GRUPPO DI
FAMIGLIA IN UN INTERNO (1974)
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Soggetto: Enrico Medioli; sceneggiatura: Suso Cecchi d’Amico, Enrico
Medioli, Luchino Visconti; aiuto regista: Albino Cocco; assistenti alla regia: Louise Vincent, Giorgio Treves, Alessio Girotti;
direzione della fotografia: Pasqualino De Santis; operatori: Nino Cristiani, Mario Cimini;
scenografia: Mario Garbuglia; arredatore: Dario Simoni; costumi: Vera Marzot;
montaggio: Ruggero Mastroianni; segretaria di edizione: Renata Franceschi;
musica: Franco Mannino, con brani da “Vorrei spiegarVi, oh Dio!”
e dalla “Sinfonia Concertante K 364” di W. A. Mozart; direttore di produzione: Lucio
Trentini; segretario di produzione: Federico Starace; produzione: Giovanni Bertolucci per Rusconi
Film (Roma) / Gaumont International (Parigi); distribuzione: Cinema International Corporation Soggetto:
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Gruppo di famiglia in un interno è la storia di un intellettuale della mia generazione che, non riuscendo a vivere in accordo con il proprio tempo, si scontra violentemente con le odierne generazioni ed esce da questa prova ferito profondamente per tutto il resto della vita. Il professore è un collezionista di conversation pieces, quella pittura inglese del Settecento che rappresentava famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia con i loro bambini, i domestici, i
cagnolini: figure deliziose, eleganti, aggraziate delle quali grande è la tentazione di immaginare le passioni e i vizi, al di là della fissità del quadro. Il mio film
è appunto una conversation piece: il ritratto di una famiglia. La scena più bella, per me, è quella che, nell’ultima parte, riunisce intorno a un tavolo i cinque
personaggi principali. Questa scena consente che i personaggi si affrontino dicendosi le verità più atroci: un quadro e un pranzo di famiglia che si trasforma
in tragedia. Vorrei cercare di dire che, se un uomo anziano tenta di accostarsi ai giovani come se fossero suoi figli, il rapporto non può funzionare perché essi non
si comprenderanno mai. A un certo punto, Lietta domanda al professore: «Ma lei che cosa faceva, quando era giovane? Ciò che facciamo noi adesso?», e lui risponde: «Nient’affatto! Ho studiato, ho fatto dei viaggi, mi sono sposato; e il mio matrimonio è stato un fallimento. Improvvisamente ho aperto gli occhi, e mi sono ritrovato in mezzo a un mondo di cui non riesco neppure a comprendere il significato». E infatti, egli soffre di questa solitudine e capisce di essersi ingannato. Si è chiuso in se stesso temendo che i problemi degli altri diventassero anche suoi e finissero con l’annientarlo. Egli preferisce occuparsi delle opere che hanno lasciato gli uomini, piuttosto che degli uomini stessi: sono parole che gli faccio dire nel film, perché la conclusione della sua vita è tragica. Il professore non comprende mai i fatti che gli accadono intorno. Quando Konrad, il più corrotto dei tre giovani, si riscatta denunciando un complotto fascista organizzato da un industriale di estrema destra, marito di Bianca Brumonti, il professore non capisce niente perché, in fondo, egli non crede che esista veramente un pericolo da destra. E così non sa dare alcun aiuto a Konrad che si aspettava, se non fiducia, almeno un appoggio, un segno. E quando infine Konrad sarà assassinato dai fascisti, il professore si ricrederà dolorosamente, chiudendosi nella propria tristezza. Da una parte c’è la tentazione, negli uomini in età avanzata, di difendersi da una vita che ormai non riserva loro alcuna illusione; e dunque il desiderio di rifugiarsi nei ricordi, in un’eredità di conoscenze immodificabili; dall’altra ci sono i giovani, la loro vitalità, il lato irrazionale, la sfiducia e il rifiuto nei confronti di tutto ciò che è esistito prima di loro. I giovani con il loro fascino. |