UN GRANDE AMORE: L’AFRICA

 

La giornata era trascorsa fra mille imprevisti e tutti eravamo stanchi, sfiniti, sporchi ed affamati. Le montagne del Tassili N Ajjer erano ancora lontane davanti a noi ed era vicino il luogo dove avremmo fatto rifornimento d’acqua e montato il campo, un eufemismo per dire che messe le macchine in circolo avremmo acceso il fuoco per cuocerci una zuppa di pane vecchio con brodo Knorr e Harissa, perché a El Adjadj non c’era altro che un pozzo con acqua potabile. Così, scaricati i nostri sacchi a pelo e distesi sulla coperta sopra la sabbia, fra il fuoco e le macchine che ci facevano da cornice avemmo cenato e dormito in pace.

Dopo poco partiti da Bordy Omar Driss in direzione sud-sud-est si era rotta una balestra alla Nissan che portava bagagli e provviste. Scaricato il veicolo fu fatto salire con la ruota posteriore destra che aveva la balestra rotta su una grossa ed alta pietra tondeggiante in modo che il veicolo gravasse tutto sulla ruota e scaricasse la balestra incriminata. Per fortuna era una foglia e non la balestra madre (quella che si fissa al ciappino del telaio) così fu immediatamente provveduto a fasciarla con una sciarpa di acciaio tenuta nella borsa degli arnesi appositamente per queste necessità. Il nostro autista pratico del mestiere si adoperò velocemente per riparare il veicolo e dopo aver assicurata la sciarpa con diversi giri di grosso filo di ferro, per non farla scorrere lungo la sospensione e bloccata la medesima con un robusto bullone passante, furono ricaricate le masserizie sulla vettura e fattala scendere dal masso rimessa in marcia.

Non erano passate due ore dal fatto, quando all’orizzonte apparve nella caligine creata dalla fata morgana, una carovana d’uomini e dromedari che come in un caleidoscopio procedevano verso nord. Rallentammo l’andatura e ci fermammo a distanza in segno di rispetto, scendemmo dai veicoli e ci sistemammo in terra per prendere il the. Dalla carovana si staccarono due cavalieri e diressero al trotto gli animali verso di noi, giunti a tiro di voce ci salutarono e noi alzandoci in piedi rispondemmo al saluto e li invitammo a scendere dalle cavalcature e venire presso di noi. I dromedari si accucciarono, i due tuareg smontarono dalle cavalcature, superbi nelle loro vesti colorate, la testa fasciata da chesce di lino candidi nonostante la polvere del deserto e dopo aver nuovamente salutata la nostra combriccola e scambiate parole nella loro lingua con i nostri accompagnatori accettato il nostro the, ci chiesero dove fossimo diretti e se avessimo un medico con noi perché fra di loro avevano un ferito che soffriva molto. Si, noi avevamo un medico, così loro c’invitarono ad avvicinarci alla carovana con i nostri veicoli e salutatoci di nuovo ripartirono. Con calma li seguimmo non veloci, per non sollevare nubi di sabbia, ma a passo da restare dietro di loro di parecchi metri, poi ci fermammo presso la testa della carovana che nel frattempo si era arrestata. Il capo carovana c’informò che avevano un giovane, ferito ad una mano, ma non si doveva saperlo in giro. Noi, senza chiederne il perché acconsentimmo ad aiutarlo ed io col medico mi recai presso un dromedario da cui era disceso un Tuareg che si teneva una mano al petto. Era un ragazzo sui venti anni con due occhi brillanti che sprizzavano paura. Gli chiedemmo di vedere la mano e dopo aver avuto dal capo carovana un cenno d’assenso si decise ad allungare il braccio sinistro, dal quale pendeva una mano fasciata in uno straccio sporco, di sabbia e di sangue. Lo facemmo sedere presso una grossa pietra nera di basalto, aprimmo la valigetta del pronto soccorso munita naturalmente di farmaci e ferri chirurgici. Cominciammo a sfasciare la mano, piano per non strappare le croste di sangue e pus che erano uscite dalla fasciatura. Era la palese ferita da arma da taglio,un coltello, che traversava il palmo da sinistra a destra in diagonale e profondamente, tanto da vederne i tendini messi a nudo. Antonio pulì la ferita con acqua ossigenata, poi praticò un’iniezione di novocaina in più punti del palmo squarciato, io tenevo fermo il polso con una mano mentre con l’altra passavo gli strumenti che mi chiedeva, poi intervenne il capo carovana a tenergli la mano in modo che fossi più libero di assistere il medico. Occorse molto tempo prima che potesse essere suturata la ferita con diversi punti, poi disinfettata e fasciata la mano gli furono somministrati gli antibiotici per endovena e lasciati a lui un blister di antibiotico in capsule ed uno di antidolorifico in pastiglie, con preghiera di usarle e non venderle. Il ragazzo ci sorrise con le lacrime che gli colavano dagli occhi scoprendo dei denti bianchissimi. Il capocarovana ci fissò negli occhi e poi messosi la mano al petto in segno di ringraziamento ci salutò. Gli altri che erano vicini, fecero lo stesso ed il ferito seguendoci da solo alla macchina mi disse: marcì beaucoup. Poi, salito sul suo dromedario, ripartì per raggiungere la carovana senza neppure voltarsi indietro.

Noi, rimettemmo le nostre cose sulle macchine e poi restammo fermi per un tempo indeterminato, a guardare la carovana che si allontanava, lasciandosi dietro una nube di finissima sabbia che la brezza del pomeriggio disperdeva come una nube a fior di terra fino a quando non restò che l’orizzonte ondulato del deserto. Eravamo restati senza parole e gli unici segni dell’accaduto erano i nostri sguardi persi su quell’infinita superficie ondulata di sabbia e sassi che era la pista carovaniera, da noi intercettata casualmente, ma fortunatamente, per quel tuareg, aveva così avuto salva la mano.

Fu dopo qualche giorno che di passaggio da un insediamento di allevatori di cammelli, oltre Illizi, sentimmo dei ragazzini che schiamazzando fra di loro mimavano una rissa fra beduini che forse era scaturita per storie di cammelli o di funi rovinate da qualcuno che era incompetente di quelle cose, oppure troppo giovane per accorgersi di quello che faceva. Non parlammo dell’incontro con la carovana né tantomeno dell’intervento medico eseguito, anche quando un vecchio, ci chiese con intenzioni indagatrici, da quale parte del deserto provenissimo se dalla pista o dalle montagne. Noi optammo per queste ultime.

Dopo una giornata di cammino In lontananza verso sud cominciammo a scorgere le montagne e la nostra guida Hamed c’indicò un posto dove avremmo potuto mettere il campo per la notte. Vicino c’erano grosse ramaglie d’acacia morta che sarebbero state una benedizione per il fuoco che doveva essere acceso per preparare la cena. Io e Hamed muniti di una tagliente ascia, ci dirigemmo a fare legna come si dice in gergo, mentre gli altri erano dediti a preparare nelle catinelle i vari ingredienti commestibili occorrenti per la cena. Piano piano tutti noi avevamo ripreso le nostre attività, lo shock del giorno precedente e le domande del vecchio erano già dimenticate, ora c’era da accendere il fuoco, tagliare la carne, seccata al sole in strisce piccole, per essere cucinata e fare il brodo nel quale, ci avremmo affogato riso, carote, l’ultima costola di sedano e alcune spezie che il cuoco teneva gelosamente in un barattolo, poi se restava qualche mela ce la saremmo divisa in tutti. Naturalmente non saremmo andati a dormire senza le classiche tre tazze di meraviglioso the alla menta, dolcissimo come dessert e ammazza caffè. Una falce di luna, illuminava la parete della falesia di basalto, che era la spalliera del nostro letto, che si trovava dove la sabbia finissima scendeva in piano verso l’oued appena attraversato. Le Nissan, erano in fila verso i nostri piedi, i bagagli nel mezzo così la bianca luce lunare c’investiva in faccia e ci nascondeva il firmamento. A notte alta mi svegliai perché mi mancò questa luce sugli occhi, la luna stava tramontando dietro un cornicione di fronte a me e di colpo mi apparvero tutte le stelle, un firmamento proprio sulla mia testa come dovesse investirmi da quanto appariva vicino. Fu dura riaddormentarsi e se non fosse stato per il freddo sarei uscito dal sacco per fare un giro intorno, ma il calduccio vinse. All’alba Hamed ci preparò una grossa tazza di caffè, lo zuccherai con miele grezzo e vi tuffai dentro, tutti i ritagli secchi delle pagnotte cotte sotto la sabbia e avanzate nei giorni precedenti. Venne fuori un gran pappone dolcissimo e saporito, magari ogni tanto sotto i denti sfuggivano dei granelli di sabbia ma oramai c’eravamo abituati. Riprese le nostre masserizie, si ripartì in direzione di Tin Tara Djelj e poi per Djanet, per rifornire i veicoli di carburante e gli otri d’acqua, per poi proseguire verso i rupestri che in questa zona si sprecano, ma prima io dovevo recarmi all’ufficio di polizia per avere dall’ONAT il permesso di attraversare il sito. Era già la quarta volta che mi recavo nella zona per rilievi e fotografie, oramai mi conoscevano bene e con qualche pacchetto di sigarette e vecchie magliette per i loro figli oltre ai permessi ebbi anche tanti ringraziamenti.

Ho un ricordo dolcissimo dell’oasi di Djanet. Ero in giro da solo, gli amici erano restati sotto la tenda del Bar di Tarah davanti una birra ghiacciata. Passata che ebbi la Moschea mi diressi verso la città vecchia, che adesso è abbandonata e passai sotto il vecchio forte della legione francese, poi avanti verso il mercato, con le bancarelle ricche di ogni ben di dio, sotto le stoie di canniccio ed i monticelli di verdure fresche messe su un telone per terra appena colte, tenute all’ombra degli ombrelloni multicolori, ad ogni passo in avanti si è colpiti da una miscellanea di profumi che vanno dalle banane, ai datteri, alle mele, agli aranci ed ai lime agri e dolci insieme, ottimi per disinfettare l’intestino,oltre c’è la bottega di un forgeur, ed avanti ancora, verso un tugurio, dove un sarto sta lavorando veloce per cucirmi un altro paio di pantaloni di quello splendido lino bianco tanto comodo e fresco che userei ancora oggi per casa, se mi stessero bene come allora. Come ho già detto altrove di qui ero già passato in altri miei viaggi, così passeggiando per il villaggio mi capita d’incontrare vecchie conoscenze e rammentando insieme le cose degli anni precedenti, ci siamo imbarcati in una discussione sul grado d’indigenza di molti Tuareg. Su una popolazione di circa 14 milioni d’abitanti in Algeria, vivono poche migliaia di Tuareg disseminati sui tre quarti del territorio nazionale con una maggior concentrazione nella zona di Tamanrasset ed il Tassili dell’Ajjer. Qui alcuni sono sedentarizzati, come il mio sarto, oppure coltivano piccoli appezzamenti di terreno nei dintorni dove ci sono pozzi che assicurano l’acqua per tutto l’anno. Uno, dal quale abbiamo una volta comprata insalata e pomodori e carote, aveva trovata una vena sotterranea di acqua, la estraeva con una pompa attaccata ad un motore diesel, così da irrigare un campicello in una depressione sabbiosa mista a terra circondata da rocce calcaree di color giallo marrone non più grande che mezzo ettaro. Il terreno, dove era bagnato, assumeva un colore nerastro e la terra mista a sabbia si attaccava alle mani come una colla, forse era per l’effetto di certi concimi chimici che ci confessò usasse in abbondanza. Ricordo che abitava con la famiglia sotto una pianta d’acacia dalla quale pendevano teli militari per ripararsi dal vento e dalla sabbia (dalla pioggia no di certo). Aveva una figlia grande, che abitava ad Algeri e spesso gli inviava denaro e quanto altro avesse bisogno, per mezzo di certi carovanieri che frequentavano quelle piste Gli altri o lavorano ai pozzi petroliferi o vivono accompagnando i turisti. Anche i miei amici erano fra questi e mi portavano con le loro 4X4 in giro a cercare dipinti rupestri da fotografare.

E’ chiaro che questi non potevano contare su un flusso continuo di denaro, anche se piccolo, perché i lavori a volte c’erano ed a volte no.

Questo viaggio fu per me molto importante, poiché ricavai molta soddisfazione dalla presentazione delle mie foto dei disegni rupestri e dei reperti archeologici, nonché d’abiti ed oggetti d’uso comune, che mi ero portato in patria. Infatti, alcune scuole italiane, m’invitarono a presentare e parlare di ciò agli allievi delle scuole medie inferiori. Si era allora alla fine degli anni settanta, primi ottanta e non c’era ancora molta conoscenza di quelle popolazioni e di quei luoghi a livello comune. Tutti sapevano che l’Algeria era un’ex colonia francese e che aveva avuto una brutta guerra per l’indipendenza negli anni fra il 1954 ed il 1962 con scontri urbani, attentati, guerriglia e repressione. Cui fece seguito un periodo d’instabilità politica ed economica che tenne lontani stampa e gente straniera. Di turismo neppure parlarne. Così io ero stato uno non dei primi, ma quasi ad occuparmi di questo paese.

 

Apr-2000-by Gio

 

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