TERMINARSI

di Giacomo Ulivieri [28 anni]

 

 

C’è una macchina davanti alla mia. La guardo e cerco di immaginare una persona che la guida, una persona viva, ma a me sconosciuta. Una testa con le sue orecchie, due gambe, due mani. Una vera persona come me concentrata sulla strada. Chissà quanti pensieri scorrono in quella testa, quali problemi aleggiano nella sua esistenza, quali motivazioni a tenere la macchina entro i bordi di questa stretta strada di campagna.

Chissà che musica ascolta, che gusto di arbre magique tiene attaccato allo specchietto retrovisore e chissà cosa trattiene quella persona a mantenere il controllo della vettura, cosa gli impedisce di lasciare il volante per schiantarsi contro un albero o di andare dritto contro un tir.

Chissà cosa c’è nell’aria stasera. Chissà se la sua aria è la stessa della mia.

Ci sono cose terribili come quella di pensare alla vita.

Ed é cosí terribile ritrovarsi alla guida con la mente offuscata dai mille pensieri. I miei motivi li ho sempre ritenuti sconosciuti mentre invece, forse, sono sempre stati i miei migliori compagni di vita che puntualmente si ripresentano seduti nel posto del passeggero, proprio accanto al mio.

E mentre cerco di distrarmi dalla marea incessante di pensieri, non riesco a non fissarmi su quella machina davanti a me.

Dio quanto é terribile pensare sulla vita mentre si guida.

La musica dell’autoradio è un sottofondo perfetto. C’è una lenta canzone di Smog a spiaccicarmi in faccia la crudeltà della vita. Me la canta con il tono di chi giá sa come andrà a finire. Me la canta con lo stesso tono che il tuo angelo custode userebbe mentre ti accompagna per mano verso la fine di tutto.

Fuori è ormai buio.

È quasi l’ora di cena ma in queste giornate di fine autunno sembra una piena notte estiva. Neanche il freddo si sente piú adesso: il clima all’interno dell’abitacolo è quasi estivo. Il freddo è dentro, adesso proviene solo da dentro me.

È solo il cielo tipico delle serate di novembre a smentire la sensazione. Scuro e nuvoloso. Pronto all’ennesimo pianto.

Ormai non ci faccio piú caso. Anche se alzo leggermente lo sguardo per osservare un ammasso imponente di nuvole nere sopra di me, non ci faccio caso. Riesco solo ad immaginarmi la pioggia, a quelle strane lacrime del cielo, versate per strani e assurdi motivi sconosciuti.

Cerco di distrarmi ma non riesco a non paragonare quel cielo a quello vissuto anni prima ed a sdoppiarmi.

Lo stesso identico cielo, di una sera di settembre… cercavo in tutti i modi di convincerla a mettersi in posa mentre i suoi capelli sembravano come impazziti a causa del forte libeccio.

Avevamo l’odore del salmastro.

Io sentivo di dover immortalare quell’immagine per sempre ed insistetti parecchio prima di convincerla a posare per me, per noi. Sarà il tuo ricordo che mi porterò sempre dietro, le dissi urlando per vincere il rumore del mare spinto dal vento. Lei rideva. Non voglio mai restare senza di te, neanche quando non ci sei, dissi. Allora smise di ridere. I suoi occhi mi fissavano pieni di parole, uno sguardo interrotto di tanto in tanto dai suoi lunghi capelli neri. Poi, da dove si trovava, a una decina di metri da me, mi disse qualcosa che potei soltanto leggere nelle sue labbra. Ma avrei capito ugualmente, fossi anche stato cieco. Ti amo.

Fu in quell’istante che scattai.

Una piccola esposizione dove tutto rimase mosso meno che lei, unico punto fermo della mia vita. Unica esposizione corretta. Unico motivo di osservare una foto. Lei e il mare. Mosso.

 

La strada taglia una zona fuori cittá. Intorno ci sono campi dove, ricordo, fino a pochi mesi prima spuntavano centinaia di girasoli. Poche case, soprattutto casolari. La strada è stretta e nervosa, piena di curve. Ma io non faccio fatica seguendo come incantato i fanali posteriori di quella macchina di fronte copiandone le mosse. È il mio apripista che permette al mio cervello di rimanere libero e di distrarsi pericolosamente in continuazione.

È proprio in una di quelle curve che vidi, di lato, un cascinale con giardino. Mi dette una strana emozione. Aveva una specie di fienile al suo fianco proprio come quello dove successe la prima volta durante quell’assurda festa di fine estate. Ormai non ricordo neanche piú quanti anni fa successe, ma ricordo benissimo l’odore che aleggiava nell’aria. Era l’aria di un’estate ancora viva, con il grano e il fieno che mi penetrò ovunque, dentro i pantaloni, nei capelli, nella bocca. Ero avido. Avido di baciarla e di averla. E successe proprio lí, in quel fienile durante una festa. Facemmo l’amore con la fretta tipica dei giovani incapaci di attendere, incapaci di assaporare il gusto dell’attesa. Pochi attimi per ritrovarci cosí vicini, cosí speciali. Dopo mi trovai con il viso schiacciato sul suo ventre a respirare profondamente e ansioso di capire le sue sensazioni. Cercando di trovare in lei la mia stessa emozione.

Lei con una mano aperta mi accarezzò la testa. Mi levò una ad una le spighe di grano dai capelli e mi pettinò con cura. Allora io alzai la testa e la guardai dritto negli occhi. Dritto in quegli occhi neri che mi osservavano pieni di qualcosa che ancora oggi non riesco a spiegarmi. Sentii una voglia matta di piangere e gli occhi mi si fecero così lucidi da imbarazzarmi per quella mia reazione. Ma lei mi sorrise e prendendomi il viso con entrambe le mani, mi portò la bocca sulla sua.

Non ci volle molto a capire che quella sera la mia vita sarebbe cambiata per sempre.

Di colpo dovetti rallentare. Le luci dei freni della macchina di fronte mi avvisano improvvisamente di una frenata. La persona davanti riduce bruscamente la velocità appena un cartello avvisa gli autisti del controllo elettronico della velocità, rischiando di causare un incidente.

La cosa interrompe bruscamente il mio ricordo provocandomi un leggero fastidio nella mia testa.

Ma torno immediatamente nella realtà.

Ancora una volta la mia mente ha divagato verso pensieri, agrodolci ricordi ancora vivi. Per questo odio guidare solo. Perché non mi sento mai solo. Sono perseguitato da tutto ciò che ho creato, da tutto ciò che ho egoisticamente amato.

In tutti questi anni ho sempre e solo cercato di isolarmi da tutto il mondo. Ho solo cercato di averla tutta per me creando in microclima all’interno del mondo. Proprio come in questo abitacolo. La volevo solo per me. Ne ero ossessionato, ero pieno di paure, di insicurezze. Perché la sentivo allontanarsi sempre di più, e più lo sentivo, più cercavo di isolarla nel mio mondo peggiorando solo le cose…

Libera! Mi urlò in faccia. Voglio sentirmi libera. Libera di pensare di parlare di uscire, di fare quello che voglio.

Io cercavo di non capire. Come un bambino viziato rifiutavo ogni sua obiezione.

Corroso dalla gelosia sbagliai a farle un’ennesima scenata dopo una cena tra amici. Se solo ci ripenso adesso mi domando quanto sbagliassi…

Non ne posso più, diceva lei, e le sue parole mi penetravano nel profondo ferendomi più che mai. Io mi dimenavo, come un animale in pericolo. Mi dimenavo come una persona caduta sulle sabbie mobili. E più mi dimenavo, più affondavo…

Quella sera, in camera sua, provai  a chiarirmi, a motivare le mie azioni. Ho paura di perderti le dissi.

Levo una mano dal volante e passo le dita sulla mia guancia destra. Proprio dove, dopo quella frase, lei mi tirò uno schiaffo.

Ciaf! Il rumore echeggiò nella sua camera. Io non ci credevo di essere arrivato a quel punto. Oh se ero innamorato di lei. Avrei dato tutto, qualsiasi cosa. Una gamba, un dito, un orecchio anche. La mia vita. Per me erano tutte cose insignificanti con lei accanto perché semplicemente mi dimenticavo di tutto in sua presenza. Ma mai avrei pensato di arrivare ad uno schiaffo perché credevo provasse le stesse cose per me. Forse volevo crederlo.

Non fu il dolore fisico a ferirmi. Fu lo schiaffo morale ad uccidermi. Lei pretendeva. Lei avrebbe fatto di tutto per liberarsi da me, avrebbe usato anche la violenza. Lei era diventata ingestibile per uno come me.

Pensavo di impazzire. E mi voltai. Una lacrima abbandonò il mio occhio sinistro per colare giù fino all’increspatura delle labbra. Potevo sentire quanto era amara. Quanto amara era diventata tutta la situazione. E me ne andai, senza girarmi.

Non era orgoglio, non era una ripicca. Non era niente di più che una semplice speranza di sentirmi chiamare da lei, di vedermela correre incontro chiedendomi scusa, urlandomi che sono solo io il suo amore. Io.

Ma non successe niente. Feci solo pochi e brevi passi fino alla porta. Camminai lentamente come in attesa di qualcosa. Poi, una volta sulla soglia, cominciai a capire.

Quanti sono gli errori?

Nel ripensare a tutto quanto posso fare una piccola selezione. Sono pochi ma determinanti i punti in una storia che ne cambiano il destino. O forse è il destino già prescelto ed intoccabile a rendersi visibile in quei punti.

Non lo so. Forse non lo voglio più sapere.

La strada prosegue il suo percorso. Alcune buche mettono alla dura prova gli ammortizzatori della mia vecchia auto che non ho mai pensato di cambiare, che a lei piaceva tanto.

Le nuvole nere si avvicinano e qualche schizzo di pioggia comincia a sbattere su parabrezza. Poi sento aumentare il ticchettio anche sul tettino finché l’intensità diventa violenta e mi costringe ad usare il tergicristalli alla velocità massima.

Le gocce di pioggia spalmate sul parabrezza peggiorano dannatamente la visibilità della strada che perde in un attimo tutto il suo fascino paranoico.

Rischio persino un paio di volte di uscire di strada.

Poi mi riconcentro sull’asfalto.

Lei, la strada, mi guarda e mi domanda se voglio vivere.

Quanto è stato duro tutto ciò. Quanto c’e voluto per poter affermare la mia volontà alla vita. È stato solo un attimo, penso. Alla fine non c’è voluto molto se non quei soli pensieri.

Non era niente. Tutto quello che avevo programmato, avuto e dato, cosa era se non un investimento andato male.

Io ero morto da tempo. Lo sapevo, l’avevo sempre saputo ma mai, dico mai, avevo cercato di capirlo. Sono sempre stato troppo goloso di me stesso. Di me con i capelli a posto, di me con i capelli a lieto fine. Ero troppo fuori da ogni gioco. Ero fuori. E lei lo aveva capito, lasciandomi…

Non chiedo altro. Io sono a posto grazie. La mia vita ha raggiunto spazi anche troppo larghi per  la mia esistenza. Non voglio capire oltre, ne andare oltre. Penso di aver effettuato tutto ciò che mi è stato dato.

Intanto la strada sembra impazzita. Curve, serpentine, scicane, una moltitudine di maree asfaltate che mi invadono gli occhi ormai colmi di lacrime incontrollabili.

La furia mi ha portato a questo, a capire ciò che sono adesso, in una fetida via di campagna.

Con le mani stringo forte il volante.

Cosa mi merito. Cosa? Forse niente, forse tutto, ma in realtà credo niente, davvero. Niente di piú di quello che ho giá gettato, niente, niente di piú.

In fondo alla strada, a qualche centinaia di metri, intravedo lo stop. La via finisce su una strada principale abbastanza frequentata. Posso riconoscere decine e decine di fari passare perpendicolari alla mia posizione. La visuale è aperta, solo la pioggia disturba la vista, ma non abbastanza da impedirmi di riconoscere esattamente chi scorre.

La macchina davanti a me a un centinaio di metri, la mia compagna di viaggio, entra nella strada principale sgombra senza neanche fermarsi allo stop. Svolta a destra ed entra nella strada e ne diventa subito parte integrante.

Io mi avvicino all’imboccatura e guardo a sinistra. Guardo cosa mi aspetta. Attraverso il finestrino imbrattato dagli schizzi di pioggia noto le gocce appoggiate sul vetro che sembrano tante piccole lenti di ingrandimento deformate, pronte a storpiare ogni luce vi capiti attraverso. Due luci che si avvicinano, o forse nessuna, vengono per un attimo inglobate nelle bolle d’acqua. È un attimo per non capire. Perché poi spariscono sotto altra pioggia. Ormai prossimo all’imbocco rallento leggermente l’andatura e getto ancora un’altra occhiata alla mia sinistra alla ricerca di quelle luci deformate. Ma non ci sono più, la strada sembra libera e forse lo è sempre stata.

Allo stop senza neanche fermarmi accelero per immettermi definitivamente nella strada principale, solo un attimo prima di essere accecato da un fascio di luce.

Non è luce deformata stavolta. Questa luce è troppo grossa per delle gocce di pioggia. Forse la strada non è libera, forse non lo è mai stata. Forse io non ho visto o forse non ne sono capace. Forse sto per morire proprio mentre il frastuono stridente dei freni di un grosso camion copre ogni singolo rumore, travolgendo ogni luce e ogni suono. Ma non i pensieri che, come per miracolo, continuano a girare liberi nella mia testa…

Non ricordo di essere mai stato cosí concentrato e lucido in vita mia. Un’intera vita di errori.

Rivedo le mie mani tremanti e bianche che la accarezzano. Lei é davanti a me. Sembra tutto cosí vivo, cosí maledettamente reale che io non posso fare a meno di soffrire la nostalgia. So che questa è l’ultima volta che la vedo. Che l’accarezzo. Lei.

Io ti ho cercata, poi ti ho avuta e poi tutto se n’è andato. Non so se tutto ciò può essere chiamata ingiustizia o grazia divina. Non so se ritenermi fortunato per essere riuscito a starti vicino anche per poco o ritenermi sfortunato per aver sfiorato qualcosa di troppo potente per la mia povera vita che ne è stata schiacciata.

Non riesco piú a provare un emozione precisa adesso che una miriade di luci impazzite mi flagellano lo sguardo.

E mentre me ne vado via volando, mi sembra quasi di essere finalmente libero dalle angosce di questi ultimi tempi e adesso lo so, so che è stata una mano divina a permettermi tutto ciò. Ne sono certo, é stata solo la mano divina a consentirmi di provare tutto ciò.