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La distrazione/ Ecloghe del Corsale

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Cevengur, nella Valle del Belice

Ciabatti, In corpore viri

G. Commare, La poesia della
contraddizione

In memoria di Sebastiano
Timpanaro

Il nome e la memoria (I romanzi
di G. Van Straten)

Tribunale internazionale sul
genocidio in Guatemala

 Giovanni Commare

 Brevi…di film
  per il Grandevetro, 2001


L’uomo che non c’era (The man who wasn’t there), regia di Joel Coen, con Billy Bob Thornton, Frances McDormand, Michael Badalucco, James Gandolfini; b/n, 116’, Stati Uniti, 2001.

Bianco e nero. Questo è bianco, quello è nero: a volte sarebbe bello poterlo dire, spesso necessario. Ma le cose della vita non sono mai distinte in modo così netto. Persino la scienza ha dovuto inventarsi il principio d’indeterminazione per dire che la conoscenza è sempre approssimativa perché la realtà osservata subisce l’effetto perturbatore di chi osserva. Solo chi riesce a distaccarsi tanto dalla propria vita da vederla come una storia da raccontare può finalmente coglierne un ordine che dipana le oscurità labirintiche, un filo di verità. Questo si può leggere in un film stile “noir” anni ’40, ultimo prodotto dei fratelli Coen che con la sfida dell’allegoria hanno reinventato il cinema, confermando di essere i Lumière del XX secolo.


Il voto è segreto (Raye Makhfi), regia di Babak  Payami, con Nassim Abdi, Cyrus Abidi, Yossef Habashi, colore, 105’, Italia/Iran/Canada/Svizzera 2001.

Succede solo che una giovane donna, inviata sulla sperduta e desertica isola di Kish (Iran) come responsabile del seggio elettorale mobile, riesce a portare a termine la sua missione. Non è facile, non ha sempre successo. L’aiuta un soldato un po’ tontolone, prima scocciato poi sempre più convinto dall’entusiasmo della donna. Lei porta il chador, ma viene dalla città; è istruita, forte della convinzione che votare significa migliorare la propria condizione, quale che sia il problema, qualunque cosa si desideri. Molti dei gruppi che incontra sono fermi nel tempo immobile delle tradizioni; le donne soprattutto, chiuse nel silenzio e nella sottomissione. Ma quel giorno qualcosa cambia. Film dai lunghi piani sequenza, dai paesaggi assolati e silenziosi, dalle piste polverose, lento come un antico poema o come una favola, ma venato anche d’ironia. Nell’allegoria della giovane responsabile del seggio vediamo la forza dei nuovi antichi popoli che si presentano alla ribalta della storia con la determinazione di chi sa che cosa è giusto fare. E la certezza che in quella parte di mondo la speranza è donna.


Animali che attraversano la strada, regia di Isabella Sandri, con Enrica M. Modugno, Francesca Rallo, Salvatore Grasso, Andrea Renzi, colore, 93’, Italia, 2000.

Onesto film sulla condizione giovanile. La regista rappresenta con crudezza realistica una degradata periferia metropolitana, facendo  ricorso per i ruoli dei protagonisti ad attori presi da quella realtà . Non ci sono speranze di riscatto per Martina e Sciù, due ragazzi che vivono di furtarelli più per sfida verso la società che per bisogno. Poiché il mondo degli adulti, quando non è assente, è squallido o incomprensibile agli occhi degli adolescenti, la svolta verso la tragedia è inevitabile. 


Quando il nonno amava Rita Hayworth (Als Grossvater Rita Hayworth liebte), regia di Iva Svarcova,  con Karen Fisher, Vlastimil Brodsky, Veronika Albrechtova, Ewa Gawryluk, Vladimir Hajdu, Dagmar Menzel;  colore, 90’, Germania/Svizzera/Repubblica Ceca, 2001.

Contro il rischio di perdere la memoria del passato, il film di Iva Svarcova è un antidoto. Ben costruito su flash della memoria personale, poetico, parlato in tre lingue di emigranti, è una buona cura per la mente e per i sentimenti. Una famiglia ceca  fugge in Germania occidentale dopo l’invasione sovietica dell’agosto 1968 e vive una difficile integrazione tra seduzione del consumismo e nostalgia di ciò che ha lasciato. Tre generazioni si confrontano. La generazione dei padri è la più fragile e insicura, così la forza della memoria è nel rapporto tra la ragazza protagonista narratrice e il nonno. Nonostante il tono da commedia non c’è lieto fine: ognuno scopre a suo modo che “la verità è complicata da spiegare”. Anche per noi: l’Italia è per gli emigranti cechi il sogno del mare, dorato, come il ricordo dell’infanzia e della patria. 


27 baci perduti, regia di Nana Djordjadze, con Nuza Kuchanidze, Shalva Iashvili, Eugenij Sidichin, colore, 96’, Georgia/Germania, 2000.

Chi sa se c’è ancora chi pensa che tutti i paesi poveri sono tristi. La Georgia di Nana Djordjadze lo smentisce irrefutabilmente. A scatenare la girandola di situazioni surreali è l’arrivo in una sonnacchiosa cittadina di Sybille, una bella quattordicenne che conosce a memoria la grande poesia d’amore e ha l’urgenza di verificarne la veridicità. Il mondo le appare un caos senza senso, dove si è perduto persino il mare. Tuttavia nella precarietà si può continuare a cercare un senso, e persino il mare, con qualche speranza di trovarli. Certo, alla fine, a qualcuno mancheranno quei 27 baci irreparabilmente perduti, ma ci sarà il ricordo degli altri 73 dati a rendere bellissima e indimenticabile una stagione della vita. Come indimenticabili sono alcune inquadrature di questo film, che rielabora la lezione di Kosturica con qualche eccesso di citazioni pittoriche e qualche macchietta di troppo. 


A tempo pieno, regia di Laurent Cantet, con Aurélien Recoing, Karin Viard, Serge Livrozet, colore, 133’,  Francia, 2001.

Soldi, produttività, ambizione, soldi. Se questi sono stati i cardini della vostra vita, non crediate di salvarvi solo perché avete perso il lavoro. Vincent, il protagonista di A tempo pieno, finge con familiari e amici di avere un impiego di prestigio internazionale, in realtà si agita in modo disordinato, arrivando persino a costruirsi una vita parallela di contrabbandiere e pataccaro. Vorrebbe fuggire dalle regole sociali, che però non ha alcuna intenzione di cambiare. E il ciclo di riproduzione del capitale lo risucchierà come un gorgo infernale. Lento, grigio e inesorabile. 


Pearl Harbor, regia di Michael Bay, con Ben Affleck, Kate Beckinsale, Cuba Gooding jr., Alec Baldwin, Dan Aykroyd; colore, 180’, USA 2001.

Due film al  prezzo di uno, ma nessuno dei due vale il prezzo del biglietto. Una guerra da videogame e una storia d’amore tanto scontata che per tenere sveglio lo spettatore si fanno resuscitare i morti. Spunti d’involontaria comicità nei dialoghi che sembrano parodie di film già visti. Si rimpiange Tora Tora Tora, dove, almeno, i nemici erano cattivi e somigliavano tanto ai cinesi comunisti di quell’epoca.


Sangue vivo, regia di  Edoardo Winspeare, con Pino Zimba e Lamberto Probo, colore, Italia, 2000.

Se siete fra coloro che pensano che il cinema italiano, e specialmente quello finanziato dal Ministero per le attività culturali,  produca solo film noiosi o stupidi, correte a vedere questo film per cambiare idea. Correte perché, non avendo nel cast nomi noti, se non lo premiano a un paio di festival, rischia di passare nelle sale solo pochi giorni. C’è una rappresentazione vera dell’Italia d’oggi vista dalla bella e terribile terra salentina, senza ammiccamenti e sentimentalismi, senza i luoghi comuni della vulgata autoreferenziale televisiva. Ci sono disgraziati degni di Ladri di biciclette, legati ai riti ancestrali, ma presi nella ragnatela della ferocia delle mafie nostrali e di una gioventù insensata e violenta. C’è il ritmo dei buoni film d’azione americani che tanto ci piacciono, scandito dalla musica travolgente degli Zoé, che suonano la “pizzica” come mai s’era sentito e interpretano con naturalezza neorealistica i principali personaggi del film. Correte a vedere questo piccolo capolavoro e non stupitevi  se è nato  nel Sud  delle contraddizioni estreme.


THOMAS EST AMOUREUX , regia di Pierre-Paul Renders, con Benoit Verhaert, Magali Pinglaut, Aylin Yay, Micheline Hardy. Colore, 92’, Belgio/Francia 2000.

Per pigrizia e servilismo tradotto Thomas in love. Per un’ora e mezza vediamo la realtà attraverso lo schermo di un computer, proprio come l’invisibile Thomas del titolo, un giovane agorafobico di 32 anni, da 8 autorecluso nella sua casa tecnologicamente superconfortata. I suoi rapporti con l’esterno avvengono per mezzo di un internet appena più evoluto del nostro: il mondo e gli altri sono virtuali, anche durante le scopate,  ma per Thomas mantengono un’essenza umana. Fantascienza molto prossima: il futuro di solitudine e clausura che attende noi praticanti la comunicazione virtuale. Non tutti, però, o forse pochi, avremo la vigile umanità di Thomas e sapremo pensare a chiudere la storia in modo banale e romantico.


BILLY ELLIOT, regia di Stephen Daldry, con Julie Walters, Gary Lewis, Jamie Bell, colore, Gran Bretagna 2000.

Sceneggiata napoletana in salsa inglese, ambientata verso la metà degli anni ’80. Colline di carbone e minatori in sciopero contro la Lady di ferro che insegna le buone maniere e il rispetto del profitto ai lavoratori. Un ragazzo, figlio di minatore e per giunta orfano di madre, si scopre vocazione e talento di ballerino. Il padre giustamente s’incazza, il fratello, minatore anche lui, pure; solo la nonna arteriosclerotica si appassiona a questa avventura. Scontato il  finale, deprimente: i lavoratori, sconfitti,   tornano al lavoro; il babbo, divenuto buono, sostiene la vocazione del figlio ballerino e si commuove quando lo vede danzare da protagonista nel Lago dei cigni. Noi usciamo con un po’ di nausea per l’overdose di buoni sentimenti che ci è stata somministrata nella seconda parte del film. Siamo all’epilogo del filone Full monty. Il nuovo cinema inglese sembra ritornare all’ordine. E ci dispiace. 


L’ULTIMO BACIO , regia di Gabriele Muccino, con Stefano Accorsi, Giovanna Mezzogiorno, Stefania Sandrelli, colore,  Italia 2001.

Muccino, dopo la leggerezza sociologica di Come te nessuno mai, ha colpito ancora e si avvia a un meritato successo e a un buon contratto con una  grande Major degli States. Film corale di giovani per i giovani, con i non giovani nel ruolo di comparse giusto quanto basta per dire che non sono meno confusi dei figli, L’ultimo bacio rinnova la tradizione della commedia italiana adattandola al gusto del mercato globale. Un gruppo di trentenni, che non  vuole crescere, cerca di sfuggire le responsabilità che lo svolgersi casuale della vita getta  loro addosso: un figlio non voluto, un negozio ereditato, un matrimonio. Hanno certo più confidenza tra loro maschi che con le donne loro mogli, fidanzate o amanti. Il gruppo è la palestra del loro esibizionismo e la consolazione delle loro frustrazioni. Hanno il necessario e il superfluo, ma non sanno che farsene della loro vita. "Solo la normalità è rivoluzionaria", dice. Li vorremmo veri spostati, ma sono solo irresoluti e velleitari: non sono rivoluzionari, non riescono ad essere "normali". Muccino, l’amerikano, è stato bravo nel non concedere attenuanti a questi suoi coetanei e a montare un film con un ritmo serrato da videoclip, con dialoghi veloci, e anonimi come i personaggi, facili da tradurre. Film da esportazione.


IL GUSTO DEGLI ALTRI, regia di Agnès Jaoui, con Anne Alvaro, Jean- Pierre Bacri, Brigitte Catillon, Alain Chabat, Agnès Jaoui, colore, 112’, Francia 1999. 

A scorrere la trama può sembrare una storia melensa, come se si facesse un film su Berlusconi e Veronica Lario: un ricco industriale, grezzo e ignorante, persino un po’ ottuso, s’innamora di un’attrice fallita, che gli fa lezioni d’inglese, e scopre, insieme a nuovi sentimenti, anche la bellezza dell’arte. Per fortuna il film non è solo questo. L’industriale Castella, dopo aver scoperto il suo lato umano, rivela la simmetrica grettezza e la sottomissione ai luoghi comuni di tutto il gruppo di “artisti e intellettuali” con cui entra in contatto. Ma fa involontariamente e necessariamente esplodere anche il rapporto con la moglie, un’altra incapace di accettare “il gusto degli altri”. Costruito come racconto delle relazioni tra una decina di personaggi, il film si svolge come un apologo che invita a guardare gli altri con la mente sgombra dai pregiudizi sui quali si erigono le barriere dell’esclusione, perché nella scoperta dell’altro sta il gusto della vita.  Una storia bella e narrata con arte sapiente.


DOMENICA, regia di Wilma Labate, con Domenica Giuliano, Claudio Amendola, Annabella Sciorra, colore, 95’, Italia 2000.

Una Napoli monumentale e bella, fotografata in modo insolito,  è la scena in cui un commissario morente, Sciarra, e una ragazzina molto sveglia, Domenica, cercano le tracce di un delitto. Come in Alice nelle città di Wim Wenders, anche in questo film la presenza della ragazza fa guardare in modo nuovo la realtà, che certo resta squallida e lontana dalla giustizia, ma non è priva di speranza. In fondo, il commissario si leva la soddisfazione di svergognare i disonesti. Ma la forza del film è nello sguardo disincantato e pulito di Domenica (un’interprete presa dalla strada), nell’energia vitale che proietta il personaggio, al di là delle violenze subite, in un futuro  dove è ancora possibile l’illusione. La  combinazione delle due solitudini, quella feroce del poliziotto  e quella della ragazza, ogni tanto inceppa i dialoghi e anche lo sviluppo della trama. Si può perdonare comunque alla regista un ritmo da sceneggiato televisivo, perché ha saputo raccontare una storia di sentimenti e di conoscenza evitando ogni forma di patetismo.


QUILLS LA PENNA DELLO SCANDALO, regia di Philip Kaufman, con Geoffrey Rush, Michael Caine, Kate Winslet, Joaquin Phoenix, colore, 124’, USA 2000.

Da un film sul marchese De Sade siamo legittimati ad aspettarci violenza, sesso, un catalogo abbastanza ampio di perversioni e sangue quanto basta.    Ebbene, Kaufman, il regista, riesce per 100 minuti a tenere a bada i luoghi comuni e a fare del divin marchese un martire della libertà di pensiero. Sesso e perversione sono parlati in un flusso di pornolalia che ha persino effetti ironici e grotteschi. Oggetto del desiderio, sia del diavolo De Sade che del santo Abate di Charenton, è una Kate Winslet, brunetta e abbastanza in carne, non molto credibile nell’impersonare le disgrazie della virtù ma brava nell’attirarsele. Tutti costoro, compresi i matti, se non  proprio buoni, sono almeno recuperabili a una relazione umana, seppure perversa. Il male assoluto sta invece dalla parte del Potere che si manifesta come ipocrita e bestiale repressione. Già questo è uno schemino troppo facile, ma insomma ancora regge. L’intervento del Potere fa sì che il manicomio (un’architettura circolare fortemente simbolica), all’inizio quasi protettivo, diventi ossessione e tortura, fino a  esplodere nella follia e nel bagno di sangue. E qui, cioè negli ultimi 24 minuti, il film perde la sua dignità, una certa leggerezza di stile che ne faceva quasi un apologo filosofico, e si rivela un’americanata. E non ci consola nemmeno il fatto che il Potere, cioè lo psichiatra inviato da Napoleone,  venga fatto cornuto dalla moglie bambina.
 

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