Giusto Pio: Sto finendo un trittico imponente. Nasce dal bisogno di scavare dentro di me
«L'ho dipinta io, quella. È una partitura». Poi va in un'altra stanza, e torna
con un Giuseppe Guarnieri del 1698 tra le mani. Di quelle «partiture» ce n’è più
d’una, alle pareti del pianterreno. Ce ne sono tantissime dabbasso. Dove pure
l'ombra si appoggia tranquilla. Perché neanche quel bunker tecnologico è
aggressivo. Giusto Pio, tra il suo campionatore, il computer, gli amplificatori
e i sintetizzatori, si muove con la destrezza d'un gatto. Basta guardarlo, in
mezzo alle sue apparecchiature, per capire ciò che le parole accennate nate
sottovoce durante il tragitto - «Herbert von Karajan», «vittoria a Sanremo»,
«milioni di copie vendute» - non erano riuscite a spiegare. Che, cioè, dentro
quella piccola casetta di Castelfranco (Pio vi nasce l'11 gennaio 1926), c'è
tutta la musica. Dal medioevo al Duemila. «La mia fortuna è poter fare quello
che mi piace. Senza vincoli. Divertendomi insomma». E, divertendosi, dopo aver
ereditato la passione per le note dal padre, studiato violino e composizione a
Vene- zia, essersi trasferito a Milano e avervi trascorso più di trent'anni come
violinista dell'Orchestra Rai (oltre che come insegnante e membro di parecchi
gruppi cameristici), Giusto Pio è diventato il “Gengis Khan della Hit Parade”.
Lui
minimizza, butta acqua sul fuoco. «Nel nostro mestiere -sostiene - non esistono
garanzie. Il successo è una bestia strana. Un giorno sei su, l'altro finisci con
il naso per terra». Eppure, sarà che la gavetta se l'è fatta tutta, sarà che
madre natura il talento non glielo ha parcellizzato, sarà che è sorretto da una
fede incrollabile, lui, col naso per terra, non c'è mai finito. Anzi. “Dietro la
sua umanità e modestia - dichiara Sergio Sartor, amico del musicista e voce
recitante nel suo ultimo lavoro - Giusto cela una competenza professionale che
ha dell'incredibile. Non gli sfugge niente. Ha un senso del suono talmente
sviluppato da far invidia al miglior direttore d'orchestra. Eppure - prosegue -
lui dice di "dilettarsi"». Naturale che a Castelfranco tutti lo amino. «Per la
mia carriera - rivela - è stato decisivo l'incontro con Franco Battiato. Lui mi
ha "traghettato" dalla musica classica a quella leggera». Lui lo ha trasformato
nella «rock star in doppio petto». Per Giusto Pio, d'altra parte, riservatezza e
signorilità sono un fatto di dna. E Battiato ha dimostrato di apprezzare a tal
punto queste doti da non volerne più fare a meno. Numerosissimi i concerti
tenuti insieme; fortunatissimi gli album con la doppia firma (da Juke box
a L'Era del Cinghiale Bianco fino a La Voce del Padrone, Pio vi
compare, a seconda dei casi, come violinista, direttore d'orchestra, coautore
delle musiche o degli arrangiamenti). Battiato lo appoggia anche per Motore
Immobile, il suo primo LP sperimentale. «In quegli anni - ricorda l'artista
venero - accendevi la radiolina, e sentivi una nostra canzone. Avevamo raggiunto
una popolarità sbalorditiva. Non dimenticherò mai quel 1981», continua. «160
concerti in 13 mesi, 5 Lp e 3 tournée, rispettivamente da 50, 50 e 60 date».
Snocciola anche altre cifre. Lo fa come si trattasse di caramelle, eppure sono
numeri che parlano di «milioni di dischi venduti», di «oltre 500 concerti tenuti
davanti a pubblici di 15-20mila persone per volta».
Un periodo d'oro che vede Pio comporre anche per altri cantanti, tra cui Milva,
Ombretta Colli, Giuni Russo, Alice (con Per Elisa vince il Festival di
Sanremo dell’81) e pubblicare tre album personali (Legione straniera,
Restoration, Note). «Il sodalizio umano con Battiato – sottolinea -
prosegue tuttora. Quello artistico, invece, si è interrotto nel '98, anno in cui
sono passato alla ricerca acustica e all'elettronica pura». Confessa poi: «Il
computer? Ho imparato a usarlo dai giovani. Loro spiegavano, io prendevo
appunti». Insieme a nuove sonorità, nascono così colonne sonore da film e
commenti musicali interattivi con altre forme d'arte, tra cui pittura, scultura
e poesia. Addirittura una produzione sacra (Missa Populi) e una di
argomento spirituale. Ed è qui che riversa il suo impegno, oggi.
«Sto componendo un trittico - dice - dettatomi dalla necessità di scavare nella
mia interiorità». Ce ne mostra lo spartito. «La prima parte, intitolata Isaia
6,9-10, si ispira alla sofferenza». Una tematica dolorosa per cui «ho scelto
un organico formato da una grande orchestra sinfonica, coro e strumenti
elettronici». Lo stesso che troviamo nella seconda parte, Beatitudini.
«Dopo tanto dolore - spiega- ho voluto affidare la mia speranza alle parole
evangeliche; per declamarle, ho scelto Sergio Sartor. Mi manca l'ultima parte»,
conclude. «Penso di chiamarla Visione, o Gloria». Il problema di
un lavoro tanto imponente resta, com’è facile immaginare, l'esecuzione. «Non mi
aspetto che una società teatrale si offra di portarlo in scena, dice. «Grazie
all’elettronica, d'altra parte, posso riprodurre il suono di qualsiasi strumento
da casa mia. Il teatro che preferisco».
Anna Maria Girelli Consolaro