24 marzo 1985

Giovanni (12, 20-33) V^ di Quaresima

[ a priori · aristotele · bach · ciro · civiltà · clìnia · dario · dionisòdoro · eròdoto · frumento · genitori · geremìa · giovani · greci · intelletto · medèa · musica · nomos · pane · patata · pensiero · platone · pluralismo · salvezza · sapienza · socrate · tommaso · uomo ]

Anche questa predica sarà anomala rispetto alle altre. Procederò certo per concetti, ma cercherò di illustrarli con -o mediante- verifiche storiche o esemplificazioni pedagogiche. Se in genere gradisco la presenza dei giovani alle mie prediche, questa volta vorrei che fossero soltanto loro. Ma siccome il problema dell'educazione è legato con la presenza degli adulti, allora certo ho piacere che ci siano anche dei genitori ad ascoltare quanto dirò.

Non a caso ci sono dei Greci che vogliono vedere Gesù. Questa civiltà greca, che è la culla della civiltà occidentale (e oserei dire: di tutto il mondo)... vedremo, se scopriremo altri mondi, vedremo, quegli uomini, come ragioneranno. Se ragioneranno per categorie mentali, credo che l'esplosione di queste categorie sia avvenuta là, verso il VI, il V secolo avanti Cristo, in un luogo che noi chiamiamo Grecia. E con il pensiero greco debbono fare i conti le civiltà che stanno a est, e quelle che stanno a ovest, e anche la stessa civiltà biblica deve fare i conti con la civiltà greca. Gesù qui porterà a compimento ciò che i Greci avevano intuito.

Con questa premessa, cominciamo. Cominciamo a citarvi un racconto che prendo proprio da uno storico greco, Eròdoto. Dice Eròdoto, nelle sue storie, che il re Dario I, vissuto dopo Ciro (quel famoso Ciro che aveva deportato gli Ebrei e di cui si era parlato appunto nella prima lettura della domenica passata), durante il suo regno convocò i Greci che vivevano alla sua corte e chiese loro per quale somma avrebbero consentito a mangiare i loro padri, una volta morti. (Si pone il problema degli anziani, lo vedete?) Essi gli risposero che non lo avrebbero fatto per alcun prezzo al mondo, perché questo era disdicevole per la natura umana. "Va bene," disse Dario "vi ringrazio". Poi chiamò, poco dopo, i membri di una tribù di Indiani che invece mangiavano i loro genitori; e chiese loro, in presenza dei Greci, per quale somma avrebbero accettato di bruciare i cadaveri dei loro padri, quando fossero morti. Quelli levarono grida di orrore alla sola menzione di una simile cosa. "Ecco" conclude Eròdoto "due pratiche fissate da Nomos ". Nomos in Greco vorrebbe dire 'legge', ma poi ci si accorge che dovremmo tradurre con 'consuetudine', o meglio ancora con 'costume'. Ancora Eròdoto conclude: "Credo che Pindaro avesse ragione, quando diceva, in una sua poesia, che Nomos è re di tutte le cose". Il costume è re di tutte le cose: qui è male mangiare i genitori vecchi; qui invece è male non mangiarli. Come facciamo a liberarci dal pluralismo etico, specie quando questo pluralismo raggiunge le vette del contraddittorio? Avete visto anche voi, in televisione, come oramai, in nome del pluralismo, vi siano tutte le correnti etiche che chiedono la cittadinanza. "Persino" diremmo noi scandalizzati come questi Greci o questi Indiani "le prostitute! Vogliono che il loro lavoro sia un lavoro come il lavoro di tutti gli altri (poniamo le casalinghe)". E così non parliamo degli omosessuali, e così non parliamo di tutto il resto.

Sicchè, ecco la disperazione di Geremìa (prima lettura). Geremìa che cosa immagina, povero profeta anche lui? Immagina che Dio ponga finalmente la sua legge nell'animo degli uomini, la scriva nel loro cuore. Perché fino a tanto che noi la scriviamo nelle legislazioni, questa legge è estrinseca all'uomo ed è frutto di una elaborazione concettuale. E allora noi vediamo che gli Indiani mangiano i loro genitori... noi diremo che certo, per mangiarli, prima bisogna ucciderli, ma, si capisce, per ucciderli non dobbiamo usare la mannaia, useremo l'eutanasia... E avreste qualcosa da obiettare, voi? (Se mi venisse il ghiribizzo potrei anche dimostrarvi che probabilmente questa è la strada giusta... dico se mi venisse il ghiribizzo, o se qualcuno mi facesse venire la mosca al naso.) Dunque Geremìa, nella sua disperazione, pover'uomo, (si trova nelle condizioni di uno che vuole vedere chiaro dentro alle situazioni etiche) dice che Dio finalmente porrà la sua legge nell'animo degli uomini, la scriverà nel loro cuore: soltanto così sarà uguale per tutti. Come quel piccolo marchio che le fabbriche mettono nelle mattonelle; vedete? in ognuna c'è, tutte uguali. Purtroppo -o per fortuna- Dio non ha scritto nulla di oggettivo nè nel cuore, nè nell'intelletto (poiché qui 'cuore' sta per 'intelletto').

Ci sono dei giovani che studiano, qui. Ebbene parlo con molta sicurezza, sotto questo profilo. Ho detto prima 'purtroppo', ma devo anche dire 'per fortuna': adesso vi spiegherò... Dio non ha scritto nulla, nulla di oggettivo nè nel cuore, nè nell'intelletto. Anche san Paolo si appellerà a questa legge, che purtroppo non esiste. L'unica cosa uguale per tutti (e per questo sono pronto a battermi) è l'intelletto. In questo caso sono tomista. Ho molte cose da dire io contro san Tommaso, ma qui credo che egli abbia raggiunto le altezze del vero filosofo. Credo che san Tommaso (d'altra parte insieme con Aristotele) sia uno dei pochi filosofi che ammette il minimo di a priori all'interno della conoscenza umana. L'unico a priori è quell'intelletto, lì quella cassetta -lasciatemi usare questa immagine- lì quel cranio, lì quell'intelletto: questa è l'unica cosa uguale per tutti. Ma la stessa idea dell'essere non è posta da Dio (come diceva, credo, il buon Rosmini) direttamente nell'uomo. Ce la formiamo noi, guardando, sperimentando le cose. L'idea dell'essere la ricaviamo nel momento in cui quest'apparecchio, che è l'unica cosa creata da Dio uguale per tutti, comincia a funzionare a contatto con la realtà. Ho fatto una bella lezione di gnoseologia, un po' abbreviata, ma credo abbastanza completa e chiara.

Dunque è vano cercare un punto di riferimento oggettivo, uguale per tutti. E qui comincia la novità. Dobbiamo, questo punto oggettivo, costruirlo; dobbiamo raggiungerlo come un ideale. Non è vero che i bambini siano liberi: debbono diventare liberi. Così come sono ignoranti, e debbono diventare sapienti. Tutta la pedagogia è qui. Guai a chi parte dal presupposto che liberi siano (tanto per citare un esempio). Dobbiamo costruirla, quella libertà, e dobbiamo costruire la pace, e via dicendo. E raggiungerlo -dicevo- come un ideale. Da qui il dualismo (e di questo io sono profondamente grato almeno a una corrente del pensiero greco) fra ciò che siamo e ciò che dobbiamo essere. A quale condizione il frumento può moltiplicarsi oppure diventare pane? A quale condizione? La risposta è semplice: a condizione di rinunciare a ciò che è, per diventare ciò che non è, e vale a dire ciò che deve essere. Pensiero chiarissimo, ma -vi confesso- difficile da conquistare. Farò un esempio più banale per aiutare le cuoche, le donne, a capire meglio il discorso. A quale condizione una patata è mangiabile, è fruibile dall'uomo? A condizione di venire cotta. Cotta. Non ho mai visto gli uomini mangiare le patate crude. Speriamo che non venga quel tempo in cui dovessimo essere costretti a mangiare le patate crude, perché sarebbe brutto segno. La distruzione di sé (continuo nell'esempio) come tubero crudo è la strada per diventare la salvezza della fame in Europa, come fu dal momento in cui Cristoforo Colombo portò le patate in Europa.

Gesù dunque è richiesto da alcuni Greci i quali lo vogliono vedere, vogliono parlare con lui. Il testo qui è un po' strano, perché invece di rispondere direttamente a questi poveri inquisitori, ricercatori di sapienza, comincia un discorso: "E' giunta l'ora che sia glorificato..." e poi l'esempio del grano. Certamente, se presenti ci fossero stati Aristotele o Platone o Socrate, vi confesso che probabilmente si sarebbero inginocchiati (dico dal punti di vista del pensiero), perché avrebbero capito che le loro intuizioni finalmente erano consacrate da uno che poteva consacrarle.

Ora io vi porterò l'esempio più bello (ne avrei tre o quattro, ma vedo che il tempo è tiranno...). {...} In un dialogo bellissimo di Platone, che ha come titolo l'Eutidèmo , noi troviamo un consulto attorno a un ragazzo di nome Clìnia. {...} Un consulto per decidere le strategie della sua formazione. Tutti vogliono che diventi uomo perfetto; ma come? "Per diventare uomo perfetto, ragazzo, bisogna amare la sapienza; bisogna coltivare la virtù". Non diciamo anche noi, queste frasi? Socrate però, che è lì in disparte, nicchia, e ha qualche idea strana per la testa. Allora un altro educatore, di nome Dionisòdoro, intuendo i pensieri di Socrate, incomincia a dire: "Se Clìnia non è sapiente, ma ignorante, si vuole che divenga ciò che non è e non sia quello che è adesso". Sentite? si vuole che divenga quello che non è adesso. Stupore attorno, e piccoli sorrisi di Socrate come dire: "Forse questa è la strada buona, non quell'altra, di continuare a ripetere che bisogna amare la sapienza e coltivare la virtù". Dunque, prosegue Dionisòdoro: "Se si vuole che egli non sia più quello che è, si vuole che egli perisca". Scandalo generale. Ma come! invece di proporre il perfezionamento, voi proponete la distruzione del ragazzo? A questo punto Socrate si sente responsabile di questo scandalo, e interviene: "Se, per rendere buona la gente, da cattiva che è, occorre concedere che gli educatori distruggano questo ragazzo così com'è, ben venga il metodo. Io che sono vecchio mi offro volontario come vittima di prova, se i giovani hanno paura di una tale operazione dall'esito incerto. Io sono vecchio, io sono pronto a correre il rischio; mi dò in mano a Dionisòdoro l'educatore, così come Medèa di Còrchide..." (Medèa aveva consigliato le figlie di Pèglia a cuocere il padre per farlo ringiovanire {...}) "mi ammazzi, mi cuocia come una patata, mi pesti dentro ad un orciolo, purché mi faccia diventare buono". Dunque questo è il primo canone: la distruzione di ciò che è negativo, per potere celebrare ciò che di positivo vi è. Dunque disponibilità alla rinuncia della vita proprio per conservarla.

E adesso passiamo all'ultimo capitolo. Anche qui mi riferirò a una trasmissione che avrete visto anche voi, o perlomeno che qualcuno avrà visto. L'altra sera ho visto una bella trasmissione su Bach, il famoso musicista. Poi, al termine, un grande organista, di cui non ricordo il nome, si mette all'organo e suona la Fuga in re minore . {...} Un capolavoro, non v'è dubbio. Ed ecco le considerazioni che ho colto. Badate: non solo io ho udito, io ho 'visto' l'esecuzione, e ho pensato al ruolo dell'organista. Domanda: egli annulla la sua personalità, oppure la celebra? L'annulla e la celebra. La celebra annullandola. Celebra quella vera, annulla quella spaziale e temporale e puramente fisica. Egli annulla se stesso come mezzo per far trionfare la grande epopea della musica di Bach. La sua eccelsa bravura consiste nell'annullarsi dentro alla grande armonia, in modo da farla rivivere senza che io senta o viva lui come corpo e come individuo. Appena egli riemerge come persona autonoma, cessa l'incantesimo: io ho perduto anche le sinfonie e le armonie di Bach. Anche se lui resta segnato dal fatto di essere un medium , un mezzo attraverso cui io vivo il paradiso dei suoni. E non a caso il maestro di musica noi lo chiamiamo 'maestro'. E' come il chicco di frumento, che scompare per dare origine alla farina o al pane che allieta la mia mensa. Questa è l'unica condizione per ottenere quel risultato.

Allora la mia predica è fatta: questa è la posizione salvifica di Gesù Cristo, oppure di Cristo salvatore. Dio è il Padre che traccia l'architettura dei suoni tutti, così come Bach e il creatore di quelle Fughe che noi conosciamo. Gesù è il Figlio che si annulla o si è annullato nella glorificazione, così come l'organista si annulla quando getta tutta la sua anima, il suo sistema nervoso, il suo corpo, le sue dita, i suoi piedi su quella tastiera dell'organo. Si annulla come uomo empirico, ma è glorificato nell'atto in cui introduce me, che ascolto, nella salvezza dei suoni, cioè mi rende fruibile il piano divino del Padre.

Ho finito. Nulla di più triste, nulla di più melanconico che morire per avere definalizzato la propria esistenza, o senza avere coltivato un progetto minimo di perfezione. Credo che gli animali siano più in alto di noi, perché almeno un finalismo essi seguono. Nulla di più sublime, viceversa, che morire per attuare un disegno divino: ecco il Cristiano. Come Cristo è colui che vive tutti gli attimi della sua esistenza in questo continuo trascendimento di sé. Dove da un lato si odia e si rifiuta ciò che è puro divenire, pura materia; e dall'altro lato si conserva ciò che dovrà vivere eternamente.