Giosuè Carducci

 

 

 

Giosuè Carducci nasce a Valdicastello nel 1835. Dopo l'infanzia trascorsa in Maremma, si iscrive alla Normale di Pisa dove consegue la laurea in lettere a soli vent'anni. Nel 1860 gli viene assegnata la cattedra di letteratura italiana all' Università di Bologna, che ricoprirà fino al 1904. Nel 1871 conosce Carolina Cristofori Piva, che lui ribattezza Lidia e che sarà la Musa ispiratrice di moltissime sue liriche. Tra 1869 e 1879 compone i "Giambi ed Epodi", ricchi di impegno politico e vis polemica: repubblicano dopo l' Aspromonte, Carducci si avvicina sempre più alla monarchia. Nel 1877 escono le prime "Odi barbare", in cui tenta di riprodurre, con risultati alterni, nel metro dei poeti moderni, ritmi e metri greci e latini; ad esse seguiranno le "Nuove odi barbare" (1882) e le "Terze odi barbare" (1889), oltre alle "Rime nuove" (1887). Nel 1881 muore Lidia, e Carducci inizia un' intensa attività pubblicistica, collaborando a riviste prestigiose; è ormai diventato il rappresentante della cultura ufficiale, e nel 1890 è creato senatore. Nel 1898 pubblica la sua ultima raccolta, "Rime e ritmi"; due anni dopo aver lasciato l'insegnamento, è il primo italiano a ricevere il premio Nobel. Si spegne a Bologna nel 1907.

 

Alcune delle sue opere più famose

 

 

Pianto antico 

L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da' bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior della mia pianta
percossa e inaridita,
tu dell'inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.

San Martino 

La nebbia a gl'irti colli 
piovigginando sale, 
e sotto il maestrale  
urla e biancheggia il mar;
 

ma per le vie del borgo  
dal ribollir de' tini 
va l'aspro odor de i vini 
l'anime a rallegrar.
 

Gira su' ceppi accesi 
lo spiedo scoppiettando: 
sta il cacciator fischiando 
sull'uscio a rimirar
 

tra le rossastre nubi 
stormi d'uccelli neri, 
com'esuli pensieri, 
nel vespero migrar.
 

 

 

Nevicata

Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinerëo: gridi,
suoni di vita più non salgono da la città,

non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d’amor la canzon ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per l’aëre le ore
Gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
Spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
Giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.

 

 

Egle 

Stanno nel grigio verno pur d'edra e di lauro vestite 
ne l'Appia trista le ruinose tombe. 

Passan pe 'l ciel turchino 
che stilla ancor da la pioggia 
avanti al sole lucide nubi bianche. 

Egle, levato il capo vèr' quella serena promessa 
di primavera, guarda le nubi e il sole. 

Guarda; e innanzi a la bella sua fronte 
più ancora che al sole 
ridon le nubi sopra le tombe antiche. 

 

 

Sogno d'estate

Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno
in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su 'l Tirreno.
Sognai, placide cose de' miei novelli anni sognai.
Non più libri: la stanza da 'l sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su 'l ciottolato 
de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioría.
Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo 
pur divenendo rio: su 'l rio passeggiava mia madre
florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d'oro.
Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
superbo de l'amore materno, percosso nel core 
da quella festa immensa che l'alma natura intonava.
Però che le campane sonavano su da 'l castello
annunziando Cristo tornante dimane a' suoi cieli;
e su le cime e al piano, per l'aure, pe' rami, per l'acque,
correa la melodia spiritale di primavera;
ed i peschi ed i meli tutti eran fior' bianchi e vermigli,
e fior' gialli e turchini ridea tutta l'erba al di sotto,
ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de' prati,
e molli d'auree ginestre si paravano i colli,
e un'aura dolce movendo quei fiori e gli odori 
veniva giú dal mare; nel mar quattro candide vele 
andavano andavano cullandosi lente nel sole, 
che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
La giovine madre guardava beata nel sole. 
Io guardava la madre, guardava pensoso il fratello,
questo che or giace lungi su 'l poggio d'Arno fiorito,
quella che dorme presso ne l'erma solenne Certosa;
pensoso e dubitoso s'ancora ei spirassero l'aure
o ritornasser pii del dolor mio da una plaga 
ove tra note forme rivivono gli anni felici. 
Passar le care imagini, disparvero lievi co 'l sonno.
Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
Bice china al telaio seguía cheta l'opra de l'ago.