicolonne addossate che recano capitelli e che hanno anche quattro salienti, due per parte, che ci danno, tra l'altro, modo di indurre l'altezza originaria dell'edificio. Ma come si doveva all'origine presentare questo, prima del rifacimento della zona presbiteriale in relazione probabilmente alle distruzioni del crollo secentesco citato? Evidentemente come una costruzione non alternata con copertura a capriate ed archi trasversi, da situare a mezza strada tra i modelli arcaici dell'abbaziale di Nonantola con pilastri anch'essi formati da quattro semicolonne addossate (163, e le chiese collegabili nel mantovano come San Lorenzo di Pegognaga, Santa Maria Assunta di Pieve di Conano (che però hanno, salvo in zona presbiteriale, colonne tonde in cotto nella nave) (164) e l'invenzione architettonica complessa dei pilastri nella cattedrale di Parma. L'ipotesi, come vedremo, non è certamente inaccettabile visto che le stesse maestranze di scultori operano anche in questo edificio. Questo doveva avere tre absidi che potevano partire proprio nella zona dell'ultima campata dove adesso si innesta la cupola; absidi parallele quindi, con la mediana emergente. Quanto al paramento originario, alla scansione di questo, ecc., non possiamo dire, all'esterno, nulla di certo; le aperture almeno sulle minori erano una per campata, come si nota dal resto di finestra già sopra citata. La chiesa dovette comunque subire alcuni rifacimenti e uno principalmente, del quale oggi non sappiamo fissare l'estensione, all'epoca primoduecentesca del vescovo Grazia, tempo in cui si dovettero sistemare alcuni capitelli e forse operare in altre zone le quali, altare a parte (di cui, come sappiamo, la mensa originaria con l'iscrizione ricordata è perduta), non possiamo oggi individuare, almeno senza scavi ed analisi archeologiche.

Ma veniamo ai capitelli che formano un insieme a sé, ma dei più interessanti, di questa nostra strada verso il Passo di Monte Bardone, ed anzi un introibo dei più stimolanti. La grande officina parmense guidata da quello che a suo tempo ho chiamato Maestro dei Mesi ed operosa alla Cattedrale, al Duomo di Carrara, e, in provincia, a Badia Cavana, alla Pieve di Sasso ed a Bazzano (166), era organizzata attorno a vari scultori del principale dei quali abbiamo detto; non a lui ma a due suoi immediati collaboratori dobbiamo i maggiori capitelli di Santa Croce. Il Maestro della Vendemmia, così da me denominato da un capitello di questo tema nella Cattedrale ed a cui dobbiamo collegare vari altri pezzi come il capitello coi simboli dei Quattro evangelisti (167), la Madonna in trono benedicente tra due angeli e altri pezzi coincide perfettamente, con la sua scrittura lievemente più rigida di quella del Maestro dei Mesi, con lo stile di sculture di Santa Croce come il grifone volto verso destra della semicolonna addossata verso il presbiterio oppure la coppia di Sirene bicatidate dalla coda intrecciata; i confronti sono evidenti e non serve certo qui iterarli. Ad un altro maestro, dalla scrittura molto più plastica e immediata, che usa schematizzare i visi in maniera assai caratteristica: occhi prominenti, baffi e barba scavati, e che frequentemente costruisce gruppi intrecciando le forme in nodi assai densi, al Maestro detto da me dell'Apocalisse (168) cui nella Cattedrale di Parma dobbiamo assegnare numerosi capitelli dai due con la Femmina dell'Apocalisse a numerosi altri come quelli sul pilastro 29 (facce B e C), spettano poi molti capitelli in Santa Croce. Da quello col Centauro a quello coi due Lottatori avvinghiati ed a fianco figura con scudo e mazza, all'altro con Aquile angolari e serpenti intrecciati al mezzo fino a quello con Dragone, a quelli con Figura femminile con lungo collo anguiforme intrecciato e doppia testa, all'altro con Figura al centro a braccia conserte ed ai due angoli una figura diritta ed una caudata ritta sulle braccia e rovescia; altri due pezzi, con Mascherone e due uccelli piumati ai lati e con doppie figure allungate e accostate per il capo, gli occhi spalancati, sono assegnabili pure al medesimo ambito culturale unitamente al capitello (stuccato di recente e manomesso), con figure maschili, femminili e bambini, pezzo però di minor qualità di scrittura. Dove possiamo dunque inserire le eventuali modifiche ed aggiunte del tempo del vescovo Grazia? La risposta non è agevole, comunque appare che almeno alcuni pezzi abbiano subito intervento ulteriore, in particolare il capitello fogliato con foglia geometrizzata a quattro livelli mentre l'altro, piatto salvo una scorniciatura che delimita un campo semicircolare, deve risalire, come mostra il tralcio a lato, al primo secolo XII e cioè alla iniziale campagna. Concludendo quindi la chiesa di Santa Croce è un testo assai complesso, ma è un testo certamente da datare ben avanti quanto di solito si ritiene; è la riprova cioè dell'estensione che la riforma iconografica di esperienza borgognona importata dal Maestro dei Mesi e dalla sua ricca bottega nella nostra zona aveva trovato eco anche in città e che la progettazione di edifici architettonicamente più complessi rispetto alle tradizioni del secolo XI era ormai avanzata pure nelle chiese minori.

Ma proseguiamo nell'iter che ci conduce verso la strada di Monte Bardone. Un altro edificio, attestato fin dall'inizio del secolo XI e che a noi è pervenuto nella ricostruzione di fine secolo o degli inizi del XII è la chiesa di San Pancrazio (169). La costruzione evidentemente ha subito, all'esterno, notevoli manomissioni; l'unica zona leggibile di paramento, quella absidale, è stata però soprelevata eliminando quindi le archeggiature; certo è che le lesene, conservate, permettono di mantenere la cronologia suggerita, come vedremo, dai pezzi plastici.

La struttura architettonica dell'interno, scoperta dai restauri fino all'altezza delle arcate a coppia partenti dalle colonne, è alternata e anche un'analisi superficiale della planimetria dimostra che la chiesa è stata accorciata e che l'attuale facciata ha semplicemente tagliato l'edificio, privato altresì delle due absidi minori. Di quanto sia stata scorciata l'architettura si dimostra rapidamente considerando che manca proprio un'altra mezza campata; una doppia colonna doveva insomma insistere dove è adesso la fronte e da quella partirsi l'arco ora mancante. Una conferma indiretta di ciò la abbiamo dalla presenza di due semicapitelli erratici attualmente situati alla sinistra ed alla destra nel presbiterio, uno dei quali presenta il consueto carnoso fogliato degli altri pezzi della navata, l'altro la figura di una sfinge dal volto di donna (si leggono ancora i capelli) le ali sottilmente incise di piume e la coda attorta e sospesa. I due pezzi probabilmente erano quelli destinati ad accogliere contro la facciata la coppia degli ultimi archi e naturalmente furono conservati in canonica o altrove e quindi situati in chiesa all'epoca delle distruzioni del XVI Il secolo; una riprova di quanto indotto a livello archeologico la troviamo nella planimetria del 1744 esistente ancor oggi nell'archivio della chiesa.

Le strutture dell'edificio confermano, a livello comparativo, la cronologia che abbiamo suggerito agli inizi; costruzione a sistema alternato secondo il modello modenese (il San Gemignano), con archi trasversi in corrispondenza dei pilastri forti e con colonne con capitello corinzio come sostegni deboli. Le colonne " deboli" hanno il fusto in pietra, a volte di reimpiego, mentre le semicolonne addossate con i caratteristici capitelli ad angoli smussi sono in cotto; l'edificio può essere utilmente contrapposto a costruzioni del genere del San Lorenzo di Pegognaga o della Santa Maria Assunta di Pieve di Coriano (170) dove vediamo, a parte le quattro semicolonne addossate del pilastro forte all'altezza del presbiterio, una serie continua di sostegni. La struttura invece di San Pancrazio è più complessa e non trova immediato confronto nella zona, almeno in edifici di analoghe dimensioni.

Quanto alla scultura invece i problemi sono assai più semplici dato che, ancora una volta, la diffusione dell'officina dei magistri della cattedrale parmense a fine XI ed agli inizi soprattutto del secolo XII dovette essere assai estesa se anche qui vediamo, inconfondibile, quella stessa cultura. E così il corinzio presenta quelle stesse carnosità, quelle stesse appiattite stesure grafiche che possiamo notare nei capitelli del Duomo, bene inteso non quelli di reimpiego della prima campagna costruttiva prima del 1106 (171) ma quelli che si devono alla campagna ulteriore, dopo la venuta di San Bernardo degli Uberti. Ecco quindi che i tempi di queste sculture e quindi i tempi della chiesa, possono meglio precisarsi entro il primo-secondo decennio del secolo; quanto alla figura della Sfinge già descritta sembra di poterla assegnare, senza troppe incertezze, alla mano stessa del Maestro dei Mesi tanta è la finezza della scrittura delle sue piume, da confrontare per esempio con le due facce, est ed ovest, del capitello del matroneo sinistro del Duomo di Parma con il Volo di Alessandro e una Coppia di Sfingi.

Era a questo punto che il viandante, lasciata la via Emilia poco dopo San Pancrazio, poteva piegare verso Vicofertile e Collecchio prima del ponte sul Taro. Altra via, sempre per Monte Bardone, era quella che muovendo da Fidenza giungeva a Fornovo direttamente, all'altezza della confluenza del Ceno, passando per Medesano e Felegara.

E' forse questo il momento per indicare qualche altro aspetto della strada Romea e della sua "attrezzatura ", e cioè di fare almeno cenno degli ospizi od ostelli che la dotavano. Abbiamo già veduto come l'idea di costruire una vera e propria strada munita aveva già presieduto al programma politico dei re longobardi e in particolare di Liutprando, e non meraviglierà, quindi, che in un'epoca tanto più prospera e ricca di traffici, ogni chiesa, ogni centro abitato significassero anche un ospizio, un luogo dove alloggiare gli animali, far riposare i viandanti, ristorarsi.

La tipologia degli ospizi medievali è, almeno per la nostra zona, non restituibile se non per via del tutto induttiva; anche i meritori sforzi del Pellegri in un libro documentato ed assai utile (172), non hanno potuto finora permettere di accertare la tipologia del manufatto, né di quelli minori né di quelli, più complessi, maggiori. A livello europeo esempi, specie sulla strada compostelana, sono noti, ma non sappiamo fino a qual punto coincidenti con quanto era edificato sulla strada di Monte Bardone. Da resti soprattutto di edifici tardoduecenteschi ed ulteriori come quello a Quingento, quello presso il ponte sull'Enza che sarà del secolo XV tardo, quello forse coevo di Beduzzo, resi noti dal Pellegri, non riusciamo a farci un'idea di uno stabile modello. Dobbiamo peraltro ritenere che le componenti dell'ospizio dovevano essere, nella nostra epoca, almeno tre: un porticato, una stalla e un edificio di abitazione vero e proprio che non doveva discostarsi dall'edilizia medievale consueta, edilizia di cui ci occuperemo in seguito, nelle pagine dedicate a Corchia ed a Berceto, ai centri cioè dove più evidenti, ancora oggi, sono le tracce medievali Per il Quattrocento le notizie sono più precise e la tipizzazione più chiara; si dovette allora pensare ad un sistema complesso, con porticati annessi alla casa per i pellegrini e maggior estensione delle stalle e di altri servizi. Fino a che, comunque, non si tenterà una ricognizione precisa ed un restauro dei pochi ospizi superstiti, compreso quello nei pressi del vescovado a Parma, non sarà possibile procedere oltre queste brevi note induttive. Ma torniamo al nostro percorso ora che abbiamo accertato il carattere dei luoghi di tappa, del resto frequentissimi ormai, della strada di Monte Bardone. E il primo punto del nostro itinerario è dunque Vicofertile (173), un edificio che i restauri hanno certamente troppo spulito ma che, comunque, è ricco di interessanti problemi. La storia, che meglio viene delineata nelle schede, presenta documenti a partire dal 1039 ma di quanto esiste oggi nulla può risalire ad un'età così avanzata; la costruzione, a tre navi e in origine, prima della edificazione del campanile nel 1680 e seguenti, con tre absidi e coperta a capriate, oggi è risultato di una serie di restauri databili dal 1909 al 1912 che hanno spesso rifatto completamente il paramento restituendoci un insieme assai ambiguo dove si sono mantenute, nè si intende la ragione, le aggiunte del secolo XIV mentre sono state eliminate la gran parte di quelle barocche. Evidentemente l'operazione avrebbe dovuto essere conservativa del sistema come storicamente si era venuto determinando mettendo eventualmente in evidenza lo stratificarsi dei vari tempi senza privilegiare un'età sola o, come qui, due. Comunque, oggi, si può notare, subito sopra i tetti dell'abside maggiore e della minore superstite, la linea dello spiovente di una copertura che, collegata alla muratura sottostante in pietra e ben diversa dalla sovrastante in cotto, denuncia una soprelevazione che, del resto, anche l'analisi dell'interno immediatamente fa rilevare. Pure l'analisi dei fianchi permette numerose osservazioni, come quella che, di fatto, il paramento e sostanzialmente un " falso" visto che è posteriore all'abbattimento delle cappelle tardosecentesche. Comunque, su queste superfici dei muri d'ambito spulite e regolarizzate, dove ancora evidente è il sopralzo sia delle minori che della maggiore, notiamo alcune tracce di un edificio anteriore all'attuale, tracce sparse anche all'interno, e precisamente alcuni frammenti plastici rimontati nella ghiera dell'arco sulla porta del lato sud. La facciata, come l'abside, mantiene un rosone " gotico " e le contemporanee archeggiature ad intreccio di tipo lombardo che delimitano lungo spioventi la fronte a capanna, fronte che del sto, come risulta dall'esame del suo rovescio all'attacco sulle minori, è evidentemente aggiunta a fronte romanica almeno nell'intera fascia superiore.

L'interno della chiesa non è per molti aspetti meno manomesso; i sostegni in pianta a quadrifoglio, di cotto e pietra abilmente lavorata, testimoniano di a cultura architettonica ben diversa da quella della chiesa di Santa Croce, per citare una tappa precedente del nostro itinerario; se osserviamo le si unghiate, con toro in evidenza, su cui si innestano i mattoni sgraffiati secondo la consueta tecnica medievale dobbiamo riconoscere che siamo un momento differente, come del resto ci conferma la scultura dei capitelli e del fonte battesimale, anche se certamente con motivi di ripresa dalle tipologie antiche. Ed infatti costruire a fine XII secolo una chiesa come questa, con copertura capriate, vuole dire riprendere una tecnologia vecchia di un secolo; ed appunto arcaico è il tema gli archi trasversi, il rapporto immediato tra intonaci delle pareti probabilmente all'origine dipinte, e il cotto e la pietra delle colonne anch'esse i loro capitelli dipinti. Ma gli archi trasversi e vediamo, si badi, sono stati dai rifacimenti del tutto ricostruiti e la loro curvatura non è certo ella originaria; per giunta vi sono stati applicati sopra frammenti di fregio che con la cronologia delle architetture sottostanti e in genere della chiesa odierna nulla hanno a che vedere, essendo infatti del principio del secolo XII ed appartenendo a quella vulgata del tralcio e della palmetta lombarda che tanta casa ha, naturalmente, anche alla cattedrale di Parma.

E' ora il momento di analizzare il problema della chiesa individuata, nel corso di lavori di ripristino, all'interno dell'attuale, con pareti laterali a mezza via lungo l'asse maggiore delle minori e un unica abside lievemente a ferro di cavallo, su cui la discussione cronologica sembra difficile. Ed infatti se per alcuni essa dovrebbe andare al IX (174) non possediamo, allo stato, alcun elemento archeologico che possa confermarlo mentre vuoi la forma che i resti plastici nel portale esterno già ricordati e, all'interno, immurati alla partenza degli attuali trasversi, fanno invece pensare che dovesse esistere un edificio nel secolo XII, agli inizi del secolo XII. Che i pilastri dell'edificio ricostruito a fine XII o agli inizi del secolo seguente insistessero sull'area dei sostegni del precedente non è probabile e lo vieta l'ampiezza di un basamento in pietra che emerge dal pavimento attuale. Di più sull'edificio del primo secolo XII non possiamo dire, se non che, probabilmente, si poteva collegare al sistema delle chiese derivato dalla cattedrale parmense e dalla sua officina. Del resto, in termini di tipologia architettonica, l'uso ripeto del sistema del sostegno quadrifoglio con quarti di pilastro inseriti nell'edificio del secolo XII riprende, di fatto, la grande reinvenzione del sostegno composito alla cattedrale parmense. Le sculture, anch'esse assai problematiche, appartengono a un maestro-guida che realizza anche la vasca battesimale dalla forma a coppa dilatata e la cui originaria collocazione non è, allo stato, accertabile con sicurezza.

Esaminiamo prima di tutto la vasca battesimale dove, scolpite a mezzo tondo contro il plastico cono rovescio del blocco di pietra, vediamo quattro figure o gruppi di figure, due che recano ceri, grandi e spessi ceri penitenziali, una figura dalla veste crociata, un chierico, che ha nella sinistra il libro e leva la destra a indicare il numero tre, allusione alla Trinità o al Sillogismo, mentre un famulo a lato regge anch'esso il volumen, infine un personaggio che reca la croce astile ed il turibolo; l'intero insieme allude probabilmente alla consacrazione della vasca medesima e ad una collegata processione oppure anche ai cerimoniali legati alle soste del pellegrinaggio e, in questo caso, pellegrini potrebbero essere i due personaggi in corta veste che recano il cero. Se esaminiamo adesso i capitelli troviamo attivo lo stesso scultore della vasca battesimale: volti larghi, accentuarsi dei volumi torniti, una tendenza alla rappresentazione frontale il che dà al tutto un'aria arcaica, peraltro smentita immediatamente dai grandi capitelli à crochet con strigilo e fogliato terminale che testimoniano di una ben più avanzata esperienza. Del resto, proprio ai lati del capitello à erocher, vediamo figure non troppo distanti da quelle del fornovese Maestro di Santa Margherita il quale, evidentemente, è di qualità assai più alta ma che, cronologicamente, non deve staccarsi troppo da questo genere di prove. Ed infatti se si confrontano, a Fornovo e qui a Vicofertile, i capitelli fogliati, immediatamente si notano coincidenze non certo casuali. Insomma, e ne vedremo la portata, una medesima bottega è all'opera. D'altro canto, se si vuole ancora un raffronto probante per la cronologia di questi sostegni, di questi sei bei pilastri che sono il nucleo architettonico-plastico originario dell'edificio dopo le tante manomissioni subite dalle murature, non resta evidentemente che confrontarli col nartece di Fornovo che è concepito con analoghi criteri architettonici, e, forse, dagli stessi architetti.

La lettura dei capitelli di Vicofertile a livello tematico presenta alcuni problemi e se anche possiamo vedere qualche tema dei mesi (Porter), ed individuare per esempio Aprile col bastone fiorito, una coppia che potrebbero essere i Gemelli, Maggio cavaliere, pure la identificazione non appare affatto certa e prevalgono scene consuete al bestiario medievale, figure complesse simboleggianti il demonio ed umani, ovviamente tentati. Questo Maestro del fonte di Vicofertile, come potremmo chiamarlo, ha una cronologia precisabile, come ci conforterà anche l'analisi che condurremo per via delle altre sculture contemporanee a Fornovo, Bardone, Talignano, Berceto; si inserisce nella bottega degli esecutori così detti antelamici, probabilmente, anche se di antelamico in questa sua plastica si scorge certo ben poco; è piuttosto un artefice del principio del secolo XIII, forse attorno agli anni 1210-1220, il quale riprende vecchi stilemi lombardi, gli stessi forse che poterono essere usati per il "porche ", il nartece che probabilmente era antistante la chiesa se, come sappiamo da una notizia del 1304, allora venne ricostruito. Il confronto con Fornovo è immediato e ci dà la misura del diffondersi di una tipologia che adesso i diversi rituali e la diversa funzione delle chiese hanno in genere fatto scomparire; eppure questo " Vicofertile ", quest'area coltivata certamente, e intensamente, a pochi chilometri dalla città ci dà il segno, appunto, di una profonda trasformazione dei modi del pellegrinare. Aperti porticati, scene istoriate sui capitelli, una culta campagna, tutto insomma segna la diversità dai tempi lontani della strada munita " longobarda".

Della pieve di Collecchio (175), la tappa immediatamente ulteriore nel nostro " cammino " verso il passo di Monte Bardone, vogliamo dare una rapida descrizione, indispensabile per comprenderne i problemi architettonici. Fronte evidentemente di ricostruzione, come del resto sappiamo per via documentaria, opera cioè dei restauri del 1935 che fa triste pendant alla torre eretta nel 1922 la quale riecheggia vagamente quella tardoduecentesca della Cattedrale di Parma. Come si vede, salvo le pur ritoccate sculture del portale d'ingresso, su cui torneremo, la fronte non riserva molte piacevoli sorprese ed anzi, se osservata in controcampo, risulta a vela e chiaramente non mediata al sistema precedente dell'edificio. All'esterno hanno ancora subito notevoli restauri i due fianchi, restauri che praticamente coincidono con totali rifacimenti nelle due absidiole minori mentre ancora del tutto ritessuti sono i paramenti murari superiori della navata maggiore e gran parte di quelli delle minori e gli interni almeno fino alla altezza della zona presbiteriale o poco avanti. Se invece esaminiamo dal lato dell'abside questo nucleo architettato possiamo individuare una " scrittura " tutta differente e assai arcaica, caratterizzata dalla presenza di lesene intervallate da coppie di archetti; si deve notare che la terminazione quadrata della zona del coro non è certamente originaria perché, ad un esame anche superficiale del paramento, si nota ancora evidente lo spazio per l'attacco di un'abside, certo di non grandi dimensioni, sull'asse mediano della chiesa. Evidentemente aggiunti, e nel secolo XIV, appaiono i quattro contrafforti angolari del coro e circa a quel tempo, anche se oggi molto restaurato, deve assegnarsi il coronamento superiore di quella parte dell'edificio. La torre che lo sovrasta, e che è evidentemente un tiburio, retto all'interno su pennacchi, è dello stesso tempo della sezione di edificio segnata da lesene nella sola zona inferiore della canna, quella che presenta l'assai caratteristico ed arcaico sistema costruttivo a doppio filare in cotto, alternato a filare in pietra. La parte superiore della canna stessa, variamente rimaneggiata, appare nelle sue proporzioni e rapporti ancora rispondere ad uno schema "romanico " ma presenta finestre ovviamente più tarde e, comunque, come sappiamo per via documentaria, l'attuale " torre " è semplicemente il resto di una struttura pericolante nel 1947 ed allora ridotta; l'edificio aveva appunto messo in evidenza, nel corso della demolizione, le date dei precedenti sopralzi o modifiche, uno del 1480 ed uno del 1600; appare probabile comunque che l'altezza originaria della torre-tiburio non si discostasse troppo dal troncone attuale; d'altro canto il mutamento delle murature ci prova che un crollo della struttura dovette avvenire assai per tempo e probabilmente il primo rifacimento si dovette avere nel secolo XIII, epoca nella quale l'edificio originario subì certo i maggiori interventi. Se infatti esaminiamo adesso l'interno prima in pianta e poi in alzato cogliamo un disassamento evidente del muro nord rispetto ai sostegni e, ancora, un disassamento dei sostegni 3 e 4, cioè i primi dalla facciata, rispetto a quelli n. 1 e 2, cioè la prima e la seconda coppia a partire dal presbiterio. Quanto all'aspetto dell'edificio nel suo insieme esso ora appare sostanzialmente trasformato rispetto alle forme primitive che vedremo di restituire. Abbiamo così oggi sostegni quadrati con colonne angolari inserite, una coppia di colonne in cotto e pietra alternate ed infine un'altra coppia dei consueti sostegni compositi. Sopra questo insieme oggi vediamo le volte rinascimentali che ovviamente hanno trasformato ancora le precedenti strutture, ma quali?

E' chiaro che l'edificio primitivo non aveva la planimetria dell'attuale, e lo conferma anche un attacco non confondibile di muratura all'altezza grosso modo della prima coppia di sostegni verso il presbiterio, attacco da individuarsi all'esterno. Secondo un plausibile progetto primitivo l'edificio quindi doveva avere un nucleo terminale, particolarmente evidente, con tre absidi parallele, la mediana sporgente dal blocco quadrato del coro4ibu-rio sormontato da una torre su cui si aprivano finestrelle-feritoia, non certo bifore o altre ampie aperture. La chiesa aveva quindi, probabilmente, ma per accertarlo necessiterebbe un'analisi archeologica scavando la navata maggiore al limite con le minori, una nave soltanto, ed una planimetria a " T " che ci sembra assai caratteristica. Non staremo certo adesso a ripercorrere le vie de Le Primier Art Roman, come è stato individuato dal Puig y Cadafalch (176) ma ci limiteremo a ricordare come, perduta la gran parte dei testi comparabili lungo l'arco provenzale, i punti di riferimento principali per i nostri monumenti arcaici, e cioè del secolo XI come ormai si sarà inteso, si trovano nei Pirenei. Così quindi ricorderò per le comparabili planimetrie San Pons de Corbera de Llobregat in provincia di Barcellona databile l'ultimo terzo del secolo XI, Santa Eugenia de Berga del 1083, Santa Maria de Barbara' in provincia di Barcellona, mentre più complessa appare essere Santa Maria de Tarrasa ancora in provincia di Barcellona (1017 e 1112) soprattutto per il problema d'analisi strutturale che presenta e che qui non ripercorreremo. Quegli edifici sono caratterizzati da tre absidi parallele, in genere al medesimo livello, salvo Sant Daniel de Gerona (iniziato nel 1020) che ha l'abside maggiore che muove da un coro quadrato come qui a Collecchio e una sola navata coperta a botte. I confronti con il San Pons già citato appaiono, anche a livello di paramento esterno con lesene e due archetti interposti, assai calzanti e, del resto, la planimetria dell'edificio con i disassamenti notati mi sembra contribuisca notevolmente a confermare quanto sopra si diceva, e cioè l'ipotesi di una pianta a T, copertura a botte, tre absidi di cui una che muoveva dal nucleo del tiburio. Le absidiole moderne non sono le originarie, come si è detto, e probabilmente almeno una di queste non insiste sull'asse dell'abside del secolo XI; infatti se osserviamo l'absidiola destra (cioè sud) vediamo che i restauratori del nostro secolo hanno lasciato in evidenza un cercine (ovviamente di riporto dalle fondazioni) che è eccentrico rispetto all'asse dell'abside rifatta. Anche da questo abbiamo conferma di un asse lievemente diverso della prima chiesa, con andamento più da sud-est verso nord-ovest di quanto non sia possibile leggere oggi. Una data, decifrata in un frammento plastico inserito nel muro sud presso l'attacco del tiburio, il 1089, sembra quadrare perfettamente, anche alla luce dei confronti europei che abbiamo indicato, con la cronologia " stilistica " di questo edificio, che, dunque, appartiene al Primier Art Roman, ma che non è certo il solo di questo tempo nella nostra zona e neppure il solo lungo la strada Romea, e si pensi solo alla Pieve di Surianum, cioè Filattiera (177). Abbiamo già suggerito l'ipotesi che sotto la chiesa di Vicofertile si celino le fondazioni di una struttura di quel periodo e certamente Tizzano appare essere edificio, anzi clocher-porche borgognone del secolo XI; e, ancora, sempre al secolo XI, dobbiamo dare la prima versione della pieve di Fornovo, come vedremo. Dunque la " strada " era stata pianificata in maniera organica, dico la strada Romea, già nel secolo XI ed era certamente ricca di importanti edifici collegati alla tradizione architettonica europea. Ma le modifiche di Collecchio sono numerose; si decide probabilmente a fine secolo XII, al momento in cui l'intera strada Romea viene rinnovata, una ricostruzione e si reimpiegano, per questa, alcuni pezzi superstiti dall'edificio antecedente, magari pezzi lievemente ulteriori, degli inizi del secolo XII. Questi pezzi plastici li possiamo individuare, reimpiegati chiaramente, come mostrano gli attacchi difficili, le rotture, la situazione spesso fuori luogo nel contesto architettato, al culmine dei pilastri alti lungo la navata e negli angolari di quelli bassi. Cito qui i testi che con più evidenza mi appaiono appartenere a questa serie: la Sirena bicaudata, alcuni capitelli alti di cui già si diceva, dove evidente è l'interruzione del fogliato e del tralcio a virgola a fianco dei capitelli invece appositamente scolpiti con teste che culminano le colonne tonde; la grande figura di Grifone che è ancora eco sia pur molto "povera " della cultura dei capitelli della cattedrale parmense; l'animale dalle lunghe orecchie che si morde la coda; alcuni altri animali angolari, ecc. Un esempio invece evidente dello stile dei capitelli e della scultura del tempo del rifacimento, cioè del principio del secolo XIII, è la testa con doppio ricciolo laterale che, con altre analoghe, orna il capitello della colonna di destra e il capitello della colonna di sinistra. Anche i basamenti dei pilastri appaiono variamente composti con pezzi di reimpiego, dove pare anche di scorgere indizi di antecedente scultura. Si badi, comunque, che tutti i pezzi hanno subito interventi spulenti e, a volte, riprese al tempo dei restauri anni '30 e non sono sempre, per questo, ben giudicabili. Ancora al primo tempo della progettazione plastica dell'edificio, e dunque al secondo-terzo decennio del secolo XII sembra appartenere la figurazione dell'ingresso, lato destro, con toro, orante e aquila, scena che pare però qua e là ritoccata.

Certamente invece del secondo-terzo decennio, ma del secolo seguente, è la vasca battesimale che si conserva all'interno, costruita come un cloitre con le archeggiature intrecciate, capitelli fogliati di segno " gotico ", tori, basi. Il confronto più diretto non è con una vasca battesimale ma con l'analoga concezione e disegno che troviamo in un capitello del nartece di Fornovo, capitello che conferma dunque la datazione da noi appena assegnata al pezzo di Collecchio.

Viene da ultimo il problema plastico forse più interessante di Collecchio, quello presentato dalla lastra in marmo bianco con il Battesimo del Cristo nel Giordano, a sinistra il Battista a destra l'Angelo, sopra la colomba che scende nel raggio. La qualità del pezzo è senza dubbio alta e la sua cronologia mi sembra, ad una analisi attenta, non dubitabile. Non siamo né in area bizantina e neppure nel X secolo (178) ma in tempi a noi assai più prossimi, e all'interno di una cultura inconfondibile. L'autore di questa scultura, certo parte di un complesso più ampio, probabilmente una recinzione presbiteriale o pulpito, il cui tema peraltro non è restituibile nel suo complesso se non per ipotesi (vita del Cristo?) appartiene a quella grande famiglia di scultori campionesi alla quale dovette collegarsi anche maestro Antelami: infatti i confronti più diretti sono proprio con opere di questo ambito. Pensiamo alla lastra dell'altare del Battistero di Parma, dello stesso Antelami, con il Sacerdos, il Battista e il Levita, la cui qualità peraltro è nettamente superiore a questo pezzo di Collecchio cui mancano le finezze, soprattutto la tensione nel costruire il movimento, il racconto reso sempre " possibile " ma non espresso che caratterizzano Benedetto. Un altro apporto, e questo forse più prossimo, lo troviamo con la grande lastra con l'Ultima Cena della cattedrale di Modena, assegnata, come sappiamo, a maestri campionesi, dove più vicine al pezzo collecchiese sono le grafie delle pieghe e, soprattutto, la costruzione dei volti scavati nelle barbe e lievemente bloccati in una espressività di ripresa a volte tardoantica (si pensi al volto da - filosofo - del Battista ed anche a quello del Cristo che trovano riferimenti nella tradizione dei sarcofagi del II-III secolo d.C.).

Ecco quindi che, inquadrata stilisticamente, questa lastra avrà anche un suo tempo non dubbio, probabilmente, vista la commistione delle esperienze in essa presenti, attorno al 1210-1220, insomma circa contemporanea al rimaneggiamento delle antecedenti sculture e quindi al generale ampliamento dell'edificio.

Ecco quindi che si pone il problema di come, nel XIII secolo, venne modificato il sistema antichissimo, vecchio di circa 140 anni, della chiesa romanica. Evidentemente edificando una copertura a volte retta dai notevoli sostegni con cadute delle crocere in corrispondenza delle colonne angolari. Si riedificarono quindi le due absidiole probabilmente rifacendole secondo l'asse lievemente spostato del nuovo edificio, quindi un secolo circa dopo si dovette abbattere l'abside mediana rinforzando per questo, con i contrafforti esistenti, la zona quadrata del cc coro". Il resto è vicenda nota e già in precedenza da noi delineata.

La strada che da Collecchio porta a Talignano (179) inizia di fatto ad abbandonare la pianura e presenta un paesaggio certamente diverso rispetto a quella. Sono qui le coltivazioni delle viti, sono qui le prime fitte macchie di bosco; la strada però non e, a Talignano, l'asse principale della Romea, ma una deviazione, organizzata appunto nel tardo secolo XII per conto dei cistercensi, onde far salire i pellegrini in direzione delle balze più erte del Prinzera dove sorgeva il monastero della Rocchetta con annesso ospizio; la deviazione peraltro non riuscì a trasferire il traffico, o almeno la sua maggior mole, per le ripide balze del monte (180), e l'asse della Romea rimase quindi lungo l'antico percorso che da Collecchio prosegue per Fornovo e quindi per Bardone. Un mutamento di prospettiva culturale suggerito dai cistercensi dai quali dipendeva (da San Roberto Ultramontes come dice il Capitulus seu rotulus decimarum del 1230) la Rocchetta con la sua collegata Talignano, non è dato di cogliere in questa chiesetta, se non altro perché, diversamente dalla prescrizione dell'ordine che, appunto, in polemica con Cluny, escludeva la rappresentazione all'interno e all'esterno dei propri edifici religiosi, diversamente da quella prescrizione non si verifica a Talignano né il modello architettonico dell'ordine né quella generalizzata esclusione dell'immagine negli edifici religiosi cui si alludeva. Quindi e probabilmente la costruzione, diversamente da Fontevivo ed anche da Chiaravalle nel piacentino, era stata costruita fuori degli schemi prescritti oppure era antecedente e quindi era stata assunta in seguito, come pare possibile, dall'ordine medesimo. E, tutto sommato, nonostante la prima attestazione di Talignano risalga al citato Rotulus decimarum, conviene ritenere che la costruzione fosse antecendete e che la lunetta istoriata, di cui discuteremo, appartenesse ad una seconda campagna di generale decorazione plastica di questo ed altri edifici lungo la Romea.

La chiesa, come oggi ci si presenta, è principalmente frutto dei restauri del 1935-1936 coordinati da Ferruccio Botti al quale si deve anche la ricerca più approfondita sul culto di San Michele nella nostra zona (181); ai restauri si deve, tra l'altro, l'intero paramento esterno, sicché solo pochi tratti nel campanile ed altrove verso sud ed est appaiono ancora conservare qualche carattere romanico; l'interno, del tutto rivestito in età ottocentesca e agli inizi del secolo, non sembra poter rivelare, allo stato, elementi medievali. L'edificio appare dunque abbastanza arcaico, e può risalire, nel suo insieme, alla prima metà del secolo XII, non certamente all'epoca della Psicostasi. La dedica a San Michele è una dedica significativa: Mont Saint Michel nel nord della Francia, San Michele sul Gargano in Puglia sono i due punti focali europei di un culto diffusissimo anche nel nostro territorio e San Michele quindi, e San Nicola, e San Martin de Tours (presenti, ricordiamolo, alla Cattedrale di Parma nei capitelli scolpiti) sono tutti santi " delle " strade dei pellegrinaggi. Dunque la dedica a San Michele è una dedica funzionale alla situazione dell'edificio. Questo era coperto a capriate ed aveva una torre certo non troppo dissimile da quella odierna che, nella sostanza, mantiene i rapporti dimensionali originari. Il problema della lunetta e della sua iconografia mostra ancora una volta l'intrecciarsi complesso dei nessi sulla strada dei pellegrinaggi; agli inizi del secolo XII la cultura religiosa suggeriva come modello per le Crociate la vita e le gesta dei cavalieri di Carlomagno o di quelli della Tavola rotonda, i grandi cicli francesi poi trasformatisi, da poemi, in romanzi in volgare; ora, un secolo dopo quelle vicende, l'intera strada è una strada anche penitenziale e il segno di una diversa simbologia, e, probabilmente, di una polemica antiereticale, lo si coglie proprio nel mutamento dell'iconografia, questa che presenta appunto che presenta la " pesa delle anime", con per protagonista San Michele. Di fronte al santo appunto il demonio, Lucifero che gli contende le anime, mentre in basso un altro démone aggancia con l'uncino il piatto della bilancia digrignando i denti; un'anima è già stata conquistata, rappresentata come una piccola testa sotto la coda di Lucifero stesso, e un'altra certo verrà: si osservi l'espressione della testa rappresentata sul piatto di destra che si contrappone, evidentemente, all'altra, del beato. La testa, il caput è dunque l'anima e la lotta è una lotta simbolica, la lotta appunto che illustra il senso dell'intero pellegrinaggio. L'iconografia della psicostasi, come del resto notava fin dal 1922 il Màle (182), è tema d'origine francese e largamente diffusa sulle " vie "; un esempio, forse il più noto, lo abbiamo a Conques (183) la cui complessa simbologia dovette certamente circolare attraverso i codici, gli appunti grafici, lungo le " strade" di Europa.

Il problema, a questo punto, è tutto stilistico; a quale epoca assegnare questa psicostasi dal segno così efficace anche se un po' attutito dall'usura del tempo, tanto che si dovrebbe consigliare del pezzo un provvido ricovero? Un aiuto viene a questo punto dall'individuare altrove la stessa mano, quella di un maestro dalla cultura complessa, attivo qui come a Fornovo ed a Bardone e i cui seguaci operano in numerose altre chiese, un Maestro che potremmo battezzare di Santa Margherita dalla sua opera principale a Fornovo, anche se a lui debbono certamente attribuirsi le altre parti che a Fornovo compongono, come vedremo, l'antico pulpito ed i capitelli ai lati del portale mediano un tempo aperto e vari altri. Lo stile, la cultura di questo maestro dovrà essere meglio illustrata analizzando - ripeto - la sua opera maggiore a Fornovo, ma certamente dobbiamo già qui cogliere una componente che non è per nulla antelamica della sua esperienza, ma piuttosto lombarda e precisamente pavese; se infatti analizziamo questa lunetta a fondo non possiamo non riconoscervi, al di là dell'iconografia francesisant, una scrittura diversa, molto più arcaica, da confrontare con molti capitelli del San Michele a Pavia (184). Tutto questo e quanto del resto già osservato a Vicofertile dove era all'opera un sodale di questo scultore, può renderci avvertiti della complessità dei problemi che pone questa diffusione nel primo secolo XIII di temi elaborati lungo le grandi strade europee. E il tema dei rapporti con l'Antelami, che vedremo di analizzare sulla base dei pezzi di Fornovo, diventa a questo punto pressante, perché e prima di tutto ci si deve domandare da quale momento l'autore dei pezzi di Talignano, Fornovo e - vedremo - Bardone, da quale momento del percorso dell'Antelami l'autore abbia preso le mosse.

Le ricerche attentissime del Mariotti (185) hanno da tempo chiarito i temi storici relativi a Fornovo e soprattutto a Fornovo romana ma i problemi che una restituzione di questi tempi pongono non sono risolvibili che attraverso indagini archeologiche, ora, di fatto, assenti; dobbiamo quindi limitarci a riprendere quanto i dati documentari offrono e quanto l'analisi archeologica degli edifici permette di accertare. Ecco dunque che la situazione di Fornovo stessa immediatamente ai piedi dell'Appennino, dove si intrecciano gli sbocchi del Ceno e dello Sporzana sul Taro e le rispettive vallate, la posizione di Fornovo certamente nodale già in epoca ligure e quindi romana, è altrettanto importante in età carolingia quando abbiamo appunto un placito, del 25 maggio 854 (186), relativo a un contrasto tra le pievi di Fornovo e di Varsi sulle decime di Montespinola presso Castell'Arquato, risolto a favore di Varsi. La giurisdizione della pieve di Fornovo, come risulta ancora nel 1230 nel Capitulum seu rotulus decimarum (187) è assai ampia e testimonia dell'importanza del centro, d'altro canto il fatto si spiega chiaramente perché Fornovo è punto focale d'incontro delle strade che conducono, a raggera, dalla pianura al passo di Monte Bardone; quella che proviene da Borgo San Donnino da una parte e quella che segue la linea da Parma-Collecchio dall'altra. Fornovo dunque è un centro di transito ed anche di sosta importantissimo, il luogo dove forse fin dall'età romana si situava un ponte sul Taro, poi rinnovato variamente e attestato con certezza nel XII e nel XIII secolo; il ponte, mantenuto dai religiosi di Altopascio, dovette essere distrutto dalla piena del 1294 come ipotizza il Mariotti (188), e nel 1304 era certamente crollato.

Queste le indicazioni documentarie, assieme a molte altre e più specifiche riguardanti la pieve nel corso del secolo XI e alcuni suoi contrasti con la potente chiesa di San Savino a Piacenza, indicazioni che peraltro non ci permettono certo di datare con sicurezza nessuna parte dell'edificio senza una preventiva analisi delle sue caratteristiche architettoniche. Per quanto concerne l'urbanistica dì Fornovo l'indagine del tessuto, molto manomesso specie dopo le distruzioni belliche e la ,< ricostruzione" disorganica del dopoguerra, possiamo notare un impianto medievale nel sistema generale della planimetria che comprendeva un asse principale organizzato su due piazze, quella davanti alla pieve e l'altra così detta del mercato; il sistema urbano è ancora riconoscibile in un interessante documento del secolo XV, gli affreschi bembeschi della Camera d'oro di Torchiara, dove vediamo l'agglomerato del paese organizzato secondo un asse longitudinale ripreso dal lato della piazza del mercato con di fronte il Taro e le confluenze dello Sporzana e del Ceno, l'abside della chiesa (una sola abside, il che peraltro non prova molto dato che il pittore, che certo aveva sotto mano uno schematico disegno ripreso dal vero, appare in certi casi impreciso), la torre, un edificio porticato e un pozzo in primo piano sono ben individuabili. In una planimetria ottocentesca di recente pubblicata in schema (189) vediamo ancora confermata la struttura descritta dal dipinto bembesco e che è probabilmente quella medievale. Evidentemente il blocco del paese dovette essere cinto di mura, mura che circondavano il nucleo descritto dell'edificato. Venendo adesso alla chiesa nel suo complesso dobbiamo cercare di condurre una lettura attenta delle murature usando a confronto il materiale grafico e fotografico antecedente i restauri dal 1892 al 1901 e dal 1927 al 1942. Se per esempio consideriamo l'immagine della facciata prima degli interventi di risistemazione osserviamo che i tamponamenti del nartece, cioè del portico antistante, all'origine certamente aperto, possono essere tardocinquecenteschi con ulteriori manomissioni certamente del secolo XVIII come mostra l'occhio aperto al posto della lunetta del portale di facciata. Che il portico fosse aperto lo dimostra il taglio che la muratura attuale opera appunto nei capitelli istoriati della prima fila, non solo quelli del portale, ridotto di calibro, ma in quelli delle due colonne a lato.

Il primo problema quindi è di espungere, come sostanzialmente non corretta a livello archeologico, questa fronte che reinventa, e con palesi sfalli, una facciata di tipo grosso modo a vela " pavese su una costruzione che non è, come dovrebbe, degli inizi del secolo XII ma di circa un secolo posteriore. La fabbrica poi è inserita in un contesto di edifici di epoche differenti, sorti ed aggregati alle strutture originarie, edifici che di fatto, con il Toro avvicendarsi, hanno contribuito a distruggere buona parte del paramento esterno della primitiva costruzione leggibile soltanto, ed a malapena, nella parte absidale oltreché all'interno. Comunque la zona alta della nave maggiore, l'abside mediana salvo una parte coperta e alcuni altri tratti dei lati nord e sud (il più obliterato) presentano evidenti tratti della muratura originaria. Quanto alla torre, variamente manomessa, e che reca l'iscrizione con la data 1303, essa appare, nell'impianto, del tempo del primitivo edificio, con interventi di fine secolo XIJI (190); echi di altre manomissioni, soprattutto trecentesche, vediamo nelle cornici che sovralzano l'abside maggiore, (le minori sono state distrutte) cornici dal caratteristico dentello; anche il sovralzo, che evidentemente muta anche l'originaria pendenza del tetto absidale, ed un'altra fabbrica a sud della chiesa possono assegnarsi a questa campagna di lavori d'epoca gotica. Ma come era all'origine l'edificio? Per rispondere alla domanda conviene adesso analizzare il suo interno assai più ricco di elementi arcaici di quanto non sia la manomessa superficie esterna del monumento.

La struttura dentro la chiesa presenta due zone ben distinte: il nartece che, per le parti scoperte, è costruito con pietre squadrate, e retto da pilastri formati da quattro emicolonne addossate con tra queste un angolare, e dunque sostegni perfettamente funzionali alle volte a crociera che reggono; quindi una zona comprendente le tre navate e l'unica abside superstite, la centrale, la quale risulta operata con ben diverso metodo costruttivo. I sostegni, assai caratteristici, sono formati da cotto di piccole dimensioni mescolato a sassi e cotto di maggior dimensione per le zone esterne delle rag-gere degli archi intervallato qui da malta sufficientemente spessa; le colonne ora non appaiono dell'altezza originaria e sono infatti prive di basamento. Se si va al penultimo sostegno verso destra nella navata centrale, troviamo, sotto una grata, il livello originario dell'edificio di circa 90 cm inferiore all'attuale. livello del resto perfettamente confermato da un recente scavo che ha messo utilmente in luce il luogo e la forma dell'antica abside minore destra (e una analoga, per accertamenti pure effettuati, ne esiste a sinistra), formata da una muratura caratteristica, in grandi sassi di fiume disposti a cercine, intervallati da malta spessa, per nulla dissimili, come tecnologia costruttiva, dai materiali usati per l'esterno dell'abside maggiore. Il litostrato originario, probabilmente a lastre di pietra, è stato sostituito dall'odierna pavimentazione in cotto, ripeto sovrammessa all'antica, aggiungendo uno strato cospicuo di rottami. Le modifiche, probabilmente, si devono ai rimaneggiamenti rinascimentali e quindi a quelli settecenteschi che chiusero con volte la nave principale come a volte, del resto, sono coperte le minori, volte probabilmente cinquecentesche. Anche le volte del nartece, che pure fin dall'origine, e cioè nel XIII secolo, dovettero esistere, sono state rifatte, così che oggi il testo originario non è leggibile se non appunto nei sostegni. Anche l'intonaco che, dopo i restauri, scende sul fianco dei pilastri della navata, non risponde all'organizzazione originaria dell'edificio che certamente però era intonacato nel suo insieme. Le coperture odierne a capriate riecheggiano nel rifacimento le originarie e così le aperture delle finestre lungo la nave e le absidali. Un minor numero di aperture però doveva caratterizzare il sistema, forse tre nell'abside maggiore e due nelle minori o una centrale soltanto nelle minori, ma, allo stato, il fatto non è accertabile se non per via di confronto, come appunto per esempio a Stradella, struttura data dal Porter al 1035 c. (191). Il problema della cronologia dell'edificio, persa ogni possibilità, se non attraverso uno scavo nella navata, di accertare forma e consistenza della costruzione del secolo IX che è attestata, e persa di questa ogni traccia anche plastica dato che le due figure ora murate nel nartece sono evidentemente contemporanee al resto del patrimonio plastico smembrato che formava quello che vedremo essere l'originario pulpito, il problema della cronologia deve prendere le mosse dalla planimetria, e dall'analisi di alcuni elementi plastici dell'abside, come gli archetti senza lesene e di notevole ampiezza, oltreché dalla forma dei sostegni e dei capitelli.

L'intero insieme ha infatti un aspetto assai arcaico ed è testimonianza di una struttura caratteristicamente lombarda dei primi decenni del secolo XI; i confronti, seguendo l'impostazione data al problema dal Porter nella sua Lombard Architecture (192) sono numerosi; non tanto con Sannazzaro Sesia (1040), o con Lodi Vecchio (c. 1050), o con Calvenzano (1040) dai sostegni ben più complessi, quanto piuttosto con edifici come Lomello (c. 1025) (193) o come la già ricordata Stradella (c. 1035). La chiesa di Santa Maria Maggiore a Lomello è stata restituita dal Porter e largamente analizzata; essa presenta sostegni ben confrontabili con questi di Fornovo, e cioè semicolonne addossate al nucleo del pilastro in senso longitudinale e, rispetto a Fornovo, una parasta saliente dalla parte della nave centrale che a Fornovo manca; la muratura di quella chiesa appare poi in cotto uniforme e sostanzialmente molto più regolare di quella di Fornovo ma questo, ovviamente, non deve farci evoluzionisticamente scalare più avanti la cronologia del nostro edificio perché si deve tener conto di una situazione affatto locale e dell'impiego altrettanto "locale " dei materiali. In pianta le forme dei due edifici sono confrontabili, così come lo sono le tre absidi parallele; mancano però a Fornovo archi trasversi a cavalcare a campate alterne la nave mediana e ad incatenarne le due pareti. Quanto al San Marcello di Montalino di Stradella ancora una volta dobbiamo prendere a fondamento l'analisi del Porter individuando nessi, per esempio, nel tipo delle archeggiature all'esterno dell'abside maggiore, e nei caratteri dei sostegni all'interno; anche qui però, verso la nave maggiore, vediamo delle emicolonne addossate che mancano a Fornovo. D'altro canto i sostegni di Fornovo possono considerarsi molto più complessi di quanto non siano quelli della Pieve di Bagnacavallo assegnabile per il Porter al 1000 circa (194), sostegni che hanno forma rettangolare.

In conclusione quindi una plausibile cronologia per questo monumento architettonico, considerando la sua situazione in un'area nodale dei percorsi medievali e dunque non in una sperduta area " montana" ma lungo una delle maggiori strade dei pellegrinaggi, non può discostarsi troppo dal 1030 - 1050 circa, come del resto confermano - ripeto - le tipologie delle archeggiature absidiali e il carattere dei capitelli a sguancio angolare e privi di toro, ed anche la struttura stessa dei sostegni che è certamente meno complessa di quelli databili, si è detto, tra 1050 e 1080, epoca in cui, in area lombarda, troviamo diffuso il sistema a lesene che noi ben conosciamo e che, per esempio, abbiamo veduto alla pieve di Collecchio. Ecco dunque stabilita la cronologia primitiva della pieve alla quale, in un'epoca che dobbiamo precisare, si aggiunse un sistema architettonico, il nartece, chiaramente legato alla funzione dell'edificio sulla via dei pellegrinaggi, ed un sistema plastico la cui consistenza e forma vedremo adesso di restituire.

Quando uno scultore, certamente ben al corrente dell'esperienza di Benedetto Antelami (e vedremo di quale periodo) viene chiamato a Fornovo, alla importantissima pieve, per " restaurarla " o, meglio, per fornirle un nuovo modello architettonico e dunque una nuova e diversa funzione pubblica, l'edificio, a fine XII secolo, non doveva avere subito mutamenti nel corso dei quasi due secoli dalla sua costruzione: una fronte estremamente semplice, ritmata da archeggiature nella parte alta, larghe archeggiature senza lesene, l'interno intonacato e con ogni probabilità dipinto, una costruzione estremamente articolata nei volumi ma non certo funzionale al nuovo modello di ecclesia, una costruzione che, diversamente da edifici contemporanei della Catalogna, appartenenti dunque al prémier art roman, non era coperta a volte (botte sulla mediana, semibotti rampanti oppure, più avanti, crocere sulle minori) ma a capriate, queste probabilmente limitate da un velano magari dipinto. La nuova funzione della chiesa sulla strada dei pellegrinaggi era peraltro diversa, ed era sostanzialmente mutata fin dagli inizi del XII secolo quando ai cicli dei bestiari lombardi, sempre animali simbolici, bene inteso, si erano sostituiti in più parti, ma principalmente in area medio-padana ed in area pugliese, temi legati alla letteratura della Chanson de Geste, dall'altra quelli più esplicitamente funzionali al modello di cultura proposto dalla chiesa stessa, ed alla sua diversa funzione. La cattedrale, fuori le mura urbane, privata del potere sulla città, diventa il luogo della " scuola ", il luogo dove si elabora una cultura fondata sulle arti del trivio e del quadrivio, secondo il noto precetto di Gregorio VII (195) e che istruisce i religiosi, ma anche i laici, alla amministrazione del territorio ed alla lettura ed analisi dei testi. Anche le sculture quindi acquistano una precisa funzione ed il problema del rapporto con la Bibbia, il problema della " enciclopedia " delle scienze medievali, e cioè dell'uso che gli scultori facevano dei testi enciclopedici a loro disposizione, sta dietro alle rappresentazioni, ai temi che vengono esposti sui portali, che vengono illustrati nei capitelli; accanto a questi sono presentati i santi, e, con quelli, visioni apocalittiche. Ecco quindi che la iconografia tutta " wiligelmica " del peccato originale si diffonde largamente nella nostra zona fino a Cremona, ecco dunque che gli episodi della esistenza di un santo, Gemignano, sono illustrati su un portale sempre modenese, e quelli dei fabliaux e di Artù sull'architrave e l'archivolto di un'altra porta (della Pescheria) sempre nel Duomo di Modena. Ecco ancora che i temi dei bestiari sono assunti nei capitefli modenesi attribuiti al così detto Maestro delle Metope, di esperienza borgognona; ed ecco infine che al Duomo di Parma, centro prossimo e di gran peso per molte chiese del contado, abbiamo la grande programmazione di un'iconografia riformata, e dunque non " lombarda ", nei capitelli della navata e in parte dei matronei e delle ghiere degli arconi absidali all'esterno.

L'idea di costruire poi' davanti a chiese minori, un nartece, non era certamente una novità di fine XII secolo, chè anzi, in un edificio assai importante, Badia Cavana (196) essa aveva trovato un'importante realizzazione da parte delle stesse macstranze di scultori attive alla cattedrale parmense, ed erano qui capitelli fogliati ma anche capitelli coi quattro Evangelisti (un tema ripetuto anche al duomo di Parma più di una volta) a essere presentati. La iconografia del primo XII secolo, inoltre, e come abbiamo veduto indirettamente analizzando i modelli agricoli di questo periodo, comprendeva anche i Mesi e, a Modena, gli Apostoli, ed ancora i Profeti; e non dimentichiamoci che sia a Modena che a Parma vi erano, annesse alle cattedrali, le scholae cui sopra si faceva cenno, e dunque che un intero sistema di cultura presiedeva alle formulazioni plastiche.

La progettazione quindi dell'iconografia di Fornovo, del nartece aggiunto alla facciata e dell'insieme plastico all'interno, dovette rispondere senza dubbio ad una visione estremamente organizzata e meditata del nuovo rapporto da stabilire col fedele. Al posto dei démoni scolpiti su un singolo capitello ormai si deve presentare un sistema molto più complesso, un sistema che esplichi i vari fatti neotestamentari e che illustri anche le vite dei santi. Ed è proprio questa una delle caratteristiche eminenti della nuova iconografia, la presenza delle vite dei santi, la presenza che è certamente funzionale agli edifici della narrazione plastica dei santi titolari o dei santi di cui si conservano reliquie (197). Ecco dunque qui a Fornovo santa Margherita, ecco dunque a Berceto San Moderanno; due esempi molto puntuali stante il fatto che queste sono le due pievi e i due massimi centri sulla strada verso il passo di Monte Bardone; d'altro canto e non diversamente vediamo a Fidenza, a Borgo appunto, la vicenda di San Donnino sull'architrave del portale mediano di facciata. Dunque un mutamento di iconografia e, soprattutto, una narrazione molto dilatata, ricca di particolari, una scrittura molto meno legata alle geometrie ed alle architetture delle opere di circa un secolo avanti; lo stile di queste sculture risulta per questo inconfondibile e le incertezze cronologiche non possono sussistere.

E' oggi molto difficile per noi ricostruire con certezza nei particolari, ma è ben lecito farlo nelle linee generali, l'originario tipo di arredo interno della pieve di Fornovo. Il portale di facciata era istoriato nell'entradosso dell'arco da nove figure almeno il cui tema non possiamo ora identificare essendo superstite una vera e propria larva a destra e una seduta in trono sulla sinistra; sotto, a sinistra, vediamo un dragone, alla destra un toro, ambedue mutili nella parte inferiore. Non è nemmeno accertabile, ma non sembra probabile l'esistenza di una lunetta: forse dunque l'accesso si presentava ad arco libero, con nei capitelli alla sinistra e destra un centauro cavalcato da una figura con verghe e sulla destra una coppia di figure sedute. E' forse possibile che i due telamoni, che sono della stessa mano dell'autore del centauro e dell'altro e simmetrico capitello e del santo Vescovo all'interno (e del suo pendant nonché degli altri pezzi collegati), stessero al basso a sinistra e destra dell'ingresso reggendo una colonna; questo spiegherebbe tutto quanto resta altrimenti inspiegabile delle pietre per immurarli e con cui fanno corpo, pietre che appunto hanno coincidente larghezza con l'entradosso dell'arco di ingresso stesso e sono fatte - ritengo - per essere immorsate nel muro a sinistra ed a destra con le due figure sporgenti a reggere sulle spalle lo " stilo ".

Ecco dunque forse chiarito l'aspetto, vagamente arcaico si deve riconoscerlo, dell'arco di accesso alla chiesa (e, si noti, un'analoga ghiera a fogliette segna al basso le due pietre dei telamoni nell'unico lato scolpito, quello frontale) non troppo distante forse nella sua concezione da quello di Borgo San Donnino e cioè secondo un progetto di facciata articolato in parti scolpite a bassorilievo e parti sporgenti (colonne rette da telamoni). La collocazione di una scultura resta invece incerta: quella del pellegrino, ora situata entro una nicchia del tutto arbitraria all'altezza della lunetta mediana. Ma analizziamo adesso le sculture all'interno dell'originario portico, prima di tutto i capitelli. Sono un complesso interessantissimo per molti aspetti, anche perché rappresentano uno svolgimento dello stile antelamico in direzione alquanto diversa. Se pensiamo infatti ai modelli parmensi, da quello della lastra della Deposizione e degli altri pezzi scomposti e già costituenti l'antico pulpito (198) in Duomo (1178) alle sculture all'esterno ed all'interno del Battistero (1196-1216), vediamo come qui si perda prima di tutto la misura geometrica della composizione, vediamo come qui la scrittura delle foglie nei complessi capitelli sia più ricca, più plastica ma anche con molti più evidenti riferimenti all'antica cultura lombarda sia pur vista attraverso il mondo della cultura ormai " gotica che è di Benedetto. Se vediamo ora, dopo i fogliati più turgidi e ricchi, il bel capitello di Fornovo col leone che schianta il drago (il demonio ovviamente) e lo confrontiamo coi leoni antelamici conservati e superstiti del pulpito e con quello sotto la vasca in Battistero, troviamo che, al di là dell'ovvio stacco stilistico, il nesso non è specificamente coi primi né col secondo ma che tutti e due i modelli devono essere ammessi come antecedenti della scultura. D'altro canto, per tornare ai fogliati, i loro modelli li troviamo nei racemi scolpiti negli stipiti dei portali esterni del Battistero come, per il capitello dal fogliato rigido e arcaizzante e con nodulo di frasche al centro tra le volute, il rapporto appare diretto coi capitelli fogliati e non figurati delle colonne maggiori all'interno del Battistero.

Se esaminiamo adesso gli altri capitelli vediamo la complessità dei temi affrontati e la ricchezza dunque della nuova iconografia: così la rappresentazione del Paradiso terrestre con Eva ed Adamo, quella della Tentazione di Adamo in un altro pezzo estremamente narrativo, la scena, forse da fabliaux, con animali danzanti; tutti pezzi plastici la cui mano direttamente si collega, almeno nelle figure principali e nell'insieme, a quella del maestro che abbiamo visto già Operare nel portale di facciata che dunque venne programmato insieme a tutte le sculture dei capitelli. Tra questi uno merita particolare ricordo; si tratta del capitello non istoriato che presenta architetture di un chiostro con colonne, capitelli ed archi a tutto tondo tra questi, forse una allusione diretta al chiostro dei canonici della collegiata situato, come di consueto, al lato sud della chiesa; ancora un capitello del nartece presenta invece delle colonne e capitelli ma questa volta ad arco intrecciato, proprio come nel caso della vasca battesimale di Collecchio.

Non vorrei anticipare qui alcuna conclusione su l'autore di questi pezzi plastici ma sottolineerei, comunque, la sua dipendenza diretta dalle sculture del battistero parmense anche se con la consapevolezza delle opere del primo Antelami; una consapevolezza, peraltro, ormai distante visto che lo scultore ha abbandonato, come ci confermeranno le opere che adesso esamineremo, quella scrittura lineare, quella prevalenza dell'impianto geometrico che caratterizza la composizione del primo Antelami per un diverso modello di stesura. La creazione maggiore comunque dello scultore appare essere un'altra, che purtroppo le vicende dell'uso religioso hanno disperso, alludo a un complesso che già Monsignor Castelli, al tempo della sua visita pastorale alla pieve (1578-1579), aveva indicato come ambone sotto cui era l'altare di Santa Margherita; si deve al prelato l'ordine di distruzione dell'insieme (199) del quale noi non abbiamo altra notizia indiretta se non una, che assumiamo dal viaggio del Boccia, relativa ad un leone " di marmo mutilato ", allora situato all'esterno, alla sinistra della facciata (200). Di questo leone non vi è più traccia e neppure dell'altro che forse doveva accompagnarlo se il modello, " ridotto " però, del pulpito parmense è stato assunto da questo di Fornovo che vedremo nelle linee generali di ricomporre. E prima di tutto veniamo alle lastre: due malamente ancora conservate in facciata dopo che da circa un ventennio se ne chiede inutilmente il rientro, lastre che sono nate per un monumento costruito dentro la chiesa, lastre che sono state situate inspiegabilmente all'esterno dai successivi restauratori o rifacitori della fronte. Nella lastra murata sulla destra, i Vizi capitali (l'Inferno), come a Talignano vediamo qualche ricordo della arcaica tradizione pavese del primo XII secolo ma, d'altro canto, la mano delle due opere pare identica. Nonostante lo stato di conservazione è ancora agevole riconoscere cioè la stessa mano sia in questa che nelle altre lastre: per esempio in quella alla sinistra della fronte con due lottatori e figure di cui una angolare ritta e drappeggiata nelle sue pieghe; l'inquadramento generale dell'insieme con rosette seria il pezzo con l'altro di Santa Margherita collocato all'interno e unisce questi, naturalmente, al noto modello parmense che è la lastra antelamica della Deposizione, ma che allora era il complesso " Teatro " su colonne di cui parlava il Da Erba nel secolo XVI alludendo evidentemente al rapporto tra questa struttura narrativa del pulpito e la rappresentazione dei misteri, in particolare quello della Passione. Comunque sia il pezzo con le Storie di Santa Margherita, la cui iconografia è stata attentamente ripercorsa da Giuseppe Toscano (201), è ancora oggi quello meglio giudicabile proprio per il fatto che è stato conservato a lungo al coperto e, pur avendo perduta l'originaria pittura, ha mantenuta intatta la freschezza del taglio dello scalpello e l'evidenza e la raffinatezza della scrittura. Ci troviamo di fronte a uno scultore che conosce bene l'opera antelamica, come si diceva, e che ne conosce forse da vicino la bottega dato che è assai prossimo all'opera del maestro, che a suo tempo abbiamo ricostruito (202), all'autore principale dei capitelli interni sulle colonne del battistero parmense, all'autore della lunetta col Pantocratore ora all'interno del Battistero, e ancora autore della lastra con la Majestas in mandorla rinvenuta a Reggio Emilia in Duomo (che deriva direttamente dalla diruta Maestà del pulpito antelamico di Parma), pezzo che egualmente faceva parte di un pulpito nella cattedrale reggiana. Dunque una figura, che forse conosce anche l'autore delle storie di San Donnino appunto sull'architrave del portale maggiore della chiesa non distante da Fornovo, una figura ben addentro al cantiere antelamico dei primi due decenni del secolo XIII e che si accosta al principale maestro di questo stesso cantiere, all'autore - ripeto - della Maestà ora nel Battistero parmense.

Altri due pezzi si devono collegare ovviamente a questo insieme, coerenti come sono, vuoi per misure che per stile a tutti gli altri (la mano è la medesima), il Santo Vescovo ed il Re, questo restaurato nella zona inferiore, attualmente addossati a sinistra e destra della nave mediana contro la parete est del nartece. I confronti sono parlanti con le figure della lastra ora murata a sinistra della facciata e con le figure meglio conservate della lastra di Margherita, e non servirà qui tradurli in parole bastando, ritengo, le illustrazioni. Ma, a questo punto, conviene domandarsi, assegnati alla stessa epoca anche i due frammenti di stili ", di colonne cioè finemente lavorate, poste ora a reggere acquasantiere nel nartece, in quale maniera potessero collegarsi insieme tutti questi testi. Devo anche ricordare che circa una quindicina di anni or sono - come di solito si ignora - vennero reperiti durante lavori in chiesa degli interessanti frammenti plastici dei quali uno inconfondibilmente della cornice di un'altra lastra della serie esaminata, lastra anch'essa circondata da rosette una delle quali era completamente preservata nel frammento: questo indizio basta a far ritenere che il corredo dei pezzi plastici superstiti non sia del tutto completo, come del resto è agevole indurre sia dalle misure che dai temi esposti. Il pezzo di Santa Margherita misura cm. 98 x 183, quello dei Lottatori cm. 98 x 115 (più un risvolto con altre figure), quello dei Vizi (inferno) cm. 95 x 153. La sola collocazione certa è quella della lastra de l'inferno che doveva andare a fianco dell'insieme vista l'inclinazione di uno dei suoi lati brevi adatta ad accompagnare l'innestarsi della scala di salita al pulpito. Degli altri possiamo dire soltanto che sono una parte del sistema che doveva avere altre scene legate al peccato ed alla salvazione che facessero da pendant o integrassero quella dell'inferno.

Il problema è anche della collocazione delle due figure di Santo vescovo che possiamo forse ritenere Moderanno vista l'organizzazione della via al monte come appunto al " San Moderanno di Monte Bardone " nel secolo XII e nel XIII secolo, e di Re (Liutprando?): evidentemente la loro funzione era di pilastrino alla sinistra ed alla destra di una lastra maggiore, forse di quella frontale che possiamo ritenere fosse quella di Margherita; all'insieme comunque, a parte le scorniciature, basamenti, ecc. oltreché i leoni, manca almeno un'altra lastra se non più d'una; il modello parmense, composto di tre pezzi, non permette riporti schematici in aree prossime e derivate e lo dimostra la differente loro proporzione. L'ipotesi del pontile (203) che a suo tempo avevamo avanzato cade alla luce di quanto da noi stabilito, sulla base dell'analisi archeologica e documentaria, a proposito dell'esistenza di un pulpito antelamico nella cattedrale di Parma. Tutto quanto detto finora, la presenza di un ambone documentato fino a~ tempo della " visita Castelli ", e il fatto che l'autore di questi pezzi sia un maestro strettamente legato alla bottega antelamica, contribuisce evidentemente a rafforzare l'ipotesi che abbiamo enunciato per Parma e ancor più servirà a corroborarla l'analisi delle sculture conservate a Monte Bardone.

Un altro pezzo di notevole interesse e qualità, e che rievoca ancora una volta modelli arcaici, del XII secolo-inizi, ma traducendoli in una diversa iconografia è l'archivolto di portale con al centro l'aquila ed a sinistra ed a destra sequenza di animali rincorrentisi e lottanti che, per confronti con certe parli della lastra di Santa Margherita, appare opera evidente di medesima mano e quindi punto di passaggio, attraverso il pezzo analogo di Bardone ora in facciata, per assegnare l'intero insieme dei pezzi di Bardone alla stessa mano.

Ma prima di procedere oltre dobbiamo ancora osservare due fatti, uno relativo al pulpito, ancora una volta, ed uno alla strada dei pellegrinaggi. Per il pulpito conviene esaminare da vicino il leone del capitello nel nartece ed osservare come quello rechi sulla schiena un capitello, sia quindi un leone stiloforo ed alluda, né l'ipotesi sembrerà spero troppo azzardata, proprio alla serie dei due leoni, probabilmente di stessa mano e reggenti con relativi capitelli il pulpito, situato nella parte terminale della navata, ai limiti col presbiterio, verso sinistra. L'insieme plastico poteva forse aderire a colonna, e avere sul davanti i due leoni, come probabilmente a flardone, altrimenti si dovrà ammettere l'esistenza di quattro leoni all'origine, dei quali tre già perduti al tempo del Boccia (1804).

L'ultima osservazione riguarda la statua del Pellegrino, posta adesso in una moderna nicchia in facciata a imitazione delle statue dei profeti di Borgo San Donnino; si tratta di un pezzo di mano analoga a quella maggiore attiva qui a Fornovo e non starò dunque a discuterne confronti e divergenze, queste ultime certo piuttosto dovute all'esposizione alle intemperie. Interessa semmai vedere perché una tale figura, con le sette chiavi alla cintura, con il grande sacco sulla spalla, il secchio ed il pane al fianco sia rappresentata nella chiesa, un memento per i viaggiatori in itinere, senza alcun dubbio. L'idea generale della ricostruzione iconografica operata agli inizi del secolo XIII a Fornovo (entro il secondo decennio per le citazioni dal pulpito del Duomo ma anche dai capitelli del Battistero) sembra adesso essere più precisa e così le ragioni che la promossero: l'immagine della santa titolare dell'altare, Margherita, legata alle pene dell'inferno, le immagini forse di una serie di profeti, una scena (che manca) di salvazione contrapposta all'Inferno, ecco il sistema iconografico a Fornovo, sistema che si integrava del resto coi capitelli del nartece. Ed una spiegazione se ne può dare nel contesto della reazione ufficiale della chiesa ai moti ereticali di origine catara, visto che qui appunto si rappresenta l'inferno che era uno dei punti di fede negati da quei credenti (204). Ma altri segni abbiamo, qui a Fornovo, dei pellegrinaggi, altri segni di notevole qualità anche se, in genere, ignoti ai più, alludo all'importante croce reliquiario che si conserva in Canonica formata da due valve bronzee apribili e che qui pubblichiamo; pezzo mal noto ed anche non mai ben datato. Esso mi sembra, ancora una volta, riconducibile proprio alla cultura sulla via dei pellegrinaggi; penso infatti possa rappresentare in maniera assai schematica, vista la veste lunga fino ai piedi, il Cristo del Santo Volto di Lucca, un'immagine nota e diffusa a livello europeo proprio da icone portatili come questa, da croci-reliquiari. Dunque un bronzo, che daremo alla prima metà del XII secolo, anche se presenta aspetti più arcaici, che testimonia ancora una volta, in quel tempo, la serie di scambi fittissimi che dovettero esservi tra i vari centri al di qua ed al di là degli Appennini e il culto (si pensi alle cronache e alle Chansons de Geste) nei santuari delle sacre reliquie più famose.

Ma è il momento adesso di lasciare Fornovo e, risalendo lo Sporzana, di avviarci su per la strada dei monti passando distanti dunque dalla "deviazione " costruita poi dal monastero della Rocchetta e di cui si è a suo luogo detto. I punti di riferimento quindi del nostro procedere, distrutti i resti medievali dei castelli che pure dovevano presidiare l'intera strada, dovranno essere ancora edifici religiosi e, in particolare, quanto resta del nucleo urbano, del castello e della chiesa soprattutto di Bardone. Sul problema delle fortificazioni medievali in questa zona e la loro funzione di tutela della sicurezza del passaggio sulla via siamo in grado di fornire notizie a livello documentario ma non analisi archeologiche; di fatto la storiografia sui castelli nel parmense, fondata dall'importante volume della Ghidiglia Quintavalle (205), non ha ancora avuto studi particolari che svolgano quelle premesse. Ecco quindi che le indicazioni sui singoli castelli, compreso quello di Bardone di cui è superstite una sezione semidiruta (206), restano frammentarie e un discorso più completo potrà farsi solo per Berceto, fermo però restando il silenzio delle fonti proprio sul momento iniziale della costruzione dell'edificio, sulla sua forma e caratteri. Dalla planimetria che pubblichiamo della strada Romea nei suoi percorsi e diramazioni si ricava anche la dislocazione dei diversi castelli e fortifirazioni, oltreché quella dei principali ponti ed a questa quindi faccio rimando per una generale visione dello scacchiere.

Ma veniamo a Bardone, insediamento evidentemente di origine longobarda come conferma il nome, organizzato sui due consueti punti di riferimento, la torre (la fortificazione) e la chiesa con l'ospizio collegato- Ancora oggi si conserva, nel tessuto architettonico di Bardone, un nucleo medievale, sia pur frazionato e manomesso. Ma le manomissioni maggiori le ha subite certamente la chiesa sul cui problema la discussione critica non è stata chiarificatrice (207). Di fatto negli anni si è venuta accertando una serie di modifiche all'edificio del quale, peraltro, non è stata ben fissata la cronologia. Se cerchiamo dì analizzare il rapporto tra campanile e chiesa, eliminando l'aggiunta rinascimentale delle due logge sovrapposte al campanile stesso, troviamo che questo non è funzionale nè all'orientamento dell'edificio attuale, nè a quello dell'edificio primitivo con diversa disposizione che è stato ormai accettato dalla critica. Intendo dire che mentre la chiesa attuale ha un orientamento est-ovest l'ipotesi più plausibile era che essa ne avesse un altro nord-sud nella direzione cioè grosso modo del restaurato portale attuale, quello davanti a cui si trovano i due leoni. Purtroppo l'edificio ha subito gravissime manomissioni, e non solo nel secolo XVI quando (1514) si rifanno le pitture sulle colonne romaniche attualmente inglobate nelle murature a sinistra (e segnate nella nostra planimetria da due cerchi), ma ancora negli anni dal 1655 al 1667 con la ricostruzione del presbiterio e l'edificazione delle cappelle laterali.

Un altro fatto da notare è che, nonostante l'edificio sia stato rifatto nel secolo XVII come abbiamo veduto inglobando i sostegni nei pilastri, si dovette mantenere con ogni probabilità la planimetria originaria in quanto è del tutto impensabile che la costruzione potesse avere una forma a trapezio quale quella che oggi essa presenta. Ecco quindi che una plausibile ipotesi potrebbe essere che la costruzione originaria, quella dei due sostegni in cotto parzialmente emersi alla sinistra dalla muratura secentesca e uno dei quali reca la data dipinta del 1514, alludente ovviamente non alla costruzione ma alla ridipintura dell'opera muraria, la costruzione originaria fosse orientata nel senso della chiesa attuale la quale, nella dislocazione dei divisori delle cappelle, ingloberebbe i pilastri arcaici. Non è possibile però procedere oltre, cioè accertare la consistenza della nostra ipotesi, perché mancano saggi negli altri pilastri, così che non sappiamo se le colonne in cotto, che paiono datare attorno al 1080-1090 circa, proseguono in direzione est-ovest oppure si trovano soltanto di fronte alla coppia esistente e cioè in direzione sud. D'altro canto sotto il campanile, che appare nella canna inferiore coerente con la cronologia delle colonne, troviamo un fatto architettonico discordante dai precedenti, e cioè l'abside minore destra dell'edificio e l'attacco dell'abside mediana; il tutto, riportato alla dimensione originaria, doveva occupare in larghezza le tre campate della chiesa attuale, che doveva dunque essere orientata in direzione nord-sud cd estendersi notevolmente sul luogo de l'attuale piazzale antistante il portale. Questo poi, palesemente eccentrico rispetto all'abside mediana della chiesa e di fatto spostato completamente e di molti metri dalla facciata entro il corpo dell'edificio del secolo XI è oggi un ingiudicabile monumento profondamente ripassato in tutte le sculture. Ricapitolando, quindi, la complessa questione delle architetture di Bardone, oggi, senza una analisi archeologica, con scavi nella zona anteriore alla fronte sud e senza un accertamento nei pilastri dell'esistenza di sostegni nel secolo XI, non può essere accertata. Rimangono due ipotesi che riprendo in breve: edificio del secolo XI orientato est-ovest cui si aggiunge, fruendo del campanile edificato, una costruzione orientata ortogonalmente agli inizi del XIII secolo che riutilizzava la chiesa precedente come transetto, costruzione che presentava tre absidi e un complesso arredo interno di cui discuteremo ma che probabilmente non venne mai finita; infine riorientamento secentesco dell'edificio. Oppure edificazione nel secolo XI di una fabbrica avente l'orientamento nord-sud nel quale il campanile insiste su un abside minore secondo una tipologia che troviamo, circa al 1080, in San Pietro in Vallate nel Comasco (208), ricostruzione quindi della chiesa nel seicento e reinglobamento dei sostegni nei pilastri, il tutto dopo un intervento plastico (pulpito) agli inizi del secolo XIII.

E veniamo ora, non potendosi correttamente risolvere le questioni architettoniche, a proporre almeno per quelle plastiche una soluzione accettabile e archeologicamente comprovabile. La storia delle lastre scolpite con il Cristo benedicente e con la Deposizione, la storia dei loro trasferimenti, è di fatto quella del gusto o delle incomprensioni archeologiche dì coloro che ebbero in sorte di gestirle. Ecco quindi che si può assegnare al secolo XVI il momento della scomposizione dell'originario insieme, magari al tempo del Castelli che fece smembrare il pulpito di Fornovo, o, altrimenti, al secolo XVII al tempo dei rifacimenti nella zona presbiteriale. Le lastre sono state quindi usate come paliotti d'altare, nelle cappelle minori, e quindi una è stata passata di recente sull'altar maggiore ed un'altra, senza alcun motivo, sospesa alta sul medesimo. Ma che insieme formavano questi pezzi? Prima di tutto conviene recuperarne alcuni altri sparsi variamente nell'edificio come quelli malamente murati (e rovinati) in facciata mentre erano sempre stati all'interno, con un Santo Vescovo (ancora Moderanno?) ed una figura con bisaccia (?), immagini che si apparentano direttamente con le corrispondenti di Fornovo e che avevano, nel complesso che veniamo restituendo del pulpito, la stessa funzione, di pezzi angolari o divisori (se si preferisce) tra una lastra e l'altra. Le loro dimensioni infatti sono perfettamente coerenti con quelle delle lastre, delle due lastre (la lastra col Cristo benedicente è alta cm, 95 x 200) rimasteci, e basterebbe smontarli dal luogo dove sono stati malamente cementati per verificare dietro di essi le direzioni dei fori e delle tacche per le immorsature.

Altri pezzi da collegare all'insieme scomposto sono l'Aquila situata in alto in facciata dove è stato pure murato l'Archivolto istoriato già in abside ma la cui provenienza originaria, stante la non risolvibile - allo stato - storia della chiesa non sappiamo indicare, la coppia dei Leoni, la Cariatide, oltreché, evidentemente, le due lastre più volte citate. I Leoni, stilofori, uno privo del capo, situati davanti alla porta sul lato sud in posizione ovviamente spuria, sono parenti di quelli antelamici del Duomo ma anche di quello della vasca battesimale in battistero; un capitello forse di quelli usati a reggere la cassa del pulpito si trova nel deposito di pietre scomposte della base del campanile (l'antica area absidale, si ipotizza). La cariatide che ora funge da acquasantiera e che regge un interessante capitello con démoni poteva essere, nel sistema, un sostegno centrale dato che non vi sono tracce di altri leoni. Dunque il pulpito all'origine doveva comporsi sulla fronte di una lastra con il Cristo benedicente, secondo la iconografia dell'insieme parmense del 1178, una sulla destra con la Deposizione, una sulla sinistra con l'Ultima Cena, quest'ultima perduta esattamente come quella corrispondente del pulpito antelamico al Duomo di Parma. Tra le lastre e sugli angoli erano probabilmente le due sculture del Vescovo Moderanno (?) e del pellegrino (?) che, peraltro, non siamo sicuri di identificare con esattezza.

Il pezzo che abbiamo visto doveva avere poi, sulla parte superiore, oltre che caratteristiche scorniciature a rosette, un leggio, un leggio retto da l'Aquila che abbiamo individuata in facciata (la facciata attuale), e questo naturalmente ci pone molti problemi per quanto concerne anche l'aspetto del modello, e dunque del pulpito parmense dell'Antelami. Ma prima dobbiamo risolvere la questione della " mano " dell'autore di questo generale ripensamento dell'arredo interno dell'edificio: ecco quindi che, ricomposti i pezzi risulta la loro completa unità, la loro interna identità di mano, da estendere - si è detto avanti - anche all'archivolto scolpito e istoriato ora fissato erroneamente sulla falsa facciata. Esso coincide perfettamente come segno e come iconografia con l'analogo di Fornovo, e sarà a quei pezzi contemporaneo, mentre le figure delle lastre sono perfettamente confrontabili con quelle egualmente ben conservate della lastra di Santa Margherita sempre a Fornovo. Il maestro è il medesimo e anche qui conferma, nella traduzione molto schematica e " narrativa " della vicenda altrimenti architettata del primo Antelami, quanto si diceva già sulla sua cultura nel paragrafo su Fornovo stessa, e cioè che la sua formazione è direttamente da collegare con la figura e l'opera di uno dei maggiori aiuti dell'Antelami al Battistero, il maestro della Maestà di Reggio e cioè del pulpito di Reggio, nonché del Pantocratore della lunetta ora nel Battistero di Parma. Se adesso cerchiamo di intendere la cultura del maestro di Fornovo, come per esempio nell'archivolto della caccia che vediamo ora in facciata, possiamo verificare in re quanto sia arbitraria la distinzione tra temi profani e temi religiosi, che pure è vulgata, nella cultura dei secoli tra l'XI e il XIII: un cacciatore con la lancia a sinistra, un fàmulo con il corno e un campanaccio sulla destra chiudono in cerchio, assieme ai cani, il cervo direttamente minacciato da un arciere; ma, soprattutto, vediamo sotto forma di ariete crucigero il Cristo, e dunque il senso della intera scena, che per noi oggi potrebbe sembrare descrittiva di un " fatto ", è invece simbolico perchè la caccia è segno del viaggio, della ricerca, e anche il cervo, come sappiamo, è segno e simbolo del Cristo.

Tornando ora alla questione del pulpito di Bardone, di cui già abbiamo ipotizzato l'epoca dello smontaggio e dispersione dei pezzi (persi dunque la gran parte dei capitelli, persa una lastra, persi forse altri pezzi plastici minori legati al tipo di accesso - la scala - al pulpito stesso), dobbiamo vederne meglio la relazione con il pulpito alla cattedrale di Parma. Evidentemente questa restituzione di due recentior non deterior, cioè di due pezzi recenti ma fedeli all'originale e dunque non da scartare, per la restituzione di quello, due pezzi che escono direttamente dalla cultura antelamica anche se, come abbiamo detto anche per Fornovo, variamente mediata e con echi arcaici, questa restituzione che è confortata per Fornovo pure dall'intervento del Castelli, permette di accertare meglio la restituzione vuoi metrica che grafica da noi compiuta per il pulpito parmense. Una giunta a quel problema, che comunque affronteremo partitamente altrove come merita, una giunta a quel problema la possiamo fare considerando la questione dell'Aquila e dunque del leggio. Esisteva un leggio dunque anche a Parma, esisteva un leggio magari con simboli evangelici? Ecco un tema che sarà da riconsiderare anche a livello di comparate iconografie; comunque e per il momento restiamo certi del fatto che a Bardone un pulpito con leggio scolpito esisteva e che questo pulpito evidente mente doveva avere, stante la novità culturale del1 insieme, un archetipo, quello parmense del 1178. Le storie, nel medioevo, sono sempre complesse ma si intersecano e spesso si chiariscono a vicenda. Ma lasciamo, a questo punto, il nucleo di Bardone ed i problemi, alcuni specie architettonici non risolti, della sua chiesa; i suoi due tempi, quello della edificazione del primo nucleo sul 1080, e quello dell'intervento circa il 1220 dell'artefice attivo anche a Fornovo e altrove, sono ben chiari; essi rispondono di fatto ai due tempi della ricostruzione del percorso della " strada " romea.

Non vorrei da ultimo però dimenticare di avvertire il lettore di un fatto e cioè della assai dubbia autenticità della scultura della lunetta sul lato sud e dei correlati capitelli e quindi dell'intero portale; si tratta - per la lunetta -, nella migliore delle ipotesi, di un pezzo cinquecentesco, ma esso appare notevolmente ritoccato in età recente e quindi non giudicabile; dunque le manomissioni alla chiesa non si sono concluse con gli interventi d'età barocca.

La strada che porta al passo di Monte Bardone ha ancora poche tappe, ma una di queste è, senza dubbio, la più interessante, Berceto. Per giungervi la strada deve salire ancora, per Terenzo e per Casola e quindi per Cassio. Non troviamo chiese romaniche in questi agglomerati ma siamo ancora in grado di cogliere le tracce dell'impianto urbanisti co medievale che certamente si collegava, nel caso di Casola, di Cassio e ancora in quello di Corniana a castelli e fortificazioni a presidio della strada. Del resto anche il problema di Berceto, come vedremo, si collega direttamente a quello del presidio della strada Romea.

Ma tornando a quanto di medievale è reperibile lungo la " via " conviene ricordare la croce di Casola. Una lastra di rame dall'aspetto consunto ma non tanto da non fare leggere sul suo corpo, datanti e dietro, tini incisioni, l'Agnello al centro con la croce e, agli estremi, i simboli dei quattro evangelisti; nel retro quindi l'IHS, Maria e Giovanni ed il volto dell'Eterno agli estremi; al centro, saldato malamente, un Cristo in bronzo, in veduta frontale, disposto in simmetria, gambe parallele fissate con due chiodi, perizoma, corpo inciso a segnare nel torace il girare dei pettorali e delle costole. La tradizione cui questo pezzo si rifà non è quella dei cristi limosini tanto vulgati in occidente (ed anche in Italia), e, anche se si colgono stacchi tra il bronzo ed il supporto, non sembra di poter pensare a due epoche diverse se cogliamo l'ambito culturale cui questo testo pare afferire. Alludo all'area renana dove troviamo, fin dal secolo XI, diffusa questa tradizione di ornamento inciso. Per citare oggetti distantissimi come qualità ma non come tradizione di cultura ricordo la raffinata, aulica Croce del Santo Romano Impero del 1030 c. (Swarzenski) e pezzi collegati mentre distante appare ormai lo Schrein des Karl des Grossen, del Duomo di Aquisgrana (è datata dallo Scnitzler 1200-1215), con i pezzi collegati. Per il Cristo di Casola, che, nella tipologia, trova raffronti con bronzi che vanno dalla Colonna di Hildesheim, la colonna trionfale di Bernwald, fino al fonte di Reiner di Huy (1107-1118), il punto più prossimo di riferimento appare essere una serie di pezzi del genere Croce di Minden che è pure degli inizi del XII secolo. Dunque sia il taglio del supporto, che possiamo confrontare, per esempio, con la Croce di Theophanu, dopo il 1100, sia la cultura dell'incisione su lastra delle figure, sia il modellato e l'impianto della forma di bronzo riconducono ad area renana ed al secolo XII inizi, l'epoca, appunto, di questa croce assai importante per testimoniare, per sua parte, il lato " germanico ", appunto, della via Francigena. Un esempio di come poteva presentarsi il percorso della strada Romea lo abbiamo ancora a Cassio dove un breve tratto di strada, lastricato di nuovo di recente ma probabilmente su tracce anteriori, si inserisce tra una doppia fila di edifici di struttura medievale anche se soprelevati variamente, specie nei secoli XV e XVI; la dimensione degli edifici medievali doveva essere ad uno oppure a due piani e le loro tipologie possono essere facilmente ricostruite a livello comparativo. Prima dunque di affrontare il tema di Berceto nel suo sistema urbanistico converrà analizzare più da vicino la questione delle tipologie, e dunque dei modelli edilizi che sono attestati nella parte più alta e terminale del nostro percorso. L'agglomerato di Casola, centrato attorno al nucleo della chiesa e del castello, e situato proprio a cavallo di una cresta montuosa in mezzo ai boschi, ci dà un esempio ancora diverso di impianto urbanistico rispetto a Cassio mentre a Terenzo, sempre sulla " via ", leggiamo ancora le tipologie di alcune case rurali di impianto tardo-medievale dove la pietra è il materiale dominante e gli architravi sono di legno e le finestre molto strette, funzionali ad una concezione dell'edificio "munito ". Ma conviene a questo punto cercare di analizzare un sistema più complesso e ancora in parte conservato nel suo tessuto prima di venire ad analizzare le strutture relative a Berceto stessa. Alludo a Corchia, ab antiquo sotto Berceto, ed un agglomerato senza dubbio medievale. Diamo, di questo sistema, alcune immagini e, da queste, cercheremo di risalire alla situazione bercetese sempre a livello di tipologie, quindi vedremo di condurre una restituzione, il più possibile aderente, del sistema urbanistico della stessa Berceto. La questione del castello e della Pieve saranno affrontate da ultimo per ovvie ragioni, solo infatti attraverso la comprensione del sistema in cui questi edifici si inseriscono è possibile intenderne la storia e le vicissitudini.

Ma esaminiamo l'abitato di Corchia dove purtroppo recenti manomissioni ed altre che si prospettano non fanno ben sperare per la sorte di uno dei più importanti testi dell'architettura medievale dell'intero Appennino. L'asse del paese è formato dalla strada mediana che lo percorre che ha, nella parte alta, due principali diramazioni: non ci interessa, al momento, il problema urbanistico di Corchia ma il tipo dell'edilizia che il nucleo presenta. Consideriamo un edificio che, immediatamente, suggerisce una cronologia assai arcaica, quello sito subito a sinistra entrando in paese e che ha subito, ad evidentiam, nelle tre finestre superiori, un intervento al più presto cinquecentesco; ma il sostegno mediano, la colonna con il passaggio non mediato ai due archi che formano un portico, testimonia dell'arcaicità dell'insieme e dà indizio della cronologia che del resto altri elementi confermano, come lo spessore dei muri, i materiali in essi impiegati secondo una particolare tecnologia che ben si individua ancora nelle parti scoperte dagli intonaci recenti. Siamo dunque in presenza di un'architettura databile il secolo XII al più tardi e, probabilmente, agli inizi di questo. La casa permette anche di intendere meglio la tipologia abitativa medievale, con portico libero in basso e forse una stalla e, ai piani superiori, lo spazio per le persone; anche la dimensione della fabbrica serve a comprendere come doveva essere una strada medievale (dato che, evidentemente, gli edifici seguenti dallo stesso lato della strada e quelli dall'altra parte dovevano avere altezze analoghe), una strada che all'interno dell'abitato doveva essere lastricata (l'attuale lastricato è stato però di recente rifatto). Ma Corchia mostra molti altri e interessantissimi modelli edilizi, modelli che ci fanno intendere come era organizzato un sistema architettato medievale, come era nei secoli dal XII al XIV nei quali non vi dovettero essere (fino appunto alle riforme iconografiche rinascimentali) sostanziali modifiche tipologiche. Ecco quindi che abbiamo, data dai cavalcavia in pietra, il calibro della strada medievale medesima, attorno ai tre metri, ecco che individuiamo un tipo di edificio funzionale al mantenimento degli animali ed al loro rapporto, quasi alla loro simbiosi, con i contadini. Corchia infatti appare immediatamente un agglomerato con precise funzioni nei confronti del territorio circostante, boschivo ma anche coltivato, visto che la tipologia dominante è quella di una casa che presenta un accesso a scivolo ad una porta più alta, accesso evidentemente strutturat9 proprio per il passaggio dei bovini; a questo modello di edilizia, in genere a due livelli, integrata dalla parte abitativa, risponde la tipologia di alcuni servizi, come la legnaia o fienile legato alla stalla; stalla da una parte, deposito di legni e paglia dall'altra, il tutto diviso da soffittature a travi. In genere un vasto portico retto ora da pilastri più volte rifatti ma probabilmente all'origine meno esteso, costruito in maniera non dissimile da quello della casa esaminata agli inizi, serviva da punto di scambio, da luogo per piccoli lavori al Coperto, ed era appunto situato tra la strada e l'interno dell'abitazione. Anche le altimetrie di questi modelli edilizi sono sfruttate per fornire di accessi agevoli il piano superiore che, comunque, ha sempre una precisa distinzione funzionale dalla zona inferiore riservata a volte ad uso promiscuo uomo-animale. D'altro canto, e come vedremo anche a Berceto, fonte di calore integrativa del camino era certo la vacca o eventualmente il cavallo.

La campagna, in questo periodo, la campagna dove si raccoglievano castagne, fichi, noci, oltreché tutti i consueti e più volte citati prodotti degli orti immediatamente prossimi alle case (e si può pensare che a Corchia esistessero orti nei pressi degli edifici, in genere nel retro di questi secondo un modello del resto consueto altrove), la campagna nel XII e nel XIII secolo non era evidentemente popolata di edifici sparsi; gli agglomerati erano i punti di ritrovo serale dei contadini, gli abitati erano insomma chiusi, murati spesso, e protetti da una rocca, un castello, una torre.

E' così quindi che dobbiamo immaginarci il primo insieme di Berceto, situato su un'area sostanzialmente piana ai piedi di un rilievo occupato, almeno fin dall'età romanica, da una rocca. Ma restiamo alle tipologie edilizie bercetesi e soprattutto restiamo alle tipologie edilizie medievali prima di volgere la nostra attenzione a problemi di tessuto ed a quelli collegati dei " monumenti ". Devo dunque all'intelligenza critica (di critica-architettonica) di Adriano Braglia la restituzione di tre diversi modelli tipologici di edilizia bercetese, modelli di cui qui riportiamo le planimetrie. Si tratta nel primo caso di una unità abitativa sita nei pressi dell'attuale via R. Marchetti organizzata su tre piani: il terreno è adibito a legnaia, sempre per via della esigenza di comunicare immediatamente con l'esterno e di operare più semplicemente i carichi e gli scarichi dai carri; il primo piano è con cucina e collegato da una scala a doppia rampa al livello inferiore; il secondo piano infine è usato per il riposo. La stanza della vita comune era, 0vviamente, la cucina. Il secondo modello, quello nei pressi dell'attuale largo Castello, è anch'esso a due piani sopra il terreno e mostra un altro genere di insediamento legato a diverse funzioni: al piano terreno dunque la stalla con diretto accesso sulla strada e con la scala che si innesta proprio a fianco dell'accesso alla stalla stessa; la scala conduce al primo piano con la cucina e quindi una seconda scala, fuori asse rispetto alla precedente, conduce al piano superiore destinato al riposo. Anche il riscaldamento, in queste abitazioni, è centrato nella cucina dove è il focolare: le camere superiori in genere non posseggono questo " Servizio " L'altro tipo, che a Corchia non si individua e che invece è caratteristico evidentemente di un centro maggiore e dove frequenti sono gli scambi, è quello della casa-bottega di cui a Berceto abbiamo un solo esempio e, per giunta, di recente malamente manomesso. Al piano terreno dunque troviamo la bottega che affaccia direttamente su Via Roma secondo una tipologia attestata anche a Bologna, in Toscana e in numerosi altri luoghi; intendo dire che la bottega ha una vetrina, diciamo cosi, o, meglio una specie di balaustra poggia-merce a fianco della quale si apre la porta, di modo che l'insieme ha una specie di struttura ad L rovesciata. Un corridoio parallelo all'ingresso conduce, immediatamente dietro la bottega, alla scala a doppia rampa e quindi alla cucina situata, come sempre, al primo piano e la scala stessa prosegue al secondo con la camera per il riposo. Sono queste tre tipologie, cui aggiungeremo quella del palazzo quattrocentesco quando analizzeremo il sistema medievale modificato dagli interventi dei Rossi, sono queste tre tipologie a darci l'idea dei modelli culturali e dei rapporti sociali nel contesto bercetese dal secolo XII al XV; ed infatti le funzioni del paese sono da questi perfettamente individuate: da un lato le botteghe, luoghi di scambio, evidentemente addensate sull'asse della strada Romea, l'asse di traffici di gran lunga maggiore; quindi le case di abitazione e le case dei contadini, di coloro cioè che vivono in diretto rapporto col territorio e che sfruttano tutte il piano terreno per alloggiare gli animali. Dunque Berceto, al viandante che saliva da Cassio fino al centro urbano, doveva presentarsi ben diversamente da oggi. Ma come era veramente Berceto? I testi per ricostruire il suo aspetto medie. vale prima dunque delle riforme urbanistiche promosse dai Rossi sono diversi: ovviamente e prima di tutto l'analisi diretta del tessuto urbano della quale ci serviremo in seguito, quindi la veduta bembesca del castello e dell'agglomerato con la pieve (209" ed ancora la veduta tardorinascimentale (1575) del convento di San Giovanni Evangelista (210), quindi una serie di altre immagini, vedute, anche fotografie recenti e meno recenti molte delle quali raccolte per la cura di Giuseppe Bertozzi e da poco esposte in un'interessante rassegna fotografica (211). Il primo problema per chi osserva Berceto in pianta, è individuare la disposizione del suo nucleo medievale e distinguere questo dalle aggiunte ulteriori, soprattutto sette ed ottocentesche quando si ebbe un netto ampliarsi dell'edificato. Non è difficile, confrontando l'immagine del fresco del Bembo a Torrechiara con la forma urbis odierna, comprendere la struttura originaria di Berceto.

Situato come dicevamo in urla spianata immediatamente sotto il rilievo dove sorgeva ab antiquo la rocca, l'insieme abitato doveva disporsi secondo una forma grosso modo rettangolare lungo i percorsi indicati nella planimetria e che qui, dunque, per brevità non si illustrano di nuovo. Fulcro del sistema era certamente la pieve, l'antica abbazia, che doveva essere ancora nel XII e nel XIII secolo un sistema ben più complesso di quanto oggi non appaia. La presenza di un chiostro sul lato sud è accertata da numerosi indizi, sia documentari (212) che toponomastici (213), che ancora archeologici (214). Il chiostro sorgeva ovviamente sul lato sud della chiesa, di forma quadrata, con accesso da una porta sita subito avanti la Sporgenza del transetto. Era certamente una struttura porticata e doveva servire per alloggiare i canonici, che vivevano vita comunitaria specie dopo le riforme rigorose dovute a Gregorio VII e dunque dalla fine del secolo XI almeno. D'altro canto non doveva esservi stata interruzione sostanziale della vita comunitaria nel chiostro (delle cui ricostruzioni evidentemente, senza uno scavo dell'area sua corrispondente grosso modo a quella dell'attuale giardino della chiesa, nulla si può dire) visto che l'abbazia possedeva pure essa un chiostro per la vita comunitaria dei monaci. La chiesa aveva una platea o piazza ed essa era in corrispondenza del passaggio principale (ma vi era un altro accesso alla chiesa, come vedremo), dell'asse viario della strada Romea la quale percorreva l'abitato dall'alto del castello in basso fino alla chiesa e poi di nuovo saliva fino all'uscita del paese secondo l'itinerario indicato in pianta.

Quali dunque i limiti dell'agglomerato medievale (215)? Se noi esaminiamo il testo bembesco, senza dubbio il principale e più completo, sul sistema urbanistico bercetese notiamo che la dimensione delle mura è già ormai quattrocentesca almeno per quanto concerne alcune torri dalla tipica, rinascimentale scarpa; nel castello il pittore indica quattro torri; delle quali tre di sezione tonda e una di sezione quadrata, il maschio, notevolmente fuori scala. Si nota inoltre la pieve veduta dalla parte absidale e rappresentata con tre absidi semicircolari, problema su cui torneremo; infine vediamo due delle quattro porte, ed esattamente quella di uscita della strada Romea in direzione del passo di Monte Bardone, Porta di co' di Campo, quindi Porta dei Canoni che nella realtà è situata immediatamente dietro la chiesa e dava accesso alla zona absidale ed allo slargo corrispondente mentre nel dipinto essa è rappresentata spostata più a sinistra. Si può osservare che l'intero testo bembesco raccorcia, di fatto, il paese nella sua zona opposta al castello che, d'altro canto, era il punto focale dell'interesse dell'artefice, ma non si può certamente dire che questa rappresentazione sia del tutto infedele o di fantasia, nata come era, lo ripetiamo, certamente da un appunto grafico preso in loco e altrettanto certamente rispecchiante la situazione urbanistica dell'insieme come del resto ci viene confermato ancora da una planimetria ottocentesca del paese. a pensabile che le porte fossero state ormai ricostruite in età rinascimentale, ed almeno quelle rappresentate nel dipinto appaiono di quell'età, con le caditoie, i merli e il ponte levatoio. L'analisi del tessuto urbano permette d'altro canto dì ritenere con buona certezza che si trattava di inserti in un contesto medievale, quanto meno del XII avanzato o del XIII secolo; esiste infatti, per esempio, all'angolo opposto al punto di stazione del Bembo per la sua veduta un torrione angolare, il torrione angolare della cinta muraria, che è in pianta circolare e che ha un paramento appunto dell'epoca medievale indicata, tra secolo XII tardo e secolo XIII. Verrebbe a questo punto da pensare che il Bembo non rappresentasse un castello di fantasia, e cioè un castello differente dal reale, ma piuttosto un edificio realistico, visto in una precisa fase della sua ricostruzione o, meglio, riattamento rinascimentale. In conclusione l'aspetto del castello, con le sue torri tonde, potrebbe essere ancora quello dell'edificio duecentesco poi risistemato forse dallo stesso Pier Maria Rossi e nel tempo di Bertrando, secondo diversi e più moderni criteri di fortificazione.

Certo è che il castello, come adesso si presenta a noi, con la sua muratura a scarpa formata da una parete continua di pietre ben saldate, interposto tra esse un conglomerato di sassi e malta, infine un altro strato (questo assai rovinato dal tempo e dall'uso) esterno, questo ancora di sasso ben legato con calcina, il castello oggi nei suoi resti appare certamente tardoquattrocentesco nelle sue strutture e perfettamente confrontabile con quello di Torchiara, ancora dei Rossi, e legato da analogo rapporto con l'abitato sottostante (216). Il problema dell'analisi del castello passa attraverso la rilettura di altre fonti, in particolare di alcune vedute che ce ne presentano, tra fine ottocento ed inizi del nostro secolo, le rovine assai più conservate e dunque analizzabili di quanto non sia oggi possibile davanti ai pochi ruderi rimasti, ruderi che necessitano urgentemente di un'opera di consolidamento e di ricostituzione dopo adeguate analisi e scavi. La planimetria del castello, come è evidente dalla pianta ottocentesca citata, è trapezoidale con torri angolari ed un maschio, e le più vecchie vedute fotografiche presentano una porta mediana affacciata sul paese cui si accedeva per rampe mentre la strada Romea correva lungo il lato sinistro del blocco del castello nelle cui cortine, risistemate e ricostruite dai Rossi, si affacciavano finestre a bifora delle quali una, certamente tardoquattrocentesca, è adesso murata nella sagrestia della chiesa plebana.

Il castello al suo interno doveva presentare una corte quadrata su cui si affacciavano le torri ed un percorso di caditorie doveva, nel secolo XV, rinforzare le possibilità di difesa del sistema. Nulla comunque, allo stato e senza cioè degli scavi, siamo in grado di dire fondatamente sul castello medievale precedente, che certamente dovette esistere, come del resto un castello medievale antecedente l'odierno e da questo reinglobato, e dunque reinglobato dall'architetto al servizio di Pier Maria Rossi, dovette esistere a Torchiara e di cui si individuano bene i resti nella zona di fronte al porticato rinascimentale della corte interna. Ecco dunque quanto possiamo dire sul castello e le sue vicende, su cui d'altro canto numerosi testi in successione ci informano, gli stessi che servono per ricostruire una storia urbanistica di Berceto, dal testamento di Pier Maria Rossi del 1464 alle memorie del Franchi (1545 e seguenti) al Rogito Pisani del 1666 fino al viaggio del capitano Antonio Boccia (1804) (217).

La questione di Berceto non è soltanto di delimitare il tessuto urbano " romanico ", evidentemente organizzato, come mostra del resto la serie dei citati esempi di edilizia medievale, su varie tipologie abitative perfettamente adattate ai dislivelli del terreno e sempre strettamente legate alla strada intesa non come canale e luogo di confine ma come punto di intersezione della vita del gruppo familiare con quelli prossimi; e non è neppure quella di conservare la caratteristica più evidente, e cioè le coperture in lastroni di pietra sovrapposti, arenana scistosa, invece che sostituirli, come pure si è fatto e arbitrariamente, con le incredibili " marsigliesi "; il problema del tessuto urbanistico bercetese è prima di tutto quello del riconoscimento della funzionalità e fruibilità del modello urbano originario e della sua " scala "; esso passa quindi per il rigoroso mantenimento delle aperture e delle loro tipologie, per la conservazione della pietra a vista eliminando i penosi intonaci, passa per il mantenimento delle chiusure originarie in legno siano essi i doppi battenti continui (non le persiane! e tanto meno le tapparelle) e ancora per la conservazione delle superstiti porte lignee; passa però anche per il mantenimento rigoroso delle divisioni interne che sono un testo prezioso de l'edilizia medievale. Non basta conservare le facciate, come spesso neppure si considera di fare, ma si devono mantenere i modelli struttivi interni, come questo semidiruto che presentiamo dove gli archi intrecciati sul pilastro reggono le travature del pavimento ora in parte rifatto a tavelloni, Zona terra, all'origine stalla, zona superiore cucina, se vi è un altro piano esso è riservato al riposo: la tripartizione va mantenuta come va mantenuta la divisione dei singoli lotti eliminando semmai i travolgimenti e le manomissioni di sfruttamento edilizio di tipo " condominiale " operate in prosieguo di tempo.

Nel secolo XV sostanzialmente la struttura urbanistica originaria, quella medievale, venne perfettamente rispettata ed infatti anche gli inserti degli edifici quattrocenteschi, indicati dai bei portali di accesso, non modificano sostanzialmente l'andamento viario e semplicemente sostituiscono nel precedente sistema architettonico una sezione limitata dall'edilizia medievale preesistente; così nel palazzo rinascimentale di via Pier Maria Rossi, con il portale di pietra che si può confrontare, per esempio, con analoghi testi a Pontremoli, al di là cioè del passo di Monte Bardone, e che reca lo stemma col leone rampante alla sua sinistra, troviamo oltre il corridoio d'accesso, una corte, attorno alla quale, e su due piani, e poi, dopo un sopralzo, su tre piani, viene realizzato nel secolo XV un porticato di singolare qualità; in asse invece, proseguendo dall'ingresso, si accedeva alle stalle mentre la scala, vicino al porticato, dava accesso ai piani superiori. Anche nell'edilizia aulica, come ancora nella bella casa rinascimentale, anch'essa cioè di fine quattrocento, di via Roma, anche nell'edilizia aulica troviamo a Berceto mantenuta l'esigenza della continuità col tessuto precedente.

Dunque e ricapitolando Berceto, tra fine XI e XII inizi, era una città murata entro le sue fortificazioni medievali, dominata da un castello che doveva avere forse torri circolari, castello che probabilmente era stato preceduto almeno da una torre all'epoca in cui i longobardi avevano rifondata l'abbazia dedicata a Sant'Abondio trasformandola in abbazia regale (liutprandea) dedicata a San Remigio di Reims e, quindi, nel tempo, anche a San Moderanno. Solo col secolo XV questo sistema venne non ribaltato ma riattato alle esigenze belliche del tempo, probabilmente intervenendo sull'impianto murario del castello, se la nostra ipotesi non è inesatta, e certamente su quello della cinta murata che doveva conservare peraltro torri circolari arcaiche analoghe al moncone che ci si è conservato (218). Nel secolo XVI le aggiunte al sistema, il progressivo cadere in disuso delle mura, l'estendersi dell'edificato oltre i termini di queste, contribuirono a trasformare progressivamente la planimetria dell'insieme soprattutto in due direzioni, quella dell'attuale seminario e dunque del passo montano, e quella verso il poggio e dunque immediatamente dietro le absidi della chiesa. Un altro particolare ancora possiamo notare analizzando la veduta bembesca: l'esistenza di un fossato su cui si levano i ponti levatoi, ovviamente un fossato privo d'acqua, e quindi di una serie di coltivi immediatamente oltre il fossato medesimo. La conquista del territorio è un fatto testimoniato anche da altri elementi presenti essi pure nel fresco bembesco, l'allargarsi nella campagna degli insediamenti sparsi, il distribuirsi cioè dei casolari nel territorio, ben diversamente da quanto accadeva in età "romanica". Ed attorno a queste case, la cui tipologia - fra l'altro - è singolarmente coincidente con quelle da noi analizzate a Corchia ed altrove e che dunque conferma il mantenersi dei modelli arcaici anche in questo periodo sul 1470 circa, attorno a queste case vediamo dei recinti chiusi, che sono appunto gli horti, i luoghi dove si concentrano le capacità lavorative familiari e il cui mantenimento è direttamente funzionale all'esistenza del nucleo degli abitanti. In conclusione dunque è cominciata ormai, anzi è largamente progredita, la conquista e la progressiva parcellizzazione del territorio secondo modelli abitativi che tendono sostanzialmente a discostarsi da quelli medievali, un processo che dovette avere inizio nel pieno XIII secolo e crescere nei seguenti. Abbiamo finora e di proposito lasciato da parte la vicenda della chiesa ora cattedrale, ma già abbaziale e poi pieve (219), perché essa necessariamente forma un capitolo a sé nella vicenda che veniamo man mano delineando; situata nel fulcro dell'abitato e cioè all'incrocio della strada Romea con la strada trasversale del Poggio, luogo dell'incontro non solo dei pellegrini ma dei traffici e dei commerci, dotata di una fabbrica canonicale collegata al chiostro e quindi quadrata, presentava nei dintorni immediati una serie di edifici connessi alle sue funzioni che il tempo purtroppo ha distrutto. Prima di tutto un'antica cappellina dedicata a Sant'Abondio (220) la quale, almeno a giudicare dalla sommaria planimetria poteva essere il primo piccolo santuario dedicato a quel santo avanti l'intervento liutprandeo - Si conservava ancora, fino a qualche anno fa, un complesso singolare sopra la sagrestia quattrocentesca annessa al Duomo anch'esso però abbattuto in nome di un malinteso e del tutto retorico isolamento di un " edificio monumentale ". Infine si conservava ancora nella sua piazza, verso le absidi, dove pure è stata distrutta la fontana con le sue coperture, un edificio a loggiato che probabilmente risaliva al XIII secolo a giudicare dalle poche immagini superstiti più che dai rifatti lacerti odierni. Ancora collegata alla chiesa ed al culto di San Moderanno era la fonte del Santo, distrutta pure essa, fonte la quale risale certamente almeno al secolo XII visto che è citata nella sua vita (221); di essa abbiamo una vecchia fotografia dove è in evidenza un porticato quanto meno secentesco se non ulteriore che chiude un blocco mediano a torre dal quale sgorga la fonte che zampilla in una vasca. Forse quel nucleo mediano apparteneva in parte alla primitiva costruzione? S impossibile dirlo oggi; comunque sia, il luogo Berceto era certamente " dotato ", se così possiamo dire, come molti luoghi di pellegrinaggio, anche di una sacra fonte, il che permetteva, a livello simbolico, una " purificazione del pellegrino che beveva anche la medesima acqua che il Santo aveva miracolosamente fatto scaturire dalla roccia in occasione della sua sosta bercetese nel percorso in direzione di Roma.

Abbiamo già indicato le ragioni documentarie per giustificare le nostre ipotesi sulla situazione originaria della chiesa liutprandea nel contesto della località Berceto sul cui nome e la cui anteriorità rispetto alla chiesa stessa il dibattito è ancora vivo (222). Il problema comunque resta, fermi i dati documentari, rendersi conto della consistenza degli elementi archeologici a disposizione onde cercare di condurre una motivata analisi del complesso architettato, delle sculture e di quanto altro resti a testimonianza dell'antico. E vediamo che cosa sia superstite dell'edificio realizzato, per volere congiunto, come abbiamo stabilito, di Liutprando e di Moderanno, o, meglio, dell'edificio realizzato forse giustapposto alla chiesa dedicata a Sant'Abondio. Abbiamo già avanzata l'ipotesi che l'antico sacello, esistente nella zona nord-est dell'edificio attuale e abbattuto nel corso dei " restauri " di cui si è parlato, potesse in qualche maniera coincidere con quell'antico monumento; restano comunque aperti, ferma restando l'impossibilità di accertare una tale ipotesi se non con scavi nell'area ora purtroppo spianata, molti problemi: al breve edificio era aggregato o meno un monastero ed esisteva, come è pure probabile, un ospizio? Ora non è possibile dare risposte certe ma sembra ovvio che la fermata di Moderanno prima del passo coincidesse fin da allora con una tappa obbligata nel sistema delle comunicazioni longobardo, su cui del resto ci siamo dilungati Purtroppo a livello delle architetture nulla è rimasto di evidente dell'edificio primitivo e ciò non ci meraviglia visto che la Struttura superstite, salvi i rifacimenti quattrocenteschi ed ulteriori, è perfettamente databile per via comparativa, come del resto vedremo, in età romanica senza che nessuna sua parte sia assegnabile ad epoche antecedenti. Se proseguiamo nella nostra analisi dei superstiti frammenti, questa volta plastici, attribuibili al secolo VIII, troviamo che il solo pezzo bercetese assegnabile a questa epoca è la parte di pluteo raffigurante due pavoni bezzicanti ai lati di una croce a intreccio: il pezzo è stato evidentemente privato di tutto il sistema decorativo, forse a treccia, che all'origine lo circondava e quindi appare oggi estremamente ridotto rispetto alle misure originarie ma, comunque, esso è ben databile sulla base di specifici raffronti. Rispetto ai centri pavesi e bresciani dove i prodotti sono di qualità assai alta l'opera bercetese è forse da situare in un'area meno raffinata e culta, ma questo non significa che la si debba spostare oltre il secolo VIII. Se infatti consideriamo il ciborio di San Giorgio di Valpolicella nelle sue parti del secolo VIII (223) e in particolare l'archivolto con uccelli bezzicanti sotto la croce greca ed ancora confrontiamo il nostro pezzo con l'archivolto conservato nella canonica di Garda in provincia ancora di Verona (224) con pavoni ai lati di una croce greca, troviamo che il tipo di scrittura, alquanto sommario e accentuatamente ricondotto ai contorni non si differenzia troppo dalla scrittura del pezzo di Berceto il quale, d'altro canto, appare molto diverso da opere raffinate come il pluteo del sarcofago di Teodata del Museo di Pavia (225) che ancora una volta presenta pavoni abbeverantesi al calice sormontato dalla croce, pezzo che viene datato anch'esso al sec. VIII (226) ma che appartiene evidentemente - ripeto - ad una cultura ben diversa, più aulica, di quella dello scultore del pezzo bercetese. La vicenda delle sculture bercetesi del secolo VIII si chiude qui perché alcuni altri frammenti conservati nel sottotetto sulla sagrestia sono in parte della tomba di Broccardo e un altro, con intreccio piatto, sembra piuttosto appartenere ad un momento ulteriore, e precisamente al secolo XII inizi e non all'VIII.

Il così detto piviale di San Moderanno poi non appare evidentemente assegnabile, come per il solito si continua a fare, al secolo VIII o anche ad epoche a questa prossime; ed infatti il suo tipo di tessitura, i temi degli uccelli e leoni (oppure grifi, o gazzelle), l'uso di una limitata gamma di toni, lo stile medesimo del pezzo testimoniano di un'epoca più tarda. Si tratta dunque di una stoffa lucchese assegnabile al secolo XII, come si può vedere per esempio confrontandola con un pezzo ad aquile accoppiate conservato ai Musei di Stato di Berlino (227) che data lo stesso tempo, di una stoffa dunque che testimonia ancora una volta dei rapporti culturali sulla strada Romea; d'altro canto, e come è noto, le stoffe lucchesi, con quelle palermitane e catalane, hanno in Europa e per almeno due secoli una diffusione capillare; si dovrà ritenere quindi che il pezzo di panno " lucano ", come si diceva allora, sia stato usato magari nel corso di una ricognizione alle reliquie del santo il cui corpo si conserva a Berceto.

Si conclude quindi l'esame dei pezzi plastici che si possano assegnare plausibilmente al periodo antecedente il romanico; resta quindi adesso da esaminare in concreto il testo architettonico vero e proprio, la pieve, visto che dell'abbazia più nulla resta, almeno fuori del terreno.

E cominciamo col livello originario che risulta in parte mutato rispetto all'età romanica visto che, nel corso del rifacimento del pavimento della chiesa che, sia in età quattrocentesca che, avanti questa, in età romanica era fatto in lastre di arenaria ora per la gran parte disperse (227), nel corso del rifacimento vennero alla luce i basamenti dei sostegni originari, cioè contemporanei all'impianto absidale, sostegni in numero di quattro e non di tre come attualmente vediamo. Dunque la chiesa primitiva o, meglio, la chiesa antecedente le modifiche volute dai Rossi, era una chiesa sostanzialmente diversa, era una chiesa che dobbiamo cercare di ricostruire.

Cominciare dalla navata comunque è problematico visto che essa è stata completamente rifatta sia nei sostegni che ovviamente nelle sovrastanti muratore e, ancora, iniziare dai paramenti d'ambito sembra altrettanto problematico, almeno quelli sul fianco nord e sud, dato che sono stati a loro volta rifatti sempre per l'edificazione in età quattrocentesca delle cappelle che a semicerchio adesso spezzano la continuità del muro. Ma resta da chiarire prima di tutto dove possiamo vedere questo muro originario, in secondo luogo stabilire la forma dell'edificio, il suo perimetro, quindi il suo alzato e dunque il carattere dei sostegni, coperture ecc. Intanto un altro problema si presenta, e di grave peso, quello relativo alla forma ed alla cronologia degli attuali paramenti absidali. Anche ad un'analisi superficiale si può leggere immediatamente nella struttura dell'edificio, nella zona presbiteriale, tutta una serie di inserti e modifiche alla struttura originaria che era murata in pietre squadrate e ben connesse; i più ovvi sono gli oculi forse quattrocenteschi nelle absidiole minori; stranamente, poi, e proprio a livello comparativo con edifici similari, al centro non troviamo la terza abside, ma un blocco parallelepipedo con muratura molto manomessa. Se esaminiamo da vicino adesso il fianco nord dell'edificio troviamo che su questo si è esercitata l'abilità ricostruttiva quattrocentesca perché esso fianco è stato certamente spostato in avanti, creandosi anche da questo lato le cappelle semicircolari, ed è quindi un'imitazione delle strutture architettoniche medievali; se osserviamo le protomi che qua e là terminano gli archetti vediamo in esse precisi caratteri rinascimentali e dunque la conferma anche, da qui, dell'aggiunta dell'intero sistema decorativo. L'andamento dei tetti delle minori e della maggiore non è certamente l'originario e possiamo ben pensare che in età romanica la chiesa fosse a due livelli, uno per la maggiore ed uno per le minori, con finestre sulla parete della maggiore, una per campata, che davano luce all'interno; oggi invece, con l'attuale sistemazione, la nave mediana prende luce solo dalle estremità ed è infatti notevolmente oscura. Questo vuol dire anche che la parte inferiore della torre-tiburio che sorge alla crociera doveva essere assai meglio visibile di quanto non sia adesso. Una conferma comunque dei limiti originari dell'edificio la abbiamo analizzando l'interno della cappella quadrata, situata all'estremità est immediatamente prima del transetto; si individuano qui i resti del basamento originario esterno del transetto stesso conformato a gola nella parte inferiore, e abbiamo anche la riprova che il transetto anche rispetto alle minori era sporgente. La chiesa quindi aveva due pareti continue, evidentemente coli una finestra per campata per illuminare le minori, arretrate di tutta la profondità delle attuali cappelle. L'edificio era quindi in planimetria a " T ", aveva facciata a due livelli e non del tipo a vela o, almeno, questa appare la più probabile ipotesi, ed infine presentava una struttura assai arcaica, il " campanile " situato sulla crociera, o meglio, il tiburio.

Conviene a questo punto analizzare l'interno del pilastro che regge il campanile a nord-est, pilastro che contiene una assai arcaica scala a chiocciola in pietra, di tipologia databile a fine XI o agli inizi del XII secolo per confronti con vari testi analoghi, anche se spesso più raffinati, da Modena (Duomo) a Parma (ancora Duomo). La scala, che doveva avere una simmetrica dalla parte opposta nel pilastro corrispondente, ora chiusa, conduceva appunto al tiburio e quindi ai tetti secondo un procedimento caratteristico dell'architettura romanica.

Ma vediamo alcuni possibili confronti con l'edificio bercetese; prima di tutto quelli europei, in particolare catalani, quindi più prossimi: hanno planimetria a tre navate, per sostegni pilastri rettangolari o quadrati, tre absidi, numerosi edifici che possono direttamente o indirettamente collegarsi alla tradizione architettonica di Cluny II in Borgogna (228), tra cui ricordo San Miguel de Fluvià appunto in Catalogna con tre absidi di cui la mediana emergente e transetto sporgente e San Quirce de Culera in provincia di Gerona con tre absidi parallele sempre con transetto sporgente; ambedue gli edifici, che datano l'ultima parte dell'XI secolo, dal 1066 al 1080 circa, sono coperti a botte con archi trasversi; nel Nivernais possiamo citare la chiesa di Jally anch'essa con transetto sporgente, absidi parallele con la mediana sporgente e a terminazione poligonale (229) e copertura a botte. La chiesa bercetese invece non doveva avere all'origine copertura a botte perché in edifici analoghi e più prossimi si nota questa variante, del resto consueta quando si trasferiscono tipologie architettoniche borgognone nell'area medio-padana (e il caso delle riprese dal St. Etienne di Névers da parte di Lanfranco a Modena insegni) (230), dove esse vengono semplificate ed adattate a tecnologie diverse ed a esigenze diverse. Non costruendo infatti le volte l'architetto della pieve di Berceto dovette eliminare ovvi problemi di spinta laterale e ottenere anche un'agevole illuminazione della navata centrale con le finestre alte. Ma tornando a strutture direttamente comparabili il problema dei rapporti con la cultura cluniacense si pone, come già suggerito dall'Arslan (231) e quindi precisato dal Salvini (232) per un edificio, la Pieve di Santa Maria di Rubbiano in provincia di Modena, la quale ha una planimetria perfettamente confrontabile con quella dell'edificio bercetese. Tre navate con sostegni a colonna, tre canipate (adesso la chiesa è stata ridotta di una campata ma all'origine le campate erano tre più quella della crocera), copertura a capriate, transetto sporgente con absidi sul medesimo e quadro Sporgente del presbiterio con innestata l'abside. Insomma Rubbiano, che è un edificio costruito con grossi blocchi di pietra squadrata uniti con malta sottile, risulta essere un testo importantissimo per ricostruire la forma originaria della pieve di Berceto. La cronologia di quel monumento, assegnato dallo Arslan al principio del secolo XII, è un'importante conferma per la datazione dei passi romanici superstiti nella zona delle absidi minori, dei sostegni del tiburio e del transetto, della pieve di Berceto. Ma la pieve di Berceto non è la sola o, meglio, non era la sola ad avere questa planimetria singolare: nella nostra area è possibile citare, fra l'altro, un edificio scomparso, la chiesa di Fabbrico che aveva una identica planimetria anche se, al momento del rilevamento da parte del Marliani (233), essa aveva già subito la mutilazione di un'abside e certo l'accorciamento della navata. Comunque sia questi confronti permettono di delineare la tradizione mediopadana, che semplifica o varia, nel senso indicato, cioè eliminando le volte, la tipologia cluniacense, e questo ancora fa pensare che l'edificio bercetese sia da collegare ad una pianificazione appunto cluniacense nel contesto del territorio emiliano, pianificazione architettonica che non possiamo non vedere in rapporto con gli interventi politici ma anche " culturali " di Matilde e di Bernardo degli Uberti suo "fedele " alla Cattedrale di Parma e, fuori di questa, un po' ovunque nelle provincie modenesi, reggiane, cremonesi, piacentine, in parte del Mantovano ed oltre questi confini.

Ecco dunque che il problema della ricostruzione della planimetria dell'edificio bercetese, che è rara ma altrettanto certa nei dati archeologici inconfondibili rimastici, chiarisce un aspetto dei rapporti assai complessi che legano, sempre per la strada Romea, il passo di Monte Bardone alla terra dei " Franchi ". E' chiaro quindi che la tipologia dell'abside quadrata, dove del resto, a ben guardare, si individua la diversa stesura di tutta la zona da terra a due terzi di altezza della fronte del presbiterio, è dovuta a interventi ulteriori, che potrebbero anche assegnarsi ai Rossi o, meglio, a un Rossi in particolare. Pertanto l'abbattimento dell'abside, sempre che sia possibile verificano a livello archeologico come auspichiamo, l'abbattimento voleva dire riammodernamento generale dell'edificio in chiave rinascimentale esattamente come si era già fatto per l'intera navata e per le cappelle laterali create, si è detto, ex novo.

Resta adesso il problema dell'analisi delle modifiche volute dai Rossi e della loro cronologia; è probabile che essa sia da spostare sostanzialmente più avanti di quanto di solito non si ritiene, e dunque verso l'ultimo ventennio del secolo piuttosto che prima, e quindi che essa ricada appunto sotto il comitato di Bertrando che sotto quello di Pier Maria; una prova indiretta se ne avrebbe forse dal dipinto bembesco di Torchiara di cui si è già detto, dove appunto abbiamo la pieve rappresentata con tre absidi, tre absidi semicircolari; si potrebbe pensare quindi che le modifiche con gli oculi e tutto il resto siano avvenute dopo lo schizzo al vero e il trasferimento su muro del disegno, e dunque dopo circa il 1463 (234) epoca probabile di realizzazione della pittura. Questo naturalmente troverebbe conferme in molti altri fatti, nello stemma di Bertrando inserito nei capitelli, nella documentazione della traslazione delle reliquie dei santi con le iscrizioni relative nel 1498 (235) e la iscrizione nella campana tuttora preservata che data il 1497 (236). Tutto ciò evidentemente testimonia di una situazione di opere e lavori ormai in pratica conclusi ma fa anche ritenere che, stante la non eccessiva ampiezza dell'edificio, non plausibilmente questi si sarebbero potuti prolungare per quasi mezzo secolo, dai tempi appunto di Pier Maria, poniamo degli anni '60, alla fine del '400.

Il problema da affrontare adesso è quello della facciata, problema che non può limitarsi ad attribuirne il rifacimento ai restauratori di Maria Luigia: (salvo il portale romanico e la lignea porta - farnesiana -) ed infatti, se la nostra analisi è esatta, la fronte a capanna come oggi la vediamo non è solo la restituzione ottocentesca, con inserti i pezzi romanici originari, dell'antica fronte romanica, ma un pastiche quattrocentesco, come del resto siamo abituati a vederne sui fianchi e nelle absidi del nostro edificio, un pastiche dove vediamo mescolati elementi " romanici ", e cioè per esempio gli archetti ovviamente tutti rifatti e le lesene, motivi " rinascimentali " come la partizione in due piani della fronte, riporti medievali come appunto il portale che, peraltro, chiuso a capanna come è oggi somiglia piuttosto ad un portale degli inizi del XII che ad un portale di età antelamica (ma si pensi a Borgo San Donnino ed alle sistemazioni dei portali laterali e mediano), infine inserti ancora " rinascimentali " come le due finestre allungate, ovviamente del tutto fuori scala in quella situazione architettonica. In alto poi abbiamo un occhio tondo e sotto una bifora la quale conserva, di originario, solo la pietra (con su scolpito un diruto quadrupede) che è la " chiave " di volta tra la coppia degli archetti; le citazioni in marmo bicolore dalla tradizione romanica pisana sono ovvie ma siamo del tutto incerti sulla originarietà di questi motivi e certi invece della loro ricostruzione di restauro.

Se dobbiamo insomma immaginarci la fronte dì questo edificio agli inizi del secolo XII dovremo pensarla a due livelli, segnata da archetti in alto e da paraste e con un pacato portale mediano e, forse, una bifora al centro. Sui portali, se non sul portale mediano di facciata possiamo a questo punto aggiungere qualcosa di più di una divagazione retorica, in quanto siamo in grado di identificarne un cospicuo resto, quello dell'archivolto, ancora fortunosamente conservato, prima al di sopra della tomba di San Broccardo, quindi a far da arcosolio sul tabernacolo quattrocentesco sito nella prima cappella a destra entrando in chiesa. Si tratta di un'opera certamente defl'intzio del secolo XII, come mostra l'ornato a palmetta della ghiera esterna e quello ad onda del toro interno, e si tratta di un pezzo che conferma la nostra ipotesi cronologica sulla chiesa; esso infatti quadra perfettamente con la datazione che abbiamo ottenuta delle architetture per via archeologica. Il pezzo peraltro poteva provenire da vari luoghi: anche dalla fronte ammesso che a fine secolo XII, quando si riscolpì il portale maggiore, ci si sia preoccupati di conservare l'archivolto antico Oppure, più probabilmente, dal lato sud verso il chiostro; quando questo venne modificato o anche abbattuto il pezzo plastico poté essere recuperato. Non saprei fare, allo stato, altre plausibili ipotesi. Ancora del secolo XII fine o XIII inizi è una croce-reliquiario conservata in canonica, e che pare di produzione nord italiana.

Su questa chiesa del Principio del secolo XII, probabilmente conclusa entro il secondo decennio, dopo gli interventi quattrocenteschi vi sono stati i restauri ottocenteschi di Maria Luigia (237), che hanno provveduto soprattutto ad incatenare la facciata al resto del sistema, di fatto ricostruendola, ed a riequilibrare alcuni dei sostegni compromessi; modifiche notevoli subisce anche il tiburio che viene in gran parte rifatto (238) come del resto risulta evidente analizzando le murature non solo dall'esterno ma dall'interno. Resta quindi, a questo punto, da affrontare il capitolo delle sculture di fine XII secolo, sculture certamente datate, come sappiamo dalla lettura di una scritta sul portale minore nord ora peraltro diruta (239) la quale indica appunto la data 1198. Non vediamo ragione di staccare la lunetta di facciata con l'architrave e i telamoni dalla cronologia delle due sculture col San Pietro ed il San Paolo situate alla sinistra ed alla destra del portalino sul lato nord dell'edificio in quanto lo stile dei due complessi è perfettamente omogeneo.

Se analizziamo il portale nord dobbiamo però notare che ci troviamo davanti ad un testo molto rimaneggiato e dove dominante è, nell'impianto e nelle cornici, lo stile rinascimentale, quattrocentesco; di romanico abbiamo insomma i due santi ricordati e la lunetta ormai pressoché scomparsa, tanta e la polverizzazione dell'arenaria, nella quale leggiamo solo la fine della data 1198 ed " incarnat " riferibile forse alla Adorazione dei Magi.

Se ci fermiamo adesso sulle due sculture, anch'esse dirute ma leggibili, dei Santi Pietro e Paolo, troviamo un'altra chiave, proprio in asse sulla strada Romea che scendeva a fianco del castello, per intendere la funzione della plastica sulla via dei pellegrinaggi; qui i due santi ricordano la meta del viaggio, appunto Roma, dove sono le loro reliquie. La mano è perfettamente identica, ripeto, a quella che opera la lunetta della facciata dove abbiamo la Crocefissione con i soldati, la Madonna, San Moderanno e altra figura; non ci meraviglia la presenza di Moderanno, testimonianza, se ve ne fosse bisogno, della crescita sempre più evidente del culto per lui, mentre la scomparsa di Abondio e Remigio fa ritenere ormai molto meno emergente la venerazione delle sue reliquie. Si deve adesso interpretare l'iconografia della seconda figura da sinistra, che non è Abondio e neppure Remigio e che è probabilmente Giovanni.

In basso i Vizi sono simboleggiati in una serie di scene ed al centro sta l'Asino che Suona l'arpicordo che è simbolo, anche alla cattedrale di Parma, in capitelli di circa 80 anni prima, della superbia o meglio della presunzione dei falsi profeti. Forse merita chiarire meglio qualche aspetto dello " stile " di queste sculture, che sono assai poco prossime alla cultura antelamica come del resto mi è già accaduto di indicare e piuttosto si legano alla cultura lombarda (240); abbiamo qui dunque uno scultore arcaico e certamente locale, non certo uno scultore direttamente correlato alla bottega antelamica, e si tratta di uno scultore di qualità non altissima anche e proprio confrontato al maestro attivo a Fornovo, a Bardone e a Talignano.

Concludendo sembra opportuno per la pieve di Berceto distinguere a livello architettonico tre tempi: quello degli inizi del secolo XII, quello di fine secolo, infine il secolo XV; dell'abbazia del secolo VIII nulla di architettato resta e il restauro operato nel secolo XIX non modifica in maniera sostanziale la situazione.

Conviene adesso accompagnare, fuori di Berceto ricca di ospizi, il viaggiatore, che aveva, salendo lentamente lungo la strada che porta verso il monte, possibilità di fare un'ultima tappa prima del passaggio, una tappa che in genere era consueta nel percorso inverso, quello dei pellegrini di ritorno da Roma. Alludo alla sosta a Santa Maria della Cisa, l'ospizio situato immediatamente prima del passo e che oggi è stato di nuovo sepolto nel verde dopo che, negli scavi del 1924, ne erano state individuate le fabbriche principali (241).

Sulla strada dei pellegrinaggi, che abbiamo dunque percorso da Parma fino al passo di Monte Bardone, il passo poi sistemato in età napoleonica con la sezione di strada che riprende, di fatto, il vecchio percorso andato in disuso nel medioevo del monastero della Rocchetta, cioè la strada sul versante nord-ovest del Prinzera, sulla strada dei pellegrinaggi abbiamo letto numerosi modelli " culturali ". Quello romano soltanto in filigrana, meglio invece quello longobardo del resto direttamente contrapposto al sistema bizantino; abbiamo individuato quindi nei paesaggi agrari, nel loro trasformarsi, nella serie delle tecnologie diverse succedutesi nei tempo una delle componenti principali per restituire l'immagine di quei secoli, e il senso soprattutto della vita concreta, dei rapporti, delle motivazioni. Dopo il regno longobardo ed i tempi della grande prosperità del monastero di Berceto, che possedeva terre fino ai limiti del territorio di Fornovo, e, quindi, della Chiesa plebana di Fornovo, abbiamo la riduzione, nel IX secolo, a pieve del grande centro, ma questo non significa la sua diminuzione di importanza ma la sua dipendenza dal vescovo di Parma il quale lo considererà uno dei suoi più importanti possedimenti.

La vicenda romanica nel secolo XI e nel primo secolo XII è povera di testi, come del resto ovunque nella zona appenninica, proprio a causa delle notevoli ricostruzioni, generalizzate nel secolo XII avanzato e tardo, degli edifici arcaici; abbiamo comunque avuta la fortuna di individuarne alcuni di grande interesse come quello di Collecchio (la parte terminale della pieve) e la navata importantissima di Fornovo; nel contesto delle modifiche operate lungo la strada dei pellegrinaggi alle architetture delle chiese si situano quindi due filoni principali, quello connesso alla officina della cattedrale di Parma alla quale si Collegano fra l'altro la chiesa di Santa Croce e la chiesa di San Pancrazio e una presenza direttamente cluniacense che ha il suo testo architettonico principale in Berceto dalla pianta, come si è detto, inusitata agli inizi del secolo XII.

Ma le modifiche principali subite dagli edifici del secolo XI e XII inizi avvengono tutte in un singolare momento, quello della presenza dominante nella nostra zona della bottega antelamica e della sua rinnovata cultura: troviamo tracce di questa un po ovunque, da Bardone a Fornovo, da Collecchio a Talignano e il discorso è sempre coincidente; di contro all'iconografia povera e sostanzialmente simbolica del primo secolo XII un discorso descritto, esplicito, un discorso che spieghi i punti fondamentali della dottrina cristiana, che di fatto controbatta le deviazioni, che insomma costruisca la base per la formazione di una mentalità che sia profondamente antiereticale. E' infatti questo il problema della scultura, questa la motivazione profonda del mutamento iconografico, la grande polemica che, dopo il grande Gregorio VII o dopo Pasquale Il viene dibattendosi tra coloro che chiedono una chiesa povera e coloro che chiedono una chiesa ricca perché sia in grado di distribuire ai poveri; il grande fallimento di Gregorio VII, che si conferma nell'operato di Pasquale 11(242) è il fallimento della Riforma e la scelta, la soluzione, sarà appunto la chiesa ricca, la chiesa che vive nel temporale. fl in quel momento appunto che i movimenti di riformati, i grandi movimenti antisimoniaci e anticoncubinari o semplicemente pauperistici, divengono movimenti ereticali anche per il diffondersi delle dottrine catare ed è quello anche il momento in cui la chiesa produce il massimo sforzo proprio per identificare quelle " eresie ", che erano di origine popolare e che nascevano da profondi contrasti sociali, con le eresie storiche, con le eresie già codificate in età patristica. E' difficile dalle fonti, tutte di parte ecclesiastica, ricostruire il senso e segno di quelle vicende; per quanto ci concerne il valore delle sculture e del racconto plastico sulla nostra " strada ", e il senso anche delle pitture, certo numerose ma per noi perdute come la massima parte delle oreficerie e degli arredi, sta in questo generalizzato tentativo di costruire un insegnamento ufficiale e funzionale e di legare la religione al santo locale, alla vicenda specifica locale. Da un lato quindi l'organizzazione salda delle parrocchie che, per la nostra area, è attestata nel Capitulum seu rotulus decimarum del 1230 (243) dall'altra la narrazione immediata, locale, quasi a portata di mano, delle storie dei santi le cui reliquie sono poi preservate entro i santuari. Questo era già accaduto in precedenza, a Modena per San Gemignano, a Verona per San Zeno (e faccio solo due esempi) agli inizi del secolo XII, ma adesso un'intera strada viene pianificata in funzione di questo modello diverso.

Sarebbe forse da precisare il carattere della programmazione tematica dei cicli su questo tratto di strada; e necessita fare a questo proposito un discorso unitario. Prima di tutto ricordo a Vicofertile la presenza del pellegrino col cero, che è cero penitenziale, e la simbologia del lavacro, del Battesimo, che rammenta - ovviamente - anche il Giordano, e la mitica Jerusalem. L'iconografia dei pulpiti di Fornovo e Bardone doveva avere forse un riferimento al punto focale del pellegrinaggio in questa zona, come ho segnalato, al Moderanno, al San Moderanno con cui senz'altro si identifica Berceto; il santo vescovo, finora di difficile identificazione ma non casualmente presente nei due punti della strada, potrebbe motivare la sua presenza come riferimento alla pieve in capo al monte, cioè la pieve bercetese. I due pulpiti poi, l'uno, a Fornovo, con storie dei supplizi infernali e dì Santa Margherita e forse cenni al premio degli eletti, nella lastra distrutta, oltreché (forse) agli Apostoli, l'altro, a Bardone, più direttamente derivato dalle tematiche del Duomo di Parma narrate nel 1178 dall'Antelami, hanno però un nesso più complesso, come del resto la Psicostasi di Talignano, con la vicenda cultuale di questi tempi. Su questo problema suggerivo una linea di lettura fin dal volume del 1964 (244) e voglio qui solo aggiungere qualche altro motivo d'analisi.

Abbiamo visto il senso delle rappresentazioni così 4ette profane nel contesto dell'ideologia della crociata e della " reconquista ", parallele e convergenti l'una verso il medio oriente l'altra verso la Spagna. Ma un altro pericolo, e questo anche più grave e sovvertitore dei saraceni, minacciava la chiesa meno di un secolo dopo il formarsi di quell'iconografia, e cioè il diffondersi di sempre più gravi eresie. Se proviamo a leggere le sculture di fine XII e inizi XIII secolo e quindi anche le antelamiche, come legate, funzionali alla popolarizzazione delle dottrine ufficiali della Chiesa, coglieremo forse un'altra e non marginale motivazione del diffondersi pianificato di una certa scultura e di certe tematiche per tutto il nord e buona parte della media Italia e, ancora, intenderemo le componenti di una scelta cultuale quale quella di ribaltare, sulla strada per il Monte Bardone, l'intera precedente iconografia. Del resto la " pesa delle anime " rammenta, con l'"inferno" di Fornovo, l'esistenza di un finale giudizio, di un castigo che, secondo i Catari, per la Chiesa forse la più pericolosa delle eresie, non poteva esistere. La composizione del pulpito parmense con Pantocratore (ancora dunque il Giudizio finale), Deposizione (Cristo-Dio in terra), e forse Ultima Cena (Eucaristia) puntava ancora una volta su alcuni cardini della dottrina ufficiale che, del resto, sono sottilmente ribaditi nella rappresentazione della Chiesa e della Sinagoga nella lastra con la Deposizione.

Questi temi, ritradotti da artefici meno colti sulla via di Monte Bardone ma echeggiati altrove, come a Reggio Emilia, a superiori livelli, e collegati alla iconologia dei portali dei " mesi", un altro grande capitolo che qui non vogliamo ritracciare (245), determinano un completo rivolgimento ideologico nel rapporto chiesa-immagini e quindi immagini-fedeli, sono segno non meno diretto dei documenti antiereticali, a mio vedere, di un diverso atteggiamento del clero di fronte alle deviazioni e sono anzi riprova di un abile uso di adeguati strumenti di persuasione e di indottrinamento. L'analisi in questo senso delle sculture come fonti per una storia della cultura a raggio più ampio non deve fare perdere di vista tutta un'altra serie di intenzioni della chiesa, che - abbiamo detto - è attenta in questi decenni a legare ogni pieve, ogni edificio, a una tradizione locale, ad un santo, ad una reliquia; ormai non è più prevalente il culto dei santi maggiori a livello europeo ma si viene puntando su un crescente particolarismo, sulla vicenda che si fa sempre più locale, magari anche di provincia, di villaggio, della venerazione. Anche questo è un sintomo del declino di una vocazione universale della " strada ": come segno finale di tutto ciò si può assumere l'esito di quella che venne chiamata, per convenienza politica, la " quarta crociata ".

Non è dunque qui impossibile cogliere una contraddizione: da una parte la grande strada dei pellegrinaggi europei, la strada che collega Monte Bardone all'Europa, la strada dalla quale passano religiosi e sovrani, crociati e pontefici, dall'altra la strada che sempre più illustra vicende-modello, ma vicende locali, vicende che rendono l'ecclesia sempre meno universale.

Conclusosi il grande ciclo culturale, che è europeo, dell'Antelami, di fatto un aggiornamento della cultura che è detta plastica italiana alla luce della scuola di rappresentazione teologica parigina (cioè dell'Ile de France), trasferimento vero e proprio di una cultura complessissima nella nostra diversa esperienza, una volta passata questa vicenda vitalizzante della cultura " gotica " europea, la storia dell'asse romeo di comunicazione diventa senza alcun dubbio locale ed anzi, per quanto concerne le architetture verso Monte Bardone e se si esclude Borgo San Donnino, essa lo è già dopo la costruzione della pieve bercetese al principio del secolo XII.

Cambiano i tempi, muta il paesaggio, muta il tessuto urbanistico; un grande centro di transito internazionale, il punto obbligato di sosta di coorti di pellegrini, il passaggio di un " monte " (l'Appennino) che mediamente richiedeva da Parma a Pontremoli tre-quattro giorni di tempo a piedi o col carro e circa due a cavallo (ma era questo un mezzo di lusso e riservato a pochi) si viene trasformando in feudo, diventa " paese " mentre la città riprende quel potere eminente sul territorio che era stato suo all'epoca romana.

Il dominio dei Rossi su Berceto, che ne fecero un polo del loro peso provinciale nello scacchiere tra i Visconti da un lato e Venezia dall'altro e il crollo di questo dominio nel 1482 (246) segna la fine di un'epoca. Da allora, anche se resta una grande strada di transito, la via Romea è punteggiata di semplici chiese, di mediocri ospizi, di piccoli villaggi; il tratto che da Parma conduce a Monte Bardone non ha più nulla dell'epos della fuga di Ogier davanti alle schiere di Carlomagno, non ha nulla del mitico, simbolico viaggio che è del pellegrino come del crociato, è semplicemente punto di stazione, di fermata, un tratto come un altro della lunga via dei commerci, degli eserciti, dei sempre più scarsi pellegrini nel senso " cluniacense ", vorrei dire, del termine, che, dalla intera Europa, muovono verso il sud ed a Roma. Gerusalemme, la - reconquista - saranno ormai solo il malinconico, ossessivo sogno del Tasso.