UNA TREMENDA NOTTE

di Giacomo Ulivieri [28 anni]

 

Quella sera decidemmo di uscire. Così, quasi per caso.

Ci eravamo leggermente abbrutiti ultimamente. I giorni intensi di studio ci avevano letteralmente sfiancati e ne eravamo emersi così malconci che di uscire c’era passata la voglia. Ma anche se l’esame non era ancora stato dato e mancavano ormai pochi giorni volevano scuoterci da quell’apatia. Ne avevamo bisogno.

Perché non andiamo a bere qualcosa, mi propose Juami appena uscito dal bagno. Doveva aver fatto una cagata chiarificatrice. Aveva il viso più rilassato come non ricordavo di averlo mai visto prima.

Ok, gli risposi. Feci una doccia, mi vestii e uscimmo.

Raggiungemmo il centro a piedi in cinque minuti. Era una splendida serata e tutto lasciava presagire che qualcosa sarebbe successo. Lui, Juami, era euforico come nei suoi giorni migliori e di conseguenza mi trasmetteva tutto il suo buonumore.

Ci fermammo in un paio di bar all’aperto. L’aria era fresca e leggera, tipica delle serate di fine primavera. Ci frizzava dentro i nostri nasi ormai disabituati e accendeva un sacco di nuove emozioni dimenticate.

Bevemmo un paio di drink. Cominciammo dal primo bar, poi un secondo, poi un terzo. Ci piaceva il fatto di entrare ed uscire dalla vita di un posto, gustandone le persone, gli ambiente diversi. In ogni posto anche le ragazze erano diverse. Ce n’erano di tutti i gusti quella sera. E noi le volevamo tutte.

Verso il quarto o il quinto barrino, Juami si mise a parlare con due ragazze sedute su degli sgabelli al bancone del bar. Erano due belle bionde con i capelli lisci e due corpi ben fatti. Non erano niente male.

Con l’invadenza allegra di chi ha bevuto un po’ Juami conobbe le ragazze e ci fece amicizia. Poi, una volta che la situazione fu abbastanza tranquilla, mi presentò alle due tipe. Ragazze lui è il mitico Tiago, esclamò. Applausi. Mi buttai sulla prima bionda, quella con i capelli un poco più corti. Più che per scelta mia, fu per scelta di Juami che aveva cominciato a isolare l’altra un po’ maliziosamente.

La ragazza con cui parlavo si chiamava Nico. Era una studentessa anche lei ed era svedese. Benedetto paese, pensai.

Mi raccontò cosa studiava, che frequentava un corso di fotografia avanzato e che voleva diventare presto una fotografa professionista. Sembrava avere le idee molto chiare, come tutte le ragazze di oggi.

Io inventai che studiavo per diventare stilista. Tanto sapevo che anche la sua era una balla o se non lo era, era sicuramente una scelta dettata dalla moda dei tempi. Ero indeciso anche tra l’essere uno studente di giornalismo, di pubblicità o di design ma pensai che la moda fosse la cosa più in.

Così mi gettai a raccontarle dei miei pseudo studi, delle mode di quest’anno, delle ragazze adatte a sfilare. Ecco, tu saresti perfetta per indossare i miei abiti, le dissi. Sorrise.

Intanto Juami continuava ad offrire da bere a tutti e quattro. Capirinha, caprioska, calimocho, costarika. Tutti i nomi mi sembravano uguali. Cominciavo ad essere sbronzo.

Poi se ne venne fuori con uno dei suoi numeri che avevo imparato a conoscere durante la nostra amicizia. Erano numeri altamente rischiosi ma potevano essere visti come dei banchi di prova. E se  superavano la prova, portavano sempre a dei risultati eccellenti.

Si propose di preparare lui quattro drinks. Convinse il barman a lasciarlo fare ed annunciò che avrebbe preparato il mitico pompino!

Nico mi chiese cosa significasse pompino.

Risate.

Mentre ridevo anch’io, detti un’occhiata all’espressione delle due ragazze per capire le loro reazioni, come buttava insomma. Ma queste parvero contente e felici della novità e sul momento pensai davvero che fosse fatta.

Juami ci mise si e no cinque minuti a preparare le bevute. Le mise tutte in fila sul bancone. Avremmo dovuto berle alla goccia, tutto di un fiato.

E così facemmo.

Appena buttato giù il drink per un attimo mi sentii soffocare. E per un attimo mi sbracciai in cerca di ossigeno. In quell’attimo di follia colpii per sbaglio Nico facendola cadere dallo sgabello. Cadde  di culo per terra. Tutto il locale si fermò per un attimo in ansia per il sedere della bella svedese. Intanto il fiato mi tornò e andai ad aiutare Nico a rialzarsi, scusandomi e cercando di trovare una scusa plausibile. Ma quella, anziché incazzarsi con me o roba simile, mi gettò le braccia intorno al collo e mi baciò, così, proprio mentre tutto il locale ci guardava. Un bacio lungo e passionale. Mi lasciai andare a quella lingua morbida e soffice fregandomene di tutti gli sguardi che avevo addosso. Dovrò riproporla questa tattica, pensai.

Poi tornammo a sedere. Anche Juami stava intraprendendo una conversazione più intima con l’altra svedese, che non conobbi mai, e così proposi a Nico di andare a fare un giro.

Avevo intenzione di portarla a casa, subito. La volevo subito. Ero offuscato dall’alcool e non riuscivo a pensare ad altro che al sesso e al suo dolce corpo.

Ma lei non ne voleva sapere, voleva vendere cara la pelle, lo avevo capito.

Andiamo a ballare, se ne venne fuori lei.

Ballare? Ma che diavolo aveva in testa quella bionda? Io volevo scoparla!

Andiamo, andiamo insisteva lei. E alla fine dovetti sottostare alla sua decisione. E andammo a ballare. L’avrei accontentata per un’oretta e poi l’avrei portata a casa bella sbronza, ecco cosa avrei fatto.

La discoteca dove mi portò si chiamava senza un motivo apparente “The circle”. Era un immenso bordello. Era tutto su un enorme unico piano, le luci erano soffuse e si riusciva a riconoscere a malapena le facce delle persone che ti stavano accanto. C’era un sacco di gente tutta fuori di testa, si e no peggio di me ma per altri motivi, che ballava in ogni angolo del locale. Chi era a dorso nudo, chi a tette di fuori.

La portai subito al bancone per bere qualcosa. Dovevo distruggere le sue barriere con l’alcool. Dopo aver bevuto un paio di drink, Nico disse che voleva andare a ballare al centro del locale, proprio dove una bolgia ormai non più distinguibile di corpi si muoveva senza un senso ben preciso. Mi prese per mano e cominciò a farsi strada verso quel vortice. L’effetto piacevole ed inebriante dell’alcool che mi aveva spinto sino a lì s’era esaurito per far posto al malessere tipico del sbronza pesante. Facevo fatica a focalizzare, fatica a camminare. Mentre seguivo la mano di Nico urtammo alcuni ragazzi che mi impregnarono del loro sudore. Qualcuno mi toccò il culo e non mi sembrò una donna.

Sembrava un luogo infinito, un luogo senza mura. Un delirio. Mi sembrava di camminare da un’eternità quando ad un tratto Nico si voltò verso di me abbracciandomi alla meno peggio. Ballava come un’esagitata. Urlava ed era completamente matta come tutta quella gente intorno a me. Sembrava proprio a suo agio. Dal canto mio cercai di rimanere nel personaggio muovendo qualche passo al ritmo di lei ma le gambe mi erano diventate delle estensioni mollicce. Volevo morire, proprio lì. Quella di farla bere ancora era stata proprio una tattica sbagliata, mi ero tagliato le gambe da solo. E mentre vedevo Nico che ballava con tutto il suo ben di dio, pensavo che io volevo solo scoparla. Mi ritrovai quasi immobile in mezzo a tutto quel dimenarsi e vidi Nico allontanarsi da me sempre di più. Qualcuno adesso l’aveva abbracciata e non ero io. Qualcuno ballava con lei avvinghiato ai suoi fianchi, un ragazzo. Aveva una canottiera nera a rete che mi ricordò il piú trucido dei Freddy Mercury. E io non riuscivo a reagire. Vidi Freddy Mercury che la stringeva, sempre di più, sempre di più, finché i loro corpi diventarono uno solo. Muovendosi simulavano un coito, quello lo potevo ben vedere, lei che si piegava il più possibile a novanta, sporgendo il culo verso il corpo del tipo e questo che, allungando la mano, afferrava i suoi capelli e li tirava a sé mentre con i fianchi, colpiva il suo culo. Poi la folla si chiuse su di loro e li persi di vista. Provai a reagire, provai ad avvicinarmi a Nico, a riprenderla, lei è mia, gridai. Ma non trovai più nessuno. Non sapevo neanche se quello era il posto dove lei era fino ad un secondo prima. Mi ero perso e, disorientato, cercai allora di raggiungere l’uscita di quell’inferno. Maledetta troia, pensavo intanto furioso. Ma ormai speravo solo di uscire da li.

Qualcuno mi versò del whisky scadente addosso. Beccai anche qualche offesa ma non vi feci neanche caso. Volevo scappare. Ero stato ucciso quella sera. Umiliato e ucciso. Dietro ad un muro di persone intravidi una porta illuminata. Ci siamo, pensai. Mi feci spazio finché potei vedere che quella era la porta del cesso. Toilettes era stato scritto sul muro con una bomboletta. Ma da come era frequentata pareva più una via del centro che un bagno. Decine e decine di ragazzi e ragazze entravano ed uscivano da quella porta. Curioso e con la vescica un po’ piena, entrai. C’era un lungo corridoio fortemente illuminato di bianco con un tappeto rosso ormai devastato dalle cicche spente. Sulle pareti vi erano graffiti confusionari di mille colori. Il contrasto con la luce oppressiva del locale accecava gli occhi. In fondo al corridoio c’erano due porte. Credetti che quelle fossero le rispettive entrate del bagno dei maschi e delle femmine ma notai quasi subito che la gente entrava ed usciva indifferentemente dal sesso.

Non riuscivo a capire ma ormai c’ero. Entrai nella porta di destra e mi ritrovai in una stanzona con la luce ancora più soffusa. La musica era viscerale e tenebrosa e l’aria sembrava irrespirabile tanto era pregna di fumo. Nonostante la poca luce potei notare che le pareti erano nere. Sparsi qua e la tanti piccoli tavolini bassi dove ragazzi vi stavano stesi di fronte su grandi cuscini morbidi di color porpora.

La gente che entrava e andava a sedersi vicino a qualche tavolo.

Nell’aria potevo sentire il tipico odore della marijuana.

Sulle pareti c’erano anche tende nere, pregne anche loro del chiuso del locale. Tutto era chiuso in quel posto. Anche la porta sembrò sparire dietro di me. Camminai quasi tastoni in mezzo a quei tavolini.

Erano pieni di bicchieri, di droghe pesanti e leggere. C’era gente che sniffava, che tirava, che soffiava, che aspirava. C’era droga ovunque. Eroina, marijuana, cocaina, acidi, funghetti, pasticche.

Di tutto di più. Non poteva essere vero tutto quello. Dove diavolo ero finito?

Un tipo mi si avvicinò con una canna i mano. Era bianco pallido, gli occhi tinti di nero, i capelli neri e lisci e sembrava Robert Smith. Hai bisogno di aiuto, mi sussurrò vicino ad un orecchio.

Qui  siamo nel medioevo sai? disse. Non devi aver paura di te stesso, questo è il cerchio della vita, il nostro medioevo. Nel cerchio non puoi morire.

Io non riuscii a capire niente di quello che voleva dirmi quel tossico. La testa mi girava a causa della sbronza e di tutti quegli odori. Stavo per cadere.

Il malessere fisico, tutto quel buio, quell’ambiente, niente andava bene, c’era qualcosa di anormale nell’aria che mi faceva soffocare.

Siamo nel cerchio, ripeté il tizio.

Non capivo più niente. Detti uno spintone al tipo che franò nel buio su qualcuno poi, cercando di ricordare la strada, tornai verso la porta. Una volta nel corridoio senza neanche guardare la porta di sinistra, andai fuori sull’entrata dove c’era la scritta toilettes.

Dove ero stato? Che posto era quello? Rivoli di sudore freddo mi scivolavano lungo la schiena. Dovevo essere in una specie di collasso etilico. Intanto ripensavo a quella troia Nico, a dove fosse, a cosa facesse.

Dovevo uscire, fare un ultimo sforzo per non morire lì.

Mi incamminai seguendo la parete del locale. Così forse avrei raggiunto l’uscita in una qualche maniera. Lungo la parete mi imbattei in altre porte con su la scritta toilettes, proprio come quella di prima. Anche quelle erano parecchio trafficate, ma non entrai in nessuna.

The circle. Cominciai ad intuire il significato del nome del posto.

Dopo qualche minuto di pura angoscia e terrore, arrivai finalmente all’uscita dove pagai, pregai ed uscii spingendo per farmi spazio tra la folla in delirio che cercava di entrare. Le persone in fila all’entrata avevano facce liquefatte, occhi sgranati. Chissà se anch’io avevo quella espressione prima di entrare.

Una volta in strada respirai a fondo l’aria che mi pungeva le narici. Poi mi voltai per dare un’ultima occhiata a quel posto dimenticato da qualsiasi dio, per capire se esisteva da vero o se invece era solo stato frutto della mia immaginazione alcolizzata. Ma il locale c’era davvero, ed era li immobile di fronte ai miei occhi stanchi.

Sentivo il bisogno del mio letto, di coricarmi, di dormire, non desideravo altro. Sentivo di morire.

Camminavo sotto la luce dei lampioni. L’aria era così piacevole che decisi di allungare un poco la strada giusto per passare dal lungomare. Mi avrebbe fatto solo bene. Nonostante fosse tarda notte c’era ancora molta gente a giro.

Chissà che aveva combinato Juami, se a lui era andata meglio la serata. Chissà se a lui il pompino aveva fatto effetto.

Camminavo più dritto che potevo. Poi mi fermai in una traversa un po’ buia del lungomare per pisciare un po’. Ma proprio mentre mi svuotavo la vescica accanto ad un bidone dell’immondizia un conato mi prese di sorpresa e vomitai tutto quello che avevo. Le gambe mi tremarono in uno spasmo e caddi a terra riuscendo a malapena ad evitare il vomito misto piscio. Non svenni ma rimasi steso a terra in uno stato tra il coma e il sonno profondo per qualche minuto o per l’eternità fino a quando dei passi mi riportarono a malapena nella realtà.

Aprii leggermente gli occhi il giusto per poter vedere numerosi  piedi su gambe perpendicolari alla mia vista piegata sull’asfalto.

Qualcuno parlava, mi chiedeva cosa avevo fatto. Poi sentii delle risate e altre voci, qualcuno che mi toccava, forse con un piede.

Lasciatemi, provai a dire. Ma dalla mia bocca impastata le parole uscirono sporche e contorte.

Certo che ti aiutiamo noi, dissero i piedi. Qualcuno cominciò a darmi qualche calcio. Sui fianchi. Poi sulle gambe, sul costato. Un paio di colpi mi raggiunsero anche in faccia. Il sangue mi risaliva dalla gola, tossii e sputai. Maledetti bastardi, provai ad urlare, avessi una pistola vi ammazzerei tutti.

Ma fu solo un pensiero prima del vuoto, prima di vedere un piede che mi penetrava la vista e prima che tutto diventasse buio…

Fu quella l’ultima immagine che ricordo, per il resto, solo tanto dolore.

Ma fu grazie al dolore che ripresi conoscenza. Stava albeggiando e mi ritrovai ancora steso a terra, tra il mio vomito, nel mio sangue.

Non avevo più le scarpe né il portafogli. Mi avevano pestato di brutto.

Provai a toccarmi la faccia che mi sembrava di gomma piuma, gonfia e non mia. Con la lingua dilatata sfiorai le labbra insanguinate e rotte.

Sentivo dolore ovunque, nella testa, nelle gambe, nelle braccia, nelle costole. Ero a pezzi, ma ancora vivo. Ed era già tanto.

Aiutandomi con il bidone della spazzatura mi alzai. Sentivo un dolore più acuto degli altri all’altezza delle costole, sicuramente una doveva essere rotta. Scalzo, tutto sporco e sanguinante, brancolai verso casa appoggiandomi ai muri e ai pali. Ci misi una ventina di minuti.

Basta camminate romantiche vicino al mare, adesso volevo solo morire nel mio letto.

Aprii la porta e mi gettai vestito e puzzolente nel letto. Avevo il fiato pesante, il cuore che batteva a mille e negli orecchi ancora la musica della discoteca. Con una maglietta mi tamponai un po’ il sangue nel viso.

Appena mi calmai un po’ mi sembrò di sentire dei rumori dell’altra parte dell’appartamento.

Cercai di concentrarmi il più possibile per capire da dove provenisse.

Ma proprio quando ero deciso ad alzarmi per controllare potetti riconoscere un gemito. Proveniva dalla stanza di Juami. Il bastardo si stava scopando la svedese mai conosciuta! Lui era riuscito a fare quello che io non ero riuscito. Il suo pompino era proprio infallibile, pensai. Quella si che era una cazzo di tattica. Prima di cadere in un lungo sonno pensai che forse anche io avrei dovuto inventare un cocktail, o forse avrei solo dovuto comprarmi una pistola.

 

giaco